Il medico attivista Giorgos Vichas: “Farmaci e latte in polvere, in Grecia c’è bisogno di tutto”

di Thomas Giourgas, traduzione di Haris Lamprou

A parlare è Giorgos Vichas, medico, attivista e cofondatore dell’Ambulatorio sociale metropolitano di Ellinikò (Mkie), ad Atene.

Come è la situazione all’Ellinikò e come possiamo sostenere concretamente questo importantissimo lavoro di solidarietà?

La situazione è la stessa come quella degli ultimi anni. Persino dopo la legge che hanno votato per le persone prive di assicurazione sanitaria che continuano a venire al ambulatorio perché non hanno altra scelta. Sto parlando sia degli assicurati che dei non assicurati.

Ci sono delle malattie che sono in aumento?

Recentemente ci sono le malattie psichiche in aumento. In una sola giornata abbiamo avuto tre casi di persone provenienti dall’ospedale di Dromokaition he sono venuti per prendere le loro farmaci. A un paziente che protestava e faceva ‘casino’ hanno detto che stavano sistemando la farmacia per evitare di dirgli che non avevano i farmaci. In generale, sono aumentati i casi di depressione e il consumo di psicofarmaci. Da semplici tranquillanti sino a pesanti antidepressivi.

Questo aumento è legato alla crisi economica?

È sicuramente legato alla crisi. Il rapporto di Elstat per l’anno 2015 è stato pubblicato. La mortalità infantile è salita al 4%. Era 2,6% nel 2012, passata al 3,65% nel 2013, si stabilizza al 3,75% nel 2014 – dovuto forse questo all’espansione degli ambulatori sociali e al loro ruolo determinante – e poi vediamo una crescita al 4%. Adesso persino le strutture di solidarietà non possono contenere le conseguenze della politica dell’austerità, questo è molto inquietante. Facciamo un appello ai cittadini a portare farmaci di qualsiasi tipo che non sono scaduti o non vicino alla scadenza, e anche latte in polvere per bambini.

Nel settore della salute, vedi delle differenze sostanziali tra il periodo di Pollakis-Ksanthos (Syriza, i ministri attuali) è quella di Georgiadis (ministro precedente durante il governo di Nea Democratia)?

La politica è rimasta uguale. I ministri attuali seguono e gestiscono lo stesso memorandum che seguivano anche i precedenti. I diktat esterni sono determinati in tutti i settori della salute. L’unica differenza è che gli attuali hanno una urgenza che i precedenti non avevano. Salvare qualcosa dal loro ipotetico profilo di sinistra.

Lei ha un’idea di cosa succede nel settore di salute in Europa?

Negli ultimi giorni mi sono trovato a Bruxelles dopo l’invito di sindacati e collettività autogestite in Belgio per discutere del tema della salute in Grecia. Alla fine, abbiamo discusso più dalla situazione belga, la quale comincia a assomigliare a quella in Grecia. Entrano in una fase simile con la nostra. E sono abbastanza preoccupati dalla situazione nel loro Paese. In tutta l’Europa, nei movimenti l’impressione che è la Grecia funzioni come una cavia. Che è là che si producono delle politiche che dopo andranno anche da loro. Dunque la situazione interessa tutti. È inoltre condivisa l’impressione che Syriza ha svenduto la lotta. La parola «tradimento» torna spesso nelle parole della gente dei movimenti europei. Syriza ha creato un grande danno alla sinistra non solo in Grecia, ma anche in tutta l’Europa.

La svolta di Syriza verso i diktat del memorandum avrà degli effetti ai movimenti di solidarietà?

Senza dubbio, e questo lo sto osservando nei ambulatori sociali. Delle persone, dei volontari che sono ancora in Syriza o che hanno una posizione favorevole nei confronti del governo, hanno fatto dei passi indietro sul campo delle richieste e delle lotte.

Qual è la differenza tra carità e solidarietà?

Dentro la solidarietà esiste un rapporto orizzontale. La persona che offre e la persona che riceve solidarietà si trovano in una situazione omologa. Perché questi due ruoli sono frequentemente intercambiabili. È una situazione dinamica. Oggi ho la capacità di offrire, domani mi posso trovare nella posizione in cui ho bisogno di solidarietà. Esiste una relazione reciproca di uguaglianza. Oppure si può facilmente avere questi due ruoli in contemporanea. Mentre nella carità c’è un rapporto unilaterale, statico e autoritario. Quando una persona è caduta per terra, devi aiutarla alzarsi con una mano e con l’altra puntare verso chi l’ha buttata giù. Se non lo fai, hai compiuto un mezzo lavoro perché cadrà di nuovo.

Questo articolo è stato pubblicato dal giornale Dromos tis Aristeras (Strada di sinistra) l’8 novembre 2016

fonte ILMANIFESTOBOLOGNA

Referendum/Generale Fabio Mini: “No a riforma che sottrae al Parlamento decisione su dichiarazione di guerra”

FONTE LIBERTAEGIUSTIZIA.IT  CHE RINGRAZIAMO . EDITOR

 

Intervista di Rossella Guadagnini al generale Fabio Mini (*)

Riforme, democrazia, governabilità e inganni. Ne parliamo con una voce fuori dal coro, un uomo che per 46 anni è stato nelle Forze Armate e oggi si definisce molto progressista. Ci racconta di una legge ‘immaginaria’ e di un Parlamento ‘defraudato’, di una maggioranza non rappresentativa del Paese e di una ‘guerra fredda interna’ all’Italia. Di spazi informativi pubblici a favore del marketing governativo e di una grande festa della dis-unità a cui, volenti o no, siamo tutti invitati.

D. Generale Fabio Mini cosa pensa delle riforme costituzionali?

R. Non sono contrario alle riforme costituzionali, ma sono nettamente contrario a questa riforma. Respingo il sillogismo che chi vota “sì” vuole un’Italia “efficiente, stabile e responsabile, e quindi capace di esercitare il suo ruolo in Europa” e chi vota No vuole “un’Italia idiosincratica ed eccentrica, eternamente prigioniera delle proprie ombre”. E’ un sillogismo apodittico che squalifica sul piano intellettuale chi lo propone e offende chi non lo condivide. E’ il primo segnale che la riforma proposta intende dividere gli italiani ed io penso invece che una Costituzione debba unire i cittadini.

D. Il fronte del No è molto variegato e ispirato da ideologie addirittura opposte: come si conciliano?

R. Personalmente, mi schiero con il No proposto da un Movimento di cittadini e non da un partito, mi riconosco negli idealisti e non negli ideologi, nelle persone responsabili che pensano al futuro dell’Italia unita e non in coloro che operano per dividerla ulteriormente e  intendono affondare la nave per assumere il comando di una scialuppa. Non condivido l’obiezione che il No sia improponibile perché voluto anche da partiti e movimenti d’ispirazione fascista, veterocomunista, populista e quant’altro, che vogliono soltanto la caduta del governo. Non condivido le loro finalità, ideologie e prassi, ma riconosco legittime e fondate alcune delle loro motivazioni. Sono infatti queste comuni motivazioni a fare del No un fronte trasversale espressione di molte anime, e non di un pensiero unico, e quindi – nel suo complesso – essenzialmente democratico.

D. Con il No cosa succederebbe al Governo ?

R. Non collego il No alla caduta del Governo. Penso che sia stata una grossa sciocchezza legare il Referendum alla sopravvivenza politica del capo del Governo: un narcisismo inopportuno che non è finito con la tardiva e strumentale ammissione dell’errore. Anzi è stato fatto qualcosa di peggio, perché tutto l’esecutivo, a partire dal suo vertice, ha riversato sull’Italia la prospettiva di fallimento e sfascio nazionale in caso di prevalenza del No, alimentando così la disunione all’interno e i sospetti d’instabilità nazionale all’esterno. Viste le conseguenze in campo internazionale e nella speculazione economica a danno dell’Italia, questa operazione, in altri tempi e Stati, sarebbe stata considerata e perseguita come “Alto tradimento”. Da noi è una “furbata”. Dopo il voto ciascuna parte politica dovrà trarre le conclusioni e agire di conseguenza, ma se il Referendum non realizza una massiccia affluenza alle urne nessuno potrà veramente cantare vittoria: avrà perso l’Italia. E il conteggio dei voti dovrà far riflettere invece di far gioire. La prevalenza risicata del “si” inasprirà ancor di più il clima politico e indurrà il Governo a irrigidirsi su posizioni non condivise. Secondo me, tutto questo porterà nel giro di breve tempo alla fine dell’esecutivo o della stessa legislatura. Se dovesse prevalere il No, tecnicamente sarebbe soltanto il rinvio della Riforma e con questo Parlamento il Governo potrebbe restare in carica fino al termine di legislatura. Ma gli equilibri politici sarebbero mutati e il Governo non potrebbe imporsi sul Parlamento come ora. Non è detto che questo sia necessariamente un male. Inoltre, se oggi il No di altri gruppi tende solo allo sfascio del Governo bisogna riflettere sulle ragioni e le responsabilità di tale atteggiamento. In questi ultimi anni il dissenso democratico non ha avuto né attenzione né alternativa onorevole. Quando quasi mezzo Parlamento è costretto a lasciare l’aula, per non essere coinvolto in uno schema  che non condivide e i restanti festeggiano come allo stadio, si celebra l’effimera vittoria di una parte e si detta il necrologio della democrazia.

D. Entrando nel merito della riforma, perché vota NO?

R. E’ stato detto che questa riforma, “dopo un dibattito trentennale infruttuoso e controverso”, era diventata improcrastinabile. Non è stato detto che la controversia non derivava dalla carenza di norme, ma dalla necessità (riconosciuta dalle stesse commissioni bilaterali e da tutti gli altri proponenti di riforme alla Costituzione) di procedere alle riforme con il più largo consenso delle forze politiche. Lo stesso meccanismo dell’articolo 138 della Costituzione, prevedendo più esami incrociati tra Camera e Senato, cauti passi successivi e tempi di riflessione intendeva promuovere un largo consenso. Tant’è che nel caso esso fosse venuto a mancare si prevedeva la possibilità di ricorrere alla consultazione diretta del popolo. Ora, si è arrivati a questa riforma pasticciata e opaca perché invece di ricercare il largo consenso si è preferito imporre la volontà di una maggioranza non rappresentativa della Nazione. Abbiamo assistito a manovre di qualsiasi genere, a ricatti politici, disinformazione, emarginazione dei dissidenti o soltanto dei non favorevoli, sostituzione di membri di commissioni parlamentari scomodi, agitazione di spauracchi, promesse populistiche, ghigliottine, canguri, sedute fiume e molto altro. Di peggio è avvenuto nell’ombra. La forma non è stata violata, ma il metodo si è rivelato ingiusto e scorretto perché nel frattempo la rappresentatività parlamentare e governativa era passata, con successive “porcate” e “leggi incostituzionali”,  dal sistema proporzionale a quello maggioritario a sbarramento. E soprattutto perché le finalità della riforma erano e rimangono tanto confuse da giustificare ogni sospetto di manipolazione.

D. Lo ritiene un fenomeno nuovo?

R. No, ma nel passato, quando gli obiettivi delle riforme costituzionali erano chiari, puntuali e condivisi sono state promulgate leggi costituzionali senza difficoltà. Dal 1948 ad oggi sono state approvate 38 leggi costituzionali tra cui provvedimenti importanti come le pari opportunità, l’abolizione della pena di morte anche per i reati militari in tempo di guerra, il voto degli italiani all’estero, l’estradizione per delitti di genocidio, il giusto processo, il pareggio di bilancio ecc. I problemi si sono posti quando le riforme si presentavano strumentali o soltanto imparziali e soprattutto quando rispecchiavano interessi di potere particolari e clientelari.

D. La riforma vorrebbe snellire la burocrazia legislativa, ridurre i costi della politica.

R. Purtroppo questa riforma non snellisce e non fa risparmiare. Si sarebbe invece risparmiato molto utilizzando strumenti legislativi ordinari senza scomodare la Costituzione. E anche ammettendo che ci sia qualche risparmio sul piano contabile, la riforma comporta costi enormi  in credibilità delle istituzioni, bilanciamento dei poteri e quindi in democrazia. Non sono costi teorici o morali, a ognuno di tali elementi sono collegate pratiche politiche e amministrative che se non adeguatamente controllate generano corruzione, sprechi, abusi di potere, imposizioni di tasse esose, aumento del debito e dissoluzione dei rapporti di fiducia tra Stato e cittadini. E’ vero, ci è stato detto che   “Abbiamo bisogno di capacità decisionali e di procedimenti legislativi più rapidi e non di un sistema immaginato e pensato a quei tempi, in cui forse si credeva si dovesse decidere raramente”. Ebbene, dobbiamo ricordare che  la rapidità non è sinonimo di migliore qualità o efficacia dei provvedimenti. Anzi. Siamo ancora impantanati  nei problemi creati dalla fretta dei governi e dalle loro false priorità. Inoltre, il sarcasmo fuori posto è sempre una forma di denigrazione e, in questa frase, è chiara la volontà di delegittimare un’Italia che i denigratori  non hanno né conosciuto né studiato.

D. Cosa trascurano?

R. Più che trascurare, in realtà non sanno e quindi non possono nemmeno ricordare. Questo progetto fa parte dello schema di rottamazione non di ciò che non funziona, ma di ciò che non si conosce. Siccome l’ignoranza è molta, non deve stupire che la cosiddetta rottamazione colpisca a vanvera in molti settori. Se i denigratori non possono ricordare, potrebbero ascoltare, ma di solito l’ignoranza va di pari passo con l’arroganza e perciò bisogna accontentarsi di dire cose che non ascolteranno mai. Noi però possiamo ricordare che quel sistema immaginato nel 1948 è stato realizzato e ha preso le decisioni più difficili della nostra storia. Con successi e insuccessi abbiamo recuperato credibilità internazionale, risollevato l’economia, affrontato emergenze naturali senza scandali, combattuto il terrorismo e la mafia, ristrutturato le Forze Armate e le abbiamo spedite in ogni angolo della Terra a rappresentare l’Italia e abbiamo raggiunto il quarto posto fra sette delle maggiori economie (G-7). Poi, con una breve stagione di “decisionisti” e  fantasiosi innovatori abbiamo decuplicato il debito nazionale, aumentato la disoccupazione e il precariato, diminuito la nostra competitività. Infine, grazie alle virtù taumaturgiche del mercato, dei tecnocrati e dei rottamatori abbiamo centuplicato il debito e siamo stati malamente coinvolti in una crisi che non ci avrebbe riguardato così da vicino, se non avessimo avuto immaginifici finanzieri di Stato e speculatori privati rivolti esclusivamente allo sfruttamento delle bolle finanziarie.

