NoG20 Hamburg: Iniziato il processo a Fabio Vettorel. La dichiarazione resa in Tribunale da Fabio

Iniziato, al Tribunale di Altona ad Amburgo,  il processo a Fabio Vettorel, l’attivista italiano da 4 mesi in carcere. Nell’udienza di oggi Fabio ha rilasciato una dichiarazione che riportiamo. Nuova udienza il 14 novembre

Signora giudice, signori giudici popolari, signora procuratrice, signor assistente del tribunale per i minori,

Voi oggi siete chiamati a giudicare un uomo. Lo avete chiamato “aggressivo criminale” e “irrispettoso della dignità umana”. Personalmente non mi curo degli appellativi che mi attribuite. Io sono solo un ragazzo di buona volontà.

Prima di tutto vorrei dire che probabilmente i signori politicanti, i signori commissari di polizia e i signori magistrati pensano che incarcerando e arrestando qualche ragazzetto si possa fermare il dissenso nelle strade. Probabilmente lor signori pensano che le prigioni bastino a spegnere le voci ribelli che dovunque si alzano. Probabilmente lor signori pensano che la repressione fermerà la nostra sete di libertà. La nostra volontà di costruire un mondo migliore.

Ebbene, essi si illudono. Ed è la storia che dà loro torto.

Perché innumerevoli ragazzi e ragazze come me sono passati per un tribunale come questo.

Infatti oggi è Amburgo, ieri era Genova, prima ancora era Seattle.

Voi cercate di arginare le voci di rivolta che ovunque si alzano con ogni mezzo “legale”, con ogni mezzo “procedurale”.

Comunque sia, qualunque sarà la decisione di questo tribunale, essa non inciderà sulla nostra protesta. Ancora tanti ragazzi e tante ragazze, mossi dai medesimi ideali, scenderanno nelle strade d’Europa. Incuranti delle prigioni che con tanto affanno vi sforzate di riempire di detenuti politici.

Ma veniamo al dunque, signora giudice, signori giudici popolari, signora procuratrice, signor assistente del tribunale per i minori.

Veniamo al dunque.

Come potrete immaginare io oggi voglio avvalermi del mio diritto di non rilasciare dichiarazioni in merito allo specifico fatto di cui sono imputato. Tuttavia vorrei porre l’attenzione su quali siano le motivazioni che spingono un giovane operaio originario di una remota cittadina delle Prealpi orientali a venire ad Amburgo.

Per manifestare il proprio dissenso contro il vertice del G-20.

G-20. Solo il nome ha in sé qualcosa di perverso.

Venti tra uomini e donne esponenti dei venti paesi più ricchi e industrializzati del globo si siedono attorno a un tavolo. Si siedono tutti insieme per decidere il nostro futuro. Sì, ho detto bene: il nostro. Il mio, come quello di tutte le persone sedute in questa stanza oggi, come quello di altre 7 miliardi di persone che abitano questa bella Terra.

Venti uomini decidono della nostra vita e della nostra morte.

Ovviamente a questo grazioso banchetto la popolazione non è invitata. Noi non siamo che lo stupido gregge dei potenti della Terra. Succubi spettatori di questo teatro dove un pugno di uomini tengono in mano un’umanità intera.

Io, signora giudice, ho pensato molto prima di venire ad Amburgo.

Ho pensato al signor Trump e ai suoi Stati Uniti d’America che sotto la bandiera della democrazia e della libertà si ergono poliziotti del mondo intero. Ho pensato ai tanti conflitti accesi dal gigante americano in ogni angolo del pianeta. Dal Medio Oriente all’Africa. Tutti per accaparrarsi il controllo di questa o quella risorsa energetica. Poco importa se poi a morire siano sempre i soliti: civili, donne e bambini.

Ho pensato anche al signor Putin. Nuovo zar di Russia. Che nel suo paese viola sistematicamente i diritti umani e si fa beffe di qualunque opposizione.

Ho pensato ai Sauditi e ai loro regimi fondati sul terrore, con cui noi occidentali facciamo affari d’oro.

Ho pensato a Erdogan che tortura, uccide, imprigiona i suoi oppositori.

Ho pensato anche al mio paese, dove a colpi di decreti legge ogni governo cancella senza tregua i diritti di studenti e lavoratori.

Insomma, eccoli qui i protagonisti del sontuoso banchetto che si è tenuto ad Amburgo lo scorso luglio. I più grandi guerrafondai e assassini che il mondo contemporaneo conosca.

Prima di venire ad Amburgo ho pensato anche all’iniquità che flagella oggi il pianeta. Mi sembra quasi scontato infatti ribadire che l’1 % della popolazione più ricca del mondo detiene la stessa ricchezza del 99% più povero. Mi sembra quasi scontato ribadire che gli 85 uomini più ricchi del mondo detengono la stessa ricchezza del 50% della popolazione mondiale più povera. 85 uomini contro 3 miliardi e mezzo.

Queste poche cifre bastano a rendere l’idea.

E poi, signora giudice, signori giudici popolari, signora procuratrice, signor assistente del tribunale per i minori, prima di venire ad Amburgo ho pensato alla mia terra: a Feltre. Il luogo dove sono nato, dove sono cresciuto e dove voglio vivere. La cittadella medioevale è incastonata come una gemma nelle Prealpi orientali. Ho pensato alle montagne che al tramonto si tingono di rosa. Ai bellissimi paesaggi che ho la fortuna di vedere dalla finestra di casa. Alla bellezza che travolge questo luogo.

