Spiare i giornalisti: la Francia forma un blocco insieme a sei stati europei

Fonte RITIMO 

 

Francia, Italia, Finlandia, Grecia, Cipro, Malta e Svezia vogliono silurare la prima legge europea per proteggere la libertà dei media e l’indipendenza nell’UE conducendo una campagna attiva per consentire la sorveglianza dei giornalisti, in nome della “sicurezza nazionale”, documenti ottenuti da Disclose , in collaborazione con Investigate Europe e Follow the Money, rivelano.

La situazione di stallo sta giungendo al termine. Da più di un anno un disegno di legge sulla libertà dei media in Europa, lo European Media Freedom Act, è oggetto di accese discussioni a Bruxelles e Strasburgo. In questo testo che dovrebbe garantire l’indipendenza, la libertà e il pluralismo dei media, una disposizione è al centro delle tensioni tra gli Stati membri e il Parlamento europeo: l’articolo 4, che riguarda la protezione delle fonti giornalistiche, considerate come “ condizioni fondamentali per la libertà di stampa ” della Corte europea dei diritti dell’uomo< a i=4 >. Senza questa tutela, “il ruolo vitale della stampa come custode della sfera pubblica rischia di essere minato”.

Disclose, in collaborazione con il collettivo di giornalisti Investigate Europe e i media Follow the Money< /span>, è riuscito a penetrare nelle trattative chiuse. La nostra indagine rivela il lato negativo di 15 mesi di negoziati che potrebbero portare a un testo finale, questo 15 dicembre 2023, dopo un terzo ciclo di discussioni tra il Consiglio dell’UE, il Parlamento e la Commissione europea. Documento giustificativo, dimostra le finalità repressive del governo francese contro la stampa, attivamente sostenute dal governo di estrema destra italiano e dalle autorità finlandesi, cipriote, greche, maltesi e svedesi.

Sorveglianza diffusa

Per comprendere la manovra in atto dobbiamo tornare al 16 settembre 2022. All’epoca la Commissione Europea presentò un progetto di legge sulla libertà dei media. Nelarticolo 4, il testo iniziale vieta l’uso di spyware contro giornalisti e media, tranne nel contesto “  indagini su [dieci] forme gravi di criminalità ” (terrorismo, stupro, omicidio – vedere riquadro alla fine dell’articolo). Queste tecnologie, che consentono di intercettare e-mail e messaggi protetti, possono essere utilizzate anche “ caso per caso, per ragioni di sicurezza nazionale ” .

Inconcepibile per la Francia che, in un documento interno al Consiglio dell’UE, ha scritto il 21 ottobre 2022 che “ rifiuta che le questioni di sicurezza nazionale non siano trattate nell’ambito quadro di deroga ”. Il governo di Elisabeth Borne, allora rappresentato dal suo consigliere culturale, ha chiesto di aggiungere “ una clausola di esclusione esplicita ” al divieto di sorveglianza dei giornalisti. Evidentemente la Francia vuole poter ostacolare il lavoro della stampa, quando lo ritiene necessario in nome della sicurezza nazionale. Un requisito per il quale ha finito per vincere la causa con la maggior parte degli altri stati.

Il 21 giugno 2023, 25 stati membri su 27 hanno adottato una nuova versione della legge nel Consiglio dell’Unione Europea, che ha scandalizzato 80 organizzazioni e associazioni di media europee. Se il testo vieta di costringere i giornalisti a rivelare le loro fonti, a perquisirle o a spiare i loro dispositivi elettronici, aumenta lo spazio di manovra dei servizi di intelligence: gli spyware potrebbero infatti essere utilizzati nell’ambito di indagini collegate a un elenco di 22 reati punibili da tre a cinque anni di carcere. Mescolati insieme troviamo sabotaggio, contraffazione, corruzione e perfino attacchi alla proprietà privata. I giornalisti che lavorano su questi temi e che intrattengono rapporti con fonti prese di mira da questo tipo di indagini potrebbero quindi essere soggetti a sorveglianza di polizia.

Inoltre, l’ultima frase del testo introduce una deroga molto ampia: “ Il presente articolo si applica a condizione che non incida sulla responsabilità degli Stati membri in merito alla tutela della sicurezza nazionale  ”. In altre parole, la sorveglianza diventerebbe legale se uno Stato membro ritenesse minacciata la propria sicurezza nazionale. ” Qualsiasi motivo di sicurezza nazionale potrebbe essere sufficiente per perseguire o monitorare un giornalista”, spiega Christophe Bigot, un avvocato specializzato in diritto della stampa in Francia. Questo potrebbe essere il caso, ad esempio, di un articolo su un ristorante che non rispetta il confinamento e si affida a fonti anonime .

Spyware sugli smartphone

Secondo le nostre informazioni, sono stati i ministeri degli Interni e le forze armate francesi a richiedere l’esenzione. Quest’ultimo, dopo aver assicurato che non avrebbe partecipato ai negoziati, ha chiarito le sue osservazioni: la posizione francese mirerebbe ” a preservare il quadro giuridico dell’intelligence francese [che] è allo stesso tempo protettivo ed equilibrato , e prevede un regime generale di tutela rafforzata per alcune professioni cosiddette “protette”, tra cui figurano i giornalisti ”. Secondo il Ministero delle Forze Armate, le operazioni di sorveglianza dei giornalisti vengono già effettuate sotto il controllo “ sotto il controllo di un’autorità amministrativa indipendente ”. Ovvero la Commissione nazionale per il controllo delle tecniche di intelligence, composta da parlamentari e magistrati. Da parte sua, il Ministero della Cultura francese – ufficialmente incaricato dei negoziati – giura che ” questo margine di discrezionalità lasciato agli Stati membri non significa in alcun modo che essi possano liberarsi dal rispetto diritti fondamentali e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo ”.

Negli ultimi anni, le autorità di Grecia, Spagna, Bulgaria e Ungheria hanno già fatto riferimento alla loro sicurezza nazionale per giustificare l’uso degli spyware Pegasus e Predator contro i giornalisti investigativi.

Di fronte al rischio di eccessi, il Parlamento europeo ha richiamato all’ordine gli Stati. Il 3 ottobre due terzi dei deputati hanno adottato un disegno di legge che prevede un controllo molto più severo sulla sorveglianza dei giornalisti. Pertanto, in questa versione alternativa dell’articolo 4 della legge europea sulla libertà dei media, le comunicazioni dei giornalisti possono essere ascoltate o i loro telefoni infettati con spyware solo se viene soddisfatta una serie di condizioni precise. L’intrusione non deve comportare l’accesso a fonti giornalistiche; deve essere giustificato “ caso per caso ” nell’ambito di indagini su reati gravi come terrorismo, stupro o traffico di droga, armi e non essere collegati alle attività professionali dei media; infine una “ autorità giudiziaria indipendentee” deve dare la sua autorizzazione ed effettuare a posteriori “ controllo regolare ”.

” Linea rossa “

Ciò senza contare che il governo francese e i suoi sei alleati europei continuano a rottamare, come rivelato in un minuto di una riunione del Consiglio dell’UE del 22 novembre, 2023, ottenuto da Disclose e dai suoi partner. In questo documento scritto da alti funzionari tedeschi, apprendiamo che l’Italia considera il mantenimento del paragrafo sulla sicurezza nazionale (nell’articolo 4) come “ una linea rossa  ”. Vale a dire che si oppone fermamente alla sua rimozione. Francia, Finlandia e Cipro affermano di essere “ poco flessibili ” sulla questione. Quanto a Svezia, Malta e Grecia, i loro rappresentanti affermano di essere sulla stessa linea, “ con alcune sfumature ”.

Anche se questi sette Stati rappresentano solo il 34% della popolazione europea, questa minoranza può bloccare qualsiasi compromesso alleandosi con l’Ungheria di Viktor Orban, che respinge l’intero testo perché troppo liberale per i suoi gusti. Perché la legge venga approvata, è necessario che gli Stati favorevoli rappresentino il 65% della popolazione. La maggioranza degli altri governi ha quindi adottato la linea dura franco-italiana per salvare il testo. Solo il Portogallo ha osato criticare questa feroce difesa dell’eccezione in nome della sicurezza nazionale. Contattata, la rappresentanza portoghese a Bruxelles si è detta “preoccupata per l’impatto futuro che questa disposizione potrebbe avere, non solo sulla libertà di esercitare la professione di giornalista ma anche sulla < a i=2>società civile europea  ”.

Polvere negli occhi

Conoscendo l’arte del compromesso, il governo francese e i suoi alleati si dicono ora favorevoli all’aggiunta di ” guardrail richiesti dal Parlamento europeo per proteggere le fonti dei giornalisti”, possiamo si legge nel rapporto del 22 novembre 2023. Vale a dire, l’obbligo di ottenere “l’accordo di un’autorità giudiziaria ” prima di violare la protezione delle fonti, e la creazione di un meccanismo a posteriori” controllo regolare delle tecnologie di sorveglianza  ”. Una cortina di fumo, secondo l’avvocato Christophe Bigot. L’intervento di un giudice a monte sarebbe solo un “ cambiamento sulla carta, poiché sarebbe necessario avere il consenso del giudice delle libertà e della detenzione, ma è già così nel contesto di un’indagine preliminare in cui vi siano perquisizioni di giornalisti o di un editoriale ”. Una formalità il più delle volte concessa, come nel caso della perquisizione da parte della Direzione generale della Sicurezza interna (DGSI) e della custodia della giornalista di Disclose Ariane Lavrilleux il 19 settembre.

Fino ad ora, un’istituzione aveva limitato gli eccessi di sicurezza degli Stati: la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE). Ha ricordato, in più occasioni, che gli Stati non possono brandire indiscriminatamente il concetto di sicurezza nazionale per violare le leggi europee. Nell’ottobre 2020, i giudici, ad esempio, hanno vietato alle autorità francesi di obbligare i fornitori di servizi Internet a conservare tutti i dati degli utenti Internet all’esterno nell’ambito di un’indagine. Motivo: la direttiva sulla privacy e sulle comunicazioni elettroniche lo vieta. Dopo questa sconfitta giuridica che ha stabilito un quadro rigido, la Francia e i suoi alleati vogliono evitare altre decisioni simili e mantenere le mani libere in termini di sorveglianza dei giornalisti.

Il Parlamento accetterà l’accordo proposto dal Consiglio dell’Unione europea, sotto la pressione di sette dei suoi Stati membri? Cederà per preservare una legge che, tra l’altro, prevede progressi sull’indipendenza della televisione pubblica e delle redazioni in generale?

Sia a destra che a sinistra, i parlamentari responsabili dei negoziati ritengono che la soppressione del riferimento alla sicurezza nazionale sia un prerequisito. È il caso di Geoffroy Didier, eurodeputato (Partito popolare europeo, a destra) e correlatore del testo. Quest’ultimo “ chiede solennemente a Emmanuel Macron e al governo francese di abbandonare il loro progetto che consisterebbe nel poter spiare legalmente i giornalisti ”. Da qui al 15 dicembre, i parlamentari hanno solo tre giorni per convincere la presidenza spagnola dell’UE e i governi. Tre giorni affinché una legge sulla libertà di stampa non ne diventi la tomba.

Dieci date chiave nei negoziati sul Media Freedom Act

  • 16 settembre 2022: Presentazione della legge europea sulla libertà dei media
    La Commissione europea presenta un progetto di legge sulla libertà dei media < un i=3>. L’articolo 4 vieta l’uso di spyware contro i giornalisti, tranne “caso per caso, per motivi di sicurezza nazionale ” così come in ” il quadro per le indagini rivolte ai [media], ai loro dipendenti o ai membri delle loro famiglie su dieci gravi forme di criminalità ” (ad esempio terrorismo, traffico di esseri umani , sfruttamento sessuale dei bambini, traffico illecito di armi, omicidio intenzionale, traffico di organi, presa di ostaggi, furto organizzato, stupro e crimini sotto la giurisdizione della Corte penale internazionale).
  • 21 ottobre 2022: la Francia vuole monitorare i giornalisti
    In un documento interno al Consiglio dell’UE, composto dai 27 Stati membri, le autorità francesi “ chiedono l’aggiunta di una clausola di esclusione esplicita e rifiutano di consentire che le questioni di sicurezza nazionale siano trattate nel quadro di un’esenzione ”. La Francia richiede inoltre la possibilità di detenere, monitorare o perquisire i media in caso di “ necessità imperativa di interesse pubblico ”.
  • 10 marzo 2023: La presidenza dell’UE stempera l’entusiasmo francese
    Il segretariato generale del Consiglio dell’UE, allora presieduto dalla Svezia, propone di vietare il uso di spyware salvo giustificazione ” caso per caso, per motivi di sicurezza nazionale “, come terrorismo, stupro o traffico di armi.crimini gravi ” e solo in caso di indagini per dieci tipi di ” 
  • 17 e 25 aprile 2023: la Francia insiste e fa pressione
    Il governo francese invia due lettere incorniciate agli eurodeputati francesi per difendere la sua posizione liberticida ( ” (limitata a dieci tipologie di reati) perché rientrerebbe in “  ”. La Francia vuole avere mano libera per spiare i giornalisti.autonomia procedurale degli Stati membririmuovere la definizione di “reato grave). Spiega che vuole “  e qui
  • 21 giugno 2023: la Francia vince la causa al Consiglio dell’UE
    Quasi tutti gli Stati membri del Consiglio dell’UE (25 su 27) un imperativo prevalente rispetto all’interesse pubblico, in conformità con la Carta dei diritti fondamentali< /span> .in materia di tutela della sicurezza nazionale ”. Il testo amplia addirittura la possibilità di utilizzare tecnologie di sorveglianza nell’ambito delle indagini su 32 tipologie di reati, punibili da tre a cinque anni di carcere, come sabotaggio, contraffazione o addirittura favoreggiamento dell’ingresso in un paese di proprietà privata. E come se non bastasse, la Francia è riuscita a far inserire una clausola di esclusione che lascia agli Stati membri completa libertà “  che autorizza l’impiego di spyware contro i media e i loro team in caso di ” adottano un disegno di legge
  • 3 ottobre 2023: Il Parlamento europeo pone limiti al progetto liberticida della Francia e dei suoi alleati
    Nel disegno di legge dei deputati, spionaggio i giornalisti potrebbero essere autorizzati ma sotto il controllo di un giudice, a “ indagare o prevenire un crimine grave, estraneo all’attività professionale dei media o dei suoi dipendenti< /span> ” .l’accesso alle fonti giornalistiche ” e senza che ciò consenta “ 
  • 22 novembre 2023: Il Consiglio dell’UE pronto per una micro-concessione
    Nella riunione dei rappresentanti degli Stati membri, denominata “Coreper”, la Presidenza dell’UEmonitoraggio regolare  » dell’uso delle tecnologie di sorveglianza. di una preventiva autorizzazione giudiziaria a qualsiasi azione di sorveglianza o arresto nei confronti di giornalisti e un “ invita ad aggiungere l’obbligo
  • 19 ottobre 2023 : avvio dei negoziati del “trilogo” tra la Commissione europea, il Parlamento e la presidenza spagnola del Consiglio dell’UE, che rappresenta i 27 membri Stati membri, per trovare un compromesso sullaLegge europea sulla libertà dei media.
  • 29 novembre 2023 : secondo trilogo tra il Consiglio dell’UE, il Parlamento e la Commissione europea. Il negoziato sull’articolo 4, il più controverso, è rinviato al terzo trilogo.
  • 15 dicembre 2023 : terzo (e ultimo) trilogo. La Francia, insieme ad altri sei Stati membri, intende difendere attivamente la possibilità di spiare i giornalisti che vivono e lavorano all’interno dell’Unione Europea.

