Mario Agostinelli: La necessaria transizione energetica e come realizzarla. Incontro con Mimmo Perrotta e Marino Ruzzenenti

Fonte: Inchiestaonline 

 

Energia e vita

Per cominciare, è necessario spiegare perché di questi tempi è così importante riflettere sull’energia. L’energia è una proprietà che consente a un corpo o a un sistema che la possiede di fare lavoro o di dar luogo a trasformazioni energetiche a spese delle sue caratteristiche di partenza. Quando si dispone di maggiori potenze, il lavoro o la trasformazione avvengono a maggiori rapidità. È questa una delle ragioni per cui si è concentrata sulla potenza l’applicazione prevalente e sempre più devastante dell’energia alla trasformazione della natura inerte e soltanto da poco più di un secolo la scienza tratta con sempre maggior preoccupazione del rapporto tra energia e vita, tenendo conto che i cicli naturali si riproducono raggiungendo condizioni di stabilità ed equilibrio con la minore dispersione di energia. Più ancora che di un oggetto di difficile definizione, si tratta di una lente formidabile attraverso cui si può leggere il mondo – dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande – e capire come tutto sia interconnesso in forma di scambi, di relazioni, che ordinano il vivente mentre “disordinano” l’ambiente in cui sopravvive.

Dalla rivoluzione scientifica del 1600 avevamo tratto la capacità di mettere in relazione quantitativa le grandezze fisiche presenti nel nostro universo, stabilendo leggi matematiche che ritenevamo immutabili e che trasformavano la materia a velocità sempre più elevata, nella presunzione che le risorse cui si applicava il lavoro e l’energia che ottenevamo con la combustione del carbone fossero illimitate. Si profilava e attuava un mondo artificiale sempre più complesso, che circondava le città, le fabbriche, delimitava le campagne e inquinava i fiumi, concentrando sulla produzione e il commercio di manufatti la crescita e la ricchezza delle economie e delle nazioni. È il mondo che Engels scopre nella sua valle di Wuppertal, ormai costipata di manifatture avvolte da nuvole pestifere. Ma è proprio dalla seconda metà dell’800 che nascono i primi studi sistematici e i nuovi modelli per interpretare la vita come fenomeno e valore distinto, irripetibile e fragile, che andava trattato come un insieme e non semplicemente come un “ente” scomponibile o smontabile in parti complementari, giacché il tutto era superiore alla pura somma dei costituenti. L’entrata in campo della vita e delle sue relazioni indissolubili con la natura finì col togliere alle leggi fisiche newtoniane, deterministe, indipendenti dal tempo e dal contesto in cui si applicavano, il primato nel disegnare il nostro futuro e addirittura di stabilire la gerarchia che presiedeva alla politica, consegnando a un approccio interdisciplinare e non più solo specialistico la preoccupazione per la cura, per il benessere, per una giusta sopravvivenza dell’intera biosfera.

Credo che la lettura più straordinaria che sia stata data negli ultimi anni sul rapporto tra energia e vivente sia quella articolata con suggestioni penetranti nella enciclica Laudato Si’. Con essa Francesco ha prodotto una cesura con la concezione meccanicistica e determinista dell’energia ed ha contribuito a spostare il centro della discussione dall’antropocentrismo e dalla geopolitica alla cura della Terra come complesso coerentemente inscindibile. Per la prima volta un religioso – non soltanto cattolico, ma, probabilmente, unico nelle religioni – fa marciare insieme la scienza più avanzata e la religione e non le mette in rapporto gerarchico e nemmeno dialettico tra di loro. Si tratta di una lettura della realtà che ci circonda, che io non mi sarei aspettato, soprattutto da un’esegesi religiosa, anche perché interiorizza un’idea di un tempo che va immancabilmente e colpevolmente a finire, in cui il disordine provocato dall’ultima specie comparsa sul Pianeta può diventare talmente insopprimibile da mettere in discussione la riproduzione della vita. Molta ecologia già percorreva una strada parallela, ma la diffusione del negazionismo climatico non aveva ancora incontrato un pensiero che – come afferma Peter Kammerer – “ha preso le ali”.

Un altro aspetto da prendere in considerazione nella relazione tra energia e vita è quello della giustizia sociale. Sembrerebbero nozioni assai distanti, ma basta per collegarli dare una definizione all’ordine e al disordine che si crea intorno alla vita: “entropia”. Essa è la misura del grado di ordine e di informazione che si può trarre da un corpo; in natura, fatta di tanti corpi isolati nel loroambiente, l’entropia di [vivente + ambiente] tende irreversibilmente a crescere. Poiché gli esseri viventi sono dotati di un “progetto interno” che mantiene il loro ordine il più elevato possibile, prelevano energia dall’ambiente, creando in tal modo una quantità di scarti, sprechi, rifiuti che fanno crescere il degrado e il disordine complessivo. “Ogni vivente – dice Bertand Russell – è a suo modo un imperialista che cerca di appropriarsi dell’ambiente circostante”. A meno che prevalga una cooperazione, che nel mondo animale e vegetale è assai presente e che la specie umana affronta o rifiuta dandosi regole politiche e sociali. Consumare troppa energia o troppi alimenti o troppi oggetti, e lasciarne privi altri esseri, corrisponde a ridurre potenzialità di vita in base a scelte che prevedono ingiustizia sociale, come accade nel sistema capitalista, che, oltrepassando i limiti naturali, è all’origine anche dell’ingiustizia climatica.

Da solo poco più di cinquanta anni abbiamo consapevolezza di un rapporto tra energia e vita così inquietante quando se ne infrangono i limiti, per due ragioni importanti, che purtroppo non vengono ancora insegnate nelle scuole (non le hanno insegnate neanche a me, che sono un chimico-fisico): la prima riguarda le eccessive potenze (velocità trasformative) con cui si è messa al lavoro da secoli l’energia fossile; la seconda corrisponde alla sottovalutazione dell’innalzamento della temperatura della Terra, che è indice di una crescita della sua energia interna oltre l’equilibrio.

La prima consapevolezza emerge solo negli anni ’60: prima di allora, si pensava all’energia come un magazzino infinito da cui potessimo trarre infinite risorse, impiegate nella trasformazione della natura in mondo artificiale. Solo dopo la metà del Novecento i primi attenti osservatori si accorgono che la natura si consuma e che alcune materie non sono recuperabili in cicli utili, ma vanno scartate e non c’è energia conveniente per rinnovarle. Nel 1972, il Club di Roma individuò nell’uso esasperato di materie prime la possibile fine della presenza umana sulla terra. E quindi spinse per un atteggiamento sobrio rispetto in particolare ai consumi di materia. L’energia fossile con i suoi effetti climalteranti era presa in considerazione solo per la sua esauribilità.

La seconda consapevolezza si è fatta strada quando si è estesa la convinzione che la finestra energetica in cui avvengono processi di vita “salubri” è entro i limiti di due-tre gradi al massimo. E la climatologia cominciò ad avvertire, con milioni di dati alla mano raccolti giorno dopo giorno e ad ogni latitudine e longitudine, che se la temperatura media dovesse aumentare oltre 2°C, le catastrofi sarebbero superiori alle disponibilità di prevenirle e l’estinzione della specie avrebbe un orizzonte temporale di poche generazioni. Non era possibile fino ai primi decenni del Novecento, con la relatività e la quantistica ormai affermate, individuare i meccanismi microscopici che spiegano gli scambi di energia tra raggi solari e Terra, per cui si comprende che l’esistenza della vita dipende da un fatto eccezionale: che questo pianeta è circondato da un insieme minuto e differenziato di particelle che vengono colpite dalla radiazione, che con un meccanismo quantistico ne spezza le molecole oppure, nel caso della CO2 o del metano, induce vibrazioni che trasmettono movimento alle altre molecole che stanno attorno e quindi producono calore. E si comprende, infine, che se questi meccanismi microscopici producono disordine irrecuperabile la vita stessa potrebbe estinguersi. Ad esempio, basta un eccesso di CO2 perché le piante non respirino come prima. Si è cominciato quindi a parlare di bilancio di flussi energetici in atmosfera, di assorbimenti negli oceani, di permeabilità dei suoli, di assorbimento delle foreste. Da questo punto di vista è stato decisivo l’osservatorio di Mauna Loa, alle Hawaii, che dalla fine degli anni ’50 misura costantemente la CO2 nell’atmosfera e la temperatura sulla terra.

Queste due consapevolezze sono molto recenti, storicamente datate e fortemente negate dagli interessi del mondo dell’impresa e delle grandi multinazionali, assecondate da gran parte dei governanti.

 

La transizione ineludibile

Oggi a livello globale tra le fonti di energia prevale ancora nettamente la quota di fossile: ancora molto carbone e, relativamente in crescita rispetto al carbone, petrolio in forma di benzina e diesel per la mobilità e gas per le forniture elettriche. Il futuro è però sicuramente un futuro di azzeramento delle quote fossili, anche se questa prospettiva sarà frutto di aspri conflitti e di resistenza alle pressioni lobbistiche delle multinazionali attivissime in tutte le sedi internazionali (come l’attività di Eni e Snam a Bruxelles e all’interno del governo italiano denunciate da Re:Common). Sono necessari una serie di accordi internazionali, dopo quello insufficiente di Parigi 2015, con il rispetto dei quali il mix energetico si deve drasticamente spostare dal carbonio per provenire esclusivamente da fonte solare in costante equilibrio con il pianeta terra. Questa è la indicazione “da scolpire sulla pietra” assieme ad una riduzione dei consumi energetici pro capite, allineata in ogni regione del globo.

Le fonti fossili sono il lavoro fatto per milioni di anni dal sole e conservato all’interno della crosta terrestre o dei mari in forma altamente condensata, quindi con densità energetica (potere calorifico) rilevante. I giacimenti fossili sono il frutto del sequestro sottoterra o nelle rocce o nei mari – e comunque non in atmosfera – di notevoli quantità di anidride carbonica che, senza processi di equilibrio tra aria, rocce, mari e vegetazione, avrebbero reso la vita impossibile. Man mano che questi stati di carbonio in forma di complessi, cioè carbone, gas, petrolio, sono stati sequestrati e sottratti all’atmosfera attraverso processi geologici, è diminuita la quantità di CO2 che sopravviveva in parti per milione nell’aria, fino a raggiungere un equilibrio attorno a 300 parti per milione, che ha consentito la transizione decisiva verso l’evoluzione, in quanto permetteva all’assorbimento di CO2 da parte delle piante l’emissione di ossigeno e, di conseguenza, l’alimentazione della vita attraverso la respirazione. La presenza di una concentrazione di CO2 sostanzialmente costante ha dato origine all’effetto serra, dovuto a una riflessione in atmosfera della radiazione infrarossa, che ha consentito che la temperatura media del pianeta raggiungesse 15°C, da -18°C in assenza di effetto serra. Ora, però, man mano che emettiamo CO2 in eccesso – siamo nel 2021 a oltre 415 parti per milione – rischiamo di far crescere a tal punto l’effetto serra da avere una temperatura media sul pianeta che non è più completamente compatibile con la riproduzione della vita, a cominciare dai tropici e dai poli.