Poi ho pensato ai fiumi della mia bella valle violentati dai tanti imprenditori che vogliono le concessioni per costruire centrali idroelettriche. Incuranti dei danni alla popolazione e all’ecosistema.

Ho pensato alle montagne colpite dal turismo di massa o diventate luogo di lugubri esercitazioni militari.

Ho pensato al bellissimo posto dove vivo che sta venendo svenduto ad affaristi senza scrupoli. Esattamente come tante altre valli in ogni angolo del pianeta. Dove la bellezza viene distrutta nel nome del progresso.

Sulla scia di tutti questi pensieri ho deciso dunque di venire ad Amburgo a manifestare. Per me venire qui è stato prima un dovere che un diritto.

Ho ritenuto giusto oppormi a queste scellerate politiche che stanno spingendo il mondo verso il baratro.

Ho ritenuto giusto battermi perché qualcosa sia almeno un po’ più umano, dignitoso, equo.

Ho ritenuto giusto scendere in piazza per ribadire che la popolazione non è un gregge, e nelle scelte essa deve essere interpellata.

La scelta di venire ad Amburgo è stata una scelta di parte. La scelta di stare dalla parte di chi chiede diritti e contro chi li vuole togliere. La scelta di stare dalla parte di tutti gli oppressi del mondo e contro gli oppressori. La scelta di combattere i potenti grandi e piccoli che usano il mondo come fosse un loro gioco. Incuranti che poi a farne le spese sia sempre la popolazione.

Ho fatto la mia scelta e non ho paura se ci sarà un prezzo da pagare ingiustamente.

Tuttavia c’è anche un’altra cosa che voglio dirvi, che voi mi crediate o meno: a me la violenza non piace. Però ho degli ideali e per questi ho deciso di battermi.

Non ho finito.

In un’epoca storica in cui dovunque nel mondo si alzano nuove frontiere, si stende nuovo filo spinato, si alzano nuovi muri dalle Alpi al Mediterraneo, trovo meraviglioso che migliaia di ragazzi da ogni parte d’Europa siano disposti a scendere insieme nelle strade di un’unica città, per il proprio futuro. Contro ogni confine. Con l’unico comune intento di rendere il mondo un posto migliore di come l’abbiamo trovato.

Perché signora giudice, signori giudici popolari, signora procuratrice, signor assistente del tribunale per i minori, perché noi non siamo il gregge di venti signorotti. Siamo donne e uomini che vogliono avere il diritto di disporre delle proprie vite.

E per questo combattiamo e combatteremo.

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Molestie ai danni di Milagro Sala

FONTE PRESSENZA.COM

05.11.2017 Redacción Argentina

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Molestie ai danni di Milagro Sala

Comunicato del Comitato per la Liberazione di Milagro Sala

Lo scorso mercoledì 1 novembre, alle ore 22:25, Milagro Sala è stata tradotta nel carcere di Alto Comedero, su ordine del giudice Pullern Llermanos,  dal sanatorio Los Lapachos, luogo in cui era stata sottoposta a colonscopia ed endoscopia, con anestesia, oltre ad altri esami clinici.

Il fatto ha avuto inizio martedì 31 ottobre quando, dopo varie settimane di reclami, a Milagro Sala era stato finalmente concesso il ricovero presso questa clinica privata per effettuare diversi esami. Lo aveva richiesto durante la detenzione in località El Carmen e dopo in un habeas corpus- rifiutato dal giudice Isidoro Cruz e dalla Corte d’Appello – violando quanto stabilito dalla legge in materia di Esecuzione Penale, che autorizza i soggetti detenuti ad effettuare esami clinici in forma privata.

Ricordiamo inoltre che lo stesso giudice aveva disposto, in modo insperato, il ritorno di Milagro presso la casa del Carmen, all’unità 3 di Alto Comedero, senza notificarlo alle parti, adducendo erroneamente che la dirigente sociale aveva rifiutato di effettuare esami clinici e avvalendosi del diritto alla difesa.

Riguardo gli esami, Raul Noro, consorte della dirigente sociale, ha detto: “Siamo in attesa dei risultati, ma i medici ci hanno già anticipato che sta soffrendo di una forma acuta di gastrite, colon irritabile, scoliosi cervicale, importante contrattura della schiena e un’impurità al cristallino di entrambi gli occhi, oltre ad altre problematiche che si sono acutizzate a causa dello stress e della depressione che sta soffrendo”. Ha anche spiegato gli altri esami clinici in sospeso e che stanno attendendo, tra gli altri, gli esiti della biopsia del colon e il pap test.

In questa situazione, mercoledì notte, mentre Milagro stava riprendendosi dalla suddetta anestesia ed era appena uscita dalla sala operatoria, il giudice Pablo Pullen Llermanos chiamava la clinica affinché fosse immediatamente tradotta in carcere.

La misura del giudice ha sorpreso tutti i nostri compagni in quanto la paziente, semi addormentata e dopo 21 ore, sperava di rimettersi prima di tornare in carcere.

Milagro Sala ha sempre osservato la legge e rispettato la forma e i procedimenti giuridici. Un esempio: quando il giudice aveva cercato d’internarla nuovamente in un ospedale pubblico, la dirigente, che allora si trovava presso la casa del Carmen, aveva chiesto precedentemente il proprio ricovero in una clinica privata- cosa che poi ha ottenuto- di comune accordo coi professionisti del Dipartimento Medico del Potere Giuridico, lo psichiatra Pablo Groveix e la dottoressa Laura Molina.

