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Riproduciamo questo articolo già pubblicato su fortebraccionews che condividiamo pienamente come condividiamo la piena solidarietà ad Arturo Scotto. Gino Rubini , Editor di Onde Corte
La squadraccia fascista che ha aggredito Arturo Scotto e sua moglie Elsa Bertholet inneggiava a Benito Mussolini e insultava Anna Frank. Perché i fascisti sono sempre fascisti, anche nel 2020. Ignoranti, violenti, vigliacchi: nell’anno nuovo proprio come in tutti gli anni vecchi. In otto contro uno, a volto coperto, gridando gli slogan più turpi e vergognosi che possano essere concepiti. Innamorati, ogni volta, di un leader che si scelgono accuratamente tra quanto di peggio – e anche onestamente di più ridicolo- passi in quel momento.
C’è sempre un’intima e radicata natura razzista, nei fascisti. Per questo continuano ad insultare Anna Frank nei loro canti, usano il suo volto come “offesa” nelle curve degli stadi dove spadroneggiano, ne irridono la memoria e la tragedia nei cori delle loro adunate. Perché Anna Frank è ebrea, innanzitutto. Nascosti da anni dietro le più ignobili “teorie negazioniste” sull’olocausto, i fascisti (nostrani e di tutto il mondo) continuano a coltivare il proprio feroce antisemitismo e ad ostentarlo come un gagliardetto.
E la insultano perché ne hanno paura. Sono terrorizzati da quella dolcissima ragazzina che ha subito il Male che l’uomo può fare nelle sue forme peggiori: costretta ad abbandonare la sua vita, rintanata come un topo in gabbia col costante terrore di essere scoperta, tradita dai propri vicini, deportata dai nazisti, uccisa in un campo di sterminio. Ne sono terrorizzati, i fascisti, perché Anna Frank è la vittima simbolica di tutto ciò che il fascismo è, di tutto ciò che il fascismo significa. Ed è il simbolo forte e vivo, al tempo stesso, di tutto il bello che l’essere umano può essere: della fiducia, della speranza, della tenacia di chi continua “a credere nell’intima bontà dell’uomo”… E’ il simbolo, in parole povere, di tutto ciò che è l’opposto del fascismo.
I fascisti sono sempre gli stessi, anche nel 2020. Ma se c’è stata negli ultimi anni una destra italiana che ne ha sdoganato i rigurgiti per provare a cavalcarli, è arrivato ora il momento di non minimizzare, non accettare chi li blandisce come “folklore”, respingere ed inchiodare alle proprie colpe sia quei dirigenti politici nazionali, sia quegli otto vigliacchi di Venezia che -nella notte di capodanno- hanno deciso di rappresentare la vergogna del Mondo.
Ad Elsa e ad Arturo, dunque, che si sono ribellati e per questo sono stati aggrediti, non va solo la nostra solidarietà: deve andare anche il nostro ringraziamento. Così come il nostro ringraziamento deve andare al giovane intervenuto coraggiosamente in soccorso di Scotto. Perché il fascismo cresce nell’indifferenza e nell’impunità e bene hanno fatto non solo a reagire, ma anche a denunciare: del resto il fascismo, diceva Sandro Pertini, non è un’opinione qualsiasi ma è un crimine.
Andrea Malpassi
” Tutti gridiamo insieme,” non saremo schiavi! ” ” Non abbiamo paura di dirglielo, non saremo schiavi!” “. freddo polare, ma ambiente caldo, Sabato 5 gennaio, a Budapest, capitale ungherese, dove una grande parata corteo di circa 10.000 persone, da Piazza degli Eroi al parlamento neogotico monumentale si affaccia sul Danubio. Per la terza volta da metà dicembre, i sindacati, i partiti politici e le organizzazioni civili che dimostra in attacchino insieme contro il governo nazionalista del primo ministro Viktor Orbán al comando d’Ungheria dal 2010.