Si capisce perché occorra tenere sotto terra due terzi di tutto il materiale denso di energia che proviene dal carbonio fossile, sotterrato geologicamente in una successione di miliardi di anni e che la combustione potrebbe invece liberare all’istante. Per questo è indispensabile lo spostamento verso fonti di energia come acqua, vento, sole e in misura meno rilevante geotermia, che non liberano anidride carbonica. L’attenzione così si sposta dal modello di consumo al modello di produzione: non più consumo rapido di energia – non più combustione! un evento che in natura esiste solo come incidente – ma equilibri naturali e ciclo solare secondo tempi biologici di smaltimento delle scorie.

Un secondo fattore che indica l’ineluttabilità dell’abbandono dei fossili sono i costi, che aumentano costantemente rispetto a quelli delle fonti rinnovabili, che oggi sono più convenienti anche considerate nell’intero ciclo di vita. Certo, dal punto di vista dei costi le fonti fossili hanno – ma potremmo dire avevano – un vantaggio rispetto alle rinnovabili: possono essere trasportate e bruciate anche per un intero anno, mentre le rinnovabili sono intermittenti: dipendono dall’esposizione al sole (quindi solo durante le ore del giorno) o al vento (che tira bene per tre quarti dell’anno nel Baltico, per metà dell’anno nel Mediterraneo…). Questo fino a cinque anni fa faceva pendere la bilancia dei costi verso i fossili. Oggi c’è una novità, che è vista come una soluzione decisiva anche in prospettiva: la possibilità che, attraverso l’idrolisi, l’energia elettrica prodotta in eccesso e non consumata (quando magari c’è vento troppo forte o c’è un sole troppo battente o magari di notte quando l’idroelettrico viene usato come pompaggio) venga invece trasformata in idrogeno, che può essere trasportato o di nuovo riconvertito in energia elettrica. Potremmo dire che una soluzione alla sostituzione definitiva dei fossili è già alla portata anche economica: rinnovabili, in particolare eolico, e accanto a esse un sistema di approvvigionamento che possa essere poi ridistribuito e utilizzato nei momenti in cui non c’è dispacciamento diretto di energia elettrica (idrogeno, pompaggi, batterie).

L’UE in questo Next Generation Plan ha puntato quasi tutto in una direzione di questo tipo.

 

Energia e democrazia

Dal punto di vista delle politiche energetiche, questo spostamento verso le fonti rinnovabili è il colpo più duro che potesse subire la geopolitica mondiale, almeno per come l’abbiamo ereditata dalle due guerre mondiali. Mentre le fonti fossili sono ad alta densità e concentrate anche localmente, le energie rinnovabili sono dappertutto: in un deserto c’è molto sole ma non c’è l’acqua, in un fondovalle c’è molto vento e c’è poco sole, in cima ad un ghiacciaio c’è sia sole che vento che acqua condensata. Insomma, le fonti rinnovabili sono largamente disponibili, sebbene in misure e proporzioni diverse, in quasi tutte le parti del pianeta. Questo è il colpo più duro che potessero subire le corporation minerarie e le multinazionali energetiche che avevano dislocato in spazi territoriali circoscritti le loro licenze e proprietà di derivazione sostanzialmente coloniale, visto che ormai il petrolio o il gas si andavano a cercare con strutture e impianti imponenti perfino tra i ghiacci o in fondo al mare, con costi crescenti e sistemi di trasporto smisurati.

A fronte del loro declino, oggi è in corso una duplice forma di guerra. La prima è di sapore antico, militare: per procurarsi il petrolio e il gas, gli eserciti sono in continua crescita e si contendono i territori con forme di occupazione ad alto dispendio di automazione e controllo a distanza. Si noti che il terzo produttore di CO2 al mondo, se lo considerassimo come uno stato, è il settore delle armi: droni, portaerei, cacciabombardieri, missili puntati, ordigni nucleari sempre allerta su mezzi mobili. Questa enorme mole di energia degradata ora dopo ora, sprecata e irrecuperabile contraddice profondamente la possibilità invece di convivere con un’energia rinnovabile, cioè rigenerabile nei tempi della vita umana o nel susseguirsi di generazioni in tempi storici. Le armi, evidentemente, contraddicono qualsiasi principio di rinnovabilità: in un tempo il più breve possibile scaricano il massimo di energia distruttiva. Non è un caso se questo papa è andato in Iraq, dove c’è una guerra per il petrolio, per l’acqua, per l’accaparramento degli elementi naturali.

Il secondo tipo di guerra lo stanno conducendo le grandi multinazionali dei fossili, che hanno capito che dal punto di vista economico in un tempo di venti o trent’anni bisogna passare a un mix dove le fonti naturali saranno nettamente superiori rispetto ai fossili e non hanno alcuna intenzione di lasciare il campo senza combattere. Già nel 2019 e nel 2020 nel mondo si sono fatti più investimenti in rinnovabili che in tutti gli altri settori, compreso il nucleare. L’economia sembra prendere un corso diverso: in tal caso le multinazionali provano a ritardarne quanto possibile la trasformazione anche a spese di salute e clima, per poter reindirizzare tutte le riserve finanziarie del mondo fossile, che sono tutt’ora enormi, verso sistemi ancora centralizzati, proprietari, a dimensione non territoriale.

Il sistema delle rinnovabili, al contrario, è territoriale, decentrato, democratico, cooperativo, senza sprechi. Con le fonti idriche, solari ed eoliche si potrebbe organizzare la produzione di energia in autentiche comunità, che siano in comunicazione tra loro attraverso sistemi informatici e usare il criterio della sufficienza – e ce n’è, perché abbiamo una quantità di sole infinitamente superiore a quella che serve per dare vita alla terra e a tutte le forme che la popolano – mentre il resto dell’energia prodotta potrebbe essere distribuita per eliminare la povertà energetica.

Purtroppo, nell’attuale fase di transizione le grandi corporation elettriche o fossili puntano a costruire ancora grandi impianti, di potenza non distribuita, stoccata eventualmente in grandi bacini di gas, idrogeno e acqua di loro proprietà.

A Civitavecchia è in corso uno scontro chiarissimo e con i connotati sopra riportati. La sostituzione della centrale a carbone dell’Enel – a dispetto della cittadinanza e delle sue rappresentanze territoriali – viene prevista con la combustione di gas metano e un tracollo dell’occupazione anche in prospettiva, con un silenzio tombale finora di Governo e Regione. A questa soluzione, deprecata e contrastata anche dai piani di raggiungimento della neutralità climatica approvati dal Parlamento europeo, i movimenti ambientalisti e la mobilitazione dei lavoratori e della popolazione stanno contrapponendo un modello territoriale concretamente perseguibile, con vantaggi tangibili sul piano della salute, dell’occupazione, della cura del territorio. Un sistema eolico galleggiante a distanza nel mare e una rete alimentata da fotovoltaico sull’area del carbonile attuale, assistiti da stoccaggio con idrogeno, alimenterebbero la città e il territorio circostante, estendendo anche alla mobilità e al calore i benefici di un sistema pulito. A Civitavecchia si è palesato uno straordinario esempo di protagonismo del mondo del lavoro, che si è schierato per la transizione energetica: i dipendenti della centrale, appoggiati dalla Uil, dalla Camera del Lavoro, dall’Usb e dai due maggiori comitati contro i fossili della città, hanno già indetto più ore di sciopero contro il progetto sbandierato con una dose di arroganza da altri tempi dalla direzione Enel attraverso la pagina locale del Messaggero.

 

La difficile transizione nei grandi stabilimenti produttivi e il rischio del nucleare

La svolta in corso adesso non ha i tempi che i governanti vorrebbero imporre. Una parte larga della società, compresi gli studenti, si rende conto che può vivere utilizzando di fatto le fonti solari, sebbene nei luoghi di lavoro questa consapevolezza non sia ancora giunta a piena maturazione.

Certo, non c’è ancora oggi una ricerca avanzata e una tecnologia non solo sperimentale per alimentare con sistemi a fonti rinnovabili alcuni processi produttivi complessi, ad alta temperatura e che richiedono energia molto condensata: acciaierie, cementifici, certi processi chimici. Il caso tipico riguarda le acciaierie di Taranto (io sono di quelli che pensano che l’Ilva andrebbe chiusa al più presto, perché non c’è soluzione per un sistema che non dispone di investimenti e progetti in ricerca di alternative, poiché non si sono prese per tempo le precauzioni per affrontare la transizione). I modelli alternativi per un impianto di quella portata e in condizioni di crisi così impellente non sono ancora all’altezza della sfida. L’idrogeno dovrebbe svolgere un ruolo chiave nella futura decarbonizzazione dell’industria siderurgica e di altre industrie pesanti. Può essere utilizzato come materia prima, combustibile o vettore energetico e stoccaggio e ha molte possibili applicazioni. Di recente la Germania ha adottato il documento “Steel Action Concept” per la decarbonizzazione dell’industria siderurgica tedesca attraverso un aumento dell’utilizzo di energie rinnovabili e l’introduzione dell’idrogeno verde nei processi industriali. Le acciaierie di Lienz in Austria funzionano totalmente a idrogeno, con quattro idrolizzatori; è uno stabilimento davvero notevole e fa un acciaio specialissimo, tuttavia produce solo un quarantesimo di quello dell’Ilva.

Penso che, se consumi e trasporti si convertono a energie rinnovabili e, cosa altrettanto importante, l’agricoltura viene convertita ad agricoltura di vicinanza, senza ricorso ai concimi chimici, allora anche il problema delle grandi produzioni verrà affrontato con uno sforzo maggiore di ricerca e con lo straordinario apporto che può offrire la nuova generazione.

Temo che in questa fase torni una spinta al nucleare, per i grandi impianti. Il nucleare è non solo peggio dei fossili, ma è ben più devastante e irrimediabile in tempi storici. Basti pensare che il tempo di dimezzamento del plutonio è di 121.400 anni e noi ancora non sappiamo dove mettere le scorie in depositi sicuri. E, ancora, che a Fukushima si continua a versare bario e stronzio radioattivo nel Pacifico per tenere a bada la fusione dei tre reattori avvenuta 10 anni fa. Così come ritengo pericolosa l’affermazione avventata del nuovo ministro per la transizione Cingolani sulla disponibilità a dieci anni della fusione nucleare: un diversivo – temo – per non giocare a fondo il passaggio a multipli di potenza rinnovabile già nei prossimi tre anni.