Risulta pertanto strano l’atteggiamento nei confronti di Milagro Sala, a cui non viene data la possibilità di riprendersi da un’anestesia per essere tradotta in auto all’unità 3 ad Alto Comedero. Tutto ciò denota una grandissima disumanità nei procedimenti ordinati “dall’altissima magistratura” esercitata dal Dott. Llermanos, secondo le sue parole.

Riteniamo che ciò costituisce soltanto l’ennesimo capitolo nell’aggravamento della situazione di disagio che la Commissione Internamericana dei Diritti Umani ha osservato contro Milagro Sala al momento di concederle la misura cautelare dopo aver constatato che la sua vita e la sua integrità erano a rischio, situazione aggravata dallo stato di salute mentale della beneficiaria.

Ieri pomeriggio, la CIDH ha ritenuto incompleta la misura cautelare disposta in favore di Milagro Sala da parte dello Stato Argentino ed ha inviato alla Corte Internamericana dei Diritti Umani una richiesta affinché siano adottate misure preventive in favore della deputata del Palasur.

 

Traduzione dallo spagnolo di Cristina Quattrone

I Paradise Papers sono molto più rivelatori di quanto si pensi

FONTE PRESSENZA.COM

07.11.2017 DiEM25

Quest’articolo è disponibile anche in: Inglese

I Paradise Papers sono molto più rivelatori di quanto si pensi

Ormai nessuno resta più sorpreso dalle rivelazioni sul modo in cui le persone più ricche del mondo nascondono i loro soldi nei paradisi fiscali. Nel 2016 abbiamo visto i Panama Papers e ora ecco una nuova fuga di notizie: i Paradise Papers, che coinvolgono la Regina d’Inghilterra, il Presidente americano Donald Trump, lo Stato russo, multinazionali e personaggi famosi, mostrando anche i legami tra di loro.

Il vero scandalo, come disse Glenn Greenwald quando scoppiò il caso dei Panama Papers, è che tutte queste azioni sono legali. Non restiamo sorpresi perché conosciamo benissimo la mancanza di trasparenza dei potenti, dei ricchi e dei governi. Questa è una conseguenza diretta delle nostre democrazie sbiadite o assenti: la gente ha un potere elettorale limitato, soprattutto nell’Unione Europea.

Le rivelazioni di Snowden e i Panama e Paradise Papers ci mostrano quello contro cui ci troviamo a lottare. Mantenere scappatoie legali per questi paradisi fiscali non è solo immorale, ma offre anche un vantaggio economico a chi nasconde il suo denaro. I paradisi fiscali sono l’ennesimo esempio di un’Europa che mantiene lo status e distoglie lo sguardo mentre allo stesso permette alle élite di continuare con il loro comportamento rapace.

L’Unione Europea deve dare l’esempio ed eliminare i paradisi fiscali nei suoi territori periferici. Tutte le possibilità devono essere considerate: confisca dei beni, divieti di élite viaggio e controllo dei capitali.

I responsabili politici però non lo faranno di loro iniziativa – dobbiamo spingerli e organizzarci per rendere l’alternativa una realtà. Come DiEM25, lottiamo per un’Unione Europea giusta e democratizzata. Vogliamo coinvolgerti e sentire le tue idee, così che i prossimi Paradise Papers ci trovino più uniti!

Aris Telonis è un membro e un volontario del movimento DiEM25.

Neoliberismo, biopolitica e schiavitù. Il capitale umano in tempo di crisi

SILVIA VIDA
Articolo pubblicato nella sezione “Schiavitù contemporanee”
della Rivista COSMOPOLIS che ringraziamo 

1. Lo ha affermato di recente Luciano Canfora (2017, 9): «Per ora, chi sfrutta ha vinto la partita su chi è sfruttato». La diagnosi del presente si aggrava se si pensa che «solo ora il capitalismo è davvero un sistema di dominio mondiale», reso più forte dall’avere di fronte a sé esclusivamente miseri spezzoni di organizzazioni di stampo sindacale o settoriale che gli oppongono una resistenza trascurabile; se è vero, com’è vero, che il capitale oggi è davvero “internazionalista”, avendo dalla sua parte la cultura e ogni possibile risorsa. Gli sfruttati, invece, «sono dispersi e divisi» dalle religioni, dal razzismo istintuale, dalle discriminazioni sociali non sanate ma approfondite dall’operato delle istituzioni, e dal fatto che, per funzionare, il capitale ha ripristinato forme di dipendenza di tipo servile creando sacche di lavoro neo-schiavile che non credevamo più possibili, soprattutto nelle aree del mondo più avanzate (ibidem, 11-12).
Di fronte a tutto questo, già nel 2003 Glenn Firebaugh scriveva a proposito di un’inversione di tendenza: il passaggio da una crescente diseguaglianza tra nazioni (accompagnata a livelli di diseguaglianza stabili o in calo all’interno delle nazioni) a una diminuzione della diseguaglianza tra nazioni, con conseguente aumento della diseguaglianza al loro interno. Ciò si deve al fatto che il capitale, che circola liberamente nello “spazio del flussi” globale (secondo l’efficace definizione di Manuel Castell), perché liberato dalla politica, è ansioso di cercare zone in cui gli standard di vita siano modesti e sia consentito sfruttare il differenziale tra regioni del pianeta dove le paghe sono basse e non esistono istituti di autotutela e tutela statale dei poveri, e altre regioni che mantengono queste tutele. Ma il libero fluttuare del capitale produce un effetto collaterale significativo, ossia la progressiva riduzione di quello stesso differenziale, con il concomitante livellamento degli standard di vita tra paesi diversi. Inoltre, i paesi che hanno immesso capitali nei flussi globali si trovano a loro volta a essere oggetto delle situazioni di incertezza della finanza globale (svincolata da regole).
Tutto ciò si ripercuote sulle condizioni della forza-lavoro urbana che l’autorizzata secessione del capitale dalla politica si è lasciata alle spalle. Quella forza-lavoro oggi non solo è minacciata dalla nuova incertezza globale, ma anche dai costi incredibilmente bassi del lavoro in quei paesi dove il capitale, libero di muoversi, decide di insediarsi temporaneamente. Di conseguenza, il differenziale tra paesi “sviluppati” e “poveri” tende a contrarsi, e nei paesi che non molto tempo fa sembravano aver superato le diseguaglianze sociali più stridenti torna a riemergere più forte che mai l’inarrestabile crescita della distanza tra chi ha e chi non ha.