Leggi l’articolo originale su Disclose.ngo

Jujuy, Argentina: sollevazione popolare, durissima repressione

Fonte Dinamopress che ringraziamo

 

di Alioscia Castronovo

 

Decine di feriti, arresti e persecuzioni: una sollevazione popolare guidata da docenti e popoli indigeni contro la riforma costituzionale della provincia andina che rafforza l’estrattivismo, criminalizza la protesta sociale ed intensifica l’impoverimento

Nel pieno di una durissima crisi economica e politica, e a pochi mesi dalla elezioni presidenziali che il prossimo mese di ottobre indicheranno quale prossimo governo dovrà affrontare il pagamento del debito al Fondo Monetario Internazionale – e nel pieno delle definizioni delle prossime formule presidenziali ancora in discussione nelle due principali coalizioni – una sollevazione popolare nella provincia andina di Jujuy sta ridefinendo dal punto di vista delle lotte l’agenda politica del paese. Contro impoverimento ed estrattivismo, in difesa dei salari e dei territori, una rivolta è esplosa nel nord occidente del paese, al confine con la Bolivia.

Al centro delle proteste l’operazione politica che favorisce le politiche estrattiviste e costituzionalizza la repressione contro chi reclama salari, diritti e dignità, portata avanti dal governatore Gerardo Morales, con il consenso trasversale dei radicali e del partito giustizialista.

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Il presidenzialismo all’italiana rischia di imitare quello di Orban: la Costituzione va difesa subito

Siamo tra quelli che non amano il presidenzialismo, in qualsiasi versione e variante. La nostra Costituzione, dalle profonde radici antifasciste, ha esplicitamente scartato questa strada proprio per evitare i rischi del ritorno al passato e dell’alterazione dell’equilibrio tra i poteri.

Lo scambio che si prospetta si fonda sullo scambio tra sostenitori della Repubblica presidenziale e della donna sola al comando, e sostenitori dell’autonomia differenziata. Gli alleati diffidano gli uni dagli altri, a tal punto che il ministro Calderoli, imitando Meloni e Crosetto, ha sentito il bisogno di annunciate querele bavaglio contro chiunque osi criticare la sua proposta. Naturalmente le querele finiranno nella cassetta delle intimidazioni di giornata, ma saranno servite ad avvertire i “fratelli e le sorelle d’Italia” che, senza autonomia, non ci sarà presidenzialismo.

I soci, tuttavia, concordano sul fatto che prima di procedere a manomettere la Costituzione sarà necessario devastare i poteri di controllo.

Il presidenzialismo all’italiana, in questo contesto, è una variante peggiorativa dei modelli in vigore in Francia, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti… Il modello nazionale passa, infatti, dalla presenza al governo di persone che rivendicano le loro radici nel Movimento sociale e nella repubblica di Salò, estranee alla Costituzione in vigore; già basterebbe questa premessa per diffidare del presidenzialismo proposto dalla presidente del Consiglio.

Come se non bastasse il ministro Nordio ha fatto sapere che urge la riforma costituzionale per ridimensionare il peso e l’autonomia dei magistrati. Provate a immaginare un presidenzialismo senza obbligo dell’azione penale, con magistrati sottoposti al controllo delle maggioranze, con il ripristino delle norme salva corrotti.

A questo si aggiunga che il conflitto di interessi non solo è più che mai in vita, ma si moltiplicano le figure di politici che acquistano giornali e agenzie, radio, tv, reti. La riforma della Rai, con la complicità anche degli ultimi governi, non è stata neppure abbozzata, e il governo si appresta a mettere sotto tutela viale Mazzini che sommerà alle tv già di proprietà di Berlusconi; per non parlare dei maneggi già in atto nei principali gruppi editoriali. Basterà ricordare l’assassinio programmato ed eseguito del settimanale L’Espresso.

L’ulteriore riduzione del pluralismo editoriale si accompagna al moltiplicarsi delle querele bavaglio, alla sistematica violazione del segreto professionale e delle fonti (ultimo clamoroso caso quello relativo alla trasmissione Report) e, addirittura, alle recenti proposte forziste per reintrodurre il carcere persino per la pubblicazione delle intercettazioni non più coperte dal segreto.

Alcune di queste proposte hanno un obiettivo solamente intimidatorio, perché in contrasto con le medesime sentenze della Corte europea, ma la sola idea indica la rotta e i disvalori di riferimento. Si potrebbe continuare, elencando tutte le norme e le azioni che puntano a ridurre il dissenso, a punire la protesta, a censurare il pensiero critico, a mortificare diversità e differenze.

Dal momento che, nel dibattito politico, contano non solo le parole dette, ma anche quelle omesse, appare evidente che il presidenzialismo all’italiana non sarà preceduto dal rafforzamento dei pesi e dei contrappesi, dalla modifica della legge elettorale, dalla risoluzione dei conflitti di interesse, dall’esaltazione dell’autonomia della giustizia e dell’informazione, ma seguirà il percorso contrario. Il modello di riferimento non sono Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna, ma la “democratura” di Orban.

Non ci sono spazi di trattativa, chi coltiva questa illusione avrà un amaro risveglio. Sarà il caso di riaprire i comitati per la tutela della Costituzione antifascista e predisporsi ad una dura e prolungata battaglia referendaria, ora e subito.

Pubblicato su “il Fatto Quotidiano”

Nuovi fogli di via agli attivisti di Extinction Rebellion (XR): “Abbiamo perso il lavoro, chi ci ripagherà?”

(Foto di Extinction Rebellion (XR) Torino)

Fonte : Pressenza.com

Notificati nuovi fogli di via da Torino agli attivisti di Extinction Rebellion

“Si tratta di misure totalmente illegittime, emanate dal Questore di Torino sapendo benissimo di non poterlo fare” dicono gli attivisti. “Molti di noi hanno perso il lavoro. Chi ci ripagherà per tutti i danni subiti quando avremo vinto tutti i ricorsi?”

Non si ferma la macchina repressiva nei confronti degli attivisti torinesi di Extinction Rebellion. Negli ultimi giorni, infatti, il Questore di Torino ha emesso nuovi fogli di via dalla città, per un periodo di un anno, nei confronti di altri attivisti del movimento. Le nuove misure si vanno a sommare ai 5 fogli di via già notificati e alle 22 denunce penali che hanno colpito le persone presenti in Piazza Castello il 25 luglio.

Quel giorno, due attiviste del nodo torinese di Extinction Rebellion erano salite con una scala sul balcone del palazzo della Regione Piemonte, per appendere uno striscione con scritto “Benvenuti nella crisi climatica. Siccità: è solo l’inizio”. Un’azione plateale ma radicalmente pacifica, volta a denunciare, ancora una volta, il gravissimo stato di crisi idrica che l’Italia intera sta affrontando ormai da mesi. Tuttavia, quella mattina, tutte le persone presenti in piazza – anche chi stava semplicemente dando dei volantini o facendo delle foto – hanno ricevuto una denuncia penale per Art. 633 e Art. 639 bis (Invasione di edifici o terreni) e Art. 18 TULPS (Manifestazione non preavvisata). “Io quel giorno sono stato tutta la mattina in Piazza Castello a fare foto. Non ho fatto altro” racconta Roberto, una delle persone denunciate. “Nonostante questo, mi hanno notificato una denuncia penale per Invasione della Regione Piemonte”. Come Roberto, altre 21 persone si trovano attualmente nella stessa identica situazione.

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ARGENTINA: REPRESSIONE E GRILLETTO FACILE

Tra il 17 e il 21 novembre 2021 la polizia ha ucciso due giovani, vittime di razzismo e pregiudizio. Il mapuche Elías Garay lottava per il diritto alla terra della sua comunità. Lucas González era un ragazzo delle periferie che sognava di fare il calciatore.

di David Lifodi (*)

In Argentina non si placa la polemica sulle forze di sicurezza dal grilletto facile. Tra il 17 e il 21 novembre scorsi, a 1.700 chilometri di distanza, la polizia ha ucciso due giovani, il mapuche Elías Garay e Lucas González.Entrambi sono rimasti vittime del gatillo facil, una pratica che in Argentina non è mai terminata e mette di nuovo al centro dell’accusa le forze dell’ordine, troppo propense ad utilizzare le armi in loro dotazione anche quando non ce ne sarebbe motivo. Vittime dell’odio e del pregiudizio, Elías Garay e Lucas González rappresentano solo gli ultimi di una serie infinita di casi in cui a prevalere, nella gran parte dei casi, è l’impunità degli agenti coinvolti, che si tratti della Federal o della Bonaerense, che spesso agiscono sull’onda delle dichiarazioni della politica all’insegna del cosiddetto manodurismo.

Elías Garay era un militante mapuche di ventinove anni che si batteva per il diritto alla terra della comunità Quemquemtrew, zona di Cuesta del Ternero ( Rio Negro). Ferito a morte dalle pallottole sparate dalla polizia, il giovane ha pagato la violenta campagna antimapuche promossa dal governo di Arabela Carrera e sostenuta dai grandi mezzi di comunicazione, tutti schierati a favore dell’oligarchia terrateniente. L’omicidio di Elías Garay, che lottava pacificamente per il diritto alla terra ancestrale, rappresenta l’ennesimo episodio di criminalizzazione ai danni dei movimenti sociali, dei popoli originari e dei giovani delle periferie urbane.

L’uccisione di Garay, provocata da due uomini armati vestiti in borghese entrati nella comunità mapuche Quemquemtrew, dove si trova un asentamiento destinato a recuperare un territorio ancestrale, è stato condannato dalla Liga Argentina por los Derechos Humanos, mentre il governo di Arabela Carrera il Cuerpo de Operaciones Especial de Rescate non avrebbe ricevuto alcun ordine di entrare in territorio mapuche, né era stata programmata un’operazione di questo tipo.

A smentire il governo sono state però le testimonianze di coloro che hanno denunciato l’isolamento e l’accerchiamento del territorio ad opera della polizia rionegrina, come riportato da Página/12. “La polizia pretende di entrare in territorio mapuche e questo provoca problemi di ordine pubblico, mentre il governo rifiuta qualsiasi forma di dialogo e continua ad uccidere chi si batte per rivendicare il diritto alla terra”, ha ribadito la comunità Quemquemtrew.

Dalla Casa Rosada, finora, non ci sono stati interventi significativi per risolvere il conflitto che vede opposto lo stato ai mapuche. Al dialogo i governi locali preferiscono rispondere con l’utilizzo della violenza, all’insegna dello slogan “los indios son todos terroristas”, come accadde nel 2017 quando a morire fu il militante mapuche Rafael Nahuel, raggiunto da un proiettile mentre fuggiva di fronte all’arrivo della polizia.

A Barracas (Buenos Aires), invece, è rimasto ucciso Lucas González, la cui auto è stata colpita dai proiettili sparati dalla polizia. Il ragazzo aveva terminato di allenarsi e si trovava all’interno della propria vettura insieme ad alcuni amici quando fu raggiunto dagli spari dell’ispettore Gabriel Isassi, dell’ufficiale maggiore Fabián López e dell’ufficiale José Nievas. Gli imputati, per discolparsi, avevano sostenuto di essersi identificati, con i loro giubbotti distintivi e la sirena, per effettuare un controllo sull’auto dei giovani.

I tre agenti sono indagati con accuse pesanti: omicidio aggravato, abuso delle loro funzioni, falso ideologico e privazione illegale della libertà. L’intervento era stato giustificato dai poliziotti nell’ambito di un’operazione antidroga.

Il filo rosso che lega l’omicidio del militante mapuche a quello del ragazzo che si allenava con il sogno di scendere in campo nella massima serie calcistica argentina sono il frutto di una società dove prevale la manipolazione dell’informazione e si giustificano violenza e razzismo.

Il paradosso dell’uccisione di Garay è che il fatto è avvenuto vicino ad una scuola intitolata a Lucinda Quintupuray, una donna uccisa a colpi di pistola perché aveva rifiutato di vendere la sua proprietà e su un terreno che era stato asseganto ai mapuche dall’Instituto Nacional de Asuntos Indígenas.
L’omicidio di Elías Garay e Lucas González è frutto del pregiudizio, quello dei “mapuche terroristi” e quello dei giovani delle periferie considerati loro malgrado dei “delinquenti” a prescindere. “Mi cara, mi ropa y mi barrio no son un delito” e la frase che è risuonata nei cortei di protesta per queste due morti assurde, insieme ad una domanda ormai fin troppo ricorrente: “chi ci protegge dalle forze di sicurezza?”