” Andiamo in fabbrica, loro al castello “. Questo slogan scritto su un cartello brandito nella processione è esplicito: la folla protesta sia contro una legge di ” flessibilizzazione ” straordinarie che contro il crescente autoritarismo del potere. Dopo una terza vittoria consecutiva alle elezioni legislative dell’aprile 2018, è stato in grado di rinnovare la ” super maggioranza ” dei due terzi che gli ha permesso di governare senza ostacoli dal 2010 e di rilanciare il suo controverso disegno di legge al quale aveva rinunciato un anno e mezzo fa sotto la pressione sindacale. Continua a leggere “In Ungheria, la deregolamentazione degli straordinari scatena una protesta sociale”
“Le Ong fanno un lavoro straordinario” Lo ha dichiarato ieri Roberto Fico, dopo aver visitato l’hotspot di Pozzallo in Sicilia, il punto di raccolta e coordinamento per il salvataggio dei migranti. Sempre lo stesso Roberto Fico , “Quando si parla di ONG bisogna capire cosa si vuole intendere. Fanno un lavoro straordinario”, ha aggiunto il Presidente della Camera, sottolineando che “l’inchiesta di Palermo sule ONG è stata archiviata, e che l’inchiesta di Catania da un anno non cava un ragno dal buco” nel senso che almeno finora non si è trovato un reato da imputare all’opera delle ONG, che sono nel Mar Mediterraneo a cercare di salvare i migranti.
“Bisogna capire bene prima di cosa si parli, se no si fa solo cattiva informazione” Ha proseguito Fico, “le Ong nel Mediterraneo hanno salvato i migranti”.
Riguardo alla situazione nell’hotspot, Fico ha ribadito: “Le Ong che hanno lavorato qui a Pozzallo hanno fatto un lavoro straordinario, me lo hanno confermato il questore, il sindaco e la prefettura”.
Roberto Fico, è stato uno dei pochi che nei giorni scorsi di sua iniziativa, era andato a visitare la tendopoli dei braccianti in Calabria, con molta umiltà, con l’intento giusto, quello di capire. Su invito dei Sindacati di Base USB, si era recato nel vibonese, a vedere coi suoi stessi occhi le condizioni di migliaia di persone, lavoratori migranti, ascoltando in silenzio e molto colpito le testimonianze dei lavoratori, rendendosi conto di persona delle situazioni critiche, tanto della nuova tendopoli, quella cosiddetta “ufficiale” in grado di ospitare in condizioni a malapena sufficienti circa 700 braccianti, quanto della vecchia tendopoli, dove regnano condizioni disperate e totalmente inumane per migliaia di persone, tutte sfruttate come braccianti. Fico anche in quell’occasione ha mostrato la sua profonda umanità, e la sua disponibilità, passando la giornata a parlare con molti migranti, rendendo omaggio alla memoria di Sacko, il giovane sindacalista dei braccianti, ucciso il 2 giugno scorso a fucilate, per un pezzo di lamiera lasciato abbandonato e non appartenente a nessuno, preso per riparare i propri compagni dalla pioggia.
FONTE ARTICOLO21.0RG
Migranti. Forenza: “servono una mobilitazione di massa e un’informazione corretta”
Gli eurodeputati Eleonora Forenza di Rifondazione Comunista, Miguel Urban di Podemos, Javier Lopez del Psoe e Ana Miranda del Bloque Nacionalista Gallego si trovano a bordo delle navi Astral e Open Arms della ong spagnola Proactiva. Abbiamo rivolto alcune domande a Eleonora Forenza.
Che cosa ti proponi con questo viaggio?
Il viaggio mio e degli altri tre europarlamentari intende testimoniare il lavoro che fanno le ONG come Open Arms, drammaticamente criminalizzate mentre salvano vite.
Com’è la situazione in questo momento?
In questo momento stiamo viaggiando con due navi, la Open Arms, che ha 60 persone a bordo e l’Astral. Ci troviamo nella zona SAR (ricerca e salvataggio) al largo delle coste libiche.
Cosa possono fare a tuo parere i politici anti-razzisti, la società civile e il giornalismo indipendente x contrastare l’offensiva sempre più violenta contro migranti e Ong?
Credo vada fatta quanta più informazione corretta possibile, ricordando che la priorità sono le vite delle persone, contro la propaganda xenofoba di tanti governi europei, compreso quello italiano. Penso che occorra anche una mobilitazione pubblica di massa, come quella dei primi anni 2000. Dobbiamo farlo per le persone migranti e anche per noi. Per restare umani.
Dietro la modesta ripresa economica interrotta dal susseguirsi di flash crash dei mercati finanziari, si nasconde l’incapacità dei modelli economici dominanti di leggere la realtà. Sullo sfondo, la svolta autoritaria del neoliberismo
Dopo un lungo periodo di relativa stabilità dei mercati finanziari a inizio febbraio si sono manifestate delle nuove turbolenze. Sono state fornite diverse spiegazioni contrastanti sull’origine di questo flash crash. I più pessimisti parlano dell’inizio di una nuova ondata di crisi, altri dicono che è il risultato di una ‘eccesiva autonomia’ degli algoritmi che controllano oltre il 60% delle transazioni nelle borse mondiali e sono capaci di determinare vere e proprie profezie auto-avveranti, altri analisti invece – e questo è il dato più interessante – spiegano la volatilità dei mercati con la ripresa dei salari in Usa e con l’accordo salariale che l’IG Metal ha raggiunto in Germania. Ne abbiamo parlato con Christian Marazzi, economista, docente presso la Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana. Continua a leggere ““Gli economisti non sanno più contare”: intervista a Christian Marazzi”
Graffiti on a wall outside the Palace of Culture in Warsaw says: “I, a common individual, I am calling to you! Wake up!” The quote comes from the manifesto of Piotr Szczęsny, a chemist who set himself on fire nearby on 19 October 2017, in protest against government policies. He died 10 days later from his injuries.
