Fonte Volerelaluna che ringraziamo
Autore :Riccardo Barbero
C’è stato un tempo nel secolo scorso, ormai lontano, nel quale gli esponenti più qualificati della sinistra politica e sindacale italiana si presentavano ai convegni e agli incontri portando sottobraccio un fascio di giornali di tutte le tendenze: il primo di essi, che fungeva da cartellina contenente tutti gli altri, era immancabilmente il Corriere della Sera. C’era forse un po’ di snobismo in quell’atteggiamento, ma sicuramente c’era anche il riconoscimento che gli editorialisti di quella testata della buona borghesia meneghina sapevano rappresentare e illustrare il punto di vista del capitalismo italiano. L’autorevolezza del giornale era data, agli occhi dei leader della sinistra, dall’autorevolezza di un capitalismo nazionale che, dopo il disastro del fascismo e della guerra, era riuscito a promuovere una forte crescita economica, seppur a fronte di gravi sacrifici sociali imposti ai lavoratori.
Se ci si arma di pazienza e soprattutto di senso dello humour, può essere interessante leggere anche oggi, rigorosamente on line, gli editoriali attuali dell’eterno Corriere della Sera. I tempi sono diversi: la situazione economica e soprattutto produttiva del nostro paese non è più quella di un tempo, anche perché, come sappiamo, il quadro internazionale ed europeo è profondamente cambiato in questo nuovo secolo. Proprio in questi giorni è lo stesso Corriere a informarci che tra le 306 imprese del Paese con un fatturato superiore al miliardo di euro, le prime tre (Enel, Eni, Gse) con un giro d’affari ciascuna di oltre 100 miliardi, sono a controllo pubblico e la quarta (Edison) con solo (…) 30 miliardi di fatturato è a controllo francese. Di seguito vengono altre importanti industrie, in origine sia pubbliche sia private, che sono state cedute a capitali esteri: le poche rimaste italiane nella proprietà hanno provveduto a stabilire all’estero la loro sede legale e, soprattutto, quella fiscale. Il Corriere commenta amaramente il confronto con la Germania, altra e maggiore economia industriale europea: le prime dieci società tedesche, infatti, fatturano da sole quanto le prime 306 imprese italiane. Dunque, il capitalismo industriale privato italiano si è molto ristretto in questi ultimi decenni; gli unici imprenditori che fanno parlare di sé sono i vari Briatore, Garnero-Santanchè oppure i balneari, i taxisti, gli agricoltori con i loro trattori e così via. Forse a causa di questa carenza strutturale, gli editorialisti del Corriere appaiono incerti e incredibilmente confusi.
Un tempo, in politica interna, predicavano un “sano” centrismo; oggi, tra le righe, provano ancora, ma con meno convinzione, a consigliare moderazione (…) sia a Schlein, sia a Meloni: la prima dovrebbe abbandonare il rapporto col Movimento 5Stelle e la seconda dovrebbe contenere le intemperanze dei suoi Fratelli più nostalgici e di Salvini. Ma poi inciampano nei fatti che accadono veramente e la loro pretesa coerenza va a farsi benedire: in Sardegna la coalizione Pd-M5S vince per poche centinaia di voti le elezioni regionali e gli editorialisti del Corriere suggeriscono alla “sinistra” di apprezzare quel sistema maggioritario, drogato da un abnorme premio di maggioranza per la coalizione vincente (a fronte di un astensionismo elevatissimo) e di accettare, quindi, come buone, seppur migliorabili, le proposte presidenzialiste di modifica costituzionale della destra.
In politica estera il Corriere è sempre stato ferreamente atlantista e non poteva essere diversamente: oggi, però, la Nato appare in crisi, sia perché gli Usa sembrano dirottare il loro interesse militare prevalente sul Pacifico nel confronto con la Cina, a maggior ragione nel caso di una futura seconda presidenza Trump, sia perché gli stessi membri dell’Alleanza si muovono in ordine sparso e spesso contraddittorio di fronte alla guerra in Ucraina e a quella in Palestina. Ecco allora che gli editorialisti del Corriere fanno buon viso a cattiva sorte e supportano, sulla scia di Mario Draghi, la necessità di una forte (e costosa) difesa comune europea; intanto il Regno Unito, la Francia, la Polonia, la Germania e di seguito tutti gli altri si muovono, invece, su questo tema in ordine sparso: perciò gli articoli di fondo finiscono per accettare e per proporre più modestamente accordi bilaterali di difesa comune con l’Ucraina.