D. E oggi come siamo messi?

R. Andiamo a votare per una legge veramente immaginaria e siamo più deboli in Europa, sminuiti nella capacità di sicurezza,  succubi delle decisioni altrui, allontanati dai tavoli di discussione globali ed europei, ultimi nella graduatoria del G7, incapaci di provvedere al rilancio dell’economia e costretti ad elemosinare non denaro (che nessuno regala), ma la possibilità di fare altri debiti. Non si può addossare la responsabilità di tutto questo solo al sistema bicamerale o ai governi del passato. Negli ultimi dieci anni sono state approvate più leggi richieste dal Governo che quelle promosse dal Parlamento. In alcuni periodi delle legislature passate e di quella presente si è legiferato con le procedure di urgenza su cose che non erano affatto urgenti, si sono blindate leggi e leggine d’iniziativa governativa (109 in questa legislatura), facendo ricorso eccessivo ai colpi di maggioranza, alle deleghe al governo (13 a quello attuale su temi  fondamentali come lavoro, scuola, comunicazione pubblica ecc.) e al voto di fiducia al governo (ben 56 volte negli ultimi due anni e mezzo). Oggi non andiamo a votare per migliorare, ma per  istituzionalizzare un Parlamento defraudato del potere legislativo e assoggettato al potere esecutivo molto di più di quanto non lo sia già ora.

D. Un altro elemento su cui insistono i fautori della riforma è la governabilità. Argomento convincente, a suo parere?

R. La “governabilità è ormai un dogma. Ma non è un’invenzione di oggi. Il tema è stato sollevato per primo da Bettino Craxi (fine anni ‘70), quando con i voti di un partito largamente minoritario voleva guidare per sempre l’intero Paese. Non a caso parlava di governi di legislatura (che stessero al governo “certamente” almeno per turni di 5 anni) o di “governo presidenziale”, pensando di diventare presidente. Ma i governi erano comunque coalizioni di grandi partiti che godevano anche dell’appoggio esterno di alcune opposizioni. La democrazia non era in pericolo, semmai era evidente l’insofferenza di un leader carismatico nei confronti dei grandi partiti. Lo stesso tema fu affrontato da Spadolini nel 1982 in maniera geniale, anche se inattuabile. Anche lui leader carismatico, esponente di un partito abbondantemente minoritario, ma giuridicamente molto più preparato di Craxi, individuò il collante fra le coalizioni, non nell’egemonia del partito più numeroso, ma in una presunta forza istituzionale del Presidente del Consiglio. Di fatto, sostituiva la forza dei partiti con la forza del ruolo di Capo del Governo. Intendeva istituire il “regime del primo ministro” al posto del “regime dei partiti”. “Perché -diceva- il governo della Repubblica deve governare anche per chi gli vota contro, anche per i senza partito, anche per gli extraparlamentari, anche per chi ancora non vota e voterà domani». Era una proposta al limite della liceità costituzionale e valeva finché ci si credeva. Ma lui era Spadolini e governò a modo suo, non per molto, ma senza modificare una sola virgola della Costituzione. Nel caso si fosse resa necessaria una riforma, Spadolini ebbe a dire: “Il governo ricercherà sempre con l’opposizione lo “idem sentire de Constitutione”. Questa riforma è lontana anni luce dall’idem sentire di Spadolini e di tutti i Padri costituenti. Non vuole eliminare “il regime dei partiti”, ma istituire il regime di un partito, anche se oggettivamente non maggioritario, come lo sono tutti i grandi partiti di oggi.

D. E’ stato detto che la riforma è necessaria per realizzare “un processo organico di riforma in grado di razionalizzare in modo compiuto il complesso sistema di governo multilivello articolato tra Unione Europea, Stato e Autonomie territoriali”.

R. Magari lo fosse, e magari fosse stato spiegato chiaramente cosa sarebbe necessario. E’ stato invece raffazzonato un discorso che parla di razionalizzare “alla luce dei provvedimenti già presi in relazione allo spostamento del baricentro decisionale connesso alla forte accelerazione del processo di integrazione europea e, in particolare, l’esigenza di adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea (da cui sono discesi, tra l’altro, l’introduzione del Semestre europeo e la riforma del patto di stabilità e crescita) e alle relative stringenti regole di bilancio (quali le nuove regole del debito e della spesa); le sfide derivanti dall’internazionalizzazione delle economie e dal mutato contesto della competizione globale”. Sono parole testuali della proposta, ma più che un proposito, lo sproloquio sembra una “captatio benevolentiae” nei confronti dell’Europa. Una inutile piaggeria, che non ha più senso visto che l’integrazione europea è più lontana che mai, la governance europea è in crisi grazie anche agli atteggiamenti estemporanei del nostro governo (prima, durante e dopo Bratislava) e che nella cosiddetta riforma non c’è nulla che risponda alle sfide “dell’internazionalizzazione economica”. Oggi in campo internazionale siamo ad un livello di guerra fredda molto vicino alla guerra calda tra blocchi contrapposti, come nel 1946, in Europa, in Asia e quindi in tutto il mondo. Gli equilibri stanno cambiando rapidamente e in modo pressoché incontrollato. Gli stessi Stati Uniti non sanno dove andare e domani forse scopriranno di non voler e non poter andare da nessuna parte. Oggi, in Italia siamo sicuramente in piena guerra fredda interna: da vent’anni siamo prigionieri di una dicotomia fra destra e sinistra che ancora parla di comunismo e fascismo. Grazie all’arroganza di partiti personalizzati il Paese è spaccato apparentemente in due, ma sostanzialmente in cento pezzi.

D. E’ una questione che riguarda esclusivamente i partiti politici?

R. No, è dovuta anche all’avidità dei poteri economici, industriali e finanziari che sostengono i partiti per i propri interessi, i quali non necessariamente coincidono con l’interesse collettivo, meno che mai con il bene pubblico. Ma i partiti hanno un’aggravante: hanno interpretato l’articolo 49 della Costituzione come l’investitura di ciascuno di essi alla rilevanza costituzionale. Il segretario di un partito si sente – e di fatto è stato considerato dagli stessi presidenti della Repubblica – come un “organo costituzionale”. In realtà l’articolo 49 stabilisce la libertà dei cittadini di associarsi in partiti, ma non assegna a essi altra funzione se non quella di permettere che i cittadini concorrano con metodo democratico a determinare la politica nazionale. La rilevanza costituzionale è dei cittadini, non dei partiti. In realtà i tre partiti maggiori del panorama italiano non assicurano affatto il metodo democratico, ma quello monocratico o al massimo oligarchico, autoritario e personalizzato. Non danno alcuno spazio di dissenso al loro interno e sono da tempo impegnati in una delegittimazione reciproca che ha prodotto la sclerosi delle strutture interne e la completa sfiducia dei cittadini nella politica in generale.

D. Eppure questa riforma è passata con l’avallo del Parlamento.

R. Certo, ma non nella misura necessaria alla sua promulgazione. Tant’è che andiamo al Referendum proprio perché non è stato raggiunto l’accordo richiesto dalla stessa Costituzione. In compenso ci è stato detto che questa riforma ha rispettato tutti i parametri costituzionali e democratici. In realtà, l’iter di questa riforma, come quella bocciata nel 2006, è stato caratterizzato dalla prevalenza del metodo “a colpi di maggioranza”, abbandonando l’equilibrio previsto dalla Costituzione tra leggi “consensuali” e “maggioritarie”.  Si è invece rafforzata la presunta equivalenza fra principio democratico e principio maggioritario. Le modifiche alla Costituzione o alla forma di governo e della rappresentanza (come nel caso della legge elettorale) scaturiscono dalla convenienza della maggioranza di turno: nel periodo 2000-2015, ben nove (su dieci) leggi di revisione della Costituzione sono state approvate con i soli voti della maggioranza parlamentare, senza cercare larghe intese all’interno delle forze.

D. La nuova legge ha il sostegno di intellettuali, sindacalisti, forze economiche e finanziarie.

R. Non mi sorprende. Molti sono in buona fede perché attratti dal canto delle sirene sui risparmi e sulla limitazione dei politici o soltanto dalla voglia di punire il sistema o i partiti avversari. Alcuni poteri cosiddetti forti sono attratti dalla prospettiva di avere un governo a propria disposizione. Altri pensano alla pancia quotidiana e sostengono chi promette di più o elargisce elemosine elettorali. Qui il governo ha buon gioco perché è l’unico in grado di promettere, anche se sa benissimo di non poter mantenere. Ma è soltanto un escamotage che deve durare un mesetto ed è una sorta di competizione sleale perché gli oppositori, non essendo in campagna elettorale per la legislatura, non possono promettere niente altro che la fine del governo. Aumentando così l’incertezza di chi spera nei bonus e la diffidenza degli stranieri.

D. A detta dei fautori del Sì, non vengono alterate le Istituzioni democratiche. E’ così?

R. Secondo la definizione socio-economica più moderna e coerente, lo scopo di una “Istituzione” (e il Senato è una Istituzione) è quello di garantire la corretta applicazione delle  norme stabilite tra l’individuo e la società o tra l’individuo e lo Stato, sottraendole  all’arbitrio individuale e all’arbitrio del potere in generale (Haidar J.I.-2012). Ebbene, questa riforma nega e offende le Istituzioni democratiche: nei fatti stravolge l’impianto istituzionale dello Stato aumentando l’arbitrio individuale, o di un gruppo, e l’arbitrio del potere in generale. Il mio non è un giudizio teorico o di principio. Come uomo, soldato e cittadino con oltre 46 anni di servizio nell’ambito di una istituzione fondamentale come le Forze Armate, deputate alla difesa della Patria, anche in guerra, non posso condividere una riforma che sottrae al Parlamento la decisione sulla più drammatica evenienza di uno Stato: la dichiarazione di guerra. La norma proposta indica infatti nel Governo, attraverso la sua ovvia e artificiosa maggioranza monocamerale, il responsabile di tale decisione.

D. Ma la guerra non è un’evenienza remota?

R. E’ vero che sul piano pratico la cosa può sembrare ininfluente: nessuno più dichiara apertamente la guerra, ad eccezione degli Stati Uniti che ormai scendono in guerra per ogni cosa. Ma anche loro, pur chiamando ‘guerra’ qualsiasi sforzo interno ed internazionale, pur individuando nemici in ogni interlocutore, pur usando gli strumenti di guerra come prima risorsa d’emergenza e pur avendo inventato la guerra preventiva che non previene, ma anzi anticipa la guerra, sono ben attenti ad evitare con cura qualsiasi dichiarazione formale di guerra. Oggi, specialmente da parte dei Paesi europei e della Nato, la guerra si fa senza dichiararla o semplicemente cambiandone il nome. E, comunque, neppure l’impegno della Nato nella difesa collettiva (articolo 5 del Trattato) costringe in modo automatico ad intervenire con le armi. Ogni Paese membro può (e deve) scegliere in che maniera contribuire alla difesa collettiva.

Tuttavia, se la norma che equipara la dichiarazione di guerra a qualsiasi altro atto amministrativo può sembrare ininfluente sul piano pratico, non lo è affatto sul piano istituzionale e della filosofia del diritto. In questo caso, l’abolizione del bicameralismo perfetto è la chiara manifestazione della volontà di banalizzare il ruolo delle istituzioni a partire dall’atto più drammatico delle loro funzioni: la deliberazione sulla guerra. Il Parlamento riformato ha uno squilibrio a favore della Camera e questa, per effetto della legge elettorale maggioritaria e dei premi di maggioranza esagerati, ha uno squilibrio a favore del Governo. Di fatto, il nuovo Parlamento e lo stesso Governo cessano di essere organi legislativi rappresentativi di tutto il Paese e perdono la qualità fondamentale per autorizzare la guerra in nome del popolo italiano e quindi anche la facoltà di assumere ogni altra decisione che comporti analoghi sacrifici per tutta la popolazione e il trasferimento di risorse, poteri e funzioni da una istituzione all’altra.

D. Sono squilibri pericolosi ?

R. Nella sostanza sì. Se tali squilibri consentono di accelerare le decisioni del Governo in nome della cosiddetta governabilità, non è detto che favoriscano solo i provvedimenti giusti ed equanimi, adottati in nome e per conto del bene pubblico. Abbiamo continuamente esperienze di provvedimenti ad personam e a favore di gruppi di potere e di avventure che non hanno nulla a che vedere con il bene pubblico. Il Senato riformato  che non è più una Istituzione, perché non ha poteri equilibratori nell’ambito del Parlamento, è una costosa conferenza saltuaria di amministratori locali, la cui legittimazione nell’incarico “complementare” dipende dall’arbitrio di chi li ha  designati. Voto No all’eliminazione dell’equilibrio dei poteri e dei contrappesi istituzionali che di fatto conduce all’arbitrio del potere del partito di maggioranza del momento. Voto No al vilipendio delle istituzioni parlamentari (e non solo) esercitato da un partito che designa parlamentari e senatori non per esigenze di rappresentatività, ma per clientelismo e corruzione. Voto No perché non voglio essere rappresentato in Parlamento e nelle altre istituzioni nazionali ed europee da personaggi ignoranti, compromessi, immorali e pregiudicati. Abbiamo già vissuto il tempo del disprezzo nei confronti delle nostre Istituzioni  quando a occuparle venivano designati amici, clienti e compagni o compagne d’alcova. Me ne sono vergognato profondamente quando in campo internazionale, politico e militare, si lanciavano battutacce sui nostri governanti. Voto No perché ciò non si ripeta. E comunque non si ripeterà con il mio sostegno o la mia indifferenza.

D. Riflessioni come le sue hanno avuto la possibilità di raggiungere i cittadini?

R. Se lo hanno fatto non è certo per merito del Governo o della comunicazione pubblica. Ci avevano detto di voler rispettare le regole democratiche anche nella comunicazione. In realtà le voci di coloro che, come me, hanno servito lo Stato e difeso le istituzioni democratiche con disciplina e onore, e quelle di coloro che, come tantissimi,  hanno lavorato per l’Italia rappresentandone l’eccellenza culturale, tecnologica, economica, istituzionale e di solidarietà sono state soffocate dal vocio della propaganda di Stato. Ben prima della decisione di ricorrere al Referendum il Governo intero ha occupato tutti gli spazi di comunicazione, tramutando il legittimo sostegno a una propria proposta in bagarre affaristica e campagna ideologica a dispetto e scapito dell’equilibrio e dell’unità nazionale. Con il ricorso al referendum, la consultazione si è trasformata in una sfida tra sì e no, a prescindere da cosa significassero. C’è stata la conta degli amici e dei nemici, dei clienti riconoscenti e dei candidati a posti e poltrone accondiscendenti. La giusta perorazione della causa riformistica è stata volutamente personalizzata, fino a farla diventare una scommessa sulla stessa sopravvivenza del Governo. Come tutte le scommesse è stato un gioco, un azzardo, un bluff, un rischio e un ricatto sostenuti da una mobilitazione mediatica senza precedenti. Ogni canale di discussione moderata e costruttiva è stato occupato da comizi e spettacoli celebranti una grande festa della Dis-Unità. Gli spazi d’informazione pubblica (una risorsa di e per tutti) sono stati spesi (anche in senso economico) solo a favore del marketing governativo, in Italia e all’estero.