Nel solo 2020 la Coordinadora contra la Represión Policial e Institucional ha registrato oltre 400 morti provocate dalle forze dell’ordine. Per questo, a distanza di mesi, la società argentina si interroga e continua ad essere scossa dai troppi casi di gatillo facil.

Loris Campetti: La salute nel sindacato

 

Fonte: Inchiestaonline.it

Diffondiamo da il manifesto in rete del 29 ottobre

Serve ancora il sindacato, nel secondo decennio del terzo millennio dopo Cristo? Seconda domanda: chi rappresenta il sindacato nella stagione della globalizzazione neoliberista, quali figure sociali tutela e quali sono invece abbandonate allo strapotere del turbocapitalismo? Terza domanda: cosa è diventato il sindacato? Sono tre domande difficili, le risposte non possono essere semplici né individuali. Quel che posso tentare di fare è di inquadrarle nel contesto dato, qui e ora ma con un occhio al futuro analizzando le linee di tendenza.

 

La miseria della politica

La prima cosa che mi viene da dire è che non è mai stato così difficile come oggi fare sindacato e, al tempo stesso, non è mai stato così necessario. Indispensabile, aggiungerei. La ragione prima della difficoltà rimanda alla politica, alla sua mutazione nella chiave dell’autoreferenzialità, allo sfilacciamento e allo snaturamento della democrazia e allo svuotamento della partecipazione. Non solo in Italia, certo, ma sulle dinamiche in atto nostro paese val la pena soffermarsi. Bastava dare un’occhiata alla grande manifestazione di Firenze organizzata dal collettivo e dalle Rsu Fiom della Gkn per rendersi conto dell’abisso che separa la lotta operaia, le condizioni materiali dei lavoratori, dalla Grande Politica. Nelle interviste realizzate per un libro-inchiesta – Ma come fanno gli operai – mi aveva colpito il racconto di un giovane delegato di una fabbrica aerospaziale del Varesotto: “Vedi, lì dai tempi dei tempi è appesa una gigantografia di Enrico Berlinguer. Per i vecchi operai la sinistra incarnata dal segretario del Pci rappresentava un riferimento forte, identitario. Per i giovani operai, invece, gli eredi principali del Pci sono quelli che più scientificamente hanno abbattuto i diritti dei lavoratori, a partire dall’attacco allo Statuto dei lavoratori”. La rabbia può addirittura spingere gli operai convintamente di sinistra a votare per dispetto un partito con cui non si ha nulla a che fare pur di punire chi è accusato di essere passato dall’altra parte, dalla parte dei padroni. Un operaio della Fiat diceva parole condivise da tanti suoi compagni in tuta blu: “Ho votato per Appendino sindaca di Torino anche se non mi aspetto nulla dai grillini, perché il Pd ripresentava Piero Fassino, quello che nello scontro tra la Fiom e Marchionne si era schierato con Marchionne. Non ho votato come sarebbe stato normale per Giorgio Airaudo, ottimo compagno, perché il modo più sicuro per far perdere Fassino era votare per il M5S”. I lavoratori sono ormai privi di una rappresentanza politica forte, per essere più precisi non hanno sponde nella politica (so bene che a sinistra del Pd ci sono forze come il Prc che si battono al fianco dei lavoratori, ma se vuoi trovarle devi andare nelle manifestazioni di lotta, non in Parlamento e nelle istituzioni. Ma ciò richiederebbe una riflessione a parte che esula da questo articolo). E’ stupido e ipocrita meravigliarsi a ogni elezione per la fuga fuori dalla sinistra del voto operaio. I lavoratori sono soli, il centrosinistra cerca consensi e voti nei ceti alti, nei centri storici e nei quartieri bene delle città, nei cda delle banche più che tra i bancari, in quella che una volta si chiamava borghesia. Fare sindacato senza avere sponde nella politica e nelle istituzioni, con il Pd che è il più convinto sostenitore della dittatura del mercato, è davvero dura.

 

C’era una volta l’internazionalismo

Di un altro elemento di difficoltà a fare sindacato scrivo solo il titolo, è il passaggio dall’internazionalismo proletario all’individualismo proprietario: la fine del bipolarismo con l’inevitabile e tardiva implosione del socialismo reale ha “semplificato” lo scenario mondiale e abbattuto icone e riferimenti. Ciò ha contribuito, in assenza di un progetto politico alternativo, cioè di un’altra idea di sinistra e del mondo, ad accelerare lo scatenarsi della guerra tra poveri, tra lavoratori del nord e quelli del sud e dell’est, tra uno stabilimento e l’altro. Insomma, la crisi della solidarietà è cresciuta di pari passo con le diseguaglianze. Consiglio a tutti una gita a Monfalcone, davanti ai cancelli della Fincantieri, per farsene un’idea. Il sindacato, nato con l’idea che i proletari di tutto il mondo dovessero unirsi, oggi più che in passato avrebbe bisogno come il pane di un’ottica internazionale, globale se preferite, che invece manca da tempo. Senza una strategia e un coordinamento globali si può far poco per ridimensionare la prepotenza delle multinazionali, si può salvare per un po’ una fabbrica magari a discapito di un’altra collocata in un’altra città o in un altro continente. Ma così non si fa molta strada.

A parità di prestazione parità di trattamento

Privati di ogni rappresentanza (e sponda) politica, i lavoratori rischiano di trovarsi soli di fronte all’arroganza del potere. Là dove non esiste neppure una rappresentanza sindacale, il passo è breve per arrivare alla cancellazione dell’insegnamento di Giuseppe Di Vittorio: mai più con il cappello in mano davanti al padrone. Allo svaporarsi della centralità del lavoro in sede politica e, ahimè, nell’immaginario collettivo, si accompagna la massiccia rivoluzione portata dal capitalismo nell’organizzazione del lavoro, nelle relazioni sociali, nella composizione della classe lavoratrice. La crescita esponenziale della logistica agevolata dalla pandemia, inoltre, sta scardinando il bagaglio dei diritti conquistati nel secolo breve, personalizzando il rapporto padrone-dipendente, e a occuparsi della mediazione non è certo il sindacato bensì il caporale. E non solo nella logistica ma anche nell’agricoltura, nell’edilizia, fino al cuore della produzione industriale dove le scelte politiche e dunque la legislazione hanno accompagnato e favorito la frammentazione del ciclo moltiplicando le diseguaglianze e scatenando il dumping sociale. Il vecchio adagio ‘a parità di prestazione parità di salario, orario, diritti’ è stato travolto dal sistema di appalti e subappalti e dalla possibilità concessa alle imprese di scegliere la forma contrattuale più conveniente grazie a un menù disponibile di decine di forme diverse. Spesso il sindacato è in grado di rappresentare e tutelare solo la parte alta del lavoro nella piramide in cui esso è stratificato. Ma fino a quando riuscirà a rappresentare, facciamo un esempio, i dipendenti diretti della Fincantieri? Cioè, fino a quando i lavoratori della Fincantieri riusciranno a difendere i propri diritti, sotto la grandine del dumping prodotto dal sistema degli appalti? Credo che non ci sia futuro, persino per un sindacato di classe come è ancora la Fiom, senza la capacità di andare a mettere mani e cuore nelle fasce più deboli del mondo lavoro, riconquistando proprio quell’idea che a parità di prestazione deve corrispondere parità di trattamento.

La solitudine del nuovo proletariato

La pandemia ha ulteriormente spinto verso un superamento dei corpi intermedi, detto in parole povere sta ulteriormente indebolendo il sindacato. Essendo mutato nel profondo l’impianto della produzione, della distribuzione e dei consumi anche il sistema legislativo andrebbe riscritto, e persino lo Statuto dei lavoratori – quel che ne resta dopo i colpi d’accetta degli ultimi anni – andrebbe aggiornato per includere e tutelare le nuove figure sociali, il nuovo proletariato. I sindacati confederali sono in grave ritardo nella conoscenza dei nuovi lavori; soltanto negli ultimi mesi la Cgil, che ha impiegato un paio d’anni per capire che quello dei rider è un lavoro a tutti gli effetti dipendente, ha messo a fuoco i ciclofattorini che solo grazie alla loro soggettività e le loro battaglie in bicicletta condotte in solitaria sono riusciti a imporsi all’attenzione di tutti. Nella logistica le prime lotte sono state portate avanti con il fragile appoggio dei sindacati di base e i confederali a fatica stanno cercando di mettere qualche radice tra i lavoratori. Quando un camionista travolse un facchino ai cancelli durante uno sciopero si scoprì che i camionisti sono (debolmente) rappresentati dalla Cgil e i facchini (debolmente) dai sindacati di base. Se si perde di vista il nemico vero si finisce in una guerra dei penultimi contro gli ultimi.

 

Il covid al lavoro

Tra le conseguenze più pesanti del covid sul lavoro c’è il suo uso ricattatorio da parte del sistema delle imprese: con la perdita di centinaia di migliaia di posti, tentano di imporre il peggioramento delle condizioni lavorative con annessa riduzione di salario, diritti, sicurezza e dunque dignità. Se vuoi lavorare, è la parola d’ordine, accetta le mie condizioni perché la ripresa in una competizione internazionale senza esclusione di colpi impone i suoi diktat e c’è la fila di persone disposte a prendere il tuo posto. Del milione e duecentomila posti cancellati nel primo anno di pandemia se ne sono recuperati cinquecentomila nel primo semestre del 2021, ma per la quasi totalità si tratta di lavori variamente precari, a termine e in somministrazione cioè in affitto. E parlano con altrettanta chiarezza i numeri dei morti sul lavoro che continuano a crescere paurosamente (più di mille nei primi 8 mesi dell’anno a cui si aggiungono quasi 200 tra medici e infermieri vittime del covid).

 

L’inadeguatezza del sindacato

Questo è il contesto, reso più aspro dalla debacle del sistema dei partiti che hanno commissariato a un banchiere un’Italia già cloroformizzata dal coronavirus. I sindacati sono usciti indeboliti dalla pandemia, dopo più di un anno di riunioni e assemblee da remoto: il distanziamento è un ostacolo al rapporto tra organizzazioni sindacali e lavoratori, cioè alla pratica dei valori fondanti dell’azione collettiva e della stessa democrazia. Sic stantibus rebus, non basta dire che il sindacato è fondamentale, che è uno dei pochi strumenti di autodifesa dei lavoratori. Bisogna chiedersi se il sindacato dato è all’altezza della sfida che ha di fronte. Detto che più che di sindacato bisogna parlare di sindacati, è difficile negare l’inadeguatezza delle organizzazioni dei lavoratori. Per tutte le ragioni oggettive sin qui enunciate o solo accennate (per prima la mancanza di una dimensione internazionale), ma anche per cause soggettive. Nel tempo i sindacati sono diventati una costola dello stato e, nei casi peggiori, dei governi. L’autonomia sindacale si è indebolita ed è cresciuta la burocratizzazione, quasi un’abitudine a vivere di rendita, trasformandosi da organizzazioni di lotta in strutture di servizio, caf e via dicendo. Era proprio obbligatorio tenere chiuse per un anno e mezzo le Camere del lavoro? Anche dentro la Cgil – taccio su Cisl e Uil, ma anche sul cosiddetto sindacato europeo, la Ces, per evitare querele – il corpaccione dei funzionari vede ogni cambiamento come un attentato allo status – e allo stipendio – acquisito. Anche così si spiegano le difficoltà incontrate da Maurizio Landini nel suo tentativo di rigenerazione o rifondazione che dir si voglia dell’organizzazione, riportandola in strada (il sindacato di strada è un buon esempio laddove viene sperimentato) e dentro i luoghi di lavoro. Ha sostanzialmente retto, invece, la struttura dei delegati, le Rsu che hanno, spesso in solitudine, tenuto vivo e costante il rapporto con i lavoratori.

La resistenza e il cambiamento

Che il sindacato serva lo dimostra l’esempio della Gkn: la Fiom ha lasciato liberi i suoi quadri di costituire un collettivo che insieme alle Rsu sta gestendo una difficile vertenza e ha intentato causa all’azienda per antisindacalità, vincendola. Certo, per vizi di forma, il modo (del licenziamento via mail) ancor m’offende. Ha consentito ai lavoratori di tirare una boccata d’ossigeno ma nella sostanza il problema resta immutato per l’acquiescenza della politica alle imprese e alla pratica delle multinazionali di chiudere stabilimenti per delocalizzare la produzione là dove di diritti ce ne sono ancora meno. Almeno, la Fiom si conferma un sindacato di resistenza, ne fa fede l’esperienza straordinaria degli operai napoletani della Whirlpool; non che non abbia un progetto sociale in testa, ma questo si impantana nelle stanze della politica e fatica ad avviare un percorso unitario con le altre categorie della sua stessa confederazione. Il nobile tentativo di costruire una coalizione con movimenti e forze sociali avviato qualche anno fa dall’unico sindacato che già a inizio secolo aveva scelto di stare con il movimento cosiddetto no-global, si è presto arenato, un po’ per la debolezza e la frammentazione degli interlocutori, un po’ per la diffidenza della Cgil e un po’ perché non basta mettere insieme le teste pensanti, i leader, per trascinare con sé tutto il resto. Le alleanze non possono che costruirsi dal basso. Come ai tempi della Flm e dei delegati di gruppo omogeneo, verrebbe da dire.

E forse proprio dal basso bisognerà ripartire per costruire un sindacato adeguato alle nuove sfide.

Loris Campetti è nato a Macerata nel 1948. Laureato in chimica, già nella seconda metà degli anni Settanta è passato al giornalismo. Al “manifesto” fino al 2012 ha ricoperto tutti i ruoli e si è occupato prevalentemente di lavoro e lotte operaie. Ha scritto molti libri di inchiesta e nel 2020 è stato pubblicato da Manni il suo primo romanzo, “L’arsenale di Svolte di Fiungo”.