Ai tempi della guerra fredda, che ha contrapposto la Nato e il Patto di Varsavia, il Corriere si considerava un baluardo anticomunista, pur dovendo in qualche modo fare i conti in Italia con il maggiore partito comunista occidentale: due anni fa, quando la Russia di Putin ha invaso l’Ucraina, il vecchio spirito dei bei tempi passati è felicemente risorto. Lo scontro tra la Nato e la potenza atomica russa, tra due paesi governati entrambi da oligarchie capitalistiche, nazionaliste, autoritarie e corrotte, è stato letto dal Corriere – ma in questo caso in larga e indifferenziata compagnia con molti altri anche di sponde opposte – come una riedizione delle buone vecchie battaglie di un tempo tra la democrazia liberale e il comunismo. E naturalmente, tra i lettori del prestigioso giornale, qualcuno ci è anche cascato; qualche giorno fa, infatti, in una lettera al giornale un lettore militante così si è espresso a proposito di Putin: «È stato e continua ad essere nella mentalità, negli strumenti e nella repressione della libertà un vero comunista». La risposta, tra il rassegnato e il reticente, di Aldo Cazzullo al fedele lettore è paradigmatica: «[Putin] non è fascista e non è comunista; è un frutto malato del tempo che ci è dato in sorte».
Secondo Angelo Panebianco, invece, la vera malattia di questi tempi è il torpore delle opinioni pubbliche dei paesi dell’Occidente e prova, perciò, a fare una stima: «Un sondaggio ben fatto, probabilmente, mostrerebbe che non più del cinque, massimo dieci per cento, delle opinioni pubbliche si rende conto della gravità della congiuntura storica in cui ci troviamo». E quindi la democrazia da difendere in che cosa consisterebbe?Nell’imporre in qualche modo il punto di vista di quel cinque o dieci per cento che, come il lettore militante di cui sopra, ha le idee più chiare e comunque convergenti con gli autorevoli editorialisti del Corriere? Secondo Panebianco «non possiamo ignorare il fatto che una parte dell’Europa, magari con l’Italia in testa, sarebbe pronta, se le cose si mettessero davvero male in Ucraina, a innalzare un cartello con sopra scritto “meglio putiniani che morti”». Poco oltre, non manca di sottolineare, contradditoriamente, che la minaccia nucleare della Russia non può essere sottovalutata: meglio morti che putiniani, dunque? Qualche settimana fa Ernesto Galli della Loggia l’ha detto più esplicitamente, invitando gli europei e gli italiani a fare i conti concretamente con la possibilità di entrare in guerra.
Ma i veri nemici degli autorevoli editorialisti del Corriere, più ancora che Putin, più dei terroristi di Hamas o degli enigmatici cinesi, sono i pacifisti locali: «Le minoranze politicizzate anti-occidentali: quelli che “è tutta colpa della Nato”, quelli che “le cosiddette democrazie occidentali sono in realtà dittature asservite al capitale finanziario”, quelli che disprezzano Zelensky, quelli per i quali la parola “pace” e la parola “resa” sono sinonimi. Quelli, insomma, che amplificano la propaganda anti-occidentale di Putin. Anche le ampie simpatie per Hamas si spiegano con la diffusa presenza di sentimenti anti-occidentali», secondo Panebianco.
Su questo tema della critica, in particolare, ai giovani occidentali che non si sentono fortemente orgogliosi e riconoscenti di esserlo, il vero specialista è, però, Federico Rampini, anche in forza della sua profonda autocritica di essere stato di “sinistra”: un grave peccato di gioventù, come l’ha definito lui stesso. Se nelle università americane i giovani prendono le distanze dalla politica aggressiva della Nato, se denunciano le stragi di palestinesi, messe in atto da Israele, per vendicare l’assalto di Hamas del 7 ottobre dell’anno scorso, allora per Rampini essi abdicano al ruolo egemone dell’Occidente e spianano la strada al prevalere delle dittature orientali. La delusione per lui è forse ancora più forte, proprio perché è diventato cittadino americano, magari anche per costruire un fossato invalicabile con i suoi peccati di giovane europeo e peggio ancora di italiano: anche negli Usa oggi si trova di fronte a quelle posizioni per lui rinunciatarie e ingrate verso la civiltà occidentale. Ma come sempre implacabilmente i fatti accadono e talvolta contraddicono speranze e illusioni anche dei più autorevoli commentatori: così infilando i pollici nelle sue sgargianti bretelle colorate, prendendo atto che la guerra in Ucraina sta andando male, che gli ulteriori aiuti americani sembrano non arrivare, che la proposta di Macron di intervenire direttamente nel conflitto non ha raccolto nessuna adesione né dalla Nato, né dagli altri paesi europei, Rampini “detta” le condizioni per un armistizio: concessioni territoriali alla Russia in cambio dell’avvio di un lungo e non facile – a detta sua – percorso di adesione dell’Ucraina alla Nato “europeizzata” e all’Unione europea. Ecco, dunque, si concretizza proprio il rischio evidenziato da Panebianco: «Le opinioni pubbliche, man mano che si aggrava la congiuntura internazionale, potrebbero passare repentinamente dalla incomprensione alla paura e dalla paura al desiderio di saltare sul carro del vincitore». E tuttavia questo accade all’interno dello stesso giornale….