D. Come definirebbe la sua posizione, conservatrice o progressista?

R. Direi molto progressista. Esprimo il mio No a questa riforma  con spirito costruttivo, perché  non voglio che il mio Paese rimanga intrappolato in un sistema che assegna i poteri dello Stato a una maggioranza risicata e faziosa, frutto dell’allontanamento dei cittadini dalla politica, senza nessun organo di controllo e bilanciamento dei poteri. Mi è stato fatto osservare che in tutti i Paesi del mondo “va al comando” il partito di maggioranza relativa, e che l’evanescenza delle opposizioni non dipende dalla legge elettorale. E’ vero, e infatti non ho mai apprezzato il concetto di un partito “al comando”. I partiti dovrebbero essere al servizio della comunità, esattamente come le istituzioni, i governi e le amministrazioni pubbliche.

Ma anche dove i partiti godono di ampia maggioranza ci sono differenze sostanziali.  Ho vissuto abbastanza a lungo nei due paesi a sistemi opposti per capirne gli effetti: la democrazia americana e il regime del partito comunista cinese. La democrazia americana non è tale perché votano i cittadini, che fra l’altro non votano per eleggere l’uomo al comando, ma perché esistono istituzioni in grado di limitare gli abusi del potere. Il Congresso, a prescindere dalla maggioranza del momento, è il più feroce censore del potere esecutivo. La magistratura suprema segue a ruota, ma una serie di comitati parlamentari hanno poteri che possono indirizzare e raddrizzare la politica del governo. Inoltre, spesso sono gli stessi partiti, i media, le lobby e i comitati di cittadini a limitare i propri leader.

In Cina c’è un partito che occupa tutto e impone la propria politica a tutti. Si avvale di strutture legislative permanenti per gli affari correnti e di un’assemblea annuale dei rappresentanti del popolo per approvare le grandi leggi: si vota per alzata di mano su ogni proposta e si torna a lavorare. C’è anche una sorta di senato: è la Conferenza Consultiva che raggruppa i rappresentanti dei partiti, varie etnie, associazioni popolari, amministratori locali e personalità indipendenti. Non ha alcun potere effettivo ed è diretta dallo stesso Partito Comunista, che comunque la utilizza come foglia di fico per spacciare una parvenza di democrazia. In Cina il vero equilibrio fra i poteri e la garanzia di una dialettica politica si realizzano all’interno del partito stesso che è tutt’altro che monolitico o cristallizzato. L’ostentata ammirazione per il sistema americano da parte del nostro Governo è smentita proprio dalla riforma: il sistema che vuole instaurare con la riforma è lontanissimo da quello americano e vicinissimo al sistema cinese. Con due  differenze: da noi il partito di regime non assicura alcuna dialettica equilibratrice interna e i rappresentanti alla Camera bivaccano in permanenza a Roma.

D. E l’intervento popolare tramite il Referendum?

R. E’ importante ma non sarà determinante finché la partecipazione non sarà veramente significativa. Non si può ricorrere sempre ai referendum per colmare le incapacità della politica, anche perché gli stessi referendum costituzionali, che dovrebbero essere i più importanti, dimostrano la disaffezione popolare nei confronti della politica e s’indeboliscono nella capacità effettiva di rappresentare la Nazione. Alla prima consultazione referendaria sulla Costituzione della nostra storia, il 7 ottobre 2001,  si recò a votare solo il 34,1 % degli aventi diritto e i voti validamente espressi furono per il 64,2 % favorevoli alla modifica costituzionale: erano appena il 21% degli aventi diritto. Alla seconda, quella del 25-26 giugno 2006, votò il 52,30% degli aventi diritto e la legge voluta da Berlusconi fu respinta dal  61,32% dei votanti: appena il 32% degli aventi diritto.

D. Come riassumerebbe le sue motivazioni?

R. Voto No ad una riforma che spacca il paese e prelude ad una frattura ancora più ampia e pericolosa fatta di disprezzo per le Istituzioni, rigetto delle opposizioni, soppressione delle minoranze  e ghettizzazione delle intelligenze non allineate: tutti segni storicamente premonitori di dittatura e  guerra civile.

Voto No perché il sistema proposto è già in atto e non funziona, anzi mortifica le istituzioni e minaccia la democrazia. Soltanto con il No  si può pensare di rettificare questo stato di fatto e avviare la stagione delle riforme equilibrate ed efficaci.

Voto No perché il governo, qualunque esso sia, e le istituzioni nazionali a partire dal 5 dicembre si dedichino a risolvere i problemi strutturali  che gravano sulla nostra nazione, i problemi della ripresa economica, di compattazione sociale e di disaffezione politica e formuli  finalmente un progetto per riunire i cittadini italiani e le forze politiche attorno ad una Costituzione rinnovata ma condivisa.

Voto No oggi per avere domani (e non dopodomani) la possibilità di vedere una riforma seria e corretta.

Voto No perché mi si chiede di esprimermi con un monosillabo su un insieme di elementi disomogenei, appartenenti a materie molto diverse e  dagli effetti indecifrabili se non indagati dal punto di vista tecnico-giuridico. Invece di approfondire e sviscerare tali aspetti, mi si chiede di votare senza considerarli, quasi a voler nascondere il fatto che proprio tra essi  si annidano tutti gli elementi distruttivi e destabilizzanti della riforma. Mi si chiede un voto di fiducia cieca, ideologico, che non lascia a me, e a nessun cittadino libero di ragionare con la propria testa, altra alternativa che il No.

D. Secondo lei, è questa l’ultima occasione per fare le riforme?

R. Il No è l’ultima occasione per  stroncare sul nascere i propositi inaugurali di una stagione di continue ulteriori modifiche alla Costituzione, rese via via più facili e incontrollate da questa stessa riforma, tendenti a stravolgere completamente l’assetto istituzionale del nostro Stato. In questo senso, non mente chi dice che il 4 dicembre non è un traguardo finale, ma uno striscione di partenza. Tuttavia, soltanto con il No parte l’Italia Unita, di tutte le fedi e convinzioni, per riaffermare la Democrazia, la Giustizia e la Libertà volute da tutti gli Italiani che per esse hanno sofferto privazioni, vessazioni, torture e che per esse hanno versato il proprio sangue in guerra e in pace. In caso contrario, con il Sì,  parte la vera corsa al potere assoluto di una maggioranza di palazzo. Anche questa è stata una delle cause storiche delle dittature, delle guerre civili, dei colpi di stato, delle rivoluzioni.

 .

(*) Fabio Mini, generale di Corpo d’Armata, è stato capo di Stato maggiore del Comando Nato per il Sud Europa e, a partire dal gennaio 2001, ha guidato il Comando Interforze delle Operazioni nei Balcani. Dall’ottobre 2002 all’ottobre 2003 è stato comandante delle Operazioni di pace a guida Nato, nello scenario di guerra in Kosovo nell’ambito della missione KFOR (Kosovo Force).

 

Referendum costituzionale: perché voto NO – Pierre Carniti

simbolo NOPrescindo da molte delle critiche alla proposta di riforma costituzionale, già sollevate da costituzionalisti, commentatori e politici, che in larga parte condivido. Le ragioni specifiche che mi determinano a votare no sono fondamentalmente tre.

Primo. Gli articoli della costituzione possono ovviamente essere modificati. Non però all’ingrosso ma al minuto. Tema per tema, uno alla volta, con emendamenti soppressivi o correttivi. Per coinvolgere i cittadini consentendo loro di capire davvero la necessità e le ragioni del cambiamento di una norma. Ora invece si pretenderebbe di cambiare, in un colpo solo, oltre un terzo degli articoli della Carta.

Per quanto mi riguarda continuo a credere nella lezione di Dossetti (ricordata recentemente anche da Raniero La Valle) il quale non si stancava di spiegare che deve essere sempre cercata una corrispondenza tra la costituzione e lo spirito del Paese. Nel senso che le Costituzioni non precedono la società, ma ne sono l’espressione proiettata in avanti. La Costituzione del ’48 infatti fu la conseguenza della grande rigenerazione spirituale, sociale e culturale prodotta dall’immenso dolore della guerra, e da sentimenti di eguaglianza, libertà, dignità, solidarietà che erano radicati nelle masse prima di giungere alla formulazione costituzionale. Tuttavia, non si deve ritenere che solo i valori fossero legati allo spirito pubblico di quel tempo e non anche le scelte dei costituenti sulle forme e le regole del sistema politico.

Ad esempio, è evidente che il ritrovato pluralismo politico, affratellato nel sangue della Resistenza e nel percorso verso la costituente, faceva ritenere scontate, da non dovere essere nemmeno menzionate nel testo costituzionale, le modalità e le forme per la formazione della rappresentanza.

Né meno forte è stato il sentimento diffuso e la rivalsa tra il passaggio alla Repubblica e la forma politica che l’Italia aveva avuto fino ad allora Sentimento che trovava nel Parlamento la sua massima espressione simbolica e reale. Caduto il re il Parlamento era il sovrano. Ovvero la sovranità visibile del popolo. Per questo, proprio perché c’era stato un Senato del Regno doveva esserci un Senato della Repubblica. E poiché il Senato in precedenza era di nominati a vita doveva ora essere formato da eletti dal popolo, per realizzare non solo un parlamentarismo differenziato nel rapporto con il governo, ma anche nel rapporto con il territorio.

Oltre tutto c’erano pure delle ragioni più profonde che hanno spinto la Costituente a puntare su un parlamentarismo leale, forte e rappresentativo di tutta la società. La prima era il grande prestigio di cui era circondata la rappresentanza repubblicana che veniva dall’impegno politico antifascista, dal confino, dalle carceri, dalla clandestinità. Era una classe politica che, nella sua maggioranza conduceva vita austera, era mal pagata e non era sospettabile di intenzioni di carrierismo. La seconda era il rispetto e la stima che non solo circondava la rappresentanza politica, ma anche il legame di importanti masse popolari con i loro partiti e nello stesso tempo di reciproco rispetto, con marginali eccezioni, dei rappresentanti politici tra loro, pur essendo e restando avversari politici.

Basterà ricordare le parole di altissima considerazione che il partigiano Dossetti ebbe a pronunciare riferendo la testimonianza di un partigiano comunista del reggiano. Oppure il rapporto di amicizia, durato tutta la vita, di Zaccagnini con il comandante partigiano comunista Bulov. Infine c’era il senso comune che l’uscita dell’Italia dalla pesante situazione del dopoguerra era possibile con uno sforzo che richiedeva la rinuncia di ciascuno alla pretesa di attuare esclusivamente i propri interessi, le proprie idee personali, o di parte. Purtroppo da tempo questa armonia si è rotta.

Uno sviluppo economico sregolato e tumultuoso, un importante mutamento dei costumi, ripetuti sovvertimenti dell’ordine economico e politico internazionale ed infine lo tsunami mediatico hanno inaridito e reciso i legami sociali, senza che le grandi strutture religiose, sociali, culturali ed informative fornissero la linfa per rigenerarli.

Sicché né le culture politiche, né la dialettica politica quotidiana, né i comportamenti dei cittadini si sono dimostrati all’altezza delle nuove sfide. Non si sono saputo produrre analisi e proposte adeguate. Con la ammirevole eccezione di Papa Francesco, praticamente nessuno ha saputo contrastare il potere incontrastato del denaro, delle scandalose ineguaglianze, sia a livello mondiale che nazionale, dell’economia che uccide.

Quindi oggi la società è più barbara da quella in cui è stata concepita e realizzata la Costituzione del ’48. Secondo le statistiche europee in Italia ci sono 7 milioni di poveri. Ma sono solo dei numeri, non delle facce, delle dolorose storie personali e famigliari. La svalutazione del lavoro viene giustificata come strada obbligata per assicurare la competizione produttiva. Infine il primato della finanza e della speculazione rispetto all’economia reale continua e cresce sostanzialmente indisturbato. Al punto che sessantadue persone nel mondo vantano una ricchezza pari a quella di tre miliardi e mezzo di persone.

In questo quadro ci sono motivi per ritenere che la riforma costituzionale non posa nemmeno essere considerata una priorità assoluta. in ogni caso deve essere affrontata con estrema ponderazione e senso del limite. Il che non è quando ci si propone di riscrivere interamente la seconda parte della Costituzione. Cioè un pacchetto di 47 articoli. Dimenticando che le modifiche costituzionali non sono un semplice esercizio di scrittura. Oltre tutto in questo caso mal riuscito.

Teniamo presente che quando si scrive in un documento solenne come la Costituzione, nato dalla Resistenza e quindi dal sacrificio di tante vite umane, che la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli, che limitando di fatto l’eguaglianza tra le persone che non consentono l’effettiva partecipazione dei lavoratori alla vita economica, sociale, culturale, civile alla vita del paese, si è detto moltissimo. Praticamente tutto. Perché si è caricata la Repubblica di un impegno perenne, continuo. Non fosse altro perché si è data ad essa un traguardo ed un orizzonte che non è mai definitivamente e pienamente raggiungibile. Il che naturalmente nulla toglie al fatto che questo fine debba essere continuamente ed instancabilmente perseguito. Con il contributo dello Stato e la contestuale partecipazione dei gruppi sociali intermedi. In pratica dell’intera società.

Questa concezione spiega perché diversi padri costituenti si siano sempre opposti alle ricorrenti pretese di progetti di stravolgimento della Costituzione. Infatti, come molti ricorderanno, ciò si è verificato sia in rapporto al disegno definito “organico” elaborato dalla commissione Bicamerale presieduta da D’Alema, affossato prima di arrivare al voto parlamentare. Ed una decina di anni dopo al tentativo pericoloso e confuso del cantro-destra, definito a “blocchi” e riferito all’intera parte seconda della Costituzione, bocciato dal voto popolare. E’ opportuno richiamare questi precedenti perché un cambiamento integrale della seconda parte della Costituzione è stato riproposto dal governo, presentandolo come indispensabile, cruciale. Ed è appunto sulla sua proposta che il 4 dicembre si svolgerà il referendum.