Comunicato dei e delle docenti di discipline giuridiche degli Atenei italiani a seguito della sentenza di condanna nei confronti di Mimmo Lucano

Fonte ADIR L’altro Diritto

La sentenza di primo grado che condanna Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, a 13 anni e 2 mesi interroga il nostro senso di giustizia.

Da giuristi e giuriste, e studiosi e studiose del diritto e delle istituzioni, attendiamo, prima di ogni valutazione nel merito, di leggere le motivazioni della sentenza e con fiducia pensiamo ai successivi gradi di giudizio come a momenti in cui maggiore chiarezza potrà essere fatta.

Sin da subito, però, non possiamo esimerci dal sottolineare come il Tribunale di Locri abbia ritenuto, per i reati di associazione, truffa sulle erogazioni pubbliche e di peculato, ai cui singoli episodi è stata riconosciuta la continuazione, di applicare una pena estremamente elevata, a fronte di uno stimato danno erariale di meno di 800.000 euro di cui è stato comunque imposto il risarcimento. La sentenza irroga di conseguenza un ammontare complessivo di pena che raramente è stato disposto per reati analoghi anche in procedimenti in cui il vantaggio ingiusto era ben più consistente e rivolto a finalità ben più individualistiche di quelle attribuite a Mimmo Lucano. Basti pensare alle condanne inflitte, nell’ambito del cosiddetto processo “Mafia capitale”, poi diventato “Mondo di mezzo”, a Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, che pur relative a sedici episodi corruttivi, sette di turbativa d’asta, uno di traffico di influenze illecite e uno di trasferimento fraudolento di valori, sono state di gravità inferiore a quella stabilita per l’ex sindaco di Riace.

Questo lascia spazio a dubbi, stupore, e al timore legittimo di un accanimento verso un uomo e una vicenda divenuti simbolo di una visione dell’accoglienza in Italia mirata alla costruzione di percorsi inclusivi effettivi e non alla burocratica osservanza dei protocolli ministeriali.

Ci meraviglia in particolare il fatto che il collegio non abbia ritenuto di applicare alcuna attenuante. Dichiariamo la nostra preoccupazione per un clima di ostilità che si respira a volte anche nelle aule giudiziarie nei confronti di chi, a vario titolo e in vari contesti, appartiene al mondo che esprime fattivamente solidarietà alle persone migranti, e la volontà di monitorare con tutti gli strumenti a nostra disposizione le fasi successive del procedimento aperto nei confronti di Mimmo Lucano.

Primi firmatari:

Emilio Santoro, Università di Firenze; Alessandra Sciurba, Università di Palermo; Aldo Schiavello, Università di Palermo; Perla Allegri, Università di Torino; Salvatore Amato, Università di Catania; Adalgiso Amendola, Università di Salerno; Alberto Andronico, Università di Catania; Luca Baccelli, Università di Camerino; Adriano Ballarini, Università di Macerata; Mauro Barberis, Università di Trieste; Clelia Bartoli, Università di Palermo; Viviana Battaglia, Università di Palermo; Barbara Giovanna Bello, Università di Milano Statale; Francesco Belvisi, Università di Modena e Reggio Emilia; Maria Giulia Bernardini, Università di Ferrara; Francesco Biondo, Università di Palermo; Giovanni Bisogni, Università di Salerno; Cecilia Blengino, Università di Torino; Silvio Bologna, Università di Palermo; Silvia Borelli, Università di Ferrara; Marco Borraccetti, Università di Bologna; Carlo Botrugno, Università di Firenze; Maria Borrello, Università di Torino; Marco Brigaglia, Università di Palermo; Raffaella Brighi, Università di Bologna; Gianvito Brindisi, Università della Campania Luigi Vanvitelli; Enrico Camilleri, Università di Palermo; Roberto Cammarata, Università di Milano Statale; Giuseppe Campesi, Università di Bari Aldo Moro; Damiano Canale, Università Bocconi; Carlo Caprioglio, Università di Roma tre; Cinzia Carta, Università di Genova; Thomas Casadei, Università di Modena e Reggio Emilia; Bruno Celano, Università di Palermo; Paola Chiarella, UMG – Università Magna Graecia di Catanzaro; William Chiaromonte, Università di Firenze; Daniela Chinnici, Università di Palermo; Fabio Ciaramelli Università di Napoli Federico II; Luigi Cinquemani, Università di Palermo; Sofia Ciuffoletti, Università di Firenze; Paolo Comanducci, Università di Genova; Luigi Cominelli, Università di Milano La Statale; Elena Consiglio, Università di Palermo; Fabio Corigliano, Università di Parma; Cecilia Corsi, Università di Firenze; Lucia Corso, Università di Enna Unikore; Giovanni Cosi, Università di Siena; Marco Cossutta, Università di Trieste; Rosaria Crupi, Università di Palermo; Paolo Cuttitta, IDPS, Université Sorbonne Paris-Nord; Roberta Dameno, Università di Milano Bicocca; Teresa Degenhardt, Queen’s University Belfast; Alessandro De Giorgi, San Jose State University; Luciana De Grazia, Università di Palermo; Cinzia De Marco, Università di Palermo; Francesco De Vanna Università di Modena e Reggio Emilia; Giuseppe Di Chiara, Università di Palermo; Alberto di Martino, Università Sant’Anna di Pisa; Chiara Di Stasio, Università di Brescia; Madia D’Onghia, Università di Foggia; Giulia Fabini, Università di Bologna; Alessandra Facchi Università di Milano La Statale; Isabel Fanlo Cortès, Università di Genova; Carla Faralli, Università di Bologna; Simona Feci, Università di Palermo; Luigi Ferrajoli, Università Roma tre; Maria Rosaria Ferrarese, Università di Cagliari; Vicenzo Ferrari Università di Milano La Statale; Valeria Ferraris, Università di Torino; Giovanni Fiandaca, Università di Palermo; Nicola Fiorita, Università della Calabria; Micaela Frulli, Università di Firenze; Giovanni Galasso, Università di Palermo; Orsetta Giolo, Università di Ferrara; Valeria Giordano, Università di Salerno; Tommaso Greco, Università di Pisa; Guido Gorgoni, Università di Padova; Riccardo Guastini, Università di Genova; Paolo Heritier, Università di Torino; Giulio Itzcovich, Università di Brescia; Anna Jellamo, Università della Calabria; Giulia Maria Labriola, Università Suor Orsola Benincasa; Marina Lalatta Costerbosa, Università di Bologna; Agostino Ennio La Scala, Università di Palermo; Nicola Lettieri, Università del Sannio; Carlo Lottieri Università di Verona; Claudio Luzzati, Università di Milano Statale; Francesca Malzani, Università di Brescia; Letizia Mancini, Università di Milano Statale; Massimo Mancini, Università di Perugia; Alessio Lo Giudice, Università di Messina; Fabio Macioce, Università di Roma Tor Vergata; Francesco Mancuso, Università di Salerno; Giorgio Maniaci, Università di Palermo; Marco Manno, Università di Palermo; Elisa Marchi, Università dell’Arizona; Leonardo Marchettoni, Università di Parma; Costanza Margiotta, Università di Padova; Realino Marra Università di Genova; Federico Martelloni, Università di Bologna; Luca Masera, Università di Brescia; Silvio Mazzarese, Università di Palermo; Michelina Masia, Università di Cagliari; Fabrizio Mastromartino, Università di Roma tre; Tecla Mazzarese, Università di Brescia; Giulia Melani, Università di Firenze; Dario Mellossi Università di Bologna; Ferdinando Menga, Università della Campania Luigi Vanvitelli; Giovanni Messina, Università di Napoli Federico II; Lorenzo Milazzo, Università di Pisa; Bruno Montanari, Università di Catania; Lalage Mormile, Università di Palermo; Luca Nivarra, Università di Palermo; Valeria Nuzzo, Università della Campania Luigi Vanvitelli; Francesco Pallante, Università di Torino; Giuseppa Palmeri, Università di Palermo; Giuseppe Palmisano, Università Roma tre; Letizia Palumbo, Università Ca Foscari di Venezia; Lina Panella, Università di Messina; Luigi Pannarale, Università di Bari Aldo Moro; Baldassare Pastore, Università di Ferrara Francesco Parisi, Università di Palermo; Paola Parolari, Università di Brescia; Davide Petrini, Università di Torino; Stefano Pietropaoli, Università di Firenze; Cesare Pinelli, Università di Roma La Sapienza; Anna Pintore, Università di Cagliari; Attilio Pisanò, Università del Salento; Tamar Pitch, Università di Perugia; Valerio Pocar, Università di Milano Bicocca; Francesca Poggi, Università di Milano; Ulderico Pomarici, Università della Campania Luigi Vanvitelli; Daniel Pomier, Università di Roma La Sapienza; Andrea Porciello, UMG – Università Magna Graecia di Catanzaro; Franco Prina, Università di Torino; Alessandro Purpura, Università di Palermo; Susanna Pozzolo, Università di Brescia; Isabella Quadrelli, Università di Urbino Carlo Bo; Marco Ragusa, Università di Palermo; Maura Ranieri Università Magna Graecia di Catanzaro; Vincenzo Rapone, Università di Napoli Federico II; Adrian Renteria Diaz, Università dell’Insubria; Giovan Battista Ratti, Università di Genova; Maria Cristina Reale, Università dell’Insubria; Maria Cristina Redondo, Università di Genova; Antonio Riccio, Università di Cassino e del Lazio Meridionale; Alessandro Riccobono, Università di Palermo; Francesco Riccobono, Università di Napoli Federico II; Enrica Rigo, Università Roma tre; Matteo Rinaldini, Università di Modena e Reggio Emilia; Eugenio Ripepe, Università di Pisa; Nicola Riva, Università di Milano Statale; Graziella Romeo, Università di Milano Bocconi; Daniela Ronco, Università di Torino; Paola Ronfani, Università di Milano Statale; Annamaria Rufino, Università della Campania Luigi Vanvitelli; Vincenzo Ruggiero, Middlesex University; Filippo Ruschi, Università di Firenze; Angelo Salento, Università del Salento; Giovanna Savorani, Università di Genova; Pier Francesco Savona, Università di Napoli Federico II; Caterina Scaccianoce, Università di Palermo; Vincenzo Scalia, Università di Firenze; Francesca Scamardella, Università di Napoli Federico II; Alberto Scerbo, UMG – Università Magna Graecia di Catanzaro; Angelo Schillaci, Università di Roma La Sapienza; Laura Scudieri, Università di Genova; Iacopo Senatori, Università di Modena e Reggio Emilia; M. Ausilia Simonelli, Università del Molise; Stefano Simonetta, Università di Milano Statale; Guido Smorto, Università di Palermo; Stefania Spada, Università di Bologna; Eleonora Spaventa, Università di Milano Bocconi; Ciro Tarantino, Università della Calabria; Gianluca Urbisaglia, Università di Roma La Sapienza; Alfredo Terrasi, Università di Palermo; Persio Tincani, Università di Bergamo; Giovanni Torrente, Università di Torino; Enza Maria Tramontana, Università di Palermo; Isabel Trujillo, Università di Palermo; Vito Velluzzi, Università di Milano Statale; Maria Carmela Venuti, Università di Palermo; Valeria Verdolini Università di Milano Bicocca; Massimiliano Verga, Università di Milano Bicocca; Susanna Vezzadini, Università di Bologna; Francesca Vianello, Università di Padova; Gloria Viarengo Università di Genova; Giacomo Viggiani, Università di Brescia; Francesco Viola, Emerito, Università di Palermo; Maria Virgilio Università di Bologna; Ermanno Vitale, Università della Val D’Aosta; Massimo Vogliotti, Università del Piemonte Orientale; Giuseppe Zaccaria Università di Padova; Loriana Zanuttigh, Università di Brescia; MatiJa Zgur, Università di Roma tre; Silvia Zullo, Università di Bologna

Milagro Sala: le organizzazioni sociali chiedono la liberazione

FONTE PRESSENZA.COM 

Organizzazioni politiche e sociali, sindacati e organizzazioni per i diritti umani si sono mobilitate nel centro di Buenos Aires, fino a Plaza Lavalle, per chiedere alla Corte Suprema di Giustizia di rilasciare Milagro Sala, leader sociale del gruppo Túpac Amaru, cinque anni dopo il suo arresto a Jujuy.

Milagro Sala è da cinque anni o in carcere o agli arresti domiciliari per una serie di accuse montate ad arte dal governatore di Jujuy Morales, suo nemico politico da sempre, portate avanti da giudici nominati dal governatore stesso al suo insediamento. Le cause in corso hanno avuto risultati controversi e hanno prodotto la paralisi di buona parte delle attività di Tupac Amaru in una delle regioni più povere del paese, dove l’organizzazione presieduta da Milagor Sala aveva realizzato, oltre alle case popolari per cui aveva ricevuto finanziamento, ospedali, scuole, ambulatori medici, parchi giochi e parchi acquatici per i bambini, in un rivoluzionario modello di riscatto sociale dei popoli originari e della gente poveraed emarginata.

“È proprio la Corte che deve risolvere l’apertura dei fascicoli e i ricorsi in appello che abbiamo presentato”, ha spiegato il coordinatore nazionale del Túpac Amaru, Alejandro Garfagnini “La Corte deve pronunciarsi sulla nullità delle cause”, ha detto chiarendo il motivo per cui ci si è rivolti alla Corte Suprema di Giustizia.

Anche a Jujuy una manifestazione analoga si è svolta con grande partecipazione popolare e si è conclusa con il discorso di Raúl Noro, compagno di Milagro Sala.

BRASILE: RAZZISMO E SFRUTTAMENTO NELLA GRANDE DISTRIBUZIONE

Ringraziamo la Fonte : la bottega del barbieri 

Lo scorso 21 novembre ha fatto scalpore l’uccisione di João Alberto Silveira de Freitas ad opera di uomini della sicurezza privata di Carrefour e della polizia militare a Porto Alegre. Nel più grande paese dell’America latina sono molte le multinazionali della grande distribuzione, degli alimenti, delle bibite e della moda ad essere responsabili di episodi simili.

di David Lifodi

Lo scorso 21 novembre hanno fatto il giro del mondo le immagini delle videocamere di sicurezza di Carrefour che hanno ripreso un uomo del servizio di vigilanza mentre picchiavano, fino ad uccidere, João Alberto Silveira de Freitas, insieme a membri della polizia militare. Il fatto è accaduto in Brasile, a Porto Alegre, a seguito di una presunta lite tra l’uomo e un commesso del supermercato.