Non ci sono soluzioni meramente tecnologiche, se le tecnologie cercano di risolvere i problemi lasciandone inalterata la causa.

 

Le prospettive dell’Italia

L’Italia tra le nazioni europee ha una particolare caratteristica: possiede una quota di carbone nel suo mix energetico inferiore in genere alla gran parte degli altri paesi, ma non tende a innescare, come accade ad esempio in Germania e Spagna, un processo di crescita di eolico e solare equivalente agli obiettivi a cui tende l’Europa. Eppure, la sua posizione geografica glielo consentirebbe. Negli ultimi anni vi è stato uno stallo: se nel 2007 avevamo il 24,2% di energia elettrica prodotta con fonti rinnovabili (compreso l’idroelettrico, su cui l’Italia vanta una eredità importante, grazie ai grandi impianti alpini e appenninici), nel 2014 siamo arrivati al 38,6%, ma nel 2019 la quota era scesa al 35,9%. Una vera e propria flessione, con una responsabilità politica. Dal 2011 al 2019 abbiamo mantenuto statica la quantità di energia fornita da vento, sole e acqua, mentre abbiamo aumentato la quota di gas, soprattutto in funzione di stoccaggio nel caso di black-out, lasciando del tutto inattivi i bacini di pompaggio pronti all’occorrenza. La crescita di generazione

fotovoltaica in Italia dal 2017 al 2019 è stata un quinto di quella della Germania. Inoltre, soffriamo di un forte disavanzo commerciale riguardo alle “tecnologie verdi”, perché i pannelli fotovoltaici prima prodotti, oggi sono completamente importati.

Nel nostro piano energetico nazionale (PNIEC), per raggiungere l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura media al di sotto di 1,5 gradi, noi dovremmo ridurre anno dopo anno della metà le emissioni di CO2, installando almeno 17 GW di rinnovabili, cosa del tutto improbabile se non si sblocca il meccanismo delle autorizzazioni e se il PNIEC rinuncia all’obbiettivo UE del 55% rimanendo fermo al 48%. Un problema tuttora molto acuto è quello dei trasporti: impieghiamo più energia nei trasporti che nell’industria, abbiamo il carico di auto per famiglia più alto in Europa e un parco macchine che mediamente supera i 135 grammi di CO2 di emissione per km.

Naturalmente una transizione come quella in discussione è fitta di conflitti, ma anche di imbrogli. Il più imbarazzante lo sta gestendo Eni a Ravenna, con il progetto di produrre idrogeno da una centrale a metano con sequestro della CO2 da pompare sottoterra. È un progetto non solo ambientalmente dannoso, data la pericolosità di un giacimento di anidride carbonica, ma anche assurdo, perché l’idrogeno verrebbe a caricarsi dei costi della cattura e della compressione del gas climalterante nelle falde sotterranee. Senza mettere in conto le perdite inevitabili di metano nelle condutture dell’impianto, sotto osservazione per il suo pesante effetto sull’innalzamento della temperatura terrestre.

Rispetto al governo Draghi e al nuovo ministero per la transizione ecologica non sono ottimista. Lo sarei se le associazioni ambientaliste e le rappresentanze locali avessero voce e potessero partecipare alla formulazione dei PNRR (Piani nazionali di ripresa e resilienza). Ma il fatto che la validazione avvenga attraverso McKinsey significa affidarsi a una cultura che punta esclusivamente all’efficienza in termini di come la valuta l’impresa. E qui non siamo di fronte a una contabilità aziendale e nemmeno a progetti che vengano semplicemente delegati agli accordi che Eni, Enel e Cassa Depositi e Prestiti raggiungono a livello ministeriale, nel silenzio dei cittadini e dei lavoratori.

Io non credo che il ministro Cingolani possa presumere di avere da solo la cultura sufficiente per affrontare questo passaggio. Occorre svolgere un dibattito pubblico, accessibile e informato, ma di ciò finora non si ha notizia alcuna. Nemmeno a Civitavecchia, dove la transizione energetica è all’ordine del giorno. Penso che, per quanto riguarda l’ecologia integrale, la tecnologia, che spesso diventa tecnocrazia, prenda il problema per la coda anziché per la testa: è il nostro modo di produrre e consumare che va radicalmente cambiato. A Cingolani proporrei di partire da una attenta considerazione della  Laudato Si’.

Curdi in Italia in solidarietà con Mimmo Lucano

FONTE ANFDEUTCH

La comunità curda in Italia mostra solidarietà a Mimmo Lucano. L’ex sindaco di Riace è stato condannato a oltre 13 anni di carcere per aver fornito case abbandonate ai migranti.

La comunità curda in Italia esprime vicinanza e solidarietà all’ex sindaco di Riace. Mimmo Lucano è un simbolo della cultura dell’accoglienza, della solidarietà e dell’integrazione sociale, secondo una dichiarazione pubblicata sabato dal centro di informazione curdo sulla condanna del politico. Lucano, vincitore del Premio per la pace di Dresda del 2017, è stato condannato giovedì a 13 anni e due mesi di reclusione per abuso d’ufficio, formazione di organizzazione criminale e favoreggiamento all’immigrazione clandestina, nonché per truffa, concussione e falso di documenti. Con il loro verdetto, i giudici sono andati ben oltre la richiesta dell’accusa, che aveva chiesto quasi otto anni di carcere.

Lucano è stato sindaco del piccolo comune della costa meridionale calabrese dal 2004 al 2018 e aveva fornito case abbandonate di residenti emigrati a centinaia di migranti nel remoto quartiere di Riace Borgo nell’entroterra collinare. Il Kurdish Information Center in Italia riporta: “Lucano nasce nel 1998 con un gruppo di 200 curdi che fuggivano dalla guerra dello stato turco contro il popolo curdo e dalla dura repressione del regime di Ankara sulla costa erano sbarcati. Ha aperto le case abbandonate nella città di Riace e accolto profughi curdi a cui erano stati negati i diritti e le libertà più elementari per ripristinare la loro dignità umana e avviare così la rinascita di un’area segnata dalla povertà.

È sempre stato vicino al popolo curdo e non ha mai esitato a schierarsi contro il regime autoritario della Turchia e per la libertà del nostro popolo, come è avvenuto di recente con l’attacco al modello del confederalismo democratico in Rojava. Esprimiamo la nostra solidarietà a Mimmo e siamo certi che il suo caso si risolverà positivamente e verrà riconosciuto il valore del suo progetto di integrazione e solidarietà tra i popoli».

Lucano e la sua squadra di difesa hanno parlato di un “incidente inaudito” dopo l’annuncio del verdetto e hanno annunciato che avrebbero presentato ricorso. I legali di Lucano avevano sostenuto che l’ex sindaco era “ontologicamente incapace” di arricchirsi a scapito di altri, se non altro per il proprio vantaggio politico.

 

Comunicato dei e delle docenti di discipline giuridiche degli Atenei italiani a seguito della sentenza di condanna nei confronti di Mimmo Lucano

Fonte ADIR L’altro Diritto

La sentenza di primo grado che condanna Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, a 13 anni e 2 mesi interroga il nostro senso di giustizia.

Da giuristi e giuriste, e studiosi e studiose del diritto e delle istituzioni, attendiamo, prima di ogni valutazione nel merito, di leggere le motivazioni della sentenza e con fiducia pensiamo ai successivi gradi di giudizio come a momenti in cui maggiore chiarezza potrà essere fatta.

Sin da subito, però, non possiamo esimerci dal sottolineare come il Tribunale di Locri abbia ritenuto, per i reati di associazione, truffa sulle erogazioni pubbliche e di peculato, ai cui singoli episodi è stata riconosciuta la continuazione, di applicare una pena estremamente elevata, a fronte di uno stimato danno erariale di meno di 800.000 euro di cui è stato comunque imposto il risarcimento. La sentenza irroga di conseguenza un ammontare complessivo di pena che raramente è stato disposto per reati analoghi anche in procedimenti in cui il vantaggio ingiusto era ben più consistente e rivolto a finalità ben più individualistiche di quelle attribuite a Mimmo Lucano. Basti pensare alle condanne inflitte, nell’ambito del cosiddetto processo “Mafia capitale”, poi diventato “Mondo di mezzo”, a Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, che pur relative a sedici episodi corruttivi, sette di turbativa d’asta, uno di traffico di influenze illecite e uno di trasferimento fraudolento di valori, sono state di gravità inferiore a quella stabilita per l’ex sindaco di Riace.

Questo lascia spazio a dubbi, stupore, e al timore legittimo di un accanimento verso un uomo e una vicenda divenuti simbolo di una visione dell’accoglienza in Italia mirata alla costruzione di percorsi inclusivi effettivi e non alla burocratica osservanza dei protocolli ministeriali.

Ci meraviglia in particolare il fatto che il collegio non abbia ritenuto di applicare alcuna attenuante. Dichiariamo la nostra preoccupazione per un clima di ostilità che si respira a volte anche nelle aule giudiziarie nei confronti di chi, a vario titolo e in vari contesti, appartiene al mondo che esprime fattivamente solidarietà alle persone migranti, e la volontà di monitorare con tutti gli strumenti a nostra disposizione le fasi successive del procedimento aperto nei confronti di Mimmo Lucano.