L’aspetto che colpisce e preoccupa è che il premier ha considerato il percorso che si concluderà con il voto referendario “una occasione storica che va assolutamente colta” ed alla quale si lega la “vita del governo e della legislatura”, anche se successivamente ha in parte cambiato versione. Per altro, la domanda che ci si deve porre è: perché mai deve essere il governo ad assumersi il compito di formulare a far camminare una riforma costituzionale, al punto di ipotecare la vita del governo e la durata della legislatura?

Il fatto è che attorno al tema di una radicale revisione costituzionale si è da tempo concentrata una enfasi mediatica (con motivazioni diverse e, non di rado, opposte) al punto da farla considerare una questione ineludibile. Da qui la speranza (o l’illusione) per la maggioranza di governo di poterne lucrare popolarità e consenso. Di fronte a questo calcolo ritengo, per quanto li ho conosciuti, che cristiani di sinistra, “repubblicani” democratici ed autentici, come: Dossetti, La Pira, Lazzati, Don Mazzolari ed altri, non avrebbero esitato a rispondere con Luca (Lc 6, 26) “Guai a voi quando tutti gli uomini diranno bene di voi!”. Ma forse erano, non solo altri tempi, ma soprattutto altri uomini. Con una tensione democratica ed una moralità politica pubblica, oggi largamente sconosciuta.

Secondo. Una scelta condivisa avrebbe potuto essere quella di concentrare il dibattito e la proposta di riforma su un solo punto: il superamento del bicameralismo perfetto. Anche se, per la verità, contrariamente a diffuse interpretazioni, analizzando i dati della produzione parlamentare, non sembra essere questa la causa principale dei ritardi legislativi. La spiegazione dell’impotenza e paralisi che spesso si verifica va piuttosto ricercata nelle contrapposizioni politiche ed interne ai vari gruppi parlamentari. In ogni caso su tale questione si sarebbe potuto, presumibilmente,                   realizzare un largo consenso. Invece, inserita nel calderone della riscrittura dell’intera seconda parte della Costituzione ne è sortito un obbrobrio. Nel senso che, secondo la proposta sottoposta a referendum il bicameralismo perfetto verrebbe sostituito da un bicameralismo confuso e pasticciato. Del resto basta leggere l’articolo relativo alle competenze del nuovo Senato (composto da Sindaci e da Consiglieri regionali, con il risultato che presumibilmente finiranno per non assolvere bene né l’uno né l’altro compito) per farsi una idea che quel garbuglio diventerà sopratutto fonte di contenziosi e di conflitti, rendendo ancora più e lunga e complicata l’attività legislativa.

Terzo. Il collegamento tra la riscrittura di 47 articoli della Costituzione e la legge elettorale (Italicum) desta comprensibilmente motivi, non solo di grave preoccupazione, ma anche di rigetto. La ragione è semplice. La legge elettorale ha infatti un carattere oligarchico che finirebbe per indebolire ulteriormente il già fragile tessuto democratico e l’indispensabile divisione dei poteri. Il premier che per diverso tempo l’ha difesa a spada tratta ora si dichiara disposto a discuterne ed eventualmente a modificarla. Al momento però non è chiaro se, come e quando ciò si verificherà. E, soprattutto, quali potranno essere i possibili esiti.

Sono quindi convinto che ci siano più che fondate ragioni per votare No al referendum del 4 dicembre.

 

Pierre Carniti

Roma, 2 ottobre 2016

In Europa i partiti di “sinistra” non rappresentano più il lavoro

Sinistra - Foto di Sel

di Vittorio Capecchi

In questo numero di Inchiesta i testi si interrogano sulla scomparsa del lavoro dalla politica e dalle istituzioni. Francesco Garibaldo ricostruisce il processo di aziendalizzazione delle relazioni sindacali e di involuzione aziendalistica dei sindacati in Europa.

Come scrive Garibaldo, “se i lavoratori possono essere rappresentati solo come parte dell’azienda, allora non esiste più un punto di vista, una ipotesi sul lavoro che sia rappresentativa del mondo del lavoro come soggetto collettivo; il che non significa che non vi siano più conflitti tra manager e lavoratori, ma essi riguardano quel mondo chiuso e quindi hanno sempre come limite la comune esigenza di combattere, come sottolinea Marchionne, per sopravvivere contro le altre imprese”. L’aziendalizzazione arriva a inglobare le materie del welfare e prepara “un’ulteriore escalation di privatizzazione dei servizi sociali”. Come sintetizza Garibaldo “il lavoro è depoliticizzato e de-istituzionalizzato”.

Il lavoro esce in Europa dai partiti di “sinistra” e come analizza Alessandro Somma, è profetico l’ultimo testo di Peter Mair (politologo irlandese morto nel 2011) che descrivere la politica che “governa il vuoto” avendo lasciato il potere all’economia delle banche e delle multinazionali. L’immagine di questa politica è quella descritta da Bruno Giorgini nell’incontro a Maranello: l’alleanza tra un Renzi a capo del “partito della nazione”, la Merkel, Marchionne ed Elkann. Luigi Vinci si pone l’interrogativo utilizzato per questo editoriale “Come è potuto accadere?” e parla di una politica europea “populista”, basata “sulla movimentazione di atteggiamenti e comportamenti popolari, sulla sfiducia nella politica e negli assetti istituzionali, sul rapporto diretto tra seguaci e leadership, sulla banalizzazione del discorso politico e sulla centralità del richiamo emotivo”.

Sono avvenute profonde trasformazioni sia nel rapporto capitale/lavoro che nel rapporto capitale/natura. Sul primo di questi rapporti Umberto Romagnoli sottolinea le difficoltà di un diritto del lavoro che si trova in una fase con prospettive, come in Italia, di “crescita zero” che coesistono con i successi di Industria 4.0 descritti da Matteo Gaddi. Le ricadute sulla salute e sulla sicurezza di chi lavora sono descritte da Gino Rubini. Marco Assennato, che analizza il quadro sindacale francese e le lotte che attraversano Parigi, vede la situazione attuale come risultato di una non convergenza delle lotte, convergenza “da cercarsi direttamente sul terreno metropolitano, nei servizi, nella logistica, sul territorio”. Da tener poi presente che quando si cerca di uscire dal modello neoliberista i contraccolpi politici sono immediati, come spiega Railidia Carvalho che descrive il veloce retrocedere dei diritti del lavoro nel Brasile del golpe portato avanti contro Dilma Rousseff da parte dell’apparato di potere industriale, che vuole un ritorno trionfale del neoliberismo messo in discussione da Lula.

Sulla relazione capitale-natura sono importanti le considerazioni di Mario Agostinelli dopo il Forum Sociale Mondiale di Montreal a cui ha partecipato e in questa direzione è anche il dossier curato da Laura Corradi che riflette sul libro scritto da lei insieme a Raewyn Connell, Il silenzio della terra, che rappresenta il punto di arrivo di una esplorazione ventennale nelle teorie sociali dei paesi non occidentali e nelle realtà aborigene, nel tentativo di imparare da esse mettendo al centro la terra.

Esiste ancora una sinistra?

Le analisi storiche e le diagnosi presentate nei saggi prima ricordati sembrerebbero convergere verso una risposta negativa, ma sia al livello internazionale che al livello nazionale vi sono risposte che mostrano scenari politici, economici e culturali alternativi al neoliberismo dominante.

Al livello internazionale sono importanti le iniziative e proposte che provengono dal Forum Sociale Mondiale descritto da Mario Agostinelli: cambiamenti nelle fonti energetiche, spostamento verso un sistema agricolo più localizzato ed ecologico, abolizione dei trattati commerciali che interferiscono con i tentativi di ricostruire le economie locali, accoglimento di rifugiati e migranti che cercano sicurezza e una vita migliore, introduzione di un reddito minimo universale, interruzione di sussidi ai combustibili fossili, tassazione sulle transazioni finanziarie, tasse più elevate per le corporation e per i ricchi, una tassa progressiva per il carbonio.

In questo scenario si collocano le iniziative politiche italiane di sinistra. La scomparsa di partiti che si riferiscano al lavoro come base sociale aumenta le responsabilità politiche del sindacati e della Fiom in particolare. Gianni Rinaldini delinea “un Sindacato Confederale, autonomo, indipendente e democratico, espressione di un progetto di cambiamento della società (..) che non può che essere fondato su un proprio progetto di cambiamento della società, da cui derivano le proprie compatibilità nella stessa iniziativa rivendicativa

Un Sindacato democratico nella vita dell’Organizzazione, nella forma e nella modalità di elezione dei gruppi dirigenti e nel rapporto democratico con l’insieme dei lavoratori e delle lavoratrici. Da qui dovrebbe cominciare una vera discussione, senza ipocrisie ed infingimenti”. In questo scenario si muovono le iniziative della Fiom in materia di formazione raccontate da Giuseppe Ciarrocchi e Gabriele Polo e quelle descritte da Bruno Papignani (intervistato da Tommaso Cerusici) che analizza quattro temi di grande rilevanza: l’accordo raggiunto in Fincantieri, il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici, i referendum promossi dalla Cgil contro il Jobs Act e il referendum costituzionale.

Sull’esistenza di una sinistra in Italia e in Europa si muovono poi le interviste fatte in questo numero da Luciano Berselli a Paul Ginsborg e Sergio Labate (autori del libro Passioni e politica, uscito recentemente da Einaudi) e da Sergio Caserta a Laura Urbinati, impegnata nella campagna per il NO, da lei considerata una lotta essenziale “per la difesa della democrazia costituzionale”. La sinistra esiste ed è impegnata su più fronti.

Ordinare se stessi per governare il mondo

Questa frase proviene da un antico testo cinese di recente pubblicato in italiano, il Neiye (Neiye, Il tao dell’armonia interiore a cura di Amina Crisma, Garzanti 2016) ed è anche il senso profondo dell’intervento di Emilio Rebecchi in questo numero che ci invita a guardare dentro di noi se si vuole affrontare la complessità del reale e distinguere tra il buono e il cattivo. Il disegno riportato in questo editoriale è quello della mappa Loshu (una delle due mappe dell’Yijing, il Classico dei Mutamenti) impressa sulla tartaruga (simbolo di longevità) che naviga in acque difficili. E’ il mio personale augurio di longevità e cambiamento (Yi) per la sinistra.

Questo articolo è stato pubblicato da Inchiesta online l’8 novembre 2016 ed è l’editoriale di Inchiesta 193 (luglio-settembre 2016)

#StopCETAday – 5 novembre. Attivati anche tu

#StopCETAday – 5 novembre. Attivati anche tu

folla-ceta

Saremo in varie città d’Italia, con iniziative pubbliche e in piazze virtuali, ancora una volta per opporci dal basso agli accordi di libero scambio nemici delle persone e del pianeta. Dopo la grande manifestazione del 7 maggio a Roma, la Campagna Stop TTIP rilancia la mobilitazione sui territori con lo #StopCETAday di sabato 5 novembre. Contestualmente, diffonderemo “CETA: attacco al cuore dei diritti“, un adattamento del dossier “Making Sense of CETA” pubblicato a settembre da numerose organizzazioni della società civile europea.

Di seguito:
– le città che si mobilitano
– il dossier da inviare a europarlamentari del vostro comprensorio e ai capigruppo di Camera e Senato
– i tweet da inviare durante il tweetstorm del 5 novembre

Siamo chiamati a ribadire il nostro no all’accordo UE-Canada, il cavallo di Troia del TTIP. Oltre ad essere altrettanto pericoloso, il CETA apre le porte dell’Europa a più di 40 mila multinazionali statunitensi con una sede in territorio canadese. Dopo accelerazioni e brusche frenate, Bruxelles e Ottawa sono sicure di firmare il trattato entro l’11 novembre. Poi toccherà al Parlamento Europeo ratificare, e infine ai governi nazionali. Ma a quel punto, il CETA sarà già per buona parte in vigore a causa dell’applicazione provvisoria, proposta dalla Commissione UE e avallata dai capi di Stato. Riteniamo inaccettabile scavalcare i parlamenti nazionali su materie di tale importanza per la vita dei cittadini. Non condividiamo l’impostazione dei grandi accordi commerciali, costruiti su misura per il grande business a discapito dei diritti e dei beni comuni. Per questo invitiamo tutte le cittadine e i cittadini a scendere in piazza per fermarli ancora una volta.

fonte STOPCETA

Forenza (Gue: «La firma del Ceta è una pessima notizia ma si può ancora fermare». Mobilitazione in tutta Italia il 5 novembre

Mobilitazione in tutta Italia il 5 novembre

di Giulio AF Buratti

fonte POPOFF

«La firma del Ceta oggi a Bruxelles – ha detto ieri sera Eleonora Forenza, eurodeputata de L’Altra Europa con Tsipras/GUE/NGL – è una pessima notizia per milioni di cittadine e cittadini in Europa e in Canada. Abbiamo più volte evidenziato le pericolose conseguenze del Ceta su occupazione, salute alimentare, principio di precauzione, agricolture di qualità, sovranità popolare, e non solo. Migliaia di attiviste e attivisti hanno manifestato la loro contrarietà al Ceta. E la presa di posizione del Parlamento della Vallonia ha dimostrato non solo che queste paure sono tutt’altro che infondate, ma che CETA, TTIP e TISA si possono fermare. La lotta continua, dunque».

A partire dalla giornata di mobilitazione del 5 novembre in tante città italiane promossa dalla rete #StopttipItalia. La Commissione Commercio Internazionale del Parlamento europeo e la Plenaria dell’Europarlamento si esprimeranno solo con un voto di ratifica (sì/no) senza risoluzione per evitare le insidie di un dibattito pubblico. «La discussione fa paura ai Signori del commercio.

Dopo l’eventuale ratifica del Ceta da parte del Parlamento europeo, il trattato entrerà in vigore con una applicazione provvisoria.  Nei prossimi due anni i Parlamenti nazionali saranno chiamati a discutere del CETA: dunque, possiamo ancora bloccarlo – continua l’eurodeputata – non basterà la nostra opposizione in Parlamento. Mi sento impegnata a rilanciare la mobilitazione e la controinformazione dentro e fuori le aule parlamentari. E’ davvero una sfida importantissima. Non ci arrendiamo!».

Il negoziato con la Vallonia, la regione francofona del Belgio che si è coraggiosamente opposta all’accordo, si è concluso con la scelta di accostare al testo consolidato una dichiarazione interpretativa e alcune prese di posizione messe nero su bianco da Commissione Europea e Consiglio Europeo. La Campagna Stop TTIP conferma le mobilitazioni del 5 novembre in diverse città italiane, lanciando uno #StopCETAday con l’intento di sollevare un dibattito all’altezza nel Parlamento italiano ed europeo. Sebbene le divisioni degli ultimi giorni siano state ricomposte e il summit UE-Canada confermato, restano gravi perplessità e preoccupazioni su un trattato commerciale che non protegge i cittadini e l’ambiente.