L’episodio ha fatto scalpore per tre motivi.

In primo luogo perché situazioni di questo tipo si ripetono spesso nelle favelas e nei quartieri più poveri delle grandi città brasiliane. Gli ultimi dati evidenziano che ogni 23 minuti, in Brasile, viene uccisa una persona di colore.

In secondo luogo, ha sottolineato il giornalista Eric Nepomuceno nel suo articolo Ser negro sul quotidiano argentino Página/12, in Brasile non è la prima volta che Carrefour è coinvolta in casi del genere.

Infine, in terza istanza, la stessa Carrefour, insieme alle altre due grandi catene della grande distribuzione tra le più diffuse in Brasile, Pão de Açúcar e Big-Walmart, vendono frutta raccolta sfruttando i lavoratori più poveri del paese, secondo quanto ha denunciato Oxfam Brasil, evidenziando condizioni di lavoro molto vicine alla schiavitù e particolarmente pericolose soprattutto per via delle sostanze agrotossiche presenti nei campi di raccolta.

Marques Casara, sul quotidiano on line Brasil de Fato, nell’articolo Racismo y muerte en Carrefour son la punta de iceberg que involucra multinacionales ha ripercorso i molteplici episodi di razzismo di cui si sono resi colpevoli i grandi marchi della grande distribuzione organizzata e non solo in Brasile, a partire proprio da Carrefour. Nel 2009 due dipendenti della catena francese, nella città di Osasco (stato di San Paolo), picchiarono un nero, Januário Alves de Santana, pensando che stesse cercando di rubare un’automobile, rivelatasi poi essere di proprietà dello stesso Januário.

E ancora, il 14 agosto 2020, a Recife, sempre in un supermercato Carrefour, la morte di uomo di colore che lavorava per una ditta a cui lo stesso marchio aveva appaltato alcuni lavori fu nascosta dietro una lunga fila di ombrelli aperti affinché il negozio potesse continuare a rimanere aperto.

Se nella sede principale di Carrefour, quella francese, il razzismo non è tollerato, perché in Brasile avviene il contrario? A chiederselo è proprio Marques Casara, giornalista specializzato nell’analizzare l’attenzione dei grandi marchi globali per il rispetto dell’ambiente, dei diritti umani e della sicurezza nei luoghi di lavoro.

Tuttavia, Carrefour non è certo l’unica ad essere responsabile di episodi di questo tipo. L’utilizzo di lavoro schiavo e lavoro minorile, l’invasione di territori indigeni, la violazione dei diritti sindacali e la diffusione degli agrotossici accomunano tutte le grandi transnazionali presenti in Brasile, da Nestlé a Coca Cola, solo per citare alcuni dei marchi più noti.

È per questo che lo scorso 23 novembre, quando l’afrodiscendente João Alberto Silveira de Freitas, un saldatore di 40 anni, è stato ucciso da uomini della vigilanza privata di Carrefour e della polizia militare, centinaia di persone si sono radunate di fronte al supermercato di Porto Alegre per protestare al grido di “Vidas negras importam” e manifestazioni simili sono avvenute anche a Rio de Janeiro e San Paolo, ma il governo, come facilmente immaginabile, ha fatto di tutto per ridimensionare l’episodio e farlo passare sotto silenzio.

João Alberto Silveira de Freitas, bloccato da uno degli uomini della sicurezza, è stato picchiato per circa cinque minuti prima di essere immobilizzato e morire asfissiato.

Da parte sua Carrefour Brasile ha fatto sapere, tramite un comunicato, che si adopererà da ora in poi per combattere i pregiudizi e il razzismo strutturale presente nel paese e il direttore generale Alexandre Bompard, su twitter, ha definito quanto accaduto “un atto orribile” e le immagini delle videocamere di sorveglianza come “insopportabili”.

Spetta alla società civile e in particolare ai consumatori, scegliere cosa comprare e dove, ma gran parte dei grandi marchi, dalla grande distribuzione organizzata agli alimenti, dalla moda alle bibite, difficilmente deciderà di operare in maniera trasparente, equa e rispettando I diritti dei propri dipendenti e delle comunità su cui va ad impattare se l’opinione pubblica non chiamerà a fare “massa critica”.

Macron vieta gli sguardi sulla polizia francese

Fonte Il Manifestoinrete

La legge sulla «sécurité globale» appena approvata oltralpe punisce chi riprende le violenze poliziesche. Una reazione repressiva delle pratiche dei Gilet gialli e dei giovani delle banlieue che hanno eroso il consenso per le forze dell’ordine

Le piazze francesi tornano a riempirsi mentre si approva il 24 Novembre il progetto di legge sulla «sécurité globale»: un testo fortemente voluto dal governo e dai sindacati di polizia che, tra le altre cose, punisce con una sanzione di 45mila euro e un anno di prigione la diffusione dell’«immagine del viso o di ogni altro elemento di identificazione» di un poliziotto o gendarme in servizio con lo scopo di «attentare alla sua integrità fisica o psichica».

Secondo Gerald Darmanin, Ministro dell’Interno e mandante del progetto di legge, questa limitazione del diritto di informazione è una tutela per le  forze dell’ordine, che riceverebbero costantemente  minacce e ritorsioni. Al di là del fatto che non esistono prove riconosciute e nemmeno cifre ufficiali in proposito e che da un punto di vista giuridico sono già previste sanzioni in materia, è evidente che il bersaglio del provvedimento è la possibilità per i cittadini di denunciare in tempo reale gli abusi polizieschi, una pratica che si è largamente diffusa prima nei quartieri popolari e poi con il movimento dei Gilet Gialli. L’annuncio del progetto prevedeva la necessità di accreditarsi come giornalisti presso la prefettura per poter coprire le manifestazioni. Gli articoli di legge ormai approvati all’Assemblea Nazionale non vietano espressamente di filmare (un emendamento decorativo garantisce il «diritto di informare»), ma attribuiscono agli agenti la facoltà di mettere in stato di fermo (garde à vue) chi filma, sulla base del sospetto che possa diffonderlo non per esercitare un diritto di informazione bensì per istigare a un delitto contro l’agente in questione. Certo sarà il tribunale a giudicare se questo è il caso o meno, ma intanto il fermo è effettivo e svolge una funzione «dissuasiva».

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FBI, la fabbrica di terroristi di carta

 

 

FONTE AREAONLINE.CH
di Serena Tinari

È il giornalismo dal respiro lungo, l’inchiesta che va avanti per anni e che un passo alla volta lascia il segno. Ma è soprattutto un ritratto impietoso dell’epoca balzana che ci è toccata in sorte. Il progetto “Trial and Terror” pubblicato da The Intercept toglie il fiato e se non fosse fondato su documenti ufficiali, si farebbe fatica a credere ai suoi esplosivi contenuti.

Fatti, numeri e storie che raccontano come l’Fbi abbia letteralmente fabbricato centinaia di presunti terroristi. Persone fragili, povere in canna e poco scolarizzate manipolate da collaboratori dell’agenzia che fingevano di essere attivisti di organizzazioni estremistiche e violente.

L’anno zero è stato l’undici settembre. Passato l’attentato, il governo americano sancì la tolleranza zero e proclamò, passateci il bisticcio, la guerra santa al terrorismo di matrice islamica, destinando alle attività di indagine dell’Fbi ben 3,3 miliardi di dollari l’anno. La strategia dei federali? Identificare i “lupi solitari” prima che passino all’azione. Suona ragionevole. Nella pratica l’Fbi, attraverso complicate messe in scena e ampio utilizzo di agenti manipolatori, ha finito per trasformare centinaia di innocenti in criminali di carta – caricature di terroristi che proprio i federali hanno indottrinato a passare all’azione violenta, allenato ad usare armi da fuoco, fornendo loro contatti e denari per procurarsele, oltre a filmarli mascherati da bombaroli e convincerli a leggere sotto dettatura solenni giuramenti pieni di strafalcioni. Una processione di pasticci da commedia dell’arte che incredibilmente sono diventati prove a carico in tribunale, valendo ai malcapitati condanne detentive di tutto rispetto. Dobbiamo l’allucinante scoperta a un giornalista che nel 2010 ha ricevuto prima una soffiata, e poi una borsa di studio dell’Università di Berkeley, in California per portare avanti il progetto. Trevor Aaronson da allora non ha mollato l’osso. La prima pubblicazione della sua incredibile inchiesta è stata nel 2011 sul sito Mother Jones. Nel 2013 è diventata un libro, “The Terror Factory: Inside the FBI’s Manufactured War on Terrorism” ovvero la fabbrica del terrore, viaggio nella finta guerra dell’Fbi al terrorismo; e ancora è stata trasformata in un avvincente documentario di Al Jazeera, “Informants”, disponibile online: https://trevoraaronson.com/film/

Dal 2016 Aaronson ha unito le forze con Margot Williams, oggi a capo del dipartimento ricerca del The Intercept dopo una carriera che l’ha vista vincere mille premi per il suo lavoro per grandi testate statunitensi, dal Washington Post a Npr al New York Times. Insieme i due hanno ampliato la ricerca e sono giunti ad analizzare una mole enorme di documenti della Procura, verbali dei processi, comunicati del Dipartimento giustizia e archivi del sistema penitenziario. Se masticate l’inglese, la creatura di Aaronson e Williams, continuamente aggiornata, è una lettura necessaria. Sette storie e un database navigabile, con grafiche che anche i meno anglofoni possono esplorare senza difficoltà: https://theintercept.com/series/trial-and-terror/.
Delle 873 persone portate in tribunale, la stragrande maggioranza aveva conoscenze sul terrorismo e persino sull’Islam elementari, un livello che chiunque può sfoggiare se ogni tanto guarda la tv. Oltre la metà delle persone condannate ha finito di scontare la pena e, fanno notare gli autori di “Trial and Terror”, “il governo crede che una manciata di anni di galera facciano il miracolo, oppure lo sanno anche loro che sono innocenti – visto che questi ‘pericolosi terroristi’ non sono oggi sottoposti a nessuna misura di sorveglianza”. Leggi le storie e ti scappa da ridere. Se non fosse che le vittime dei pasticci dell’Fbi sono persone poco scolarizzate, squattrinate e in qualche caso affette da handicap mentali. Soggetti vulnerabili incastrati da un crudele gioco delle parti. La commedia si è ripetuta uguale in centinaia di casi, ricostruiti con pazienza certosina da Trevor Aaronson e Margot Williams. Sempre lo stesso, il protocollo: prendi un soggetto fragile, che ha deciso di convertirsi all’Islam o si è fatto prendere dall’hobby molesto di postare messaggi di provocazione su Facebook. Presentati come l’emissario di una rete di attivisti violenti di una regione medio-orientale del pianeta e lavora senza risparmiare colpi di teatro per fare di quella persona.. un terrorista. Negli articoli e nel documentario scorrono dettagli allucinanti, con tanto di frammenti video depositati agli atti delle inchieste. Come la storia di “Liberty City 7”, gruppo di balordi squattrinati finito alla ribalta delle cronache al momento dell’hollywoodiano arresto. Avevano dato corda per mesi a un arabo che li riempiva di soldi, diceva un sacco di fesserie eppure metteva a loro disposizione cibo e bevande. Alla Corte hanno raccontato di essersi detti: “Spenniamo il pollo e ce la diamo a gambe”. Peccato che il pollo fosse pagato dall’Fbi per fabbricare le prove della loro colpevolezza, fornire evidenza del terroristico potenziale. E allora ci voleva il video del giuramento, e paradossi come spedire quest’armata Brancaleone a scattare foto sfuocate della sede dell’Fbi con una macchina fotografica… di proprietà dell’Fbi. Ci sarebbe da morire dal ridere, se non fosse che quelle foto sono diventate prova della loro intenzione di portare a termine attentati dinamitardi: cinque su sette sono stati condannati, fra i 6 e i 13 anni di carcere. Resta incomprensibile come le giurie, pur dubitando, abbiano finito per condannarli – può la stupidità, la fame di soldi, la sfortuna delle condizioni socioeconomiche farti finire in galera per terrorismo islamico? A quanto pare basta e avanza, se guardiamo a un altro caso iconico: due amici pizzicati a farfugliare, prendendo appunti su un fazzoletto di carta, di un fantomatico attentato. Uno si è dichiarato colpevole e dopo cinque anni è uscito di galera. L’altro è ancora dentro – deve scontare trent’anni. Se l’inglese proprio non vi piace, almeno guardate l’intervento di Aaronson al convegno Ted – ha i sottotitoli in italiano. Non le manda a dire: «L’Fbi ha organizzato più plot terroristici in America di qualunque altra organizzazione, e persino più di tutte quelle islamiche radicali messe insieme» (https://tinyurl.com/oufdav6).

Brasile, Jair Bolsonaro, elimina i diritti LGBT al primo giorno da presidente del Brasile

FONTE CONTROLACRISI

Al primissimo giorno da presidente del Brasile, l’estremista di destra Jair Bolsonaro ha immediatamente fatto sparire dalla scrivania governativa tutte le questioni inerenti alla comunità LGBT, eliminandola dal novero di coloro di cui dovrà occuparsi il nuovo “Ministero delle donne, della Famiglia e dei Diritti Umani“. Il nuovo ministro per i diritti umani, l’ex pastore evangelico Damares Alves, ha affermato che “la famiglia brasiliana è minacciata” da politiche inclusive. All’interno del Ministero la sigla LGBT è stata così cancellata. I gay, i bisessuali, le lesbiche, le persone transessuali non saranno minimamente contemplati da questa amministrazione. Anzi, chiaramente osteggiati.

“Lo stato è laico, ma questo ministro è terribilmente cristiano”, ha tuonato Alves al suo primissimo discorso da ministro. “Le ragazze saranno principesse e i ragazzi saranno principi. Non ci sarà più indottrinamento ideologico per i bambini e gli adolescenti del Brasile“.