Primi firmatari:

Emilio Santoro, Università di Firenze; Alessandra Sciurba, Università di Palermo; Aldo Schiavello, Università di Palermo; Perla Allegri, Università di Torino; Salvatore Amato, Università di Catania; Adalgiso Amendola, Università di Salerno; Alberto Andronico, Università di Catania; Luca Baccelli, Università di Camerino; Adriano Ballarini, Università di Macerata; Mauro Barberis, Università di Trieste; Clelia Bartoli, Università di Palermo; Viviana Battaglia, Università di Palermo; Barbara Giovanna Bello, Università di Milano Statale; Francesco Belvisi, Università di Modena e Reggio Emilia; Maria Giulia Bernardini, Università di Ferrara; Francesco Biondo, Università di Palermo; Giovanni Bisogni, Università di Salerno; Cecilia Blengino, Università di Torino; Silvio Bologna, Università di Palermo; Silvia Borelli, Università di Ferrara; Marco Borraccetti, Università di Bologna; Carlo Botrugno, Università di Firenze; Maria Borrello, Università di Torino; Marco Brigaglia, Università di Palermo; Raffaella Brighi, Università di Bologna; Gianvito Brindisi, Università della Campania Luigi Vanvitelli; Enrico Camilleri, Università di Palermo; Roberto Cammarata, Università di Milano Statale; Giuseppe Campesi, Università di Bari Aldo Moro; Damiano Canale, Università Bocconi; Carlo Caprioglio, Università di Roma tre; Cinzia Carta, Università di Genova; Thomas Casadei, Università di Modena e Reggio Emilia; Bruno Celano, Università di Palermo; Paola Chiarella, UMG – Università Magna Graecia di Catanzaro; William Chiaromonte, Università di Firenze; Daniela Chinnici, Università di Palermo; Fabio Ciaramelli Università di Napoli Federico II; Luigi Cinquemani, Università di Palermo; Sofia Ciuffoletti, Università di Firenze; Paolo Comanducci, Università di Genova; Luigi Cominelli, Università di Milano La Statale; Elena Consiglio, Università di Palermo; Fabio Corigliano, Università di Parma; Cecilia Corsi, Università di Firenze; Lucia Corso, Università di Enna Unikore; Giovanni Cosi, Università di Siena; Marco Cossutta, Università di Trieste; Rosaria Crupi, Università di Palermo; Paolo Cuttitta, IDPS, Université Sorbonne Paris-Nord; Roberta Dameno, Università di Milano Bicocca; Teresa Degenhardt, Queen’s University Belfast; Alessandro De Giorgi, San Jose State University; Luciana De Grazia, Università di Palermo; Cinzia De Marco, Università di Palermo; Francesco De Vanna Università di Modena e Reggio Emilia; Giuseppe Di Chiara, Università di Palermo; Alberto di Martino, Università Sant’Anna di Pisa; Chiara Di Stasio, Università di Brescia; Madia D’Onghia, Università di Foggia; Giulia Fabini, Università di Bologna; Alessandra Facchi Università di Milano La Statale; Isabel Fanlo Cortès, Università di Genova; Carla Faralli, Università di Bologna; Simona Feci, Università di Palermo; Luigi Ferrajoli, Università Roma tre; Maria Rosaria Ferrarese, Università di Cagliari; Vicenzo Ferrari Università di Milano La Statale; Valeria Ferraris, Università di Torino; Giovanni Fiandaca, Università di Palermo; Nicola Fiorita, Università della Calabria; Micaela Frulli, Università di Firenze; Giovanni Galasso, Università di Palermo; Orsetta Giolo, Università di Ferrara; Valeria Giordano, Università di Salerno; Tommaso Greco, Università di Pisa; Guido Gorgoni, Università di Padova; Riccardo Guastini, Università di Genova; Paolo Heritier, Università di Torino; Giulio Itzcovich, Università di Brescia; Anna Jellamo, Università della Calabria; Giulia Maria Labriola, Università Suor Orsola Benincasa; Marina Lalatta Costerbosa, Università di Bologna; Agostino Ennio La Scala, Università di Palermo; Nicola Lettieri, Università del Sannio; Carlo Lottieri Università di Verona; Claudio Luzzati, Università di Milano Statale; Francesca Malzani, Università di Brescia; Letizia Mancini, Università di Milano Statale; Massimo Mancini, Università di Perugia; Alessio Lo Giudice, Università di Messina; Fabio Macioce, Università di Roma Tor Vergata; Francesco Mancuso, Università di Salerno; Giorgio Maniaci, Università di Palermo; Marco Manno, Università di Palermo; Elisa Marchi, Università dell’Arizona; Leonardo Marchettoni, Università di Parma; Costanza Margiotta, Università di Padova; Realino Marra Università di Genova; Federico Martelloni, Università di Bologna; Luca Masera, Università di Brescia; Silvio Mazzarese, Università di Palermo; Michelina Masia, Università di Cagliari; Fabrizio Mastromartino, Università di Roma tre; Tecla Mazzarese, Università di Brescia; Giulia Melani, Università di Firenze; Dario Mellossi Università di Bologna; Ferdinando Menga, Università della Campania Luigi Vanvitelli; Giovanni Messina, Università di Napoli Federico II; Lorenzo Milazzo, Università di Pisa; Bruno Montanari, Università di Catania; Lalage Mormile, Università di Palermo; Luca Nivarra, Università di Palermo; Valeria Nuzzo, Università della Campania Luigi Vanvitelli; Francesco Pallante, Università di Torino; Giuseppa Palmeri, Università di Palermo; Giuseppe Palmisano, Università Roma tre; Letizia Palumbo, Università Ca Foscari di Venezia; Lina Panella, Università di Messina; Luigi Pannarale, Università di Bari Aldo Moro; Baldassare Pastore, Università di Ferrara Francesco Parisi, Università di Palermo; Paola Parolari, Università di Brescia; Davide Petrini, Università di Torino; Stefano Pietropaoli, Università di Firenze; Cesare Pinelli, Università di Roma La Sapienza; Anna Pintore, Università di Cagliari; Attilio Pisanò, Università del Salento; Tamar Pitch, Università di Perugia; Valerio Pocar, Università di Milano Bicocca; Francesca Poggi, Università di Milano; Ulderico Pomarici, Università della Campania Luigi Vanvitelli; Daniel Pomier, Università di Roma La Sapienza; Andrea Porciello, UMG – Università Magna Graecia di Catanzaro; Franco Prina, Università di Torino; Alessandro Purpura, Università di Palermo; Susanna Pozzolo, Università di Brescia; Isabella Quadrelli, Università di Urbino Carlo Bo; Marco Ragusa, Università di Palermo; Maura Ranieri Università Magna Graecia di Catanzaro; Vincenzo Rapone, Università di Napoli Federico II; Adrian Renteria Diaz, Università dell’Insubria; Giovan Battista Ratti, Università di Genova; Maria Cristina Reale, Università dell’Insubria; Maria Cristina Redondo, Università di Genova; Antonio Riccio, Università di Cassino e del Lazio Meridionale; Alessandro Riccobono, Università di Palermo; Francesco Riccobono, Università di Napoli Federico II; Enrica Rigo, Università Roma tre; Matteo Rinaldini, Università di Modena e Reggio Emilia; Eugenio Ripepe, Università di Pisa; Nicola Riva, Università di Milano Statale; Graziella Romeo, Università di Milano Bocconi; Daniela Ronco, Università di Torino; Paola Ronfani, Università di Milano Statale; Annamaria Rufino, Università della Campania Luigi Vanvitelli; Vincenzo Ruggiero, Middlesex University; Filippo Ruschi, Università di Firenze; Angelo Salento, Università del Salento; Giovanna Savorani, Università di Genova; Pier Francesco Savona, Università di Napoli Federico II; Caterina Scaccianoce, Università di Palermo; Vincenzo Scalia, Università di Firenze; Francesca Scamardella, Università di Napoli Federico II; Alberto Scerbo, UMG – Università Magna Graecia di Catanzaro; Angelo Schillaci, Università di Roma La Sapienza; Laura Scudieri, Università di Genova; Iacopo Senatori, Università di Modena e Reggio Emilia; M. Ausilia Simonelli, Università del Molise; Stefano Simonetta, Università di Milano Statale; Guido Smorto, Università di Palermo; Stefania Spada, Università di Bologna; Eleonora Spaventa, Università di Milano Bocconi; Ciro Tarantino, Università della Calabria; Gianluca Urbisaglia, Università di Roma La Sapienza; Alfredo Terrasi, Università di Palermo; Persio Tincani, Università di Bergamo; Giovanni Torrente, Università di Torino; Enza Maria Tramontana, Università di Palermo; Isabel Trujillo, Università di Palermo; Vito Velluzzi, Università di Milano Statale; Maria Carmela Venuti, Università di Palermo; Valeria Verdolini Università di Milano Bicocca; Massimiliano Verga, Università di Milano Bicocca; Susanna Vezzadini, Università di Bologna; Francesca Vianello, Università di Padova; Gloria Viarengo Università di Genova; Giacomo Viggiani, Università di Brescia; Francesco Viola, Emerito, Università di Palermo; Maria Virgilio Università di Bologna; Ermanno Vitale, Università della Val D’Aosta; Massimo Vogliotti, Università del Piemonte Orientale; Giuseppe Zaccaria Università di Padova; Loriana Zanuttigh, Università di Brescia; MatiJa Zgur, Università di Roma tre; Silvia Zullo, Università di Bologna

Tre economiste innovatrici

Autrice- Fiorella Carollo

Fonte : Pressenza.com 

Oggi nel mondo sono in atto degli esperimenti a livello politico ed economico che avrebbero bisogno della massima attenzione e considerazione. Da una parte la ragione per cui non hanno ricevuto la dovuta attenzione è da imputarsi all’interesse di mantenere lo status quo, dall’altra mi chiedo se la ragione non sia perché hanno come protagoniste delle donne, da una parte le economiste e dall’altra le politiche. Le tre economiste in oggetto sono Esther Duflo, Julia Steinberger e Kate Rawhorth i fatti in oggetto sono: il 20 aprile 2020 la sindaca di Amsterdam stringe un accordo con l’economista Kate Raworth per conformare le nuove politiche economiche a quelle dell’economista britannica. L’altro fatto è in corso da quattro anni in Nuova Zelanda da quando nel 2016 è stata eletta la prima ministra Jacinda Ardern, la più giovane prima ministra mai nominata nel mondo, la quale ha dichiarato che le politiche e i bilanci della Nuova Zelanda non si sarebbero più uniformate al principio della crescita economica ma bensì ad assicurarsi il benessere nella qualità della vita dei suoi cittadini. Se questi due esperimenti dovessero funzionare cioè se fra qualche anno i dati raccolti dimostreranno che effettivamente le emissioni di CO2 sono diminuite in Olanda e questo non ha comportato alcuna recessione economica e che in Nuova Zelanda l’economia sia riuscita a “prosperare senza crescita” beh a quel punto i sostenitori della crescita a oltranza avrebbero dei dati su cui riflettere.

Da quando ho pubblicato il mio libro “Extinction Rebellion e la rivoluzione ambientale”1 ne parlo con le persone e ho notato che quando affronto criticamente l’argomento “economia” le persone reagiscono come se toccassi una vacca sacra. Mi rendo conto che molti hanno paura di perdere i privilegi e il benessere economico che hanno grazie all’economia, a questa economia. Personalmente, sono d’accordo con quanti dicono che l’economia è troppo importante per lasciarla solo agli economisti. Non dobbiamo sentirci impotenti perché non siamo laureate in economia! Quello che è importante è usare il proprio buon senso e documentarsi costantemente, diventare cittadine partecipi del nostro sistema democratico.