Un graffiti peint à la bombe avertit les passagers à l’extérieur de la gare d’Ochota, dans le centre-ville de Varsovie : « Réveillez-vous. Il n’est pas encore trop tard ». Il s’agit d’une citation tirée des tracts éparpillés par Piotr Szczęsny avant de s’arroser de liquide inflammable et de s’immoler par le feu devant l’emblématique Palais de la Culture en octobre.
Szczęsny, qui décéda 10 jours plus tard, accusait le gouvernement nationaliste d’enfreindre les règles démocratiques, de créer des divisions entre les citoyens, de détruire les forêts de la Pologne et de réprimer la société civile. Se décrivant comme « un citoyen banal et ordinaire », il avait également indiqué combattre une dépression, mais que sa vision de la réalité n’était pas déformée, seulement plus lucide que celle des autres personnes qui la partageaient, y compris de nombreuses ONG. Continua a leggere “La répression de la société civile se poursuit en Pologne”
FONTE MICROMEGA CHE RINGRAZIAMO
In tutta Europa, come reazione all’attuale crisi socioeconomica e democratica, si stanno diffondendo pulsioni indipendentiste: nuove mini statualità in opposizione allo strapotere finanziario di Bruxelles. Ma, come dimostra la Catalogna, sono illusioni più che vie percorribili per un reale cambiamento. Che passa invece attraverso la valorizzazione dei cittadini nel governo delle città, come dimostra Barcellona con Ada Colau.
di Steven Forti e Giacomo Russo Spena
Lo scorso 5 ottobre Mauro Pili, deputato sardo di Unidos e appartenente al gruppo Misto, ha presentato alla Camera una proposta di legge costituzionale per avviare un percorso “democratico per far scegliere ai cittadini se continuare a essere discriminati dallo Stato italiano o meno”. La sua non è una voce isolata: a quanto si apprende da un recente sondaggio, in Sardegna aumenta la percentuale del fronte indipendentista. I cittadini sardi si sentirebbero abbandonanti dallo Stato centrale, la disperazione per la crisi economica, la sfiducia nei confronti delle istituzioni, la burocrazia invincibile e impermeabile completerebbero il desolante quadro. Ma le pulsioni indipendentiste sono in crescita. Ovunque. Dal Nord al Sud Europa. Da Ovest ad Est. Non è un caso che una delegazione di indipendentisti sardi, così come di indipendentisti fiamminghi e veneti, senza contare la presenza del leghista Mario Borghezio, sia volata lo scorso 1 ottobre a Barcellona per vigilare sulle votazioni del referendum di autodeterminazione convocato unilateralmente dal governo catalano. Quella consultazione poi repressa dal governo centrale guidato da Mariano Rajoy. Continua a leggere “Puidgemont o Ada Colau? Il feticcio dell’indipendentismo e l’alternativa possibile”
AUTORE : Virgilio Dastoli
Con la “detenzione provvisoria” di otto ex ministri del governo catalano decisa dal giudice Lamela si è compiuto a Barcellona l’ennesimo atto di inutile esibizionismo del nazionalismo spagnolo contro il nazionalismo catalano.
Inutile perché fra poche ore o fra pochi giorni gli ex ministri torneranno in libertà osannati come eroi da qualche centinaio di indipendentisti e inutile soprattutto perché non ricorre dal punto di vista giudiziario nessuna delle circostanze che legittimano una detenzione seppure provvisoria. Gli ex ministri, infatti, non possono reiterare il reato di secessione perché non hanno più le leve del potere; non possono inquinare le prove perché non hanno più accesso ai palazzi del governo; non c’è il rischio di fuga perché essi si sono consegnati spontaneamente alla giustizia spagnola.