Da sempre dichiaratamente omofobo, Bolsonaro ha in passato confessato che preferirebbe avere un “figlio morto piuttosto che un figlio gay”. Nelle ultime settimane, prima che l’insediamento diventasse realtà, decine di coppie LGBT si sono sposate, temendo la cancellazione del matrimonio egualitario, entrato in vigore nel 2013.

Tra i ‘fan’ del neo presidente ci sono Donald Trump e l’ambasciatrice degli Stati Uniti delle Nazioni Unite, Nikki Haley, ma anche il segretario di stato americano Mike Pompeo e il nostro Matteo Salvini.

Milagro Sala torna ai domiciliari ma nella casa sbagliata, per la terza volta

FONTE PRESSENZA .COM

19.08.2018 Redazione Italia

Milagro Sala torna ai domiciliari ma nella casa sbagliata, per la terza volta
Milagro di nuovo al Carmen (Foto di Prensa Tupac)

Ieri in mattinata il giudice Pullen Llermanos ha dovuto revocare il suo stesso provvedimento che aveva trasferito Milagro Sala dagli arresti domiciliari al Carmen a un carcere di Salta. L’annullamento del procedimento di reclusione era stato ordinato dalla Corte Suprema Argentina che ha ribadito di aver accettato  le risoluzioni della Corte Interamericana dei Diritti Umani.

In una intervista a Página 12 la dirigente della Tupac Amaru ha detto “Volevano spezzarmi ma non ce l’hanno fatta!”; Milagro aveva iniziato uno sciopero della fame per protestare contro quest’ennesima ingiustizia.

Rispetto all’incomprensibile modo di agire del giudice jujueno la dirigente sociale ha detto, sempre a Página 12: “è  la terza volta che non si conforma alla sentenza della Corte internazionale e della Corte suprema. Nell’ultima sentenza della Corte suprema, in uno degli articoli,  hanno chiesto di spiegare perché non ha dato seguito alla  richiesta di andare a casa mia. Avrei dovuto scontare i domiciliari a casa mia, nel quartiere di Cuyaya, e non a El Carmen. Adesso ha fatto di nuovo la stessa cosa, è la terza volta. Sembra che non abbia la capacità di comprendere gli scritti della Corte suprema”.

 

Migranti sulla nave Diciotti, appello di Eleonora Forenza

19.08.2018 Redazione Italia

Migranti sulla nave Diciotti, appello di Eleonora Forenza
(Foto di https://www.facebook.com/ForumLampedusaSolidale/)

L’europarlamentare di Rifondazione Comunista Eleonora Forenza, che tra fine giugno e inizio luglio ha seguito in prima persona la vicenda dei migranti a bordo delle navi Astral e Open Arms, della ong spagnola Proactiva Open Arms, lancia dalla sua pagina Facebook un appello a intervenire sulla vicenda della nave Diciotti,  ancora bloccata al largo di Lampedusa.

“E così, mentre noi discutiamo di applausi e fischi, il Ministro degli Interni minaccia di rimpatriare in Libia le oltre 170 persone a bordo della nave #Diciotti, da quattro giorni nel Mediterraneo. Trattasi di fatto della minaccia di violare le convenzioni internazionali in materia di diritti umani, dato che la Libia non è un paese sicuro.

Chiedo, dunque, al Presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani di prendere parola e a ciascun/a parlamentare europea/o di attivarsi”.

In Brasile viviamo una guerra civile sempre più esplicita

Fonte Dinamopress

Realizzata pochi giorni prima della ratifica della condanna a Lula, in questa intervista il filosofo brasiliano Vladimir Safatle denuncia la svolta autoritaria che sta vivendo il Brasile negli ultimi mesi.

Cosa sta accadendo in Brasile?

Gli ultimi eventi dimostrano chiaramente che siamo entrati in una fase di guerra civile sempre più esplicita. Non parlo solo degli spari contro il pullman dell’ex presidente Lula. L’assassinio di Marielle Franco non ha avuto fino ad ora nessuna risposta da parte delle autorità, non vi è stata risposta alcuna nemmeno dopo l’enorme commozione causata dalla sua morte. E’ sorprendente che Geraldo Alckmin, governatore dello stato più grande del paese, e altri rappresentanti istituzionali, presentino come naturale l’attentato contro Lula. Alckmin praticamente dice che l’ex presidente se lo sarebbe meritato, disconoscendo completamente la differenza tra la violenza simbolica della politica e la violenza reale dello sterminio.

Cosa o chi potrebbe risolvere questa impasse?

Non vi è una soluzione a breve termine. La società brasiliana va verso forme estreme di radicalizzazione politica. Non vedo altre vie di uscita. La questione è che solo uno dei due estremi si è organizzato, ed è il campo reazionario. I progressisti continuano a rimanere legati all’idea di un patto di normalità che regola la vita politica nazionale. Ma questo patto è già saltato. La politica nazionale non vive una situazione di normalità. E’ necessario tenerlo presente ed essere pronti.

Questa assenza di comprensione della realtà potrebbe spiegare il fatto che le manifestazioni spontenee dopo la norte di Marielle non si siano trasformate in qualcosa di più efficace ed organizzato?

Non esistono attori politici in Brasile capaci di estendere queste rivendicazioni e dargli un carattere generale rispetto alla situazione nazionale. La società vive una fase di grande effervescenza ma le manifestazioni sono tutte spontanee, como lo sono state lo scorso anno quelle contro il governo di Michel Temer e lo sciopero generale, che ha portato in piazza 35 milioni di lavoratori. Mancano però attori politici che riescano a sostenere nel tempo questa effervescenza sociale. I partiti sono in crisi e vivono una fase di degrado. C’è un deficit tremendo di organizzazione in tutto il paese. Tutta questa forza, enorme, viene dispersa.

In generale in Brasile momenti come questi hanno portato a soluzioni autoritarie. Esiste questo rischio oggi?

Sí, evidentemente. E’ importante per la sinistra prepararsi a tutte le possibili situazioni. Ogni volta che abbiamo vissuto una avanzata autoritaria, la sinistra è sempre stata l’ultima ad abbandonare la speranza nello Stato democratico di diritto. Stava ferma in attesa di qualcosa che non esisteva già più, mentre i reazionari organizzavano la via d’uscita autoritaria. E’ evidente oggi che questo fantasma è qui tra noi. Lo scorso anno, il generale Hamilton Mourão ha parlato in modo esplicito di un progetto di golpe militare e non è stato mai smentito dai suoi superiori. Stiamo vivendo una situazione sempre più tesa. Le elezioni, sappiamo, saranno una farsa, degna della Repubblica di Velha, dove si escludono i candidati che non si vogliono vittoriosi. Il patto minimo di democrazia non esiste più nel paese. Non è un caso che Temer ha appena dichiarato che nel 1964 non vi è stato un golpe militare, ma un movimento sostenuto dal popolo. La dichiarazione è anche falsa dal punto di vista storico. Studiosi dell’opinione pubblica dell’epoca hanno infatti dimostrano che João Goulart sarebbe stato il più votato alle elezioni presidenziali. Si tratta di una falsità che punta a trasformare in elezione popolare una decisione presa dalle elites (quella della dittatura militare del 1964, ndr). Questa dichiarazione di Temer non è per nulla strana nel contesto attuale.

Intervista di  Sergio Lirio a Vladimir Safatle, pubblicata lo scorso 28 marzo 2018 su Carta Capital. Discepolo di Bento Prado Junior, Vladimir Safatle è un filosofo.

I suoi lavori, dalla tesi di dottorato La pasión del Negativo: Lacan y la dialéctica (2006), si occupano dell’intrreccio tra filosofia e psicoanalisi. Ha scritto Cinismo y falencia de la critica (2008), Lo que resta de la dictadura: la excepción brasileña (con Paulo Arantes, 2010), Una izquierda que no teme decir su nombre (LOM, 2012) y El circuito de los afectos: cuerpos politicos, desamparo y el fin del individuo (2015) e Solo un esfuerzo más (2017 ).

Tratto dal blog LOBO SUELTO, traduzione in italiano a cura della redazione di DINAMOpress.

La frontiera dove l’Europa ha perso l’anima

Fonte Ilmanifestobologna

di Marco Revelli

Colle del Monginevro, 1.900 metri di quota, a metà strada tra Briançon e Bardonecchia. È su questa linea di frontiera che oggi batte il cuore nero d’Europa. È qui che la Francia di Emmanuel Macron ha perso il suo onore, e l’Europa di Junker e di Merkel la sua anima (quel poco che ne rimaneva). In un paio di mesi, in un crescendo di arroganza e disumanità, i gendarmi francesi che sigillano il confine hanno messo in scena uno spettacolo che per crudeltà ricorda altri tempi e altri luoghi.

È appunto a Bardonecchia che si è verificata l’irruzione di cinque agenti armati della polizia di dogana francese nei locali destinati all’accoglienza e al sostegno ai migranti gestiti dall’associazione Rainbow4Africa, per imporre con la forza a un giovane nero con regolare permesso in transito da Parigi a Roma di sottoporsi a un umiliante esame delle urine, dopo aver spadroneggiato, minacciato e umiliato i presenti.

Davanti a quello stesso locale, a febbraio, ancora loro, gli agenti di dogana francesi, avevano scaricato come fosse spazzatura il corpo di Beauty, trent’anni, incinta di sette mesi e un linfoma allo stadio terminale che le impediva il respiro. Aveva i documenti in regola, lei, ma non Destiny, il marito, così l’implacabile pattuglia l’aveva fatta scendere dal pullman che da Clavier Oulx porta alla terra promessa, quella dove lo jus soli avrebbe permesso al loro figlio di nascere europeo, e incurante delle condizioni disperate l’aveva abbandonata a terra, al gelo.

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Le scomode verità di Enrico Zucca

Fonte Comune.Info

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di Lorenzo Guadagnucci*

Parafrasando un aforisma del compianto Roberto Freak Antoni potremmo dire, pensando alla bufera mediatica esplosa attorno a Enrico Zucca, che non c’è gusto in Italia a dire la verità. Invece d’essere ascoltato e ringraziato, il magistrato è stato additato come una minaccia da buona parte della nomenclatura istituzionale, con il chiaro obiettivo di non discutere le questioni da lui sollevate.

Enrico Zucca, che fu pm nel processo Diaz (il cui esito non è mai stato digerito ai vari piani del Palazzo), durante un convegno a Genova ha messo in fila alcune evidenze processuali degli ultimi anni.

Ha detto che la tutela dei diritti fondamentali è diventata più difficile dopo l’11 settembre e l’avvio della cosiddetta guerra al terrorismo, tanto che la ragion di stato, in più casi, ha prevalso sulle regole scritte nelle Convenzioni sui diritti umani.

Ha detto che l’Italia ha violato più volte queste convenzioni, ad esempio nel caso Abu Omar (l’imam rapito a Milano dalla Cia e consegnato all’Egitto dove è stato torturato), subendo così una condanna davanti alla Corte europea per i diritti umani, e anche nelle vicende riguardanti il G8 di Genova, quando il nostro paese ha disatteso l’impegno a sospendere e rimuovere i funzionari condannati per le torture alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto.

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Accuse infamanti? Ecco le carriere dei condannati per la Diaz

«I nostri torturatori sono ai vertici della polizia, come possiamo chiedere all’Egitto di consegnarci i loro torturatori? L’11 settembre 2001 e il G8  hanno segnato una rottura nella tutela dei diritti internazionali. Lo sforzo che chiediamo a un paese dittatoriale è uno sforzo che abbiamo dimostrato di non saper far per vicende meno drammatiche». Queste le dichiarazioni del sostituto procuratore di Genova  Zucca, nell’ambito di un dibattito sul caso Regeni. Frasi che da un paio di giorni sono al centro dell’ennesima, faziosa, polemica sul g8 di Genova dettata dall’intransigente rifiuto, ancora oggi dopo quasi vent’anni, delle istituzioni di fare i conti con quella che è stata definita «la più grave sospensione dei diritti democratici in Europa dopo la seconda guerra mondiale» 

Nel nostro paese, ogni volta che vengono effettuate dichiarazioni sui fatti di Genova, si solleva un polverone. Questa volta a innescare la polemica sono state due frasi pronunciate da Enrico Zucca, oggi sostituto procuratore generale di Genova, allora pubblico ministero responsabile dell’istruttoria contro le forze dell’ordine nel processo per la macelleria messicana compiuta alla Diaz. Zucca non è nuovo a prese di posizione molto dure in relazione all’atteggiamento dei vertici della Polizia nei confronti delle vicende giudiziarie riguardanti i propri funzionari. Già in passato aveva infatti duramente criticato l’operato della Polizia parlando di «totale rimozione» dei fatti di Genova e del rifiuto delle forze dell’ordine di riconoscere le proprie responsabilita’ in merito a tali eventi. Nelle frasi pronunciate qualche giorno fa, Zucca torna sull’argomento, sottolineando un altro aspetto vergognoso della gestione post G8 da parte del Ministero dell’Interno e, in particolare, del Dipartimento di Pubblica Sicurezza: le promozioni, le carriere folgoranti e, in alcuni casi il reintegro, dei funzionari condannati in via definitiva dalla Cassazione nel 2012 per la vicenda della scuola Diaz. Nel farlo, il magistrato fa un parallelismo con il brutale assassinio di Giulio Regeni, altra vicenda di torture rimaste impunite. Non è un caso. è bene infatti ricordare che, oltre all’impunita’ assicurata alla quasi totalita’ degli agenti coinvolti nelle vicende del luglio genovese, secondo la legge contro la tortura recentemente approvata dal Parlamento i fatti della Diaz e di Bolzaneto non sarebbero perseguibili («la tortura deve essere reiterata»…).

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Noi stiamo con Lavinia Flavia

 

FONTE EFFIMERA 

 

Questo appello esce in contemporanea su Euronomade.