Secondo Stop TTIP Italia, il braccio di ferro del Parlamento della Vallonia con il Canada e l’Unione Europea ha permesso di portare a casa alcuni punti di avanzamento, seppur limitati: sarà la Corte Europea di Giustizia, ad esempio, su input del Belgio, a valutare la legalità del meccanismo ISDS/ICS, il tribunale sovranazionale per gli investimenti che permette alle aziende di denunciare gli Stati. Inoltre, basterà un voto contrario anche nel Parlamento regionale di uno Stato federale a far saltare l’applicazione provvisoria del CETA in caso certe modifiche non vengano apportate in modo sostanziale. Altri potenziali passi avanti riguardano la promessa di una completa esclusione dalla liberalizzazione per i servizi che gli Stati membri decidono di qualificare come “servizi pubblici” e per i cosiddetti “servizi di interesse generale”. A ciò si aggiunge un impegno a tutelare l’agricoltura, vietare le importazioni di OGM e carne agli ormoni, proteggere il principio di precauzione.

«Come purtroppo temevamo il colpo di coda è arrivato. In ogni caso, la coraggiosa posizione della Vallonia, lasciata isolata dai Governi europei e in primis da quello italiano, ha obbligato l’Unione Europea a fare alcune concessioni su temi che i movimenti della società civile denunciano da anni», sottolinea Monica Di Sisto, portavoce della Campagna Stop TTIP Italia. «Resta da capire come il testo del CETA, sdoganato nel settembre 2014 e che va in direzione del tutto opposta, possa essere vincolato a una dichiarazione interpretativa che mina alle fondamenta alcuni suoi organi chiave, come il comitato per la cooperazione regolatoria. Questo tavolo di esperti, aperto all’influenza delle grandi imprese, nasce con l’obiettivo specifico di eliminare barriere regolamentari che proteggono i servizi, il mercato del lavoro, l’ambiente e la sicurezza alimentare».

La Commissione, infine, si è impegnata a rivedere «il più presto possibile» il meccanismo di arbitrato, «allo scopo di garantire l’indipendenza e imparzialità dei giudici» e un «rigoroso processo di selezione» per quelli che andranno a comporre il tribunale e la corte d’appello. L’ICS, dichiara la Commissione, dovrà progredire verso «un sistema in cui i giudici sono assunti full time». Fino a quel momento, tuttavia, resterà in vigore il pericolosissimo salario “a cottimo”, che li invoglia a decidere in favore degli investitori privati, unici soggetti che possono adire la Corte e quindi garantire continuità di emolumenti.

«Queste modifiche, affidate da Bruxelles a una dichiarazione che non fissa tempi certi per l’entrata in vigore, non possono convincere la società civile», dichiara Elena Mazzoni, tra i coordinatori della Campagna Stop TTIP. «Vogliamo che l’Italia inizi una approfondita discussione in Parlamento su questo accordo rischioso, che espone a forti rischi tutto il comparto della produzione agricola, cercando di mascherarlo con lo specchietto per le allodole delle 42 Indicazioni geografiche italiane parzialmente tutelate (su oltre 280 riconosciute dal Ministero) e non ha nessuna norma vincolante capace di tutelare i diritti del lavoro e le questioni legate allo sviluppo sostenibile, come la lotta al cambiamento climatico. Anche il Parlamento Europeo deve sollevare la testa e impedire l’applicazione provvisoria, una truffa per scavalcare le ratifiche nazionali. Come Campagna Stop TTIP crediamo sia comunque necessario un dibattito pubblico in cui sia coinvolto il Parlamento a cui chiediamo di non ratificare il trattato, per questo rilanciamo lo #StopCETAday il 5 novembre prossimo».

Il 5 novembre diverse città italiane tra cui Milano, Roma, Torino, Verona, Udine si mobiliteranno con presidi e iniziative per chiedere all’Italia dibattito pubblico e al Parlamento la non ratifica del CETA.

L’elenco delle iniziative in continuo aggiornamento è consultabile a questa pagina

FONTE POPOFF

 

L’avventurismo del governo italiano che intende inviare militari italiani alle frontiere con la Federazione Russa

 

 

(da repubblica.it ) ” Un contingente di militari italiani sarà schierato in Lettonia, nell’ambito di una forza multinazionale Nato sotto comando canadese ­ complessivamente tra i 3 e i 4mila uomini sottoposti a rotazione ­ a difesa delle frontiere esterne con la Russia nelle repubbliche baltiche enella Polonia orientale. La notizia, emersa da un’intervista al segretario generale dell’Alleanza Atlantica, Jens Stoltenberg, viene confermata dai ministri Pinotti e Gentiloni. Con una precisazione: la missione non contraddice la politica italiana improntata al dialogo con la Russia. Ma Mosca accusa la Nato di creare nuove divisioni. Mentre in Italia le opposizioni insorgono e chiedono all’esecutivo di riferire al più presto a un Parlamento del tutto ignaro del prossimo impegno militare.”

L’Alleanza Atlantica ( NATO ), sopravvissuta alla guerra fredda si rigenera con il rilancio di nuove tensioni alle frontiere con la Federazione Russa. Il Patto di Varsavia non esiste più, la NATO invece viene rilanciata per una politica internazionale tesa a mettere in difficoltà la UE e ad impedire che l’Europa abbia una propria politica estera indipendente dagli USA.
Si parla di un contingente di 3 o 4 mila uomini ( azione simbolica ) da schierare con esercitazioni sulle frontiere esterne dell’Europa con la Federazione Russa.
Un’operazione che non ha alcuna valenza militare, serve solo a provocare, a creare ulteriori tensioni. L’Italia ha sempre curato le relazioni con la Russia, prima con l’URSS ora con la Federazione Russa. Il governo italiano partecipa con 140 militari a questa operazione di provocazione pericolosa senza che il Parlamento sia stato consultato. La compromissione dell’Italia in questa impresa dissennata ha un solo scopo: distruggere quel piccolo spazio di autonomia del nostro paese nella politica internazionale e rompere quelle relazioni commerciali ed economiche  con la Federazione Russa già messe in discussione dalle sanzioni.
In poche parole la ministra della Difesa Pinotti e il ministro degli Esteri stanno attivando un percorso pericoloso, inutile e fuori controllo.
Quando si scherza con il fuoco si rischia di bruciarsi le mani…

Crisi ambientali e migrazioni forzate di Guglielmo Ragozzino

La battaglia ambientale e la crisi dei rifugiati: l’ondata silenziosa oltre la fortezza Europa. Una raccolta di saggi e articoli pubblicata dall’associazione A Sud

Nel vecchio secolo la Fiat era considerata il peggio del peggio. Cattiva, ignorante, prepotente, paurosa. Tutti volevano trasformarla, molti abbatterla. Non che non sia cambiata abbastanza da allora, sotto l’urto dei tempi; ma negli anni è rimasta sempre la peggiore di tutte. I quotidiani della nuova sinistra che erano allora tre, si prodigavano offrendo soluzioni, talvolta impraticabili, spesso molto generose. Ho in mente un’immagine che mostrava una gigantesca Fiat, una imprendibile fortezza di cemento e mattoni che però aveva sopra al tetto un certo numero di minuscoli operai dotati di picconi che dall’alto e di lato, cercando di distruggerla cominciavano a farla a piccoli pezzi. Come sia andata a finire, qualcuno lo sa. Roberto Zamarin, il vignettista che disegnava Gasparazzo per “Lotta Continua” e quando aveva finito in redazione, a notte, partiva in macchina per distribuire il giornale, morì nella notte in un incidente stradale. Quanto alla Fiat, bastava aspettare e – come si è visto – si sarebbe cancellata da sé.

segue su fonte sbilanciamoci.info

Marcinelle, 8 agosto 1956: carbone in cambio di vite umane

di Fiorenzo Angoscini

libretto 3 [Oggi si sente spesso ripetere che l’attuale Unione Europea avrebbe tradito, con le sue misure economiche draconiane, lo spirito fondatore della stessa. Eppure, esattamente sessant’anni fa, la tragedia mineraria di Marcinelle aveva già rivelato il patto di sangue che fondava la CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio).
Il trattato costitutivo della stessa fu firmato a Parigi il 18 aprile 1951 ed entrò in vigore il 24 luglio 1952. Il “mercato comune” previsto dal trattato venne inaugurato il 10 febbraio 1953 per il carbone e il ferro e il 1º maggio seguente per l’acciaio. Il trattato aveva una durata di 50 anni e la CECA successivamente divenne parte dell’Unione europea. I paesi firmatari erano: Belgio, Francia, Repubblica Federale Tedesca, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi. S.M.]

Marcinelle, sobborgo operaio di Charleroi, lembo di terra vallona dove si è combattuto un frammento di guerra di classe, si trova nel cuore del bacino minerario dello stato artificiale belga.
Polvere nera di mina assassina. Umili abitazioni, piccoli esercizi commerciali di poco svago e relativo divertimento, al cui interno, come in tutto il borgo, si respirano miseria, povertà e silicosi.
Nel resto della nazione, quella con spirito fiammingo, sulle porte e vetrine dei pubblici locali, campeggia un cartello perentorio: “vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”.

marcinelle interdit A Le Bois du Cazier (nome della miniera vigliacca) torri di estrazione, un’infinità di pozzi innaturali, scavati, violentandola, nelle viscere della terra, ingoiano tutti i giorni, tramite montacarichi criminali, uomini (unici e veri infoibati) e vagoncini da riempire di carbone (coke) da barattare, poi, con le loro vite. Alti camini di ciminiere sputano in continuazione fumo e fuliggine insieme a sudore e sangue di immigrati. Una coltre di polvere grigiastra sporca case, giardini, parchi e monumenti.

segue su fonte CARMILLAONLINE

“RIFORMA” DELLA COSTITUZIONE, BASTA CON GLI SLOGAN, LEGGIAMO IL TESTO DI QUESTO CAPOLAVORO DEL DIRITTO COSTITUZIONALE !!!

 

Lo spettacolo da curva nord o sud dello Stadio , promosso con particolare passione da diversi media e da alcuni esponenti del Governo non si addice a promuovere la conoscenza del testo della “Riforma della Costituzione” redatta sotto l’autorevole guida della chiarissima costituzionalista on. Maria Elena Boschi.
Invece di perdere tempo ad insultare e ad essere insultati sui social è più opportuno leggere con attenzione il testo vigente e i testi modificati degli articoli della Costituzione.
Solo con la lettura attenta dei testi si possono individuare i rischi presenti in questo elaborato scritto male, impreciso con il quale si vorrebbe “semplificare” e “modernizzare” l’Italia.
Non diciamo altro perchè ognuno possa, con alcune ore di studio, rendersi conto su cosa si va a votare in ottobre. Si tenga conto che il Testo di una Costituzione ha un ciclo di vita molto lungo e deve essere scritto con cura e con un orizzonte che va ben al di là del ciclo di vita di un Governo. Questo testo appare come il prodotto fatto su misura per le esigenze dell’attuale governo, non sulle prospettive di sviluppo della democrazia di medio lungo periodo della Repubblica Italiana che avrà, come in molti auspichiamo, vita molto più lunga dell’attuale esecutivo.

IL TESTO COMPARATO

Al renzismo non c’è mai fine

Dai diritti alle regalie ai poveri e ai giovani. È la filosofia di Matteo Renzi. Ma per le regalie servono soldi, dove va a cercarli il “sindaco d’Italia”? Nei patrimoni dei ricchi e dagli evasori fiscali, o rinunciando a Tav e ponte sullo Stretto? Macché, così si fermerebbe una crescita che solo Renzi vede. Meglio seguire altre strade: spremere i lavoratori bloccando i rinnovi contrattuali nel pubblico, cancellando il contratto nazionale nel privato e – riconsegnato con il jobs act tutto il potere ai padroni – puntando tutto sul secondo livello a cui una minoranza può accedere, sostituendo gli aumenti salariali nella parte fissa del salario con aumenti variabili, detassati, legati all’andamento aziendale; tagliando sanità, previdenza, istruzione e sostituendo l’universalità dei diritti con il welfare aziendale; colpendo ancora i pensionati – ultimo ammortizzatore sociale per i giovani senza lavoro e senza reddito di cittadinanza – già fatti a pezzi dalla Fornero, strizzando le pensioni di reversibilità ai coniugi dei lavoratori deceduti.
Eppure Renzi tiene, e se si crede ai sondaggi aumenta i consensi così come il Pd. Gli italiani sono matti? Più che matti sfiancati, paralizzati dalla crisi della rappresentanza politica e sociale. La forza di Renzi sta nell’assenza di alternative, e se la democrazia agonizza tanto vale tenersi l’uomo solo al comando, mica è la prima volta nel Belpaese. L’unico scontro in atto, dentro e fuori il Pd, è sulle unioni civili con il riemergere dell’eterna subalternità di tanta politica alle fatwe vaticane. Per il resto, basta guardare alle prossime comunali nelle principali città: a Roma, commissariata per Mafia capitale, dove l’impresentabile Pd va sfiduciato alle primarie mentre la destra si scanna sul Bertolaso dei grandi eventi, pupillo di Berlusconi, l’uomo dei massaggi speciali nei centri benessere e dello scandalo del G8 mancato all’Aquila terremotata; a Milano, drogata dall’Expo che dice addio al modello Pisapia anche grazie a Pisapia e ai suoi infedeli seguaci che si autocancellano e mette due figure identiche a combattere per la poltrona di sindaco, il neo-renziano Sala, già deus ex machina di Moratti, ex ad Pirelli e dg Telecom ed Expo per il Pd (te la do io la classe operaia) e Parisi, già deus ex machina di Albertini, già Cgil e Psi per la destra; Napoli, dove per battere il sindaco di sinistra De Magistris dal cappello del Pd esce un Bassolino d’annata sfidato da una ex bassoliniana, mentre la destra non si vede all’orizzonte; Bologna, dove il Pd spera che la maggioranza degli scontenti resti a casa e i pochi contenti possano confermarlo al potere, magari di nuovo con il 37% dei votanti, mentre si cerca un candidato che unisca quel che resta a sinistra; sembra resistere l’alleanza Pd-Sel solo nella Cagliari del sindaco di sinistra Zedda; infine Torino, dove il sindaco Fassino con azionisti di destra, pd e centro non ha rivali, salvo la buona candidata 5 Stelle e dove la sinistra si è unita intorno al nome di Giorgio Airaudo, un nome di qualità allevato in casa Fiom. Ma chi in alcune città rischia vincere è fuori dalla mischia, i 5 Stelle degrillizati (solo) nel simbolo, forti delle miserie altrui al punto da permettersi di schierare candidati sconosciuti ai più.
In attesa del braccio di ferro sulle unioni civili, Renzi sogna il miracolo a Milano mentre dà per quasi persa Roma e mette le mani avanti: chiunque vinca, hic manebimus optime e punta tutto sul referendum d’autunno sulle riforme istituzionali che smantellano Costituzione e democrazia parlamentare. Non senza aver prima impedito l’election day tra amministrative e referendum contro le trivellazioni del povero Adriatico, che si svolgerà prima al costo aggiuntivo di 300 milioni nella speranza che fallisca il quorum.fonte area7.ch

RAVENNA, SALUTE E SICUREZZA NEL LAVORO OGGI, INTERVISTA AD ANDREA MARCHETTI

SALUTE E SICUREZZA NEL LAVORO A RAVENNA
INTERVISTA AD ANDREA MARCHETTI CGIL RAVENNA

 


Abbiamo intervistato Andrea Marchetti, responsabile per la Cgil del Coordinamento Salute e Sicurezza nel Lavoro sullo stato dell’arte nel territorio di Ravenna.
Come stanno andando le cose a Ravenna, un territorio con molte realtà produttive di grande complessità, dal porto all’industria chimica ove la gestione dei rischi da parte delle aziende è il fattore primario per evitare gravi incidenti sul lavoro e ridurre l’impatto sulla salute non solo dei lavoratori ma anche della popolazione ?
Queste ed altre sono le domande che abbiamo rivolto ad Andrea Marchetti.