Continua a leggere “Il Movimento europeo: “A Barcellona””
1. Lo ha affermato di recente Luciano Canfora (2017, 9): «Per ora, chi sfrutta ha vinto la partita su chi è sfruttato». La diagnosi del presente si aggrava se si pensa che «solo ora il capitalismo è davvero un sistema di dominio mondiale», reso più forte dall’avere di fronte a sé esclusivamente miseri spezzoni di organizzazioni di stampo sindacale o settoriale che gli oppongono una resistenza trascurabile; se è vero, com’è vero, che il capitale oggi è davvero “internazionalista”, avendo dalla sua parte la cultura e ogni possibile risorsa. Gli sfruttati, invece, «sono dispersi e divisi» dalle religioni, dal razzismo istintuale, dalle discriminazioni sociali non sanate ma approfondite dall’operato delle istituzioni, e dal fatto che, per funzionare, il capitale ha ripristinato forme di dipendenza di tipo servile creando sacche di lavoro neo-schiavile che non credevamo più possibili, soprattutto nelle aree del mondo più avanzate (ibidem, 11-12).
Di fronte a tutto questo, già nel 2003 Glenn Firebaugh scriveva a proposito di un’inversione di tendenza: il passaggio da una crescente diseguaglianza tra nazioni (accompagnata a livelli di diseguaglianza stabili o in calo all’interno delle nazioni) a una diminuzione della diseguaglianza tra nazioni, con conseguente aumento della diseguaglianza al loro interno. Ciò si deve al fatto che il capitale, che circola liberamente nello “spazio del flussi” globale (secondo l’efficace definizione di Manuel Castell), perché liberato dalla politica, è ansioso di cercare zone in cui gli standard di vita siano modesti e sia consentito sfruttare il differenziale tra regioni del pianeta dove le paghe sono basse e non esistono istituti di autotutela e tutela statale dei poveri, e altre regioni che mantengono queste tutele. Ma il libero fluttuare del capitale produce un effetto collaterale significativo, ossia la progressiva riduzione di quello stesso differenziale, con il concomitante livellamento degli standard di vita tra paesi diversi. Inoltre, i paesi che hanno immesso capitali nei flussi globali si trovano a loro volta a essere oggetto delle situazioni di incertezza della finanza globale (svincolata da regole).
Tutto ciò si ripercuote sulle condizioni della forza-lavoro urbana che l’autorizzata secessione del capitale dalla politica si è lasciata alle spalle. Quella forza-lavoro oggi non solo è minacciata dalla nuova incertezza globale, ma anche dai costi incredibilmente bassi del lavoro in quei paesi dove il capitale, libero di muoversi, decide di insediarsi temporaneamente. Di conseguenza, il differenziale tra paesi “sviluppati” e “poveri” tende a contrarsi, e nei paesi che non molto tempo fa sembravano aver superato le diseguaglianze sociali più stridenti torna a riemergere più forte che mai l’inarrestabile crescita della distanza tra chi ha e chi non ha. Continua a leggere “Neoliberismo, biopolitica e schiavitù. Il capitale umano in tempo di crisi”
Autore Giuseppe Grosso
Fonte Manifesto
Ribellione, sedizione e malversazione di fondi pubblici. Il procuratore generale dello stato, José Manuel Maza, ha scagliato ieri tre fulmini sui generali indipendentisti che venerdì scorso hanno proclamato la Repubblica catalana, soffocata sul nascere dall’applicazione dell’articolo 155 da parte dell’esecutivo di Rajoy.
IL PRESIDENTE PUIGDEMONT, il suo vice Oriol Junqueras, la presidente della Camera catalana Forcadell e un folto gruppo di ministri della Generalitat rischiano ora – se, com’è praticamente certo, il Tribunale Costituzionale e l’Audiencia Nacional accoglieranno le ipotesi di reato formulate dalla procura – di essere travolti da una valanga di avvisi di garanzia. Ed, eventualmente, da pene severissime, fino a trent’anni, che potrebbero trasformare l’avventura separatista in una carneficina politica.
Nello scritto, il procuratore evidenzia l’assoluto «disprezzo alla Costituzione» e chiama a comparire gli insorti davanti al giudice «con urgenza».
Ammesso che Puigdemont e i suoi fedelissimi accettino di farsi giudicare dalla giustizia spagnola, il che sembrerebbe tutt’altro che scontato: da ieri, infatti, l’ex president si trova a Bruxelles insieme a cinque suoi ministri, dove è fuggito in cerca di asilo politico poche ore dopo le dichiarazioni del segretario di stato belga per l’asilo e la migrazione Theo Francken (del partito separatista fiammingo), dichiaratosi disposto a concedere protezione agli indipendenti catalani.