A Torino, pochi giorni fa, la polizia ha pesantemente caricato con gli idranti una manifestazione antifascista. Alcune riprese video hanno inquadrato un’insegnante che gridava davanti alle forze dell’ordine: la sua immagine, accortamente selezionata e decontestualizzata, è stata catapultata nello spazio virtuale, fatta oggetto di insulti, incitamento alla gogna e strumentalizzazioni politico-elettoralistiche, nonché di sanzioni disciplinari e forse penali in via di definizione.

L’obiettivo politico, alle soglie di una vigilia elettorale esasperata e imbarbarita, è fin troppo semplice: provare a neutralizzare quell’ampio spazio di mobilitazioni democratiche che, lontane dall’ostruzionismo governativo nei confronti del corteo di Macerata e dalle retoriche false e liturgiche che l’hanno seguito, hanno dato nuova vitalità all’antifascismo non istituzionale come pratica concreta dell’antirazzismo e dell’antisessismo grazie in primo luogo al nuovo protagonismo delle soggettività dei migranti e delle donne.

La campagna di linciaggio massmediatico dell’insegnante e le successive puntuali dichiarazioni di diversi esponenti politici sono perfettamente connesse con le recenti politiche basate sull’ossessione per la sicurezza e il decoro, di cui è espressione emblematica il Decreto Minniti: che ha puntellato le città di dispositivi normativi funzionali al controllo e alla repressione delle condizioni di vita più disagiate e dei comportamenti sociali giudicati non conformi, lasciando spazio alle più sfacciate espressioni dell’estremismo di centro-destra (con tutta evidenza indisponibile ad “abbassare i toni” di odio ringhioso nei confronti dei capri espiatori da sacrificare alla crescente sofferenza sociale prodotta da una crisi economica e finanziaria senza credibili vie d’uscita).

Così, il marginale episodio di intemperanza verbale contro il dispositivo di polizia schierato a difesa dell’assembramento di un piccolo gruppo di nazifascisti (peraltro, vietato  dalla – disapplicata – legge penale 645/1952 e dalla Costituzione) è stato immediatamente amplificato e  interpretato all’interno di una logica e di una retorica sessiste che tendono a promuovere un’idea docile e normalizzata delle donne nello spazio pubblico. E a propugnare il disciplinamento della professione di insegnante con l’intento non tanto sottaciuto di conformare il ruolo della cultura e della scuola pubblica ai nefasti principi totalitari dello “stato etico”, restituendo un’immagine tutta ideologica del corpo insegnante da assoggettare a controllo “morale” anche fuori dal suo contesto professionale e lavorativo, in quanto suddito della legalità vigente e di uno Stato che lo vuole svincolato da ogni definizione contrattuale del suo lavoro. Il compito delle e degli insegnanti dovrebbe avere perciò sempre meno a che fare con la formazione culturale e la costruzione di una cittadinanza attiva e ridursi al dovere di vigilanza sulla riproduzione della futura forza-lavoro, da addomesticare alla precarietà e al ricatto dettati dalla gestione neoliberale della crisi economica.

Perciò siamo convinti che in questo momento sia necessario denunciare con forza le retoriche e le  politiche che stanno producendo indagini penali e sanzioni disciplinari, e lanciamo questo appello di solidarietà per Lavinia Flavia Cassaro con la convinzione che il suo caso sia paradigmatico di un attacco alla libertà di tutte e tutti e alla democrazia. Chiediamo pertanto, alle istituzione scolastiche che stanno procedendo contro Lavinia, di sospendere tali iniziative in quanto lesive della sua dignità e dei suoi diritti, riconoscendo che il ruolo di insegnanti non può essere ridotto a quello di chierici moralizzatori, né venire sottoposto alle necessità della propaganda elettorale, del controllo politico e degli inconfessabili interessi cui accetta di assoggettarsi il sistema dei media.

Brazil: another rural worker and rights defender murdered

FONTE IUF.ORG

18 January 2018 News

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Resplandes

 

The toll of violence against rural workers, peasants and all those defending human rights, the struggle for land and the rights of indigenous peoples in Brazil continues to rise. On January 9, rural worker and land reform militant Valdemir Resplandes was murdered by gunmen in Anapu, the city in the state of Pará where American activist nun Dorothy Stang was murdered in 2005.

Brazil’s bancada ruralista, the powerful agribusiness lobby whose votes in Congress help sustain President Temer, has aggressively pursued its agenda aimed at rolling back land rights and legal protections for small farmers and indigenous communities to feed their expanding appetites. Impunity protects the perpetrators of violence.

In September 2017, following the murders of Terezinha Rios Pedrosa and her husband Aloísio da Silva Lara, rural worker, peasant and cooperative leaders in the state of Mato Grosso, the IUF Latin American regional secretariat addressed a letter to the Brazilian authorities, asking how long union and peasant leaders and those defending the environment would continue to be murdered with impunity. There was no reply.

By the end of October 2017, the Catholic Church’s Pastoral Land Commission had already recorded 63 targeted rural assassinations – higher than any year since 2003.

Ancora una volta irruzione in casa di Milagro Sala

05.01.2018 – San Salvador de Jujuy, Argentina – Redacción Argentina

Quest’articolo è disponibile anche in: Spagnolo

Ancora una volta irruzione in casa di Milagro Sala

A pochi giorni dal vergognoso secondo anniversario della detenzione arbitraria di Milagro Sala e nel bel mezzo delle ferie degli organi giudiziari, è stato aperto un nuovo caso contro la leader del movimento sociale.

Con un’ondata di irruzioni e perquisizioni per trovare possibili prove dei crimini denunciati, una nuova intimidazione è in corso contro la leader della Tupac Amaru e la sua famiglia. Riportiamo il comunicato stampa dell’organizzazione:

“Abbiamo iniziato l’anno con un nuovo spettacolo contro Milagro Sala”

Nel mezzo delle ferie degli organi giudiziari, a pochi giorni dall’anniversario dei due anni di detenzione arbitraria di Milagro Sala, inventano una nuova causa contro di lei. Questa volta, ovviamente, riciclaggio di denaro sporco. Inoltre, sono entrati per la quarta volta presso il suo indirizzo in via Gordaliza, nel quartiere di Cuyaya. Per di più, invieranno bulldozer alla città di El Carmen per trovare denaro che, si dice, sarebbe sepolto. “Devono continuare con lo spettacolo di Milagro Sala per coprire quello che succede a Jujuy. Un governo che non dà risposte ai lavoratori, con funzionari perennemente coinvolti in scandali, come l’omicidio dello studente Matías Puca, o il recente incidente che mise in primo piano l’ormai dimissionario direttore della gioventù, Matías Rivera”, ha detto la Tupac Amaru.

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Il governo algerino sta inasprendo la guerra contro il sindacato indipendente dei lavoratori del settore elettrico e del gas

fonte  Labourstart 

Il governo algerino sta inasprendo la guerra contro il sindacato indipendente dei lavoratori del settore elettrico e del gas, SNATEGS, che organizza i lavoratori nella società statale per l’energia,SONELGAZ.

Centinaia di iscritti al sindacato, di delegati e di funzionari del sindacato sono stati licenziati, vessati e perseguitati con accuse legali fasulle per aver esercitato i loro diritti fondamentali. 

Nel mese di maggio di quest’anno il governo ha revocato lo status giuridico dello SNATEGS e condannato il presidente del sindacato, Raouf Mellal, a sei mesi di prigione per aver denunciato la corruzione e frodi massicce  perpetrate dalla società statale della  SONELGAZ. 

Ora il governo sta tentando di eliminare completamente il sindacato.

Il 3 dicembre, il ministro del Lavoro ha annunciato che lo SNATEGS si era riunito per decidere il suo scioglimento! Non ha avuto luogo nessun incontro. Secondo lo statuto del sindacato, tale decisione può essere presa soltanto dal Congresso. 

Lo SNATEGS  vive e lotta e ha bisogno del vostro aiuto.

Inviate un messaggio alle autorità algerine per dire loro di fermare la guerra contro lo SNATEGS, di rispettare i diritti sindacali e lo status giuridico, di ritirare le accuse nei confronti di Raouf Mellal, degli iscritti al sindacato e dei rappresentanti sindacali che sono perseguitati soltanto come ritorsione per il loro impegno sindacale, e di reintegrare tutte le persone licenziate per aver realizzato attività sindacali nell’esercizio dei loro diritti. 

CLICK HERE

Grazie!

Eric Lee

Il regalo di Natale di Gentiloni & Co. – di Salvatore Palidda

FONTE EFFIMERA.ORG

Per questo Natale i signori cattolici ferventi del PD come la stragrande maggioranza del parlamento italiano hanno pensato bene di offrire un regalo multiplo al popolo italiano ovviamente in vista delle prossime elezioni che tutti sperano si giochino su chi è più razzista, militarista, sicuritario-pro-sbirri e in generale neo-liberista nel campo delle politiche economiche e sociali:

1)     Gentiloni ha promesso l’impegno -che sarà votato dal Parlamento- di inviare una nuova missione militare in Niger in nome della guerra ai trafficanti di migranti, cioè in nome del proibizionismo razzista europeo; nel frattempo l’ineffabile Minniti gioca a recitare l’umanitario facendosi fotografare con in braccio un bimbo di neo-rifugiati e promettendo che farà arrivare in aereo un migliaio di profughi;

2)     Lo jus soli non sarà votato né in questa legislatura né molto probabilmente neanche alla prossima vista la concorrenza crescente fra tutti i partiti per mostrare chi è più razzista;

3)     Come promesso già mesi addietro da Gabrielli, da Minniti e da altri, i funzionari e altri operatori delle polizie condannati e/o inquisiti per le violenze al G8 di Genova -e anche dopo in molteplici occasioni- non saranno mai espulsi dai ranghi di tali “integerrime” forze baciate dal diritto all’impunità e quindi dal diritto a commettere reati comprese torture visto che la legge votata dal parlamento permette di coprire queste pratiche (come ha stigmatizzato persino l’ONU).

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REGALI DI NATALE DEL GOVERNO E AFFINI

A quanto pare, già oggi, massimo domani, il Presidente Mattarella dovrebbe sciogliere le Camere.
Eccolo qui, uno dei tanti regali che ha portato questo Natale, una sorta di Pennywise che esce dalla scatola regalo come il nostro peggiore incubo.
Altro che Stephen King…
 
PRESSATO DA RENZI che teme la mancata tenuta del suo partito, alla fine, come da copione, si produce nella sua performance migliore e la più collaudata pronunciando il fatidico: “Obbedisco”!
E, come lo dice lui, nessun altro.
 
Però però però, prima di lasciare, il governo – nella persona del Ministro Minniti – non si risparmia in regali a sorpresa, come ad esempio FAR ARRIVARE AI VERTICI DELL’ANTIMAFIA, qualcuno che doveva essere interdetto da OGNI PUBBLICO UFFICIO.
 
Parliamo di Gilberto Caldarozzi che, come riporta Giulio Cavalli, “è stato condannato per i fatti di Genova a tre anni e otto mesi per falso (in via definitiva), ritenuto responsabile della fabbricazione di prove false che sono servite per “coprire” la violenza della Polizia contro ragazzi inermi.
 
MA NON SOLO.
Pare che Mattarella si stia anche preparando al piano B post-elettorale, nel caso in cui dalle urne (e vista pure la legge elettorale che ci ritroviamo) NON esca un risultato praticabile: UN ALTRO GOVERNO TECNICO (denominato orwellianamente governo del Presidente) chi ci ispira proprio NIENTE di buono.
 
NON È SOLO UNA SONORA PRESA PER I FONDELLI, tutto questo, ma è soprattutto la dimostrazione di come il sistema di potere neoliberista e di governo, ABBIANO LA CERTEZZA di poter fare ESATTAMENTE QUELLO CHE GLI PARE E PIACE.
 
Tanto chi c’è a contrastarli?
 
E NON ILLUDIAMOCI di poterli sconfiggere con una lista elettorale o di arginare questa deriva con lo stesso metodo.
 
QUESTO SISTEMA DI POTERE si sconfigge solo tornando a FARE POLITICA tra la gente, tornando alla lotta nelle aziende, tornando a stare a fianco di chi paga ogni giorno la violenza che stiamo vivendo da parte del sistema.

La répression de la société civile se poursuit en Pologne

 FONTE EQUALTIME.ORG

La répression de la société civile se poursuit en Pologne

NEWS

Graffiti on a wall outside the Palace of Culture in Warsaw says: “I, a common individual, I am calling to you! Wake up!” The quote comes from the manifesto of Piotr Szczęsny, a chemist who set himself on fire nearby on 19 October 2017, in protest against government policies. He died 10 days later from his injuries.

(Marta Kucharska)

Un graffiti peint à la bombe avertit les passagers à l’extérieur de la gare d’Ochota, dans le centre-ville de Varsovie : « Réveillez-vous. Il n’est pas encore trop tard ». Il s’agit d’une citation tirée des tracts éparpillés par Piotr Szczęsny avant de s’arroser de liquide inflammable et de s’immoler par le feu devant l’emblématique Palais de la Culture en octobre.

Szczęsny, qui décéda 10 jours plus tard, accusait le gouvernement nationaliste d’enfreindre les règles démocratiques, de créer des divisions entre les citoyens, de détruire les forêts de la Pologne et de réprimer la société civile. Se décrivant comme « un citoyen banal et ordinaire », il avait également indiqué combattre une dépression, mais que sa vision de la réalité n’était pas déformée, seulement plus lucide que celle des autres personnes qui la partageaient, y compris de nombreuses ONG.

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La contestation sociale réprimée en Amérique latine

Mounted police keeping guard on University students protesting against corruption in the education sector, in front of the National Congress in Asuncion (Paraguay).   (Santi Carneri)

fonte equaltime.org

Le 17 octobre, jour de commémoration annuel en Argentine de Juan Domingo Perón, fut repêché dans le fleuve Chubut le corps sans vie de Santiago Maldonado, un jeune artisan porté disparu 80 jours plus tôt et aperçu pour la dernière fois au cours d’un affrontement entre la communauté Mapuche et les forces de sécurité de l’État.