Ancora più complessa è la situazione in Palestina: dopo lo sdegno iniziale per l’azione di Hamas, gli editorialisti del Corriere si aspettavano un intervento chirurgico dell’esercito israeliano che liquidasse la presenza dell’organizzazione palestinese. Anche in questo caso i fatti sono andati diversamente: sono passati cinque mesi, sono morti 30 mila palestinesi, quasi tutti civili, e ancora la maggioranza degli ostaggi catturati da Hamas non è stata liberata. Il consenso, che inizialmente il Governo israeliano di estrema destra aveva raccolto tra le cancellerie occidentali, si è progressivamente sfilacciato. Sulla vicenda palestinese il Corriere ha scelto prudentemente di non approfondire, limitandosi a stigmatizzare le manifestazioni filopalestinesi dei soliti giovani occidentali irriconoscenti verso l’occidente democratico e liberale. Ernesto Galli della Loggia è andato, però, oltre traendo come conclusione dal conflitto in Gaza l’impraticabilità dell’obiettivo dei due Stati, sul quale tutta la diplomazia internazionale si era fin qui almeno formalmente accordata. Tuttavia, non ha esplicitato neanche l’alternativa, che non potrebbe essere altro che il superamento della concezione teocratica dello Stato di Israele, la sua “democratizzazione” con l’inserimento dei palestinesi come cittadini con pari diritti politici e sociali degli attuali israeliani. Anzi, in aggiunta, per garantire la sopravvivenza di Israele, ha invocato il solito articolo 5 della Nato, come se un’alleanza militare tanto ampia, quanto in gravi ed evidenti difficoltà, potesse gestire anche la difficilissima situazione palestinese.
In sintesi, su tutte le principali e drammatiche questioni internazionali e sui più limitati temi del dibattito politico italiano, l’autorevole quotidiano milanese mostra qualche contraddizione e forse anche un po’ di confusione: eppure (o forse proprio per questo) è ancora il primo quotidiano nazionale. È probabile, dunque, che molti lo leggano, ma che molti meno, anche tra i suoi fedeli lettori, ne traggano delle indicazioni significative e sufficientemente chiare. Eppure, oltre al lettore militante che considera Putin un comunista e del quale abbiamo detto in precedenza, c’è sicuramente almeno un altro che prende sul serio quanto si può leggere sugli autorevoli editoriali del Corriere.
Qualche tempo fa, Ernesto Galli della Loggia, scrisse a proposito della crisi della scuola italiana, prospettando un’analisi innovativa sui ritardi d’apprendimento degli studenti italiani evidenziati dalle indagini internazionali: egli sosteneva, infatti, in quelle righe che i ritardi fossero attribuibili alla presenza di molti alunni disabili all’interno delle classi e anche al numero significativo di studenti di origine straniera inseriti nelle scuole, pur non disponendo di un’adeguata conoscenza dell’italiano. Erano indubbiamente posizioni imbarazzanti per un quotidiano che può vantare un prestigioso inserto culturale e letterario e che spesso ospita contributi di alto livello anche sui temi pedagogici. Eppure, almeno un lettore di quelle raggelanti affermazioni dell’autorevole editorialista ha mostrato rapidamente il suo pieno accordo: è naturalmente il ministro dell’Istruzione e del Merito del Governo Meloni che ha prospettato la possibilità di formare delle classi differenziali per gli alunni stranieri. Per il momento non si è ancora pronunciato sul ritorno alle classi speciali per gli alunni disabili, forse anche perché non basterebbe in questo caso una circolare ministeriale per orientare la formazione delle classi, ma dovrebbe essere il Parlamento a modificare l’avanzatissima legislazione che, a partire dagli anni ‘70, ha permesso l’inserimento progressivo degli alunni disabili nelle classi ordinarie.