Un colpo di scena – l’ennesimo – che non è chiaro come possa risolversi: alla netta smentita del primo ministro belga, va aggiunta infatti l’impossibilità formale di avviare la richiesta, dato che la normativa comunitaria non contempla l’eventualità che un cittadino Ue chieda asilo politico presso un altro stato dell’Unione.
Secondo vari giuristi, tuttavia, la legislazione belga darebbe al president ribelle qualche appiglio legale che, quanto meno, potrebbe ritardare l’azione della giustizia spagnola.
Mentre Puigdemont attraversava i Pirenei per consacrarsi esule politico e organizzare la resistenza lontano dal caldissimo autunno barcellonese, Podemos cercava di organizzare le fila, scompigliate dalle pesanti divergenze tra il versante nazionale (anti indipendentista) e quello catalano, pronunciatosi a favore dell’indipendenza e contro la legittimità delle elezioni convocate da Rajoy per il prossimo 21 dicembre.
IGLESIAS È DOVUTO così correre ai ripari «scomunicando», domenica scorsa, la costola catalana dell’organizzazione (Podem), che rischia ora fuoriuscire dall’orbita del partito nazionale. «Se ci sono dei compagni politicamente più vicini alla Cup, che vadano con loro», ha dichiarato il segretario della formazione viola, additando la porta ad Albano Dante Fachin, segretario di Podem e leader della corrente indipendentista della sigla catalana della formazione viola.
STANDO COSÌ LE COSE, Podemos dovrebbe dunque presentarsi alla prossima tornata elettorale insieme al partito di Ada Colau, Catalunya en Comú, candidando Xavier Domènech a presidente della Generalitat; ma, a dimostrazione del fatto che la crisi catalana è stata per Podemos più una pietra d’inciampo che un’occasione di crescita, focolai di dissenso si sono verificati anche nel settore anticapitalista della formazione, che hanno riconosciuto la legittimità della Repubblica catalana in un comunicato, rinnegato però dai maggiori esponenti della stessa corrente (i leader andalusi Teresa Rodríguez e Kichi González).
Intanto l’ipotesi di elezioni mutile, che aveva preso corpo dopo la minaccia dei partiti indipendentisti di disertare le consultazioni di dicembre, sembra essere rientrata: Esquerra Republicana (Erc) e il PDeCAT, parteciperanno al voto: «Le urne sono sempre un’opportunità, anche se imposte da Rajoy – ha commentato Sergi Sabriá di Erc – Il governo non ha la facoltà di convocare queste elezioni, ma noi non aggrediamo i seggi come loro. Anzi, difendiamo il voto, perché Madrid non ci fa paura», ha proseguito.
Nessun commento, invece, dalla Cup, che ancora non ha chiarito se parteciperà o si manterrà al margine di una tornata elettorale che considera un atto di forza dell’esecutivo centrale.
Non vede l’ora di votare, invece, il popolo unionista che ieri ha sfilato numeroso per le strade di Barcellona, colorate dal rosso e dal giallo della rojigualda, la bandiera spagnola.
Il corteo convocato Socied Civil Catalana, ha percorso le strade della ciudad condal con in testa i leader di tutte le forze costituzionaliste, che hanno pronunciato discorsi molto duri contro la spaccatura sociale provocata dal secessionismo.
È SALITO SUL PALCO anche Francisco Frutos, ex segretario generale del PCE: se per essere anti indipendentista mi considerate un traditore – ha detto rivolgendosi idealmente ai secessionisti – allora «sono un traditore del dogmatismo settario e del razzismo identitario che state creando».
Articolo di Dario Lovaglio sul conflitto indipendentista a pochi giorni dal referendum
FONTE EFFIMERA
Il rumore dell’elicottero in sottofondo è diventato una constante per chi vive a Barcellona. In queste ultime settimane dall’1 ottobre, data in cui viene annunciato il referendum indipendentista, lo Stato democratico ha messo in opera, con un metodo degno della sua genealogia post-franchista, la revoca dell’autonomia della Catalogna con 14 arresti di alti funzionari; ha inoltre centralizzato i poteri della Conselleria d’Economia e la polizia della comunità autonoma, i Mossos d’Esquadra. Un Coup d’Etat dice il presidente della comunità autonoma catalana su The Guardian. Una dozzina di sedi di partito perquisite e occupate senza mandato, oltre alle tipografie e alle testate implicate nella produzione del materiale del referendum; la sospensione di conferenze ed atti pubblici sia a Valencia sia a Bilbao; circa settecento sindaci sanzionati e precettati per aver appoggiato pubblicamente la consulta con le loro dichiarazioni; un impiego massiccio delle forze dell’ordine della Guardia Civil – la polizia statale – con due barche da crociera ormeggiate nel porto di Barcellona.