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Joseph Stiglitz: «Non si esce dalla crisi senza politica redistributiva della ricchezza»

Una diagnosi spietata e assai colta sulle cause della diseguaglianza nel mondo ma anche una constatazione di impotenza verso lo strapotere delle multinazionali, verso la globalizzazione e verso l’avanzare della tecnologia, fonte della prima delle diseguaglianze: la disoccupazione.

Dunque una sorta di funerale, se mai ce ne fosse bisogno, delle politiche del welfare, unica cura possibile per frenare la diseguaglianza, divenuta d’altronde un arma che i governi preferiscono non usare malgrado, sono in molti a ricordarlo, sia stata la cura che sanato il capitalismo mondiale dopo la crisi del ‘29.

IL TEMA  oggetto della conferenza organizzata dall’Istituto Cattaneo di Bologna è tra i più drammatici della nostra epoca perché si presenta in modo violento sia tra Nord e Sud del mondo, sia all’interno dei paesi dell’occidente. E viene ben sintetizzato da un’ormai nota analisi di Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia e professore alla Columbia University: «L’1 per cento della popolazione controlla il 90 per cento della ricchezza mondiale».

Sul palco della tavola rotonda assieme a Stiglitz, ci sono Romano Prodi, l’economista Paolo Onofri, l’ex presidente dell’Istat Enrico Giovannini, Robereto Tonini di Bankitalia e Marco Mira D’Ercole dell’Ocse.

A FUSTIGARE IL LIBERISMO  imperante ci pensa proprio Stiglitz. Il premio Nobel non ha dubbi a proposito della crisi: «Non usciremo dalla depressione se non ci sarà una vera politica redistributiva che passi anche attraverso la tassazione delle rendite. Da questo punto di vista il ruolo dello Stato è cruciale. La cosa drammatica è che in un epoca di finanziarizzazione dell’economia mondiale e una globalizzazione spinta, le politiche economiche, uniche in grado di gestire una redistribuzione della ricchezza, sono impotenti di fronte alla crisi, i capitali si spostano con rapidità e fuggono dalle politiche dei governi. Non solo. I privati in alcuni casi preferiscono la diseguaglianza perché per loro un basso salario si traduce in minori costi».

ANCHE ROMANO PRODI  non è tenero nella sua analisi: «Io non sono uno specialista di statistica ma conosco la storia e mi risulta che le diseguaglianze siano create dalle pestilenze e dalle guerre. Questa è la realtà. Soltanto nel secondo dopoguerra le diseguaglianze si sono attenuate ma quella era un’eccezione. Negli anni successivi i divari sono cresciuti in modo impressionante. Io credo che ci sarebbe bisogno di un organismo mondiale in grado di redistribuire le risorse ma da questo punto di vista sono tutt’altro che ottimista. Le difficoltà che si incontrano ad esempio nel tassare le nuove multinazionali come Google e Apple sono significative. Comunque penso che spetti alla politica, ai governi invertire questo trend. Ma non mi pare che ci siano progetti credibili» (Prodi si è astenuto dal dare un giudizio sul Jobs Act). Non è tutto nero. La Cassa Depositi e Prestiti ha ad esempio dei progetti interessanti in materia di welfare ma la vera difficoltà, come hanno detto altri è che la mobilità dei capitali si sottrae ad ogni tipo di redistribuzione attraverso il fisco».

ENRICO GIOVANNINI , volendo, è stato ancora più severo nella diagnosi dello stato di salute del mercato del lavoro: «Le diseguaglianze non sono soltanto tra generazioni ma all’interno delle stesse generazioni. La cosa che più preoccupa è che non c’è una visione d’insieme per farci uscire da questo trend. Anzi, mentre noi discutiamo su come ricostruire una politica del welfare in Inghilterra si celebra la Brexit e negli Stati Uniti c’è Donald Trump».

Anche Roberto Torrini di Bankitalia ha denunciato l’inadeguatezza del Welfare e ha bocciato le politiche economiche dei governi europei ma anche lui ha partecipato alle onoranza funebri del welfare sostenendo che sotto accusa non è l’alibi della globalizzazione ma le scelte dei governi.

QUANDO  nelle domande che hanno concesso alla stampa abbiamo sottolineato un po’ provocatoriamente che il dibattito per quanto interessante faceva emergere un impotenza latente in tutti gli interventi Romano Prodi con un sorriso ha alzato le braccia come per dire: «Non possiamo farci nulla».

*** LA LAUREA HONORIS CAUSA AL POLITECNICO DELLE MARCHE

Joseph Stiglitz ha «aperto un nuovo campo d’indagine economica» che «si studierà al posto di quella tradizionale e cerca di risolvere i problemi della gente». Sono le motivazioni della laurea honoris causa attribuita dall’Università Politecnica delle Marche al premio Nobel per l’Economia nel 2001. Le ha pronunciate l’economista Mauro Gallegati. Stiglitz ha tenuto una lectio sulle diseguaglianze prodotte dal capitalismo Usa: «un modello economico che ha fallito».