L’INTERVISTA

“Frau Merkel, con gli USA non andiamo da nessuna parte”

Un attacco frontale al filo-atlantismo e alla politica di rigore della Merkel Dalla leader dell’opposizione Sahra Wagenknecht una dura critica alle ingerenze USA in Europa. Dai rapporti con la Russia all’approvazione del TTIP, dal caso Grecia alla sudditanza alla Troika.
Supervisione editoriale Adolfo Marino, traduzione Maria Heibel, editing Santiago Martinez de Aguirre. Pandora TV – 2015

Podcast Notizie Ambiente Lavoro Salute di Diario Prevenzione – 21 gennaio 2016 – n° 34

 

Podcast Notizie Ambiente Lavoro Salute di Diario Prevenzione – 21 gennaio 2016 – n° 34
a cura di Gino Rubini

In questo numero parliamo di

– Un clima pesante per chi vive del proprio lavoro, Jobs Act e dintorni

– LA SEMPLIFICAZIONE RICHIEDE INTELLIGENZA. L’ABROGAZIONE DEL REGISTRO INFORTUNI, UNA SEMPLIFICAZIONE FATTA SENZA TESTA

– Tecnostress: il punto di vista del sindacato

– LAVORO AGILE, TANTO “AGILE” DA ESSERE VOLATILE E INSICURO PER LA SALUTE E SICUREZZA

– Bruno Maggi: Il “vero paziente è il lavoro ”

 

LAVORO AGILE, TANTO “AGILE” DA ESSERE VOLATILE E INSICURO PER LA SALUTE E SICUREZZA

 

Abbondano i disegni di legge per dare una parvenza di “legalità” alle forme di lavoro “precario” con la sostituzione delle parole che lo definiscono.
Da “precario” il lavoro diviene “agile”, e in alcune accezzioni diviene addirittura “smart” dove di “smart” per il lavoratore vi è molto poco.
Tutto diviene indefinito, la cosìdetta cornice costruita per dare una parvenza di “legalità” per alcuni elementi diviene risibile rispetto, ad esempio, alle norme per la gestione della sicurezza sul lavoro.

Abbiamo tra le mani un ibrido che sta tra il regolamento aziendale tipo e e un contratto commerciale ove il lavoratore è un fornitore in una relazione di potere sbilanciata. L’aspetto della prestazione è affidato al contratto individuale tra lavoratore e impresa, in una condizione di totale subalternità del lavoratore.

Orari, tempi di lavoro, aspetti gestionali sono consegnati alla trattativa individuale tra lavoratore e impresa. Abusi, truffe e compensi non pagati in ragione di contestazione della qualità della prestazione erogata dal lavoratore saranno possibili e numerosi in quanto le clausole contro gli abusi riguardano solo gli aspetti formali del contratto. Il dominus è l’azienda committente versus il lavoratore che è monade isolata e debole. Non esiste nessun accenno che richiami l’ergonomicità delle attrezzature fornite dal committente o proprie del lavoratore. Per fare un esempio i lavoratori agili del call center potranno operare con cuffie da tre soldi, apparecchiature di bassa qualità…
Non parliamo poi della prevenzione dello stress lavoro correlato totalmente ignorata in quanto il lavoro “agile” non sarebbe stressante per definizione. 🙂

I commi 2 e 3 dell’articolo 6 sono emblematici dell’assenza di tutela della salute di questi lavoratori.
Il Parlamento dovrà discutere seriamente prima di licenziare questo pericoloso pastrocchio ove di “agile” vi è solo l’amabile disinvoltura ad evitare di affrontare la complessità dei problemi che questa tipologia di lavoro produrrà nel mercato del lavoro.
La  pericolosità sta nella diffusione di un rapporto di lavoro di natura altamente subordinata spacciato come rapporto di lavoro autonomo “leggero” e senza rischi per la salute . La sua “pericolosità sociale” è pari solo a quella generata dai Voucher.

Art. 6. Sicurezza sul lavoro.

1. Il datore di lavoro deve garantire la tutela della salute e della sicurezza del lavoratore che svolge la propria prestazione lavorativa in modalità di lavoro agile.

2. Al fine di dare attuazione all’obbligazione di sicurezza, e tenuto conto dell’impossibilità di
controllare i luoghi di svolgimento della prestazione lavorativa, il datore di lavoro deve
consegnare una informativa periodica, con cadenza almeno annuale, nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alle modalità di svolgimento della prestazione.

3. Il lavoratore che svolge la propria prestazione lavorativa in modalità di lavoro agile, per i
periodi nei quali si trova al di fuori dei locali aziendali, deve cooperare all’attuazione delle
misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro.

LA BOZZA DEL DDL SUL LAVORO AGILE

Mister Eternit blocca il libro sul disastro ambientale

LA CENSURA SU AMAZON

Mister Eternit

Mister Eternit blocca il libro sul disastro ambientale

di Piero Bosio
Domenica 06 dicembre 2015 ore 02:39
“Quel libro non deve uscire su Amazon nella sua versione inglese. Bloccatelo”. E così è stato. Il capo dell’Eternit Stephan Schmidheiny ha scatenato i migliori avvocati svizzeri per bloccare l’uscita dell’ e-book promosso dalla casa editrice Falsopiano e l’Isral (Istituto storico della Resistenza di Alessandria).

Il libro digitale in versione inglese, dal titolo The Big Trial (Il Grande Processo) , era stato scritto dal magistrato Sara Panelli, uno dei tre pubblici ministeri (insieme a Guariniello e Colace) del maxi processo di Torino contro l’Eternit , e da Rosalba Altopiedi, consulente per la Procura in quella inchiesta. Il testo racconta e ricostruisce alcune fasi del processo Eternit e del principale accusato, Stephan Schmidheiny.

> l’articolo segue sulla fonte radiopopolare.it

commento: Mr Eternit non è stato assolto dalle accuse per cui era stato condannato in primo e secondo grado di giudizio, il processo non ha potuto concludersi con la conferma delle condanne di primo e secondo grado in quanto i reati erano caduti in prescrizione ….

Erdogan, cosa vuole (e perché non lo avrà)

 

di | 30 novembre 2015

L’obiettivo primario di Erdogan è stato, ed è, quello di abbattereBashar al-Assad. Lo spingono le sue ambizioni neo-ottomane, il suo islamismo sunnita ma anche capitalista, comunque anti-sciita. Lo spinge il calcolo tattico di compiacere i neo-conamericani (che sono alleati di Israele e, quindi, puntano a liquidare la Siria, ostacolo principale alla costruzione della Grande Israele, dal Sinai fino all’Eufrate). Lo spinge la convergenza di interessi anti sciiti tra Israele, Arabia Saudita e Qatar. Da non dimenticare il“presidential order” con cui Obama, in fotocopia con l’analogo “order che costituiva la dichiarazione di morte di Gheddafi, affermò nel 2011 che il governo di Damasco costituiva una minaccia per gli interessi americani nell’area.

Erdogan sa di essere nella Nato con lo scopo di difendere quegli interessi strategici, in attesa di costruirsene di propri. La fine di Bashar era il punto di convergenza di tutti questi disegni. Si aggiunga a questo che la Turchia è l’unico paese che può svolgere il ruolo (molto proficuo) di compratore del petrolio che lo Stato Islamico preleva in Siria e Iraq.

l’articolo segue >>> alla fonte  >>> ilfattoquotidiano.it

Il Rapporto sul terrorismo globale

 

report

Il Rapporto sul terrorismo globale

Maurizio Murru

Nel 2014, le vittime del terrorismo sono state 32.658, un aumento dell’80% rispetto alle 18.111 del 2013. Il 78% di esse è concentrato in cinque paesi: Afghanistan, Iraq, Nigeria, Pakistan e Siria. Dal 2000, quando furono 3.329, sono aumentate nove volte. Boko Haram, l’organizzazione terrorista più sanguinaria.

Global Terrorism Index 2015

È da poco stato pubblicato il “Global Terrorism Index 2015”. Una analisi documentata e ad ampio raggio eseguita dall’Institute for Economics and Peace, un gruppo di studio senza scopo di lucro con sedi a Sidney, New York e Città del Messico (www.economicsandpeace.org). Questo studio esamina 162 paesi che, assieme, contengono il 99,6% della popolazione mondiale. Ne tentiamo una sintesi. Quando non altrimenti specificato, i dati citati provengono da questo documento che chiameremo, per semplicità, “il Rapporto”.

l’articolo segue alla fonte su saluteinternazionzale.info

TTIP: UNA MINACCIA PER LE NORME EUROPEE E NAZIONALI CHE REGOLANO AMBIENTE LAVORO SALUTE

TTIP: UNA MINACCIA PER LE NORME EUROPEE E NAZIONALI CHE REGOLANO AMBIENTE LAVORO SALUTE

Non so quanti lettori conoscano sia pure in superficie cosa è il TTIP e i relativi rischi di azzeramento dei sistemi giuridici degli stati membri dell’Europa che tutelano ambiente, diritti dei lavoratori e salute, intesa come diritto alla salute dei cittadini.

Il fatto che la maggioranza dei cittadini non conosca cosa sia il TTIP, quale sia il merito e il contenuto di questi accordi, quali impatti positivi e negativi potranno avere sulla vita quotidiana, non è un caso, è il risultato di una scelta politica dei governi e della Commissione Europea che ha emarginato il ruolo dello stesso Parlamento europeo rispetto alla trattativa.

La mancanza d’informazione su questo Trattato è inversamente proporzionale alla sua importanza e alla sua capacità di influire sulle nostre vite future.

Il TTIP è un trattato internazionale quadro composto da una serie di negoziati specifici sul commercio che ha lo scopo di de/regolamentare il commercio tra Stati Uniti ed Europa.

Per raggiungere questo risultato il TTIP prevede di ridurre se non eliminare  le barriere regolamentari esistenti e differenti tra USA ed Europa: in particolare, l’Unione Europea dovrà abbassare  le barriere poste per la protezione dell’ambiente, della salute dei consumatori attraverso le politiche di deregolamentazione del cibo e di altri prodotti, limitare la tutela del consumatore, dovrà  riconsegnare al mercato le prestazioni sanitarie erogate dai SSN pubblici, in modo da agevolare gli scambi con gli operatori statunitensi che operano in un regime meno regolamentato.

Il TTIP prevede l’istituto del ISDS (Investor-state dispute settlement) anche noto come “trattato per la risoluzione delle controversie tra investitore e stato” il quale consentirà alle aziende di far causa ai governi citandoli davanti ad un collegio arbitrale costituito da tre avvocati esperti di diritto societario. Si tratterebbe di un collegio arbitrale dove le altre parti in causa non avrebbero alcuna rappresentanza e che non prevede alcuna possibilità di riesame davanti ad un’autorità giudiziaria.

L’inserimento di questa clausola in alcuni trattati commerciali già esistenti (ma d’importanza inferiori a quella del TTIP) ha permesso ad una serie di grandi aziende multinazionali  di opporsi alle decisioni prese da alcuni governi allo scopo di fornire una protezione a beni costituzionamente indisponibili alle logiche di scambio, quali l’ambiente e la salute dei cittadini, citando gli Stati in giudizio.

Alcuni esempi tratti dalla stampa internazionale: la Philip Morris sta già facendo causa ai governi di Uruguay e Australia per le loro politiche dure contro il fumo;  Occidental, un’azienda petrolifera, ha ottenuto un risarcimento di 2,3 miliardi di dollari dall’Ecuador, reo di aver revocato all’azienda la concessione per le trivellazioni in Amazzonia dopo aver scoperto che la stessa aveva infranto la legge. La Vattenfall ha intentato causa al governo tedesco, responsabile di aver rinunciato all’energia nucleare. Un’azienda australiana ha citato in causa il governo di El Salvador che non aveva dato le concessioni di sfruttamento per una miniera d’oro che rischia di inquinare l’acqua potabile.
Con questa  logica  le multinazionali dell’amianto potrebbero promuovere cause di risarcimento per gli investitori chiamando in causa i governi che hanno messo al bando la produzione e il commercio di manufatti in amianto….

I mass media italiani non hanno speso una parola per informare i cittadini sul percorso “occulto” di questi negoziati. Quelli che ne hanno parlato hanno riprodotto le veline della Commissione Europea.

Il governo per voce del Presidente  del Consiglio ha affermato che il TTIP una volta approvato sarà una grande opportunità …. Non ha precisato per chi .

Sabato 10 ottobre u.s. sono stato testimone a Berlino, città dove risiedo per alcuni mesi ogni anno,  di una straordinaria e pacifica manifestazione che ha visto sfilare da HauptBanhof alla stele Siegessaule più di 200 mila persone, uomini donne, famiglie con i figli in carrozzina che aveva come slogan STOP TTIP. La manifestazione è stata promossa da sindacati dei lavoratori dipendenti DGB, VER.DI, IG METALL,  da associazioni di produttori agricoli, da centinaia di associazioni ambientali e di promozione del welfare…

La richiesta più decisa oltre a richiedere lo STOP degli attuali negoziati è quella della trasparenza, del diritto dei cittadini a conoscere con precisione i termini del trattato. Conoscenza che è stata negata agli stessi parlamentari  europei che hanno potuto sbirciare alcuni documenti in una sala speciale senza quaderni o penne per prendere appunti…
Abbiamo parlato di TTIP perche avrà, se non sarà fermato, effetti devastanti  anche sulle legislazioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Per questo motivo invitiamo i lettori a documentarsi e ad essere vigilanti ed esigenti per quanto riguarda la trasparenza.