Continua a leggere “L’autunno catalano, lo Stato e il referendum”
Autore Manlio Dinucci
fonte controlacrisi.org
«Ciò che avviene oggi in Libia è il nodo di una destabilizzazione dai molteplici aspetti»: lo ha dichiarato il presidente Emmanuel Macron celebrando all’Eliseo l’accordo che «traccia la via per la pace e la riconciliazione nazionale». Macron attribuisce la caotica situazione del paese unicamente ai movimenti terroristi, i quali «approfittano della destabilizzazione politica e della ricchezza economica e finanziaria che può esistere in Libia per prosperare». Per questo – conclude – la Francia aiuta la Libia a bloccare i terroristi. Macron capovolge, in tal modo, i fatti. Continua a leggere “La Libia, Macron e la Rothschild Connection”
Ringraziamo la fonte SOCIALEUROPE.EU
He did it again: German finance minister Wolfgang Schäuble repeatedly reflected on a possible Grexit in February 2017, after having raised this threat already in the negotiations on the third bailout programme in summer 2015. International observers cannot believe Germany has started playing hardball again in this delicate affair just when the European idea is on the line due to growing support for populist nationalists in upcoming elections. So why is Schäuble forcibly creating new ripples on the seemingly quiet front of the Eurocrisis?
Led by the current and previous federal government under Chancellor Angela Merkel and her CDU, the advocates of a stability union for the most part favour preservation of the status quo of the EMU architecture. The fundamental reasons for the Eurozone crisis are from this angle to be blamed on the failure of the crisis states to stick to existing rules and economic policies, thereby harming their competitiveness. Accordingly, the paramount objective in combating the crisis and further developing the Eurozone has been to correct these purportedly “wrong” policies in these countries and close possible loopholes in the rules. A whole host of measures have been implemented along these lines, from the launch of national debt brakes in the guise of the fiscal compact to stipulating quasi-automatic sanctions with the reversed majority voting in the reformed Stability and Growth Pact. Additionally, structural reforms promoting competition and fiscal consolidation in the Euro Plus Pact and in the European Semester as well as the enforcement of these if necessary within the framework of credit assistance programmes have been brought on the way.
Such views have been supported by a clear majority of actors from academia and employers representatives as well reflected within a media landscape that has only sporadically ventured any critical analysis. Indeed, centre stage in the debate has been occupied by topics like the consolidation of budgets, market-friendly structural reforms and corresponding mechanisms to enforce compliance at the Eurozone level.
While supporters of a stability union blame the Eurocrisis on these failings within those states hit hardest by the crisis, the much smaller grouping of proponents of a fiscal union point the finger at fundamental flaws in the EMU design. Critical scholars, intellectuals and journals along with the trade unions have urged that EMU be buttressed by elements of cross-border liability and coordinated policies. But these voices are weak in the German debate: The contours of the camp striving for more fiscal integration, with instruments such as Eurobonds, automatic stabilisers in form of a common insurance mechanism or a fiscal capacity to curb and contain asymmetric shocks, remain pale. This can be explained by the absence of a strong political body behind these alternative proposals. In particular, the Social Democratic Party (SPD) has manoeuvred between support for Keynesian and heterodox concepts on the one hand and positions firmly ensconced in the majority opinion in favour of a stability union on the other. Overall, the SPD can be considered to nestle within the fold of the CDU’s approach, and this might change only in 2017 with Martin Schulz aiming to break the peaceful coexistence of the two biggest parties in German politics on European affairs.
In addition, there is a new group of actors with the potential for obtaining a majority that is very heterogeneous in terms of both its composition and its specific demands, which rejects both the vision of a stability union as well as a fiscal union. The demand for a reversal of currency integration is being spearheaded from two diametrically different directions: conservative-liberal critics associated with the right-wing nationalistic party Alternative für Deutschland (AfD) view any ties to purportedly crisis- and debt-ridden states as posing a serious danger to German taxpayers. In contrast, critics from the far left of the political spectrum are raising the spectre of an erosion of national welfare states and democracies due to the increasingly radical market approach of the Euro regimes. This heterogeneous camp and its growing support in the population are putting pressure on the established actors, who increasingly tend to shy away from policy proposals supporting deeper European integration.