Alla fin fine penso che molto si riduca alla necessità di educare le persone ad una nuova prospettiva sociale, di stimolare il dibattito su un’economia più giusta per tutti, sulla necessità di reclamare un sistema economico diverso che pone al centro non più gli interessi del 1% della popolazione mondiale ma bensì la salute, l’interesse di tutti. Alle persone che temono una economia diversa perché temono di perdere i loro privilegi, dico loro che un’economia che mette in primis il benessere di tutti i cittadini e la loro salute, che vuole tutelare i lavoratori nella transizione alle energie rinnovabili e che vuole rispettare l’ambiente, significherà vivere in una società dove le tensioni sociali, la violenza, la povertà, il crimine saranno alquanto ridimensionate se non scomparse e questo inevitabilmente porterà una qualità di vita migliore per tutti. Allora forse questo è uno scambio che può essere equo per quelle persone benestanti che hanno timore di guardare a un’economia diversa da quella neoliberista.

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Canada: la rete per i diritti dei migranti mira a unire migranti e lavoratori

Pubblicato il 3 gennaio 2019
Di Zaid Noorsumar

Fonte : Rankandfile.ca

Trentacinque organizzazioni in tutto il Canada si sono coalizzate per formare la rete per i diritti dei migranti il 18 dicembre, la Giornata internazionale dei migranti. L’alleanza mira a lottare per i diritti dei migranti e combattere l’ondata crescente di razzismo nel paese.

Unifor, Migrant Centre Resource Center Canada e No One is Illegal sono tra i membri della coalizione, che è composta prevalentemente da gruppi per i diritti dei migranti e organizzazioni sindacali.

Una piattaforma antirazzista e “educazione popolare”
Syed Hussan, coordinatore della Migrant Network Alliance for Change, ha detto che la rete lancerà una piattaforma in vista delle elezioni federali del 2019 sui principi dell’anticapitalismo, dell’antirazzismo e della giustizia dei migranti.

“Daremo un messaggio chiaro, coerente, forte ai partiti politici che non permetteremo loro di manipolare ulteriormente e dividerli come un modo per ottenere voti”, ha detto Hussan, citando il tono sempre più nativista del partito conservatore e l’estrema destra

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Il Brasile dopo l’omicidio di Marielle Franco – Intervista a Giuseppe Cocco

Fonte Effimera.org

Il Brasile dopo l’omicidio di Marielle Franco – Intervista a Giuseppe Cocco

Ringraziamo Giuseppe Orlandini per la traduzione dal portoghese.

Cosa significa in termini politici l’esecuzione della consigliera di Rio de Janeiro Marielle Franco?

In base a ciò che è stato scoperto dalle prime investigazioni, ci sono sufficienti elementi per dire che non è stata solo “una” esecuzione, ma una esecuzione politica, un attentato. Si tratta di una esecuzione la cui dimensione politica ha almeno tre elementi: il primo è che Marielle era una militante del PSOL (Partito Socialismo e Libertá, una dissidenza di sinistra del PT, creato nel 2004), in particolare del PSOL di Rio; il secondo è che Marielle era espressione di una generazione di “giovani poveri, neri e nere di favela” che hanno cominciato a fare politica in prima persona, autonomamente; il terzo è che l’omicidio avviene nell’ambito dell’intervento federale a Rio, decretato dal presidente Temer.

Com’è ovvio, ci sono molti altri elementi, ma per un primo approccio penso sia necessario ordinarli a partire da qui.

1)     Marielle era del PSOL di Rio de Janeiro. Il PSOL di Rio è stato capace di uscire dal ghetto nel quale si trova il PSOL nazionale e costituirsi come una forza elettorale con peso e consistenza. É importante comprendere come il PSOL di Rio abbia ottenuto questo ruolo da protagonista, in termini sia di attivismo che elettorali. Senza pretendere di essere esaustivo, credo ci siano tre principali spiegazioni: il PSOL a Rio è diventata l’unica opposizione al consorzio politico-mafioso comandato a livello federale dal PT e a livello fluminense e carioca dai compari del PMDB: se a livello nazionale il marketing lulista riusciva a non rendere esplicite le negoziazioni infami alle quali si associava (quando non le promuoveva), a Rio tutto questo è evidente perlomeno dal 2010.

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Rio: assassinata la consigliera che doveva monitorare l’intervento militare

fonte Pressenza.com

16.03.2018 Mariano Quiroga

Quest’articolo è disponibile anche in: Spagnolo

Rio: assassinata la consigliera che doveva monitorare l’intervento militare

 

Se l’assassinio di leader indigeni nell’Amazzonia brasiliana è direttamente collegato alla polizia, a Rio de Janeiro, uno Stato sotto intervento militare, l’assassinio della consigliera municipale Marielle Franco congela il sangue.

La dirigente del  PSOL (piccolo partito di sinistra particolarmente impegnato sui diritti umani, N.d.T.), 38 anni, stava lavorando nelle favelas e aveva denunciato l’escalation di violenza in quei territori, sostenendo che sarebbe diventata più complicata con l’intervento militare.

Nelle prime ore del mattino si sono moltiplicati gli appelli a manifestare l’indignazione per il crimine e denunciare il “genocidio nero” di cui è vittima la popolazione più povera del Brasile. Azioni di protesta sono previste anche a Belo Horizonte e San Paolo.

Franco era entrata nel Consiglio comunale di Rio alle elezioni del 2016 come quinto consigliere comunale più votato, con 46.000 voti. Le bande di narcotrafficanti e le milizie di vigilantes avevano ammazzato circa 20 candidati a sindaco o consigliere a Rio prima delle elezioni di quell’anno.

La città aveva vissuto un’escalation di corruzione e violenza legata all’organizzazione dei Mondiali di calcio e poi delle Olimpiadi. Questo è stato fatto con  il violento spostamento di interi quartieri poveri finalizzato alla liberazione di spazi commerciali per i ricchi e i vips.

Due settimane fa, Marielle Franco aveva assunto il ruolo di relatrice della commissione della Camera dei consiglieri di Rio, che doveva monitorare le azioni delle truppe incaricate dell’intervento militare decretato da Temer, una misura senza precedenti dal ritorno alla democrazia nel 1985.

“Le operazioni di polizia nelle favelas e nelle aree emarginate generalmente causano aumenti significativi di sparatorie e morti”, nota un rapporto di Amnesty International, che a sua volta elenca le uccisioni della polizia nelle favelas nel 2017.

Amnesty denuncia inoltre il sovraffollamento delle carceri, le loro condizioni “subumane” e una chiara discriminazione, poiché il 64% dei detenuti è di origine africana.

Marielle Franco aveva postato su Twitter un commento sull’omicidio di un giovane mentre usciva chiesa di Jacarezinho: “Quanti altri dovranno morire perché questa guerra finisca?”.

Traduzione dallo spagnolo: traduttori Pressenza

“Gli economisti non sanno più contare”: intervista a Christian Marazzi

Dietro la modesta ripresa economica interrotta dal susseguirsi di flash crash dei mercati finanziari, si nasconde l’incapacità dei modelli economici dominanti di leggere la realtà. Sullo sfondo, la svolta autoritaria del neoliberismo

Dopo un lungo periodo di relativa stabilità dei mercati finanziari a inizio febbraio si sono manifestate delle nuove turbolenze. Sono state fornite diverse spiegazioni contrastanti sull’origine di questo flash crash. I più pessimisti parlano dell’inizio di una nuova ondata di crisi, altri dicono che è il risultato di una ‘eccesiva autonomia’ degli algoritmi che controllano oltre il 60% delle transazioni nelle borse mondiali e sono capaci di determinare vere e proprie profezie auto-avveranti, altri analisti invece – e questo è il dato più interessante – spiegano la volatilità dei mercati con la ripresa dei salari in Usa e con l’accordo salariale che l’IG Metal ha raggiunto in Germania. Ne abbiamo parlato con Christian Marazzi, economista, docente presso la Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana. Continua a leggere ““Gli economisti non sanno più contare”: intervista a Christian Marazzi”

Lula, Dilma, Brasile: la Torre di Babele

 FONTE PRESSENZA.COM 

29.01.2018 Redazione Italia

Lula, Dilma, Brasile: la Torre di Babele

… e mi dice: stai attento, ti fanno fuori dal gioco se non hai niente da offrire al mercato

(Edoardo Bennato)

Racconterò a seguire sulla prassi giuridica usata per distruggere due personaggi di cui do per scontato che se ne conosca la traiettoria umana e politica. Racconterò di come il pubblico ministero travisi e manipoli le norme legali vigenti per dimostrare le sue tesi nate da supposizioni e illazioni di natura esclusivamente politica. Racconterò la connessione spuria tra la grande stampa e la magistratura, sulle fughe di notizie che questa stessa magistratura fornisce alla grande stampa per creare un clima favorevole alle azioni intraprese e da intraprendere. Racconterò di come il giudice responsabile per la fuga di notizie, non viene punito, sospeso, né impedito in qualche modo di proseguire il processo. Racconterò che lo stesso giudice e il pubblico ministero, con il processo ancora in corso, partecipano a convegni, programmi di televisione, conferenze stampa in cui dichiarano la loro posizione riguardo all’imputato, alla sua storia di vita, tessendo commenti e esternando opinioni sulla sua moralità e il suo carattere. Racconterò che durante l’andamento del processo la moglie del giudice apre una pagina facebook in cui divulga le opinioni del marito sul processo stesso, gli imputati, i condannati. Racconterò che il giudice, in compagnia del pubblico ministero assiste, sacchetto di popcorn alla mano, alla prima del film sulla azione giuridica da lui diretta: un film prodotto dalla Rede Globo, la più grande impresa di telecomunicazione delle Americhe, da sempre nemica dichiarata dell’imputato e del suo partito. Racconterò che questo stesso giudice si dirige regolarmente al Wiston Center, per riferire al padrone l’andamento del processo. Racconterò che se in passato la scusa che il padrone usava per intervenire militarmente in america Latina era la paura del comunismo; se negli anni 80 e 90 era la guerra alla droga, spiegherò e dimostrerò – con i dati alla mano – che oggi il grande spauracchio è la “corruzione” del mondo politico: racconterò del golpe in Honduras; la distruzione economica del Venezuela; la manipolazione dei dati economici del Cile da parte della Banca Mundiale per favorire l’elezione di Sebastian Piñeira; le accuse contro Cristina Kirchner per impedirne l’elezione al senato argentino. Racconterò che la lotta alla corruzione ha distrutto tutte le imprese statali brasiliane, quelle legate all’industria navale, sidrurgica, edile, le opere di infrastruttura pubblica. Racconterò che la lotta alla corruzione ha permesso e giustificato la vendita del nostro petrolio nazionalizzato a imprese private internazionali. Racconterò di un processo-farsa, ripudiato da giuristi di fama mondiale e che sarà denunciato alla commissione dei diritti umani dell’ONU: un processo durato nove ore in cui i tre giudici di appello avevano già deciso e dichiarato in precedenza il loro voto e nel quale si sono limitati a elogiare e giustificare la sentenza anteriore di primo grado. Racconterò che il capo di gabinetto della presidente del tribunale organizza una sottoscrizione pubblica per chiedere (alla stesso presidente) la condanna esemplare dell’imputato. Racconterò della simultaneità di procedimenti politico-giuridici apparentemente indipendenti tra loro – ma collocati sullo stesso piano e avvenuti allo stesso tempo – e di come hanno coinvolto gli stessi personaggi legando le sorti dell’uno all’altro: l’impeachment della Presidente della Repubblica e il processo al più importante uomo politico della storia del paese. Continua a leggere “Lula, Dilma, Brasile: la Torre di Babele”

L’EMERGENZA DELLA MISERIA E LA MISERIA DELLA POLITICA

 

di Ivana FABRIS – Coordinatrice Nazionale Responsabile Movimento Essere Sinistra MovES

 

La miseria continua a crescere nel nostro paese.
La Caritas denuncia che solo a Roma i nuovi poveri sono 16.000, ALTRE 16.000 persone finite in strada.