FONTE:  Bruno Perini,   IL MANIFESTO

Milagro Sala in clinica mentre respingono di nuovo gli arresti domiciliari

 fonte pressenza.com

01.11.2017 Redazione Italia

Milagro Sala in clinica mentre respingono di nuovo gli arresti domiciliari

Arrivano notizie parzialmente contraddittorie da Jujuy, dove il caso giudiziario, ma soprattutto politico, di Milagro Sala assume i toni di una telenovela. La dirigente sociale della Tupac Amaru è attualmente ricoverata in una clinica per sottoporsi ad esami medici e psicologici, richiesti dalla sua equipe di avvocati difensori, per stabilire se sia opportuno il suo mantenimento in carcere, presso la prigione di Alto Comedero dove è tornata reclusa il 14 ottobre in seguito alla revoca degli arresti domiciliari. Gli arresti domiciliari erano stati concessi in applicazione alla sentenza della Corte Interamericana dei Diritti Umani (CIDH) che aveva imposto allo Stato Argentino di concederli in funzione del concreto pericolo di salute e di vita che Milagro soffriva in prigione.

La nuova richiesta del collegio difensivo di tornare ai domiciliari è stata non solo respinta ma, nella sentenza, si rimprovera al collegio di difesa di aver usato termini non adeguati a un procedimento giuridico e si ribadisce che lo Stato Argentino non è obbligato a rispettare le sentenze della CIDH e che tali sentenze vanno interpretate come semplici consigli.

Di fronte a questo stato di cose, ai tentativi di suicidio degli ultimi giorni che hanno riguardato Shakira (un’altra delle prigioniere politiche dell Tupac) e la stessa Milagro, il Comitato per la Liberazione di Milagro Sala ha presentato una nuova denuncia penale contro il Presidente Macri, il Ministro della Giustizia Germán Garavano e il governatore di Jujuy Gerardo Morales per istigazione al suicidio.

Con 9 milioni di morti all’anno, l’inquinamento uccide più della guerra, del fumo e di varie altre malattie messe insieme

FONTE : 03.11.2017 Pressenza London

Quest’articolo è disponibile anche in: Inglese, Greco

Con 9 milioni di morti all’anno, l’inquinamento uccide più della guerra, del fumo e di varie altre malattie messe insieme
Panoramica dei principali effetti sulla salute umana di varie forme di inquinamento (Foto di Mikael Häggström, Wikimedia Commons)

La rivista Lancet mette in risalto che l’inquinamento è una “profonda e dilagante minaccia che colpisce molti aspetti del benessere e della salute umana.”
di Andrea Germanos, editorialista per Common Dreams

L’inquinamento, “una delle più grandi sfide esistenziali nell’epoca dell’Antropocene“, uccide 9 milioni di persone all’anno, più delle morti causate dal fumo, tre volte di più delle morti causate dall’AIDS, dalla tubercolosi e dalla malaria, e 15 volte di più delle morti causate dalla guerra e da altre forma di violenza.

I dati vengono dall’ultimo nuovo studio globale sull’inquinamento e salute pubblicato su Lancet, che chiede una mobilizzazione di risorse ed un’azione politica capace di affrontare una minaccia pesante e diffusa in tutto il mondo.

“L’inquinamento è molto di più di una sfida ambientale, è una minaccia profonda e pervasiva che coinvolge molti aspetti della salute e del benessere umano. Merita tutta l’attenzione dei leaders di tutto il mondo, della società civile, dei professionisti della salute e delle persone”, dichiara il professore Philip Landrigan, della Ichahn School of Medicine di Mount Sinai, co-direttore della Commissione Internazionale biennale di Lancet.

L’inquinamento dell’aria, sia esterna che domestica, gioca il ruolo più importante nelle morti causate da inquinamento (6,5 milioni nel 2015), ed è responsabile di malattie cardiovascolari, tumori polmonari e malattie polmonari ostruttive croniche (COPD).  Inoltre l’inquinamento dell’acqua, dei luoghi di lavoro (come l’esposizione all’asbesto) e l’inquinamento da piombo, aggiungono altre morti al bilancio totale, che secondo i ricercatori è sottostimato.

Se si osserva chi è maggiormente coinvolto, si può vedere che esiste una diffusa iniquità. La quantità di morti causate da inquinamento (92 percento) colpisce i paesi a basso o medio reddito. India e Cina registrano il più alto numero di morti, rispettivamente con 2,5 e 1,8 milioni. Inoltre i ricercatori rivelano che, globalmente, le morti sono prevalenti tra le minoranze e gli emarginati.

L’inquinamento è un problema estremamente costoso. Anche ignorando l’impatto economico e. guardando soltanto ai costi del welfare, si arriva a 4600 miliardi di dollari o al 6,2 percento del prodotto interno lordo mondiale.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha applaudito alle nuove analisi. “L’inquinamento è il sintomo e una conseguenza non voluta di uno sviluppo malato e insostenibile” scrivono Maria Neira, Michaela Pfeiffer, Diarmid Campbell-Lendrum, e Annette Prüss-Ustün del Dipartimento dei Determinanti ambientali e sociali della Salute Pubblica.