This constellation in the continuing political discourse, as described in more detail in a study recently published by Friedrich-Ebert-Stiftung, is why the debate on the Eurocrisis, the review of the one-sided austerity approach and possible reform options for EMU remain stuck in Germany. The stability union is supported by a solid group of actors and benefits from the relative mild impact of the crisis as perceived by the German population. As long as growth and employment in Germany remain higher than in many neighbouring states, a change in course despite a stagnating economy, deflationary threats and high levels of unemployment in many crisis countries is highly unlikely. Thus, again and again we will hear Schäuble grumbling at Eurozone countries out of line with his stability approach.
Very few factors could alter the terrain of the German debate over the future of the currency union One is the SPD’s positioning, which so far fails to shift to such an extent that it could breathe real life into a fiscal union as laid down in its party program. Another is the growing attractiveness of the camp supporting a roll-back. The sustainability of the stability-at-all-costs approach, fundamental to the beliefs of the finance minister, is an illusion. As partial stagnation in the Eurozone wears on, the question of expansion or roll-back of the currency union will clearly become ever more pressing. Forcing another Greek stand-off in the summer, with the harmful economic consequences so clearly exhibited already in 2015, will further undermine the status quo that Schäuble so desperately seeks to cement in the Eurozone.
GB Zorzoli
Durante le primarie repubblicane ci rassicuravano così: i discorsi sopra le righe gli servono per battere i competitors; ottenuto il risultato, modererà i toni.
Analogo ritornello nel corso delle elezioni presidenziali: dopo, dovrà fare i conti con la Realpolitik.
Adesso è la Realpolitik a dover fare i conti col presidente Donald Trump. E non solo lei. Per riuscirci, occorre però cambiare registro, lezione che i media tradizionali non hanno ancora imparato.
Giornali, radio, televisioni hanno addolcito la notizia sull’ executive order anti-migranti, accompagnandola con i servizi sulle manifestazioni di protesta. OK sul piano dell’informazione, ma – forse sono stato disattento – non è stato fatto notare che nessuna di queste iniziative si è svolta in Alabama o nell’Arkansas, cioè negli stati che hanno fatto vincere Trump. È un bene che l’America sconfitta reagisca; per fortuna c’è ancora una giudice federale a New York; fa piacere che i vertici di Google, Facebook, Netflix, Airbnb e di altre aziende digitali si siano espressi contro il blocco all’immigrazione. Tuttavia, agli occhi di chi ha votato Trump tutti costoro, come pure i media tradizionali, fanno parte dell’élite, che strilla perché alla Casa Bianca è arrivato qualcuno deciso a mantenere la promessa «America first», chiudendo le frontiere e riportando all’interno del paese la vecchia, buona industria.
Considerazioni analoghe valgono per il muro al confine col Messico o per la “Velocizzazione della valutazione ambientale e della successiva approvazione dei progetti infrastrutturali con alta priorità”, affiancata dalla revoca del blocco per i due controversi oleodotti Keystone XL e Dakota Access. Obiettivo che, tradotto dal latino in lingua volgare, significa realizzarli – con effetti positivi, seppur temporanei su economia e occupazione – fregandosene dell’ambiente e del rischio per i circa 8.000 membri della tribù Sioux di Standing Rock, derivante dal possibile inquinamento delle acque del lago Oahe, da cui dipendono anche le forniture idriche di molti altri cittadini americani.
Quest’articolo è disponibile anche in: Inglese, Spagnolo
Lunedì notte il Presidente Donald Trump ha licenziato il Ministro della Giustizia Sally Yates, poche ore dopo il suo annuncio che il ministero non avrebbe difeso l’ordine esecutivo che impedisce temporaneamente l’ingresso negli Stati Uniti ai profughi e ai cittadini di sette paesi a maggioranza musulmana – Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen. Trump le aveva chiesto di svolgere la funzione di Ministro della Giustizia fino alla conferma da parte del Senato del suo stretto alleato Jeff Sessions, definito dal Washington Post il “padrino intellettuale” del bando anticostituzionale dei musulmani.
“Jeff Sessions è un razzista e un islamofobo. Non deve essere il nostro prossimo Ministro della Giustizia,” ha detto il Colonnello in pensione Ann Wright, mentre veniva arrestata e trascinata via dalla Commissione Giustizia del Senato.
Il Presidente della National Association for the Advancement of Colored People Cornell Brooks è stato arrestato due volte durante i sit-in organizzati davanti all’ufficio di Jeff Sessions in Georgia.
Fonti:
fonte PRESSENZA che ringraziamo
L’amministrazione USA sotto la Presidenza del Sig.Trump, dopo il decreto esecutivo per mettere al bando i cittadini provenienti dai sette paesi di religione mussulmana e il caos che si è verificato negli aeroporti USA, appare allo sbando.