Tra questi, anziani e bambini e tanti bambini con disabilità e ad essere colpito è soprattutto quel ceto medio composto da diplomati che mai avrebbe pensato solo pochi anni fa di subire questa sorte.

Persone assolutamente inserite nel tessuto sociale che sono finite così, in particolar modo per la perdita dell’occupazione.
Gli anziani a rischio, sempre solo a Roma, sono 1 su 3.
Per non parlare del precariato che equivale a vivere sulla porta della miseria assoluta.

Il dato più agghiacciante è quello dell’emergenza abitativa, una piaga cancrenosa che ha colpito tutta Italia ma che particolarmente a Roma è drammatica.
Sono circa 30.000 le famiglie coinvolte.
A Roma gli sfratti sono di circa 7-8000 l’anno.
Le richieste di casa popolare, circa 10.000.
L’offerta circa 1000.

 

Ma la miseria di chi è diventato povero è unicamente riconducibile alla miseria di un sistema politico che, pur definendosi di sinistra anticapitalista e antiliberista, continua e continuerà a NON farsi carico del problema.

 
Anche questa è di fatto un’emergenza, viste le condizioni del paese.
La miseria della classe politica rappresenta perciò l’altra faccia della medagli dell’emergenza. Continua a leggere “L’EMERGENZA DELLA MISERIA E LA MISERIA DELLA POLITICA”

Chi vota a sinistra aiuta la destra? Macché

fonte striscia rossa.it

Il Pd ha scelto di condurre la campagna elettorale per il voto del 4 marzo puntando sostanzialmente su due messaggi. Il primo racconta che nel favoloso mondo italiano va tutto bene, c’è lavoro e c’è benessere, grazie al governo Renzi e a quello Gentiloni (Letta, in castigo): ce lo dicono ogni giorno i volti dem mandati in tv a commentare ogni piccolo dato economico che abbia il segno più.
Il secondo racconta invece che per non far vincere gli altri (ma come, con una legge elettorale così bislacca?) c’è bisogno di fare scelte chiare, di non disperdere i voti, e insomma bisogna votare per il partito più grande perché chi vota a sinistra del Pd favorisce di volta in volta Berlusconi o Salvini e Meloni oppure Di Maio.

Sul primo messaggio qualunque bravo appassionato di comunicazione può spiegare a Renzi e ai suoi che raccontare un paese che non c’è è un madornale errore che può avere l’effetto contrario di quello che si vorrebbe. Perché se è vero che le cose vanno un po’ meglio (e un po’lo dice, con la sua tranquillizzante flemma, persino il presidente del Consiglio) c’è però ancora tanto da fare. E, per chi vive ancora con seri problemi sulle spalle – basti pensare a quei giovani sfruttati che lavorano per qualche centinaio di euro al mese e finiscono in blocco nel milione di posti creati da Renzi – sentirsi dire che stiamo tutti bene non deve essere così piacevole e forse può provocare anche un po’ di irritazione.

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Un anno di Daspo urbano

 fonte dinamopress

Un primo bilancio sull’applicazione delle misure sulla sicurezza urbana di Minniti che stanno trasformando le città italiane in luoghi di controllo ed espulsione per i poveri. Spianando la strada all’estrema destra

Il 31 Dicembre alcuni importanti quotidiani italiani hanno riportato i dati diffusi dal Viminale su migranti e sicurezza. Si tratta soprattutto di dati su accoglienza ed espulsioni che è possibile trovare sul sito del Viminale. Sul versante sicurezza sia Repubblica che Il Sole 24 Ore hanno riportato lo stesso laconico righino «i dati del ministero dell’Interno dicono che il Daspo urbano è stato adottato quest’anno in 465 casi, era già in vigore in 270, per un totale di 735» un dato che però non è stato possibile riscontrare sul sito del Viminale.

Si tratta di un’informazione difficile da interpretare poiché il Daspo urbano, tecnicamente, non esiste. “Daspo urbano” è un termine giornalistico utilizzato per spiegare le nuove misure introdotte dal Decreto legge del 20 febbraio 2017, ( D.L. 14/2017 ) meglio noto come Decreto Minniti.

Le nuove “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città” hanno introdotto nell’ordinamento italiano nuovi provvedimenti amministrativi di polizia: l’ordine di allontanamento, di competenza delle forze dell’ordine, e due diverse tipologie di divieto di accesso, emanate dal questore.

L’ordine di allontanamento, detto anche “mini-Daspo” è un provvedimento amministrativo preventivo-cautelare e può essere imposto da tutti gli appartenenti alle forze dell’ordine anche prive della qualifica di agente di pubblica sicurezza. L’allontanamento della durata di 48 ore può essere così impartito anche dagli appartenenti alle Polizie locali e deve limitarsi a vietare la circolazione o lo stazionamento in una zona ben delimitata.

Il Divieto di Accesso Urbano (c.d. D.AC.UR.) è ciò a cui generalmente ci si riferisce con la dicitura “Daspo urbano”. Si tratta di un divieto di accesso della durata di sei mesi, che può estendersi sino ai due anni nel caso in cui il destinatario non abbia una fedina penale immacolata. Il divieto di accesso viene emanato dal questore nel caso di «reiterazione delle condotte che impediscono l’accessibilità e la fruizione di infrastrutture urbane», e può essere emanato relativamente ad una o più aree, le quali devono essere espressamente specificate e dunque precedentemente individuate attraverso una delibera comunale. Considerando che molti capoluoghi hanno deliberato solo recentissimamente sulle zone “a rischio Daspo” e che molti non lo hanno ancora fatto, si può affermare senza grossi dubbi che il reale impatto di queste misure sui territori è ancora tutto da verificare. Continua a leggere “Un anno di Daspo urbano”

Governo dell’homelessness: dichiarare guerra ai poveri in nome del “decoro” e della “sicurezza urbana” – di Daniela Leonardi

FONTE EFFIMERA 

Autrice : Daniela Leonardi 

Con l’abbassamento delle temperature, l’inverno ormai alle porte, i media riscoprono come di consueto l’esistenza delle persone senza dimora. Questa stagione è iniziata, contrariamente al solito, con articoli diversi dal racconto del pericolo di vita per chi è costretto a dormire all’aperto. Verso fine novembre abbiamo letto la notizia dell’applicazione del Daspo Urbano – previsto dal decreto Minniti-Orlando, convertito nella legge 48 del 2017 – comminato a una decina di persone homeless nella città di Bologna. Con la loro presenza queste persone  avrebbero ostacolato il passaggio dei pedoni; sono state, quindi, forzatamente costrette ad andarsene in nome del decoro e della sicurezza urbana. Cosa si intende per sicurezza urbana? «Per sicurezza urbana si intende il bene pubblico che afferisce alla vivibilità e al decoro delle città, da perseguire anche attraverso interventi di riqualificazione e recupero delle aree, l’eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale, la prevenzione della criminalità, la promozione del rispetto della legalità e l’affermazione di più elevati livelli di coesione sociale e convivenza civile». Continua a leggere “Governo dell’homelessness: dichiarare guerra ai poveri in nome del “decoro” e della “sicurezza urbana” – di Daniela Leonardi”

Aldo Tortorella: Perché crescono i neofascismi

FONTE INCHIESTAONLINE

| 19 dicembre 2017 | Comments (0)

 

 

Diffondiamo da www.patriaindipendente.it del 13 dicembre 2017 .Parla Aldo Tortorella intervistato da Gianfranco  Pagliarulo,  Dal rancore sociale il desiderio dell’”uomo forte” e il brodo di coltura del radicalismo di destra. Una nuova generazione senza avvenire. Il rapporto tra tirannide e arretratezza italiana. La violenza arma essenziale del fascismo vecchio e nuovo. Il pericolo nero oggi nel mondo

Aldo Tortorella Classe 1926, partigiano, giornalista, filosofo, parlamentare, dirigente comunista, prestigioso intellettuale. Una delle personalità più qualificate per interrogarsi sul fenomeno neofascista. Aldo Tortorella era ancora studente quando entrò nella Resistenza a Milano. Responsabile con Gillo Pontecorvo degli studenti antifascisti Tortorella, originario di Napoli, si era trasferito a Genova alla fine del 1944 (dopo una rocambolesca evasione, travestito da donna, dall’Ospedale militare milanese dove era ristretto), per riorganizzarvi, col nome di battaglia di “Alessio”, le fila del Fronte della Gioventù. “Alessio” organizza nel capoluogo ligure la propaganda e la lotta armata. Quando, il 25 aprile, l’Unità non più clandestina annuncia la Liberazione, è un ragazzo di 19 anni il redattore capo dell’edizione ligure del giornale del Partito comunista. Nella redazione di Genova Tortorella resta sino al 1957. Tra una missione nella Jugoslavia di Tito e un’altra nella Polonia di Gomulka, passando da Budapest appena “normalizzata” dalla repressione sovietica, Tortorella non trascura gli studi filosofici e nel 1956 si laurea con Antonio Banfi  con una tesi sul “concetto di libertà in Spinoza”. È del 1957 il trasferimento a Milano, dove subentra a Davide Lajolo nella direzione de l’Unità. In seguito diverrà segretario della Federazione milanese del Pci e poi del Comitato regionale lombardo. Direttore de l’Unità dal 1970 al 1975, nel 1971 Tortorella è eletto per la prima volta deputato. Confermato sino al 1994, è stato responsabile della politica culturale del PCI durante la segreteria di Enrico Berlinguer e anche di quella delle “questioni dello Stato” con Alessandro Natta, col quale si oppose – insieme a Pietro Ingrao – alla “svolta della Bolognina” di Achille Occhetto. Esce dal Pds nel 1999 in dissenso con la scelta del governo di centro-sinistra di partecipare alle azioni militari contra la Serbia durante la crisi del Kosovo. Aldo Tortorella è presidente onorario dell’Associazione per il rinnovamento della sinistra, da lui fondata insieme a Giuseppe Chiarante e altri alla fine degli anni 90, e direttore di Critica marxista.