“Se vogliamo ridurre in modo sostanziale il peso globale delle malattie dovute all’ambiente, abbiamo bisogno di agire a monte e affrontare gli elementi chiave e le fonti dell’inquinamento, così da assicurare che le politiche di sviluppo e gli investimenti siano sani e sostenibili e che le scelte che facciamo, a livello governativo, privato e individuale, possano coltivare un ambiente più sano e sicuro. In altre parole, abbiamo bisogno di andare verso l’approccio del “non fare danno” e assicurare che lo sviluppo migliori in maniera attiva ed esplicita le condizioni ambientali e sociali, che favoriscono e sono causa di malattie” essi aggiungono.

Secondo Pamela Das, editore esecutivo senior, e Richard Horton, capo-redattore di Lancet, questi nuovi dati dovrebbero essere “un tempestivo appello all’azione”.

“Ora è il momento di accelerare la nostra risposta collettiva. Le attuali e future generazioni meritano di vivere in un mondo senza inquinamento”, scrivono in un commento sui dati pubblicati.

 

Traduzione dall’inglese di Annalaura Erroi

Catalogna, Colau: «Serve politica, non vendetta»

FONTE POPOFF

Ada Colau critica contro la decisione di Madrid di arrestare il governo catalano. Il comune di Barcellona riconosce quel governo ma non l’indipendenza. Chi vincerebbe se si votasse oggi

di Francesco Ruggeri

Catalogna, migliaia in piazza contro l'arresto dei leader

Crisi catalana. Podemos accusa la giustizia spagnola di fare «prigionieri politici». «Mi vergogno che il mio Paese metta in carcere gli oppositori politici. Non vogliamo l’indipendenza della Catalogna ma diciamo: libertà per i prigionieri politici», ha twittato il leader di Podemos, Pablo Iglesias, in merito all’arresto degli ex esponenti della Generalitat catalana. «Un giorno nero per la Catalogna. Il governo eletto democraticamente con le urne, in carcere. Ci vuole un fronte comune per ottenere la libertà dei prigionieri politici», ha twittato dal canto suo la sindaca di Barcellona Ada Colau, eletta in un alleanza di cui fa parte Podemos. La stessa coalizione fra Podemos e «los comunes» della Colau, riferiscono i media, ha già fatto sapere che nel suo programma elettorale per il voto in Catalogna del 21 dicembre ci sarà l’amnistia per i secessionisti.

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PERCHÈ SIAMO TUTTI IN PERICOLO

 

Pier Paolo Pasolini a Furio Colombo

 

Il suo testamento, le sue parole che oggi pesano come macigni.
Quelle che pronunciò nelle ultime ore della sua vita.
Era Furio Colombo a raccoglierle per un’intervista che non fu mai completata e che oggi ci racconta di noi stessi.
Solo con 42 anni di anticipo.

 

 

Nel pomeriggio del  1° novembre 1975 Pasolini rilasciò a Furio Colombo un’intervista di cui pensò anche il titolo: “Siamo tutti in pericolo”. Avrebbe dovuto rivederla il giorno dopo, ma il destino volle diversamente. L’intervista, uscita poi l’8 novembre 1975  su “La Stampa-Tuttolibri”, fu riproposta con una premessa di Furio Colombo su “l’Unità” del 9 maggio 2005. Il testo è leggibile anche nel volume Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W.Siti e S. De Laude, “Meridiani” Mondadori, Milano 1999, pp. 1723-1730)

“Questa intervista ha avuto luogo sabato 1° novembre, fra le 4 e le 6 del pomeriggio, poche ore prima che Pasolini venisse assassinato.
Voglio precisare che il titolo dell’incontro che appare in questa pagina è suo, non mio. Infatti alla fine della conversazione, che spesso, come in passato, ci ha trovati con persuasioni e punti di vista diversi, gli ho chiesto se voleva dare un titolo alla sua intervista.
Ci ha pensato un po’, ha detto che non aveva importanza, ha cambiato discorso, poi qualcosa ci ha riportati sull’argomento di fondo che appare continuamente nelle risposte che seguono. «Ecco il seme, il senso di tutto – ha detto – Tu non sai neanche chi adesso sta pensando di ucciderti. Metti questo titolo, se vuoi: “Perché siamo tutti in pericolo”».” (Furio Colombo)

Pasolini, tu hai dato nei tuoi articoli e nei tuoi scritti, molte versioni di ciò che detesti. Hai aperto una lotta, da solo, contro tante cose, istituzioni, persuasioni, persone, poteri. Per rendere meno complicato il discorso io dirò «la situazione», e tu sai che intendo parlare della scena contro cui, in generale ti batti. Ora ti faccio questa obiezione. La «situazione» con tutti i mali che tu dici, contiene tutto ciò che ti consente di essere Pasolini. Voglio dire: tuo è il merito e il talento. Ma gli strumenti? Gli strumenti sono della «situazione». Editoria, cinema, organizzazione, persino gli oggetti. Mettiamo che il tuo sia un pensiero magico. Fai un gesto e tutto scompare. Tutto ciò che detesti. E tu? Tu non resteresti solo e senza mezzi? Intendo mezzi espressivi, intendo…

Sì, ho capito. Ma io non solo lo tento, quel pensiero magico, ma ci credo. Non in senso medianico. Ma perché so che battendo sempre sullo stesso chiodo può persino crollare una casa. In piccolo un buon esempio ce lo danno i radicali, quattro gatti che arrivano a smuovere la coscienza di un Paese (e tu sai che non sono sempre d’accordo con loro, ma proprio adesso sto per partire, per andare al loro congresso). In grande l’esempio ce lo dà la storia. Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, «assurdo», non di buon senso. Eichmann, caro mio, aveva una quantità di buon senso. Che cosa gli è mancato? Gli è mancato di dire no su, in cima, al principio, quando quel che faceva era solo ordinaria amministrazione, burocrazia. Magari avrà anche detto agli amici: a me quell’Himmler non mi piace mica tanto. Avrà mormorato, come si mormora nelle case editrici, nei giornali, nel sottogoverno e alla televisione. Oppure si sarà anche ribellato perché questo o quel treno si fermava una volta al giorno per i bisogni e il pane e acqua dei deportati quando sarebbero state più funzionali o più economiche due fermate. Ma non ha mai inceppato la macchina. Allora i discorsi sono tre. Qual è, come tu dici, «la situazione», e perché si dovrebbe fermarla o distruggerla. E in che modo.