Ces faits s’inscrivaient dans le contexte d’un conflit territorial de longue durée qui oppose les Mapuche à la multinationale Benetton. La disparition de Maldonado avait tenu en haleine la société argentine tout entière pour laquelle le terme de « disparu » évoque les victimes de la dictature civile-militaire de 1976-1983 et incité des centaines de milliers de personnes à se concentrer dans la Plaza de Mayo de la capitale argentine, au même endroit où, 40 ans plus tôt, les Mères de la Plaza de Mayo avaient commencé à effectuer leurs rondes hebdomadaires pour interpeller les autorités sur le sort des membres de leur famille.

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NoG20 Hamburg: Iniziato il processo a Fabio Vettorel. La dichiarazione resa in Tribunale da Fabio

Iniziato, al Tribunale di Altona ad Amburgo,  il processo a Fabio Vettorel, l’attivista italiano da 4 mesi in carcere. Nell’udienza di oggi Fabio ha rilasciato una dichiarazione che riportiamo. Nuova udienza il 14 novembre

Signora giudice, signori giudici popolari, signora procuratrice, signor assistente del tribunale per i minori,

Voi oggi siete chiamati a giudicare un uomo. Lo avete chiamato “aggressivo criminale” e “irrispettoso della dignità umana”. Personalmente non mi curo degli appellativi che mi attribuite. Io sono solo un ragazzo di buona volontà.

Prima di tutto vorrei dire che probabilmente i signori politicanti, i signori commissari di polizia e i signori magistrati pensano che incarcerando e arrestando qualche ragazzetto si possa fermare il dissenso nelle strade. Probabilmente lor signori pensano che le prigioni bastino a spegnere le voci ribelli che dovunque si alzano. Probabilmente lor signori pensano che la repressione fermerà la nostra sete di libertà. La nostra volontà di costruire un mondo migliore.

Ebbene, essi si illudono. Ed è la storia che dà loro torto.

Perché innumerevoli ragazzi e ragazze come me sono passati per un tribunale come questo.

Infatti oggi è Amburgo, ieri era Genova, prima ancora era Seattle.

Voi cercate di arginare le voci di rivolta che ovunque si alzano con ogni mezzo “legale”, con ogni mezzo “procedurale”.

Comunque sia, qualunque sarà la decisione di questo tribunale, essa non inciderà sulla nostra protesta. Ancora tanti ragazzi e tante ragazze, mossi dai medesimi ideali, scenderanno nelle strade d’Europa. Incuranti delle prigioni che con tanto affanno vi sforzate di riempire di detenuti politici.

Ma veniamo al dunque, signora giudice, signori giudici popolari, signora procuratrice, signor assistente del tribunale per i minori.

Veniamo al dunque.

Come potrete immaginare io oggi voglio avvalermi del mio diritto di non rilasciare dichiarazioni in merito allo specifico fatto di cui sono imputato. Tuttavia vorrei porre l’attenzione su quali siano le motivazioni che spingono un giovane operaio originario di una remota cittadina delle Prealpi orientali a venire ad Amburgo.

Per manifestare il proprio dissenso contro il vertice del G-20.

G-20. Solo il nome ha in sé qualcosa di perverso.

Venti tra uomini e donne esponenti dei venti paesi più ricchi e industrializzati del globo si siedono attorno a un tavolo. Si siedono tutti insieme per decidere il nostro futuro. Sì, ho detto bene: il nostro. Il mio, come quello di tutte le persone sedute in questa stanza oggi, come quello di altre 7 miliardi di persone che abitano questa bella Terra.

Venti uomini decidono della nostra vita e della nostra morte.

Ovviamente a questo grazioso banchetto la popolazione non è invitata. Noi non siamo che lo stupido gregge dei potenti della Terra. Succubi spettatori di questo teatro dove un pugno di uomini tengono in mano un’umanità intera.

Io, signora giudice, ho pensato molto prima di venire ad Amburgo.

Ho pensato al signor Trump e ai suoi Stati Uniti d’America che sotto la bandiera della democrazia e della libertà si ergono poliziotti del mondo intero. Ho pensato ai tanti conflitti accesi dal gigante americano in ogni angolo del pianeta. Dal Medio Oriente all’Africa. Tutti per accaparrarsi il controllo di questa o quella risorsa energetica. Poco importa se poi a morire siano sempre i soliti: civili, donne e bambini.

Ho pensato anche al signor Putin. Nuovo zar di Russia. Che nel suo paese viola sistematicamente i diritti umani e si fa beffe di qualunque opposizione.

Ho pensato ai Sauditi e ai loro regimi fondati sul terrore, con cui noi occidentali facciamo affari d’oro.

Ho pensato a Erdogan che tortura, uccide, imprigiona i suoi oppositori.

Ho pensato anche al mio paese, dove a colpi di decreti legge ogni governo cancella senza tregua i diritti di studenti e lavoratori.

Insomma, eccoli qui i protagonisti del sontuoso banchetto che si è tenuto ad Amburgo lo scorso luglio. I più grandi guerrafondai e assassini che il mondo contemporaneo conosca.

Prima di venire ad Amburgo ho pensato anche all’iniquità che flagella oggi il pianeta. Mi sembra quasi scontato infatti ribadire che l’1 % della popolazione più ricca del mondo detiene la stessa ricchezza del 99% più povero. Mi sembra quasi scontato ribadire che gli 85 uomini più ricchi del mondo detengono la stessa ricchezza del 50% della popolazione mondiale più povera. 85 uomini contro 3 miliardi e mezzo.

Queste poche cifre bastano a rendere l’idea.

E poi, signora giudice, signori giudici popolari, signora procuratrice, signor assistente del tribunale per i minori, prima di venire ad Amburgo ho pensato alla mia terra: a Feltre. Il luogo dove sono nato, dove sono cresciuto e dove voglio vivere. La cittadella medioevale è incastonata come una gemma nelle Prealpi orientali. Ho pensato alle montagne che al tramonto si tingono di rosa. Ai bellissimi paesaggi che ho la fortuna di vedere dalla finestra di casa. Alla bellezza che travolge questo luogo.

Poi ho pensato ai fiumi della mia bella valle violentati dai tanti imprenditori che vogliono le concessioni per costruire centrali idroelettriche. Incuranti dei danni alla popolazione e all’ecosistema.

Ho pensato alle montagne colpite dal turismo di massa o diventate luogo di lugubri esercitazioni militari.

Ho pensato al bellissimo posto dove vivo che sta venendo svenduto ad affaristi senza scrupoli. Esattamente come tante altre valli in ogni angolo del pianeta. Dove la bellezza viene distrutta nel nome del progresso.

Sulla scia di tutti questi pensieri ho deciso dunque di venire ad Amburgo a manifestare. Per me venire qui è stato prima un dovere che un diritto.

Ho ritenuto giusto oppormi a queste scellerate politiche che stanno spingendo il mondo verso il baratro.

Ho ritenuto giusto battermi perché qualcosa sia almeno un po’ più umano, dignitoso, equo.

Ho ritenuto giusto scendere in piazza per ribadire che la popolazione non è un gregge, e nelle scelte essa deve essere interpellata.

La scelta di venire ad Amburgo è stata una scelta di parte. La scelta di stare dalla parte di chi chiede diritti e contro chi li vuole togliere. La scelta di stare dalla parte di tutti gli oppressi del mondo e contro gli oppressori. La scelta di combattere i potenti grandi e piccoli che usano il mondo come fosse un loro gioco. Incuranti che poi a farne le spese sia sempre la popolazione.

Ho fatto la mia scelta e non ho paura se ci sarà un prezzo da pagare ingiustamente.

Tuttavia c’è anche un’altra cosa che voglio dirvi, che voi mi crediate o meno: a me la violenza non piace. Però ho degli ideali e per questi ho deciso di battermi.

Non ho finito.

In un’epoca storica in cui dovunque nel mondo si alzano nuove frontiere, si stende nuovo filo spinato, si alzano nuovi muri dalle Alpi al Mediterraneo, trovo meraviglioso che migliaia di ragazzi da ogni parte d’Europa siano disposti a scendere insieme nelle strade di un’unica città, per il proprio futuro. Contro ogni confine. Con l’unico comune intento di rendere il mondo un posto migliore di come l’abbiamo trovato.

Perché signora giudice, signori giudici popolari, signora procuratrice, signor assistente del tribunale per i minori, perché noi non siamo il gregge di venti signorotti. Siamo donne e uomini che vogliono avere il diritto di disporre delle proprie vite.

E per questo combattiamo e combatteremo.

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La Difesa di Milagro Sala: “I giudici disconoscono totalmente il diritto internazionale”

10.10.2017 – Jujuy, Argentina – Redacción Argentina

Quest’articolo è disponibile anche in: Spagnolo

La Difesa di Milagro Sala: “I giudici disconoscono totalmente il diritto internazionale”

Gli avvocati di Milagro Sala hanno fatto ricorso contro la sentenza della Corte d’Appello che ha revocato i domiciliari alla dirigente sociale.

La difesa di Milagro Sala ha fatto oggi ricorso contro la sentenza della corte d’Appello che ha revocato la detenzione ai domiciliari della deputata del Parlasur. Tra i punti cardine, sono stati rilevati la responsabilità internazionale dell’Argentina; la sentenza  violerebbe la misura cautelare dettata dalla Commissione Interamericana dei Diritti Umani (CIDH). E’ stata inoltre evidenziata una conoscenza del tutto insufficiente da parte dei giudici Néstor Hugo Paoloni, Gloria María Mercedes Portal de Albisetti ed Emilio Carlos Cattan i quali, nei fondamenti giuridici, hanno confuso la CIDH con la Corte Interamericana dei Diritti Umani (Corte IDH) che, sebbene faccia parte del sistema interamericano, possiede regole e competenze diverse; nell’analisi dei contenuti che devono essere soddisfatti per l’ottenimento della detenzione ai domiciliari, hanno ignorato il rango costituzionale dei trattati internazionali che hanno carattere sovrannazionale; hanno utilizzato un concetto errato relativo al principio di uguaglianza rispetto agli altri detenuti in custodia cautelare e, in ultimo, hanno posto in essere un altro atto persecutorio e di violazione del legittimo esercizio del diritto alla difesa, sottolineando che nessuna condanna è stata finora emessa nei confronti di Milagro Sala. A loro volta, hanno denunciato che la Corte d’Appello ha compromesso il buon esito del processo non avendo notificato alla difesa il ricorso presentato dal Pubblico Ministero e su cui hanno basato la sentenza, scartando tutte le argomentazioni degli avvocati della dirigente sociale.

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Una conversazione con Maria Rocco, una delle compagne arrestate durante le mobilitazioni contro il G20 tenutesi ad Amburgo lo scorso luglio

NoG20 Amburgo: Dal carcere Billwerder non è tutto.

FONTE LAVOROESALUTE.ORG

Pubblicato da

fabio vettorel

Riportiamo in questo articolo le riflessioni che abbiamo fatto qualche giorno fa in compagnia di Maria, del Postaz di Feltre, una delle compagne arrestate durante le mobilitazioni contro il G20 tenutesi ad Amburgo lo scorso luglio.

Questo approfondimento nasce dal fatto che abbiamo registrato un oggettivo accanimento nei confronti dei manifestanti arrestati, in particolare di quelli non tedeschi, sia da parte della polizia in piazza, sia da parte dei giudici.  Questo è stato testimoniato qualche settimana fa dalla condanna a due anni e mezzo di un attivista olandese per disturbo aggravato della quiete pubblica, avvenuta solamente sulla base di testimonianze, tra l’altro contraddittorie, da parte dei poliziotti.

Partiamo dal fatto che poche sono le informazioni a disposizione degli arrestati sulla burocrazia giuridica tedesca; l’unica cosa certa sembra essere lo svolgimento del processo entro il limite massimo di sei mesi dall’avvenuto arresto. Gli avvocati del legal team hanno più volte sostenuto che ci sono state e continuano ad esserci delle palesi violazioni dei diritti umani.

Ma andiamo con ordine e ripercorriamo le giornate di Maria dal fermo all’arresto.

Maria è stata fermata il 7 luglio alle 6.30 del mattino e condotta in container organizzati apposta per il G20; l’agglomerato di prefabbricati in cui i fermati venivano trascinati porta l’inquietante nome di GeSa.

Maria viene appunto condotta nel GeSa e non ha possibilità di incontrare il suo avvocato sino alle 23.30 del 7 luglio; in quelle ore viene negata ai fermati qualsiasi informazione che fosse loro utile per difendersi o semplicemente per capire cosa stesse accadendo.

Arrivati al GeSa ci racconta: «venivamo perquisite (lei e le altre 5 fermate che erano insieme a lei ndr), alcune di noi hanno subito anche una pesante perquisizione corporale e siamo state condotte nel nostro container con la porta blindata; nessuna finestra e solo la luce di un neon sempre accesa per non farci percepire nulla di ciò che accadeva all’esterno». Là dentro hanno aspettato il primo pasto arrivato solo la sera: «nel frattempo si poteva chiedere solo acqua e per accedere al bagno bisognava essere schedate e accompagnate con gli agenti che ci scortavano tenendoci con le braccia aperte, pronti a spezzarle al primo movimento sospetto».

Il sabato sera Maria ed altre sette ragazze sono state tradotte, dopo aver subito il processo per la convalida dell’arresto, la fotosegnalazione e la presa delle impronte, a Billwerder, il carcere di Amburgo.

Ricordiamo che lo stato di arresto, anche in questo caso, viene confermato dai giudici solo ed esclusivamente grazie alle testimonianze vocali degli agenti presenti nelle strade della cittadina tedesca durante il vertice. I giudici e l’accusa non si sono avvalsi di alcuna testimonianza video in quanto le indagini erano ancora in corso e i filmati non erano ancora stati esaminati tutti.

Nella giornata di domenica tre delle otto ragazze, ovvero le cittadine tedesche, sono state rilasciate e le altre cinque, tra cui Maria, dovranno aspettare il 14 luglio, ovvero l’udienza di ricorso in primo grado, per sperare nella liberazione.

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