Sembrerebbe che oggi, diversamente da quanto avveniva – per esempio – agli anni Settanta, alcune formazioni neofasciste godano di un consenso sociale non particolarmente elevato, ma in costante crescita, tant’è che riescono ad eleggere una rappresentanza in vari Comuni, da Bolzano a Todi, da Lucca ad Arezzo a tanti altri. E ad Ostia, com’è noto, CasaPound ha ottenuto un significativo risultato elettorale. C’è il rischio della formazione di una base sociale più o meno estesa a sostegno di queste formazioni politiche?

Certo. Il pericolo è più che evidente. La crisi economica unitamente alla perdita di competitività con la moneta unica (cioè con la fine delle ‘svalutazioni competitive’) ha generato molti danni sociali. È stata persa quasi il 30% della manifattura. Molte piccole e medie aziende sono state spazzate via. Ciò ha determinato direttamente e indirettamente la rovina di molti, l’impoverimento del ceto medio, l’aggravamento della disoccupazione già pesante per le nuove tecnologie sostitutive di lavoro umano. Le forze maggioritarie della sinistra non hanno capito quello che succedeva e hanno riposto tutte le loro speranze nella linea economica neoliberista gestendola dal governo o non combattendola dall’opposizione. L’esempio fu Blair in Inghilterra e Clinton negli stati Uniti con i loro imitatori italiani e di altri paesi. In tutto il mondo sviluppato ciò ha generato zone di comprensibile rancore di quanti erano (e sono) a disagio o alla disperazione. Un rancore che si è rivolto contro l’establishment moderato (cioè contro i gruppi politici dirigenti) entro cui la sinistra maggioritaria si era venuta collocando. Logicamente ci si è rivolti altrove, e soprattutto a chi sembrava esterno al sistema di potere e portatore di una soluzione altra da quella discreditata. Ha pesantemente influito, in Italia, l’antica campagna antipartitica purtroppo alimentata da forme di corruzione endemica. L’imprenditore “che dà lavoro” è divenuto una figura di riferimento, quasi eroica. Il politico che “sa solo chiacchierare” e che in taluni casi viene scoperto a rubare o ad approfittare del suo ruolo diventa il nemico. Lo stesso metodo democratico fatto di diversità e di contrasto di opinioni diventa poco comprensibile, poi fastidioso, poi non più tollerato.
Prendono piede le apparenti soluzioni semplici. “Mandiamoli tutti a casa” si trasforma facilmente in volontà di governo forte e di “uomo forte”. Inoltre prende facile avvio anche la rivalutazione del passato fascista: facevano le bonifiche delle paludi, facevano le case popolari, eccetera. E si ignora che il fascismo ha promosso la più grande strage del secolo passato con la guerra mondiale, la morte di milioni di italiani, la rovina totale del Paese. E ancora adesso siamo un Paese occupato da basi straniere con relative bombe atomiche. Una propaganda costante non contrastata ha diffuso una idea orribile della Resistenza esasperando alcuni episodi tacendo sulla barbarie nazista e fascista. Naturalmente, su questa realtà intervengono settori del capitale che investono in questi gruppi considerati strumenti di riserva da usare in caso di bisogno e comunque tali da spostare a destra l’asse politico.

Un’organizzazione giovanile neofascista, “Azione studentesca”, ha vinto le elezioni della Consulta provinciale degli studenti di Firenze (a Firenze!). Il nuovo presidente della Consulta è un rappresentante di questa organizzazione. Peraltro nel mondo dell’associazionismo in generale le formazioni neofasciste sono sempre più presenti. Costa sta succedendo fra le giovani generazioni?

Non posso rispondere sul caso di Firenze che non conosco altro che per le sommarie cronache dei giornali. Mi pare che si debba distinguere sempre tra votanti e votati e anche tra capi e seguaci. Leggo che l’associazione di destra ha portato avanti rivendicazioni capaci interessare molti. Leggo anche che farebbero propaganda parlando delle foibe triestine ad opera degli jugoslavi di Tito. Queste furono una infamia senza possibili giustificazioni. Ma temo che non ci sia nessuno che ha informato quei giovani delle infamie compiute dai fascisti contro gli sloveni.
Comunque, parlando in generale, le giovani generazioni sono le più penalizzate dalla situazione che ho richiamato prima. Le cifre della disoccupazione giovanile sono note. Ed è noto che il lavoro precario, mal pagato, privo di tutele e garanzie prevale tra il giovani. Non c’è avvenire e non c’è speranza. Tra i giovani può avanzare l’ideologia che dice: il socialismo è fallito, la democrazia è fallita, facciamo piazza pulita, imbocchiamo una strada nuova tutta nostra. Solo i gruppi dirigenti ideologizzati sanno che la strada nuova è quella vecchia. Ciò che viene presentato ai giovani su cui si punta per farne dei quadri delle formazioni neofasciste è un misto di nazionalismo razzista (l’Italia umiliata dalla sinistra succube, le aziende italiane vendute agli stranieri, gli italiani sommersi dagli immigrati ecc) e di rivoluzionarismo di pseudo sinistra (contro l’americanismo, confusione tra governo Netanyahu ed ebrei, misure di socialità ecc). Ezra Pound fu tipico di questa ideologia: pensando di essere un rivoluzionario antiborghese coprì le più atroci infamie naziste e fasciste.

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Ira e non rancore rassegnato  nei cortei Cgil del lavoro

  FONTE STRISCIAROSSA.IT

2 DICEMBRE 2017

 

È questo il popolo del “rancore sociale” di cui parla il Censis? Lo abbiamo visto attraverso i collegamenti video di “Radio articolo 1” nelle piazze del 2 dicembre di Roma, Torino, Bari, Palermo, Cagliari. C’è però in quei cortei che hanno risposto all’appello della Cgil non un rancore quasi rassegnato, ma, semmai, una serena, meditata, fredda collera sociale. E’ già un miracolo che siano in tanti presenti. Perché non provengono più da grandi insediamenti industriali. Provengono da un mondo del lavoro frammentato. Dentro una società dove molti che stanno sugli spalti tifano come se fossero a una partita di calcio, per una lotta tra giovani e anziani, tra pensionati e donne e uomini che avranno pensioni da fame, tra esodati e posti fissi, tra tutele niente affatto crescenti e tutele ignorate, tra immigrati e nativi. Spesso vittime del miraggio di un Jobs Act che doveva assicurare un mondo nuovo.

 

 

 

 

 

 

 

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À Londres, la compagnie américaine Uber en fin de course

FONTE SOLIDAIRE 
Les mobilisations anti-Uber ne datent pas d’aujourd’hui. Ici, une manifestation des taxis londoniens contre Uber le 11 juin 2014.
 

MIGLIAIA DI ARMI “PERSE” DAI PEACEKEEPERS

RAPPORTO SMALL ARMS SURVEY

Fucili, pistole, mortai, mitragliatrici e lanciagranate. Sono migliaia le armi “perdute” negli ultimi 24 anni dalle tante missioni di pace che hanno operato nel continente. Lo rivela un rapporto, secondo il quale le perdite reali potrebbero essere anche molto maggiori.

di Bruna Sironi

 

La scioccante notizia emerge da una ricerca dell’organizzazione internazionale Small Arms Survey, che si occupa del monitoraggio della diffusione delle armi leggere, ed è pubblicata nel rapporto “Making a Tough Job More Difficult” (Rendere un lavoro duro ancora più difficile). Infatti le armi “perse” finiscono poi per essere usate contro i legittimi possessori e contro i civili che dovrebbero proteggere.

La ricerca si è occupata delle missioni di pace a partire dal 1993 ad oggi, dopo la fine della guerra fredda che ha di fatto determinato il proliferare dei conflitti locali e perciò delle missioni di peacekeeping, condotte dall’Onu, da altre coalizioni o organizzazioni – come l’Unione africana che opera in Somalia con l’operazione Amisom -, o miste Onu e Unione africana – come l’Unamid che lavora in Darfur -, e ancora l’Ecowas che nei paesi dell’Africa Occidentale ha agito in Sierra Leone.

I ricercatori hanno trovato che in almeno una ventina di queste operazioni si sono verificate perdite di armi. E non solo armi leggere, come fucili e pistole, ma anche armi pesanti come mortai, mitragliatrici e lanciagranate, che possono cambiare l’esito di una battaglia. Il direttore della ricerca, Eric Berman, ha dichiarato in un’intervista ad Al Jazeera che sono andate perse “migliaia di armi e milioni di cartuccere”.

La maggior parte si è verificata in missioni che hanno operato, o ancora operano, nell’Africa sub-sahariana e in particolare in Congo, Somalia, Sudan, Burundi, Costa d’Avorio, Sierra Leone, Mali e nella Repubblica Centrafricana. Talvolta le perdite non erano evitabili, perché i peacekeeper sono caduti in imboscate o sono stati sopraffatti in altri modi, ma molto più spesso hanno consegnato le armi piuttosto che difendersi e rischiare di rimanere vittime in uno scontro armato. Continua a leggere “MIGLIAIA DI ARMI “PERSE” DAI PEACEKEEPERS”

Joseph Stiglitz: «Non si esce dalla crisi senza politica redistributiva della ricchezza»

Una diagnosi spietata e assai colta sulle cause della diseguaglianza nel mondo ma anche una constatazione di impotenza verso lo strapotere delle multinazionali, verso la globalizzazione e verso l’avanzare della tecnologia, fonte della prima delle diseguaglianze: la disoccupazione.

Dunque una sorta di funerale, se mai ce ne fosse bisogno, delle politiche del welfare, unica cura possibile per frenare la diseguaglianza, divenuta d’altronde un arma che i governi preferiscono non usare malgrado, sono in molti a ricordarlo, sia stata la cura che sanato il capitalismo mondiale dopo la crisi del ‘29.

IL TEMA  oggetto della conferenza organizzata dall’Istituto Cattaneo di Bologna è tra i più drammatici della nostra epoca perché si presenta in modo violento sia tra Nord e Sud del mondo, sia all’interno dei paesi dell’occidente. E viene ben sintetizzato da un’ormai nota analisi di Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia e professore alla Columbia University: «L’1 per cento della popolazione controlla il 90 per cento della ricchezza mondiale».