Ecco, descrivi allora la «situazione». Tu sai benissimo che i tuoi interventi e il tuo linguaggio hanno un po’ l’effetto del sole che attraversa la polvere. È un’immagine bella ma si può anche vedere (o capire) poco.

Grazie per l’immagine del sole, ma io pretendo molto di meno. Pretendo che tu ti guardi intorno e ti accorga della tragedia. Qual è la tragedia? La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra. E noi, gli intellettuali, prendiamo l’orario ferroviario dell’anno scorso, o di dieci anni prima e poi diciamo: ma strano, ma questi due treni non passano di li, e come mai sono andati a fracassarsi in quel modo? O il macchinista è impazzito o è un criminale isolato o c’è un complotto. Soprattutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a parlare qualcuno in cantina sta facendo i piani per farci fuori. E facile, è semplice, è la resistenza. Noi perderemo alcuni compagni e poi ci organizzeremo e faremo fuori loro, o un po’ per uno, ti pare? Eh lo so che quando trasmettono in televisione Parigi brucia tutti sono lì con le lacrime agli occhi e una voglia matta che la storia si ripeta, bella, pulita (un frutto del tempo è che «lava» le cose, come la facciata delle case). Semplice, io di qua, tu di là. Non scherziamo sul sangue, il dolore, la fatica che anche allora la gente ha pagato per «scegliere». Quando stai con la faccia schiacciata contro quell’ora, quel minuto della storia, scegliere è sempre una tragedia. Però, ammettiamolo, era più semplice. Il fascista di Salò, il nazista delle SS, l’uomo normale, con l’aiuto del coraggio e della coscienza, riesce a respingerlo, anche dalla sua vita interiore (dove la rivoluzione sempre comincia). Ma adesso no. Uno ti viene incontro vestito da amico, è gentile, garbato, e «collabora» (mettiamo alla televisione) sia per campare sia perché non è mica un delitto. L’altro – o gli altri, i gruppi – ti vengono incontro o addosso – con i loro ricatti ideologici, con le loro ammonizioni, le loro prediche, i loro anatemi e tu senti che sono anche minacce. Sfilano con bandiere e con slogan, ma che cosa li separa dal «potere»?

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“DEVONO IMPARARE A OBBEDIRE”. Lo stage: lavoro coatto gratuito en travesti

di Alessandro Mantovani

Fonte : CARMILLA

Rossana Cillo (a cura di), Nuove frontiere della precarietà del lavoro, Stage, tirocini e lavoro degli studenti universitari, Venezia, Ed. Ca’ Foscari, 2017, pp.296, free access.

La risposta di Renzi allo sciopero con cui gli studenti, venerdì 13 ottobre, sono scesi in piazza in tutta Italia per protestare contro le forche caudine della cosiddetta “alternanza scuola-lavoro” introdotta obbligatoriamente dalle regole della sedicente “buona-scuola”, non si è fatta attendere: ha proposto che il servizio civile, attualmente volontario, divenga obbligatorio, per un mese, per tutti i giovani. Una contromossa, come si vede, che suona come provocatoria verso le richieste del movimento studentesco.

A questo punto, quello curato dalla Cillo è un libro necessario. Le analisi che i diversi autori presentano, e che costituiscono il primo approccio scientifico ad un mondo ancora in larga misura sconosciuto, diventano infatti in questo contesto un’arma contro l’ignobile retorica sulla “formazione” di competenze atte a risolvere il problema della disoccupazione giovanile con cui questo cinico abuso della forza lavoro viene paludato. Malgrado tutte le difficoltà nel reperire i dati, che nessuno ha interesse a raccogliere e soprattutto divulgare, difficoltà che gli autori non sottacciono, il volume riesce nell’impresa di fornirci un quadro sufficientemente ampio e chiaro della dimensione del fenomeno e delle modalità con cui irreggimenta masse crescenti di giovani dietro il miraggio di un accesso al mondo del lavoro. Promessa destinata per i più ad essere totalmente disattesa, visto che, nel nostro paese, nel settore privato, solo l’11,9% degli stagisti otterrà un contratto di lavoro nell’impresa che ha ospitato lo stage, 1 mentre nessuno (per le stesse norme che regolano l’accesso al pubblico impiego e per il blocco del turn-over) lo troverà nel settore pubblico.

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Intervista di Roberto Giovannini della Rivista Italiani Europei a Maurizio Landini

Su Italianieuropei sterminata e interessante intervista di Roberto Giovannini a Maurizio Landini

Roberto Giovannini: Maurizio Landini, dopo tanti anni in FIOM – tante discussioni, tante polemiche, tante prese di posizione, tante con­troversie – adesso lei è segretario confederale della CGIL. Ma la CGIL, e il sindacato così come lo conosciamo in Italia, esisterà ancora tra dieci anni, nel 2027?