Gino Rubini, editor

Riferimenti e Documenti

1) TTIP, nessun vincolo su ambiente, clima e lavoro

http://www.vita.it/it/article/2015/10/26/ttip-nessun-vincolo-su-ambiente-clima-e-lavoro/137122/

2) FILTRA LA PROPOSTA EUROPEA SULLO SVILUPPO SOSTENIBILE NEL TTIP: TANTI BUONI PROPOSITI, NESSUN VINCOLO A RISPETTARLI

http://stop-ttip-italia.net/2015/10/26/ttip-e-sviluppo-sostenibile-nessun-vincolo-solo-parole/

3) TTIP: trattato Usa-Ue sul commercio, lati oscuri e rischi che i governi non contino più nulla

http://www.repubblica.it/solidarieta/equo-e-solidale/2015/07/09/news/ttip_il_trattato_della_discordia_sul_commercio_usa-ue-118729492/

4)FERMA IL TTIP

http://www.greenpeace.org/italy/it/Cosa-puoi-fare-tu/partecipa/stop-ttip/

5) Berlin anti-TTIP trade deal protest attracts hundreds of thousands

http://www.theguardian.com/world/2015/oct/10/berlin-anti-ttip-trade-deal-rally-hundreds-thousands-protesters

6) TTIP: Jeremy Corbyn, Nigel Farage, Nicola Sturgeon and Natalie Bennett sign appeal to exempt NHS from trade deal
The organisers, from Unite, say that they approached the Conservatives asking for support but were refused

http://www.independent.co.uk/news/uk/politics/ttip-jeremy-corbyn-nigel-farage-nicola-sturgeon-and-natalie-bennett-sign-appeal-to-exempt-nhs-from-a6708156.html

DRAMMA GRECIA: L’EUROPA “NANO POLITICO”

La crisi greca ha messo in luce il disastro politico dell’Europa che si è presentata per quello che è : un nano politico . L’isteria dei leader di Germania e paesi satelliti è pari alla mancanza di una vision geopolitica che vada al di là della contingenza. L’Europa esce, comunque vada, frantumata e più debole incapace di governo continentale. Saranno ancora una volta USA, Federazione Russa e Cina a giocare la grande partita del futuro: è nelle loro mani il progetto del futuro del continente formato da 28 stati incapaci di darsi una strategia. A causa di questo nanismo politico legato alla fede nelle politiche di austerità l’Europa si prepara a tempi molto difficili, drammatici. Non si può dipendere dalle isterie e dalla miopia del governo tedesco. Un’altra europa può emergere da questa crisi, ma a quale prezzo?

Jobs Act, Garante privacy: “No a controlli invasivi”. Un altro pastrocchio del governo Renzi

 

L’appello alla chiarezza del Garante, Antonello Soro, nella relazione annuale al Parlamento. Si unisce anche la presidente Boldrini: “Mi auguro che ci sia un confronto parlamentare che faccia chiarezza”.
( da Repubblica )

E’palese che gli estensori del testo specifico del Jobs Act in materia di “controlli a distanza” dei lavoratori tramite smartphone, tablets e altri devices elettronici non hanno richiesto pareri preventivi al Garante nella fase della elaborazione, o se li hanno richiesti, non ne hanno tenuto conto.

E’verosimile pensare che altri siano stati i “suggeritori” del testo che dovrebbe tra l’altro eliminare il primo comma dell’art.4 della Legge 300/70 che è l’architrave sul quale appoggiano anche le Linee Guida del Garante della Privacy in materia di lavoro.

Nei fatti le precisazioni del ministro del Lavoro e di Palazzo Chigi per voce della ministra Boschi appaiono sempre più come maldestri tentativi di coprire in qualche maniera un testo scritto male non si sa se per insipienza o per malizia.

Le contraddizioni e le “perversioni” di questo testo sono ben descritte nell’articolo “ Jobs Act: Grande Fratello o Grande Pasticcio ? ” di Guido Scorza apparso su “il Fatto Quotidiano”

Vedremo se nelle Commissioni parlamentari vi sarà la capacità di fare uscire un testo dignitoso che tuteli la personalità e la privacy dei lavoratori dipendenti dagli abusi che con l’utilizzo improprio da parte aziendale dei dati personali che provengono da questi strumenti potrebbero verificarsi. L’attuale testo è un pastrocchio che da una parte lascia ampi spazi per abusi e dall’altra, se fosse approvato così com’è, alimenterà un’ondata di contenziosi i cui costi sono difficili da valutare.
Auspichiamo per davvero che l’attuale testo con l’abolizione del primo comma dell’art.4 della Legge 300/70 sia cassato.
In ogni caso si pone il problema del controllo sociale della “profilazione” possibile che con questi strumenti su aspetti anche privati della vita del lavoratore.
I lavoratori purtroppo sono inermi, come uomini e donne di “vetro”, trasparenti e vulnerabili, rispetto ai nuovi rischi derivanti dalla “profilazione” che può essere fatta minuto per minuto durante l’orario di lavoro e oltre il lavoro.

Occorre costruire una cultura della prevenzione in materia di violazione della privacy in relazione al lavoro che allo stato dell’arte è quasi inesistente.
Le tecnologie disponibili per la “profilazione” dei comportamenti sono sempre più sofisticate e invasive e consentono a coloro che possono raccogliere e organizzare i dati di programmare e influire sulla vita delle persone “profilate” ben oltre quanto previsto dal rapporto di lavoro formale.

Non è sufficiente che il datore di lavoro “informi” il lavoratore sulla tipologia dei controlli che l’azienda potrà effettuare tramite il device elettronico dato in uso. Bisogna che i lavoratori e i loro rappresentanti sappiano valutare queste tipologie di controllo e la loro legittimità e divengano un soggetto contrattuale attivo in grado di interagire con l’azienda per definire e limitare i controlli.

Su questa materia occorre fare crescere una capacità di contrattazione e di controllo sociale da parte dei rappresentanti dei lavoratori e prevedere un ruolo maggiore di vigilanza e di consulenza del Garante della privacy in modo che sia in grado d’intervenire laddove vengano segnalate violazioni e abusi.

Infine occorre sviluppare una cultura preventiva di base che metta in condizione il lavoratore di autotutelarsi, di non offrire un eccesso d’informazioni su di sè che possono essergli usate contro e a suo danno. Sono troppi i giovani e le ragazze che offrono un profilo di sè su facebook che diviene fattore di esclusione rispetto all’assunzione poichè i selettori di HR consultano facebook come primo step del loro lavoro….

Cosa emerge da questa vicenda ?

1) La voglia del Governo di consegnare sempre più potere alle aziende: un eccesso di zelo servile che rischia di fare pure del danno alle imprese più organizzate ed eticamente corrrette che non hanno bisogno di “profilare” e spiare di nascosto i lavoratori in quanto governano le relazioni con i lavoratori con il consenso e con la contrattazione bilanciata dei diritti e dei doveri;

2) L’inaffidabilità del Ministro del Lavoro inconsapevole della delicatezza della materia che tratta e incapace di organizzare il lavoro degli apparati del ministero che hanno prodotto questa proposta “pastrocchio” nei fatti impresentabile e per certi aspetti risibile;

3) Il ritardo del sindacato nella informazione e formazione dei lavoratori su tutta la materia della privacy in relazione allo sviluppo delle tecnologie che consentono la profilazione e sulle pratiche di autotutela dei lavoratori.

Su ognuno di questi aspetti occorre lavorare per uscire dal vicolo cieco del Jobs Act , un sistema di norme tese a svalorizzare il lavoro e a sottrarre dignità ai lavoratori.

Gino Rubini, editor di diario prevenzione

Bologna

L’Europa e l’uso politico delle “riforme” di James K. Galbraith

L’Europa e l’uso politico delle “riforme”

[di James K. Galbraith] Quelle che i creditori chiedono alla Grecia non sono riforme. Sono contro-riforme che mirano a ridurre il ruolo dello Stato nell’economia e a imporre un singolo modello di politica economica in tutta Europa.

di James K. Galbraith

Di ritorno da Berlino, la settimana scorsa, il ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis mi ha fatto notare come l’attuale uso della parola “riforma” abbia origine nel periodo intermedio dell’Unione Sovietica, all’epoca di Kruscev, quando si cercò di introdurre degli elementi di decentralizzazione e di mercato in un sistema pianificato sempre più sclerotico. In quegli anni, quando in America ci si batteva per i diritti civili e in Europa occidentale molti giovani sognavano ancora di fare la rivoluzione, la parola “riforma” non era molto diffusa in Occidente. Oggi, in una curiosa convergenza, è diventata la parola d’ordine delle classi dominanti.

Le riforme sono al centro del braccio di ferro tra la Grecia ed i suoi creditori. Un alleggerimento del debito greco non viene escluso – ma solo se i greci acconsentono a fare “le riforme”. Ma di quali riforme stiamo parlando, e a che fine? La parola è sbandierata quotidianamente dalla stampa, come se il significato del termine fosse scontato.

La verità è che le riforme che vengono oggi richieste alla Grecia dai creditori sono di una variante particolare: mirano tutte a ridurre il ruolo dello Stato nell’economia. In questo senso si possono definire “di mercato”. Ma esse non hanno nulla a che vedere con la promozione della decentralizzazione e del dinamismo. Al contrario, servono a distruggere le istituzioni locali e a imporre un singolo modello di politica economica in tutta Europa, con la Grecia nel ruolo di avanguardia anziché di fanalino di coda. In un altro senso, dunque, non sarebbe esagerato definire queste proposte totalitarie; se il loro padre filosofico è Friedrich von Hayek, il loro predecessore politico si può considerare Stalin, per metterla in maniera un po’ brutale.

Lo “stalinismo di mercato” oggi propagandato in Europa si articola su tre livelli, almeno per quello che concerne la Grecia. Le pensioni, il mercato del lavoro e le privatizzazioni. Poi ci sono le questioni più generali delle tasse, dell’austerità e della sostenibilità del debito, su cui ritorneremo più avanti.

Per quanto riguarda le pensioni, i creditori chiedono già da quest’anno un taglio della spesa pensionistica pari all’incirca all’1% del PIL, in un paese in cui la maggior parte degli esborsi pensionistici sono inferiori alla soglia di povertà. Più precisamente, chiedono un taglio di circa 120 euro a pensioni che si aggirano già sui 350 euro al mese o meno. Da parte sua, il governo riconosce che il sistema pensionistico greco va riformato – l’attuale limite d’età per ricevere il pensionamento anticipato è insostenibile – ma obietta che deve trattarsi di una riforma graduale e associata all’introduzione di un sussidio di disoccupazione effettivo.

Per quanto riguarda il mercato del lavoro, i creditori hanno già ottenuto la quasi totale cancellazione della contrattazione collettiva e la riduzione del salario minimo. Il governo ha fatto notare che questo ha avuto l’effetto di “informalizzare” il mercato del lavoro, allargando il bacino del lavoro sommerso e diminuendo i contributi previdenziali, minando ancora di più la stabilità del sistema pensionistico. La proposta del governo è di creare un nuovo sistema di contrattazione collettiva in linea con gli standard dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL).

Infine, le privatizzazioni: i creditori chiedono la messa in vendita – e in fretta – di porti, aeroporti e imprese elettriche, oltre a tutta un’altra serie di asset pubblici. Ciò che il governo critica non è la possibilità che alcuni asset siano gestiti da privati e/o da stranieri, ma che questi vengano svenduti senza condizioni e senza ritenere alcuna partecipazione statale. Giusto per fare un esempio, nella trattative per la vendita del porto del Pireo al colosso cinese Cosco, il governo insiste affinché l’accordo preveda un piano di investimento e misure a difesa dei diritti dei lavori.

Sul fronte delle tasse, i creditori hanno chiesto un aumento significativo dell’IVA, la cui aliquota massima è già del 23%. Nel mirino dei creditori vi sono in particolare i medicinali (il cui aumento dei costi colpirebbe soprattutto gli anziani) e le aliquote speciali di cui godono le isole greche, dove si concentra il grosso dell’attività turistica e dove i costi sono già più alti che nel resto del paese. La replica del governo è che questo danneggerà la competitività dell’industria turistica greca e avrà l’effetto paradossale di ridurre l’attività economica, peggiorando la situazione debitoria del paese. Ciò che serve è una migliore esazione fiscale: ridurre l’evasione dell’IVA, infatti, permetterebbe tranquillamente di ridurre le aliquote medie.

In definitiva, quello che manca nelle richieste dei creditori sono proprio le riforme. I tagli alle pensioni e l’aumento dell’IVA non sono riforme; non contribuiscono minimamente ad aumentare l’attività economica o la competitività della Grecia. Le privatizzazioni selvagge possono facilmente generare pericolosi monopoli privati, come dimostra l’esempio dell’America Latina. La deregolamentazione del mercato del lavoro non è altro che un crudele – e controproducente dal punto di vista economico – esperimento sociale, come dimostrano anche numerosi studi del Fondo monetario internazionale (FMI). Nessuno può seriamente sostenere che ridurre i salari greci serve a rendere il paese più competitivo nei confronti della Germania o dell’Asia. Al contrario, non farà che spingere proprio coloro che possiedono le competenze più competitive fuori dal paese.

Qualunque riforma che sia degna di questo nome richiede tempo, pazienza, pianificazione e denaro. La riforma del sistema pensionistico e di sicurezza sociale, l’introduzione di standard del lavoro moderni, una politica di privatizzazione oculata, la creazione di un sistema di riscossione delle imposte efficiente: queste sono vere riforme. Così come lo sono le misure relative all’amministrazione pubblica, al sistema giudiziario, all’integrità statistica e così via, su cui il governo sarebbe ben felice di muoversi, se solo i creditori glielo permettessero. Anche un programma di investimenti rivolto al settore dei servizi avanzati – sanità, assistenza agli anziani, istruzione superiore, ricerca, arte – darebbe ottimi risultati in un paese come la Grecia. Persino una ristrutturazione del debito che permetta alla Grecia di tornare sui mercati (sì, si potrebbe fare, e i greci hanno presentato una proposta molto ragionevole in merito) potrebbe a tutti gli effetti considerarsi una riforma.