Sul palco della tavola rotonda assieme a Stiglitz, ci sono Romano Prodi, l’economista Paolo Onofri, l’ex presidente dell’Istat Enrico Giovannini, Robereto Tonini di Bankitalia e Marco Mira D’Ercole dell’Ocse.

A FUSTIGARE IL LIBERISMO  imperante ci pensa proprio Stiglitz. Il premio Nobel non ha dubbi a proposito della crisi: «Non usciremo dalla depressione se non ci sarà una vera politica redistributiva che passi anche attraverso la tassazione delle rendite. Da questo punto di vista il ruolo dello Stato è cruciale. La cosa drammatica è che in un epoca di finanziarizzazione dell’economia mondiale e una globalizzazione spinta, le politiche economiche, uniche in grado di gestire una redistribuzione della ricchezza, sono impotenti di fronte alla crisi, i capitali si spostano con rapidità e fuggono dalle politiche dei governi. Non solo. I privati in alcuni casi preferiscono la diseguaglianza perché per loro un basso salario si traduce in minori costi».

ANCHE ROMANO PRODI  non è tenero nella sua analisi: «Io non sono uno specialista di statistica ma conosco la storia e mi risulta che le diseguaglianze siano create dalle pestilenze e dalle guerre. Questa è la realtà. Soltanto nel secondo dopoguerra le diseguaglianze si sono attenuate ma quella era un’eccezione. Negli anni successivi i divari sono cresciuti in modo impressionante. Io credo che ci sarebbe bisogno di un organismo mondiale in grado di redistribuire le risorse ma da questo punto di vista sono tutt’altro che ottimista. Le difficoltà che si incontrano ad esempio nel tassare le nuove multinazionali come Google e Apple sono significative. Comunque penso che spetti alla politica, ai governi invertire questo trend. Ma non mi pare che ci siano progetti credibili» (Prodi si è astenuto dal dare un giudizio sul Jobs Act). Non è tutto nero. La Cassa Depositi e Prestiti ha ad esempio dei progetti interessanti in materia di welfare ma la vera difficoltà, come hanno detto altri è che la mobilità dei capitali si sottrae ad ogni tipo di redistribuzione attraverso il fisco».

ENRICO GIOVANNINI , volendo, è stato ancora più severo nella diagnosi dello stato di salute del mercato del lavoro: «Le diseguaglianze non sono soltanto tra generazioni ma all’interno delle stesse generazioni. La cosa che più preoccupa è che non c’è una visione d’insieme per farci uscire da questo trend. Anzi, mentre noi discutiamo su come ricostruire una politica del welfare in Inghilterra si celebra la Brexit e negli Stati Uniti c’è Donald Trump».

Anche Roberto Torrini di Bankitalia ha denunciato l’inadeguatezza del Welfare e ha bocciato le politiche economiche dei governi europei ma anche lui ha partecipato alle onoranza funebri del welfare sostenendo che sotto accusa non è l’alibi della globalizzazione ma le scelte dei governi.

QUANDO  nelle domande che hanno concesso alla stampa abbiamo sottolineato un po’ provocatoriamente che il dibattito per quanto interessante faceva emergere un impotenza latente in tutti gli interventi Romano Prodi con un sorriso ha alzato le braccia come per dire: «Non possiamo farci nulla».

*** LA LAUREA HONORIS CAUSA AL POLITECNICO DELLE MARCHE

Joseph Stiglitz ha «aperto un nuovo campo d’indagine economica» che «si studierà al posto di quella tradizionale e cerca di risolvere i problemi della gente». Sono le motivazioni della laurea honoris causa attribuita dall’Università Politecnica delle Marche al premio Nobel per l’Economia nel 2001. Le ha pronunciate l’economista Mauro Gallegati. Stiglitz ha tenuto una lectio sulle diseguaglianze prodotte dal capitalismo Usa: «un modello economico che ha fallito».

FONTE:  Bruno Perini,   IL MANIFESTO

Crollo Spd, Merkel si salva  La destra vince  sul terreno della sinistra

FONTE STRISCIAROSSA.IT  CHE RINGRAZIAMO

La CDU di Angela Merkel crolla di 8 punti, la SPD precipita nel disastro, col peggior risultato da quando esiste la Repubblica federale, e l’estrema destra di Alternative für Deutschland diventa il terzo partito della Germania e porta nel Bundestag il vento dell’intolleranza e del risentimento, con un risultato che cambia radicalmente lo scenario politico del paese più importante d’Europa. Dalle urne tedesche esce un panorama pieno di incognite e con due sole certezze. La prima è che la groβe Koalition è finita. Lo ha certificato, tre minuti dopo il primo exit-poll, la Ministerpräsidentin socialdemocratica del Meclemburgo Manuela Scheswig, impietosamente spedita in tv a commentare risultati che nelle ultime ore s’era capito sempre più che sarebbero stati disastrosi. All’alleanza degli elefanti con la CDU/CSU la SPD ha sacrificato troppo: non solo programmi ed elettori ma anche la propria anima. Quando Martin Schulz lo ha confermato alla folla che si era raccolta nella Willy-Brandt-Haus la depressione generale s’è sciolta in un’esplosione di applausi. Parevano abbastanza incongrui, considerato il miserevole 20,8% che in quel momento le prime proiezioni indicavano sugli schermi, ma dicevano una cosa chiara: si torna all’opposizione. Con un sentimento di liberazione che era quasi fisicamente percepibile.


La seconda certezza è che c’è una sola coalizione che, spazzata via dal tavolo l’alleanza tra i due partiti (nonostante tutto) più grandi, ciò che è uscito dalle urne rende numericamente possibile. E’ la cosiddetta “coalizione Jamaica” formata dai tre colori della bandiera di quel paese: il nero di CDU/CSU, il giallo dei liberali e il verde dei Verdi. I liberali della FDP tornano nel Bundestag, dopo quattro anni di astinenza perché nel 2013 avevano mancato la soglia fatidica del 5%, e tornano con un buon risultato, intorno al 10%. I Verdi, intorno al 9%, hanno riguadagnato un po’ di quel che avevano perso quattro anni fa.

In queste ore tutti dànno per scontato che si dovrà cominciare da qua. Ma appare un’impresa titanica: i programmi dei liberali e dei Verdi sono uno l’opposto dell’altro in materia economica e sociale. La FDP vuole un radicale abbattimento delle tasse, un’ulteriore flessibilizzazione del mercato del lavoro, sostegni alle imprese e alle esportazioni, una politica europea molto meno accomodante verso i paesi dal debito alto; i Grünen propongono una supertassa sui redditi più alti, misure contro la povertà, più apertura verso l’integrazione europea e misure di condivisione del debito. E dopo la svolta a destra imposta al partito dai nuovi dirigenti liberali capitanati da Christian Lindner neanche delle antiche consonanze sul terreno dei diritti civili c’è più traccia. Pure sul problema dell’accoglienza si capisce già che il dialogo sarà molto difficile. La segretaria generale della FDP Nikola Beer ha già annunciato che il suo partito vuole nuove norme per regolare il diritto di asilo. E che indirizzo dovrebbero avere

L’ARTICOLO SEGUE ALLA FONTE SU STRISCIAROSSA.IT

 

Il prezzo sociale ed economico del “low cost”

Il prezzo sociale ed economico del “low cost”
di Silvano Toppi

fonte AREA7.CH 

L’economia vive di modelli. Costruzioni matematiche con cui si semplifica la realtà rilevandone gli aspetti più importanti, sia per interpretare e rappresentare i fenomeni economici, sia per prevederne l’andamento futuro. Sono teorie, alle volte premiate con il Nobel, già origine di disastri perché la realtà risulterà un’altra. Ci sono però modelli economici, imposti e incarnati nella realtà quotidiana, dati per scontati o utili, all’origine invece di scelleratezze.

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Grenfell tower: una tragedia rivelatrice del neoliberismo criminale – di Salvatore Palidda

FONTE EFFIMERA

Grenfell tower: una tragedia rivelatrice del neoliberismo criminale – di Salvatore Palidda

Anche sul numero dei morti non hanno smesso di falsare l’informazione:  per giorni hanno detto che erano 15 o 17 poi 30. Tecnici e vigili del fuoco sono stati messi a tacere: sapevano da subito che i morti in quell’inferno sono stati oltre 100 e forse molti di più. Il governo e la sua capa, sig.ra May, hanno cercato di minimizzare la tragedia giustificando così la loro totale mancanza di pronto intervento e cercando così di nasconderne le cause. Tutti gli aspetti e le diverse immagini di tale tragedia, sin dall’inizio, meritano una particolare lettura perché sono assai rivelatori di cosa sono diventati Londra, il Regno Unito, più o meno al pari di altre città e paesi. In tutta questa terribile vicenda Victor Hugo potrebbe ritrovarci materia per riscrivere una versione “postmoderna” dell’L’uomo che ride. La becera indifferenza di una classe dominante ignobilmente avida, sempre più stupida e criminale che però è salvata dalla furba regina. Continua a leggere “Grenfell tower: una tragedia rivelatrice del neoliberismo criminale – di Salvatore Palidda”

IDENTIKIT AMERICANO NEL PAESE DEGLI HOMELESS

Identikit americano nel paese degli homeless

di SANDRO MEZZADRA.

La povertà ha assunto negli ultimi anni negli Stati Uniti dimensioni e caratteristiche per molti versi inedite. La figura del senza tetto, dell’homeless, le riassume nel modo più efficace, per quel che riguarda la sua crescita esponenziale, certo, ma anche per il tipo di visibilità che ha assunto in molte metropoli e per le relazioni che intrattiene con le istituzioni – a partire da quelle repressive sempre più presenti nella sua quotidianità

Quello degli homeless è ormai «un popolo nel popolo», scrive Elisabetta Grande nel suo Guai ai poveri. La faccia triste dell’America (edizioni Gruppo Abele, pp. 172, euro 14): non solo perché ha effettivamente assunto la consistenza quantitativa di un «popolo», ma anche nel senso che un insieme di dispositivi politici, giuridici e culturali – sapientemente orchestrati quantomeno a partire dalla prima presidenza di Ronald Reagan – ha finito per separare la figura inquietante e minacciosa del povero estremo dall’insieme della popolazione statunitense, scardinando le basi di quell’empatia che aveva pur caratterizzato altre fasi storiche, come il New Deal (nonostante la persistente discriminazione nei confronti degli afroamericani) e gli anni della «guerra alla povertà» di Lyndon Johnson. Continua a leggere “IDENTIKIT AMERICANO NEL PAESE DEGLI HOMELESS”