Maurizio Landini Sono in crisi tutte le organizzazioni di rappresen­tanza sociale, sia quelle politiche che quelle sindacali, e sta cambian­do in modo radicale il modo in cui operano imprese e produzione. Nulla sarà più come prima. Mai come oggi abbiamo tanta precarietà del lavoro, tanta diseguaglianza, tanta frammentazione sociale, tanta competizione tra le persone. E dall’altra parte – questo è il tema – non c’è più un punto di vista del lavoro, una visione alternativa della società, mentre c’è e predomina il punto di vista del mercato e della finanza. In prospettiva, certamente il sindacato ha un futuro; ma deve avere un modello sociale di riferimento. Se chiediamo ai lavoratori di organizzarsi in sindacato, non basta dire che il sindacato serve per tutelare le loro condizioni di lavoro. Bisogna proporre anche un progetto di trasformazione sociale, un’idea diversa di giustizia so­ciale, di eguaglianza. Bisogna avere un’idea del perché e del come si lavora e si produce; bisogna avere un’idea di reale coinvolgimento e partecipazione delle persone. Si è scelta la strada di lasciar fare al mercato; si è lasciata vincere – nella cultura e nella politica – l’idea che al centro di tutto ci sono il mercato e la finanza. Questo ha fat­to scomparire la soggettività delle persone che lavorano, e dunque ha cancellato ogni punto di vista diverso e di trasformazione. Sono convinto, sinceramente, che il sindacato possa avere un futuro; ma lo avrà solo se sarà anche un soggetto politico, cioè se avrà valori e proposte di trasformazione sociale in autonomia e indipendenza da politica e governi.

R. G. Una storia, quella del sindacato in Europa, che da sempre si è intrecciata a quella del movimento socialista. Che oggi appare ovunque in grave crisi.

M. L. È così. Dopo la fine dell’esperienza “comunista”, oggi siamo alla fine anche dell’esperienza della socialdemocrazia, ovvero di quel modello di mediazione sociale tra imprese e lavoro che aveva dato vita allo Stato sociale. Lo dimostra il fatto che siamo di fronte a un arretramento senza precedenti delle condizioni di vita delle persone che lavorano. Per avere un futuro, il sindacato deve tornare a rap­presentare e unire tutto il mondo del lavoro, e costruire su questa base una cultura politica e sociale alternativa all’attuale modello che ha al centro mercato e finanza. Per farmi capire meglio vorrei citare la vicenda dell’approvazione nel 1970 dello Statuto dei lavoratori. La legge 300 non venne approvata perché sostenuta dalle forze di sinistra – il Partito comunista si astenne – ma perché votata da DC, PSI, PLI, PRI e PSDI, che avevano una larga maggioranza in Parla­mento. Nel 1970 anche le forze politiche di destra e di centro votano lo Statuto dei diritti dei lavoratori perché riconoscono che uno dei nostri principi costituzionali, la centralità dei diritti della persona che lavora, è un interesse generale da riconoscere e tutelare. E solo successivamente si articola la politica, a destra, a sinistra o al centro. Oggi siamo al paradosso che un partito come il PD, che fa parte dell’Internazionale socialista, sancisce che la cosa più di sinistra che può fare è il Jobs Act, una legge che smantella lo Statuto dei diritti dei lavoratori. E mentre nel 1970 si affermava che si poteva licen­ziare solo se c’era una giusta causa, si riconosceva che il lavoro aveva bisogno di tutele, e che il ruolo sociale dell’impresa doveva essere temperato dal rispetto dei diritti di chi lavora, oggi si giunge quasi a teorizzare che va tutelata l’impresa che licenzia. Prima il lavoratore veniva tutelato dal licenziamento ingiusto; oggi viene tutelata l’im­presa, che può disporre un licenziamento ingiusto sborsando un po’ di soldi. Un cambiamento culturale davvero drammatico.

R. G. Dunque, il sindacato secondo lei ha un futuro; ma deve riuscire a unificare il mondo del lavoro, ed elaborare un progetto di trasformazione della società. Non sembra affatto un compito facile: il lavoro e la società sono frantumati e disarticolati, e l’esperienza socialdemocratica – che è stata il suo punto di ancoraggio tradizionale – è tramontata. Il sinda­cato confederale resta impostato su un modello novecentesco e datato. La CGIL ha le risorse per fare il salto di qualità che lei indicava come indispensabile per poter sopravvivere?

M. L. Credo di sì, purché si cominci ad agire sin dal Congresso che avremo tra un anno. Non basta un rinnovamento delle persone che dirigono la CGIL, ma serve anche un rinnovamento delle pratiche sindacali, partendo dal rafforzamento di alcune caratteristiche im­portanti del sindacato italiano, che hanno fatto sì che ancora oggi – mentre un po’ dappertutto il tasso di sindacalizzazione è in forte calo – nel nostro paese i numeri sulle adesioni siano migliori. Da noi le cose vanno meglio perché il sistema di relazioni industriali si basa su una struttura contrattuale fondata sui contratti nazionali di categoria e sulla contrattazione aziendale. Sappiamo molto bene che questo modello contrattuale è minacciato dalla frammentazione del processo lavorativo: penso alle esternalizzazioni, al sistema degli appalti e dei subappalti, al proliferare di cosiddette “cooperative”. Al fatto che le tecnologie che intrecciano il digitale e la manifattura cambiano il perimetro delle tradizionali categorie produttive sulla cui base è ancora oggi organizzato il sindacato. Per reggere a questo cambiamento, dobbiamo essere in grado di riunificare in capo alle persone i diritti di chi lavora. Non basta immaginare una nuova le­gislazione sul lavoro e un nuovo Statuto dei diritti dei lavoratori, che pure dobbiamo conquistare.

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