Ieri dovevano essere fermati e rispediti indietro tutti i cittadini provenienti da quei paesi, anche i residenti negli USA, muniti di Carta verde, studenti, professori, manager, ricercatori…
In ragione delle proteste e dell’evidenza della stupidità con la quale era stato redatto il dispositivo firmato da Donald Trump, per il contraccolpo mediatico negativo prodotto su scala internazionale, ora sembra vogliano modificare le procedure in ogni caso odiose e inutili di questo decreto esecutivo sulla immigrazione.
La motivazione con la quale Trump sostiene i suoi provvedimenti esecutivi sulla immigrazione nel migliore dei casi sono una caricatura grottesca: associare il blocco dei flussi di migliaia i persone che provengono da paesi di religione islamica molti dei quali già risiedono , lavorano e studiano insegnano negli USA con la lotta al terrorismo è un’operazione stupida e dannosa. Altrettanto stupido è bloccare il flusso di persone, già munite di visto e controllate ….
I procuratori di 15 stati degli USA nel frattempo hanno rilasciato una dichiarazione durissima di condanna dei decreti esecutivi di Trump definendoli incostituzionali.
I giornali US
White House Official, in Reversal, Says Green Card Holders Won’t Be Barred
fonte Carmillaonine
di Alessandra Daniele ( che ringraziamo )
A quanto pare, possiamo smettere di preoccuparci per la Terza Guerra Mondiale, perché in realtà è già stata combattuta e vinta.
La cosiddetta rivoluzione Ucraina, le truppe NATO nei paesi baltici, l’ISIS adoperato come casus belli per distruggere la Siria, il trattato USA con l’Iran, il fallito golpe Turco, tutti presumibilmente parte d’una manovra NATO d’accerchiamento della Russia che ha reagito colpo su colpo, con ferocia, ma non solo militarmente, perché non sarebbe bastato.
Putin ha vinto la Terza Guerra Mondiale non con una mossa di Risiko, ma con una mossa di scacchi.
Ha preso il Re avversario.
Ha stretto un accordo con la lobby protezionista e isolazionista degli Stati Uniti in nome degli interessi comuni, e quando l’incazzatura popolare ha prevedibilmente portato alla presidenza il candidato che prometteva di fermare il massacro sociale delle classi medie (“stop the carnage”) e riportare i posti di lavoro in patria, cioè il cavallo matto sul quale astutamente aveva puntato, Putin s’è ritrovato fra i vincitori.
Non sono stati però i mitologici hacker russi, spauracchio dei teorici delle Guerre Cyberpunike, ad azzoppare la sanguinaria imperatrice Democratica, è stata la sprezzante arroganza con la quale lei stessa e tutta la sua corte politico-mediatica hanno dato per scontata la vittoria fino all’ultimo, fottendosene del voto della Rust Belt.
Si dice che la Clinton abbia avuto numericamente più voti di Trump, ma questo è vero soltanto contando New York e le grandi metropoli della California. Il voto popolare del resto del paese è andato in maggioranza a Trunp, non perché l’orrido miliardario se lo meritasse davvero, ma perché ha saputo incarnare lo Zeitgeist col quale tutte le élite si ritrovano adesso a fare i conti.
Le lobby imperialiste degli Stati Uniti non s’arrenderanno facilmente, questo è ovvio, ma organizzare un Regime Change o una Rivoluzione Colorata stavolta all’interno del loro stesso paese non gli sarà così facile, e poterebbe costargliene la distruzione.
Al momento la Ruota è girata, verso il nazionalismo di stampo fascista.
Perché il Fascismo è il fail safe del Capitalismo per quando la gente s’incazza.
Assorbe la spinta rivoluzionaria per incanalarla di nuovo all’interno del sistema capitalistico, e individua un capro espiatorio, come gli immigrati, gli stranieri, contro il quale deflettere la rabbia popolare.
Promettendo il ritorno ad un’inesistente Età dell’Oro quando le Invasioni Barbariche e la Decadenza dei Costumi, cioè i diritti civili, saranno debellati.
Non a caso uno dei primi atti ufficiali del viscido vicepresidente Mike Pence è stato partecipare a una marcia antiabortista, mentre Trump chiudeva le frontiere ai rifugiati.
Il vecchio trucco funzionerà di nuovo?
La Globalizzazione morente lascerà il posto a uno scontro terminale tra fascio-nazionalismi?
Possiamo smettere di preoccuparci per la Terza Guerra Mondiale, e cominciare a preoccuparci per la Quarta.
fonte Carmillaonine