Il programma dei creditori, al contrario, è una contro-riforma, un semplice programma di recupero crediti, basato sull’assunto secondo cui tagliare pensioni e ai salari, aumentare la pressione fiscale e privatizzare il privatizzazabile aiuterà la ripresa economica invece di ridurre ulteriormente il potere d’acquisto delle famiglie e favorire il rimpatrio all’estero dei proventi delle privatizzazioni, come è ovvio. È una riproposizione della stessa fallimentare “cura” imposta alla Grecia negli ultimi cinque anni, che ha distrutto il 25% del PIL greco e fatto lievitare il debito pubblico dal 100 al 180% del PIL. Ammettere il fallimento del programma greco, però, minerebbe la credibilità di tutta l’architettura economica europea, oltre che dei suoi sponsor politici.

È per questo che i negoziati tra la Grecia e l’UE al momento sono entrati in una fase di stallo. Ovviamente è uno scontro impari: se i greci non accettano le condizioni imposte dai creditori, il sistema bancario greco potrebbe implodere, costringendo il paese a fuoriuscire dall’euro, con conseguenze estremamente destabilizzanti (almeno nel breve termine). Questo i creditori lo sanno bene. Ed è per questo continuano a tenere la Grecia con le spalle al muro: da un lato si rifiutano di fare la benché minima concessione, dall’altro non fanno altro che accusare il governo greco di non voler collaborare. E per ogni passo in avanti fatto dal governo greco, i creditori fanno due passi indietro.

È una dinamica tipica dei negoziati che vedono contrapposti un partito forte e uno debole, per di più sottoposto a forti pressioni. In questo caso, poi, la trattativa è ulteriormente complicata dal fatto che i creditori non hanno una leadership unificata e dunque qualcuno – a parte forse Angela Merkel – che può effettuare delle concessioni per raggiungere un accordo. Per cui il ventaglio delle opzioni è piuttosto limitato. O Syriza accetta le condizioni dei creditori, rischiando di provocare una crisi di governo che spianerebbe la strada ad Alba Dorata o ad un nuovo protettorato europeo. O i greci saranno costretti a prendere in mano il proprio destino, nonostante gli enormi rischi che questo comporta, e sperare che qualcuno sia disposto ad aiutarli.

Pubblicato su Social Europe Journal il 15 giugno 2015.

Intervista a Alex Zanotelli

Il disastro umanitario in Libia, la guerra in Ucraina, la necessità dell’uscita dell’Italia dalla Nato sono alcuni dei temi toccati da Alex Zanotelli.
Un’esclusiva di Pandora TV in collaborazione con Road TV.
Intervista realizzata a Napoli il 19 maggio 2015.

“Di chi è la vittoria?”

“Di chi è la vittoria?”

Disertando in massa le celebrazioni per il settantesimo anniversario della vittoria sul Nazismo, l’Occidente pensava di isolare Mosca; invece è riuscito, ancora una volta, a isolare se stesso.

Ripensare la politica (dal sito Valore Lavoro)

Nota di editor

Questo articolo che fa sintesi delle riflessioni emerse in un seminario di formazione politica del PD ci mostra “l’altra faccia della luna “: non esiste solo un PD compatto e granitico che si fa Partito della Nazione, diretto da un gruppo dirigente cooptato e inserito in una sorta di “cerchio magico” stretto a mò di clan attorno al leader indiscusso Renzi. Esistono forze di pensiero che con lucidità si pongono le domande legittime di dove si stia andando e su come “ripensare la politica”. Come “onde corte” non sappiamo se queste forze di pensiero riflessive riusciranno a introdurre una dialettica seria e democratica all’interno del PD ma è senz’altro positivo e importante il loro lavoro di elaborazione e di proposta. editor

Ripensare la politica
di Maria C. Fogliaro
Pubblicato il 29-04-2015 su VALORE LAVORO
L’articolo raccoglie le riflessioni emerse dal seminario di formazione politica dal titolo «Partiti: modello, leadership, primarie», organizzato a Roma, il 28 marzo 2015, dai dipartimenti «Cultura» e «Formazione politica» del Partito Democratico.
Dire «politica» oggi significa, nel migliore dei casi, dire «impotenza», «inadeguatezza», «debolezza». Delegittimata (per colpe sue proprie e anche grazie a un intenso battage mediatico) agli occhi dei cittadini, che ormai la considerano fonte e origine di ogni male; frequentemente percepita come subalterna agli interessi dei poteri economico-finanziari e piegata al rispetto di logiche sovranazionali spesso riconosciute lontane dall’interesse nazionale, la politica sembra oggi incapace di tracciare un percorso autonomo che configuri una realistica via d’uscita da una situazione i cui esiti appaiono sempre più fluidi e incerti. Di fronte all’attuale crisi economica, al malcontento diffuso e alla disaffezione nei confronti della politica, alla crisi della rappresentanza, dello Stato e dei partiti, allo sbiadire (in realtà solo apparente) del cleavage destra-sinistra, all’impoverimento sempre più massiccio di vasti strati della popolazione, gli studiosi e coloro che fanno politica oggi sono chiamati a interrogarsi su come e perché questa deriva sia avvenuta, e se e come sia possibile uscirne, attraverso quali strumenti e decisioni.

Una seria riflessione – caratterizzata da una pluralità dei punti di analisi e di indagine – su alcuni dei temi caldi presenti nel discorso pubblico è stata affrontata nel seminario di formazione politica, organizzato dai dipartimenti «Cultura» e «Formazione politica» del Partito Democratico – svoltosi a Roma il 28 marzo del 2015 –, dal titolo Partiti: modello, leadership, primarie. Come già il titolo assegnato all’incontro lasciava presagire, «quello di sabato 28 marzo – ha dichiarato Andrea De Maria, deputato, componente della segreteria nazionale e responsabile del dipartimento «Formazione politica» del Partito Democratico – è stato certamente un momento formativo, ma al tempo stesso lo abbiamo immaginato e costruito con un obiettivo più generale, affinché fosse un contributo al dibattito e alla riflessione politica di tutto il PD».

Seguendo una prospettiva che muove dai tempi lunghi della storia e che è rafforzata dalla riflessione critica della filosofia politica, Carlo Galli, filosofo politico e deputato, ha collocato le gravi questioni che il neoliberismo ha aperto e non chiuso – fra tutti la perdita di potere della politica e dei partiti, e l’aumento esponenziale della disuguaglianza, almeno in Occidente, con grave compromissione del ceto medio – in quello che è lo sfondo teorico del nostro tempo. Se il contesto storico di riferimento è la rivoluzione conservatrice neoliberale inaugurata da Thatcher e Reagan e l’affermarsi in Europa – attraverso i trattati istitutivi dell’Unione Europea – dell’ordoliberalismo, la perdita di potere politico dei partiti è strettamente legata alla sua quasi totale adesione alla autonarrazione neoliberale, che sembra aver mandato definitivamente in frantumi l’idea che «il conflitto sociale possa nominarsi come conflitto politico, attraverso i nomi convenzionali di destra e sinistra». La sfida all’altezza della quale porsi è di superare lo schema nel quale pare essersi arenato il sistema politico italiano – semplificato da Galli nella formula «partito della nazione contro resto del mondo» – e di aprire un nuovo spazio per una politica, caratterizzata tanto dalla leadership quanto dalla partecipazione partitica, in grado di far emergere le contraddizioni che sono alla base delle posizioni antisistema e della voragine partecipativa che si è aperta in questa fase della storia politica d’Italia.

La centralità della dicotomia destra-sinistra attraversa anche la riflessione di Giorgio Tonini, senatore e giornalista. «Dire che sinistra è lotta per l’uguaglianza – afferma Tonini, seguendo in questo la lezione di Norberto Bobbio – significa avere della politica un’idea forte» e «concepirla come forza di trasformazione della società». In questo percorso, che impone la rimozione degli ostacoli che impediscono la concreta riduzione delle disuguaglianze, ci si scontra con tre grandi questioni del nostro tempo: la riduzione del peso della politica nazionale a favore di istituzioni sovranazionali; la fuga del potere dalla politica verso altri luoghi (nello specifico verso i poteri economico-finanziari); la contraddizione, «per un certo tempo feconda ma oggi da superare, tra l’ambizione “rivoluzionaria” della prima parte della Costituzione e la debolezza strutturale della seconda», che ha impedito – nella prospettiva delineata dal senatore – l’affermazione di una leadership forte, in grado – attraverso il consenso democratico – di incidere profondamente sulla realtà del Paese e di consentire una vera trasformazione sociale. Parallelamente alla questione della legittimazione di un governo e di una leadership forti è necessario, però, – prosegue Tonini – «predisporre un nuovo sistema di pesi e contrappesi, che dia al governo la garanzia di poter decidere in tempi certi e assicuri all’opposizione i tempi giusti per poter proporre le sue alternative al Parlamento e al Paese». In questa prospettiva, il partito – inteso come luogo di selezione e di produzione della leadership – rappresenta un forte contrappeso, in grado di bilanciare il peso della leadership e di metterla democraticamente in discussione.

Il tema della leadership e dei pesi e contrappesi ritorna anche nelle riflessioni successive. Nel suo intervento Donato Di Santo, uno dei massimi esperti in Italia dei Paesi latinoamericani, esaminando la situazione politico-istituzionale di alcuni Stati dell’America Latina – che nella maggioranza dei casi hanno adottato il modello presidenziale nordamericano – ha mostrato come essi abbiano trovato delle proprie originali vie per bilanciare il forte potere del leader e del partito che vince le elezioni (come nel caso dell’Argentina, dove è stato istituito un registro dei partiti e dove è lo Stato a organizzare, due mesi prima delle elezioni presidenziali, le primarie). Anthony Renzulli, diplomatico americano, afferma che negli Stati Uniti «i partiti sono istituzioni peculiari, fuori dall’ordine costituzionale, ma fondamentali per il funzionamento della nostra democrazia. Vecchi, ma sempre in evoluzione». I due partiti principali, prosegue Renzulli, condividono gli stessi valori fondamentali e i loro compiti si concentrano sulla selezione dei candidati con primarie aperte, sulla mobilitazione degli elettori e sull’informazione dell’opinione pubblica, sul controllo della maggioranza. Il caso tedesco, infine, – esaminato da Silvia Bolgherini, ricercatrice di Scienza politica presso l’Università Federico II di Napoli – è quello di uno Stato a cancellierato forte (Kanzlerdemokratie), che è stato caratterizzato, per gran parte della sua storia, da una grande stabilità – incentrata sulla dinamica bipolare dei «due partiti e mezzo» [SPD (socialdemocratici) e CDU/CSU (democristiani), con FDP (liberali) come ago della bilancia]. Oggi, afferma Bolgherini, anche a causa della crisi, che alimenta insofferenze e disagi, «cominciano a cambiare le condizioni sistemiche». Questo induce, secondo la ricercatrice, a ipotizzare che siamo all’inizio di una fase nuova nella storia politica tedesca, caratterizzata da sempre maggiore incertezza e fluidità – con i partiti classici sempre più in difficoltà a far fronte alle sfide e alle esigenze messe in moto anche dall’emergere di nuovi partiti (Piraten Partei e Alternative für Deutschland) –, che fa presagire un futuro sistema politico caratterizzato da maggioranze e coalizioni ancora più fluide o difficili.

Questi, in estrema sintesi, sono stati i passaggi principali dell’incontro seminariale, che – nell’intenzione dei suoi organizzatori – doveva costituire un momento di riflessione aperta, interdisciplinare e inclusiva. Come ha dichiarato De Maria, a conclusione dei lavori: «Credo che la formazione politica abbia un compito da svolgere in questo percorso» verso un’idea condivisa di partito e verso una visione comune di società. «La formazione in un partito – ha affermato De Maria – resta sempre e soprattutto la leva principale per condividere una cultura politica e il tema di come nel PD si costruisce una nuova cultura politica condivisa è ancora in buona parte da svolgere».

Bologna 28 aprile 2015

fonte VALORE LAVORO

 

Parlamento non voterà la legge elettorale ma un plebiscito per Renzi

Questa è la lettera che il presidente del Consiglio e segretario del Pd ha inviato questa mattina ai militanti, indirizzata ai segretari dei circoli dem. La lettera giunge mentre alla Camera si avvia la discussione in aula sulla legge elettorale

Care compagne e compagni, care amiche e cari amici, care democratiche e cari democratici,
scrivo a voi responsabili dei circoli del nostro partito in un momento delicato della vita istituzionale del Paese.

Dopo anni di crisi e di austerità, finalmente l’Italia inizia a rimettersi in moto. Le regole europee stanno cambiando, anche grazie al fatto che il PD è stato il partito più votato d’Europa. Migliaia di persone vedono trasformato il proprio lavoro precario in un contratto a tutele crescenti e conoscono finalmente il significato di parole come mutuo, ferie, diritti. I provvedimenti sull’economia – dagli 80 euro fino alla decontribuzione per i nuovi assunti – stanno spingendo molti settori a ripartire e le previsioni dei prossimi mesi sono finalmente positive (grazie anche ad eventi come Expo su cui abbiamo fatto pulizia perché crediamo profondamente che sarà una grande opportunità per l’Italia e un’occasione di confronto globale su temi come la lotta alla fame e la povertà).

Stiamo lavorando duro sulla giustizia: grazie al lavoro del PD è nata finalmente l’Autorità Anti Corruzione, si è introdotto il reato di autoriclaggio, la responsabilità civile dei magistrati, regole più serie per la custodia cautelare. E tra qualche settimana saranno legge le nuove norme sulla corruzione (pene più dure, prescrizione più difficile), sul falso in bilancio, sui reati ambientali, sui furti in appartamento. Una nuova stagione dei diritti si è aperta, dopo anni di tentennamenti: dal divorzio breve fino alla legge sul terzo settore, passando dalla discussione parlamentare sulla cittadinanza e sulle unioni civili.
La rivoluzione digitale porterà fisco e pubblica amministrazione a cambiare passo, smettendo di essere controparte degli utenti, ma finalmente consulenti e amici del cittadino. La fatturazione elettronica, la dichiarazione precompilata, l’imminente pin unico dimostra che possiamo davvero rendere questo Paese più semplice e efficiente. Per questo l’infrastruttura più grande sulla quale stiamo lavorando è quella digitale, la rete banda ultra larga. Ma non dimentichiamo la necessità di mettere in sicurezza le opere lasciate a metà da una burocrazia che ha visto negli appalti pubblici lavorare più gli avvocati che gli ingegneri: ecco perché il codice appalti, ad esempio, è fondamentale per dare regole certe e portare a compimenti i lavori. Ed ecco perché abbiamo sbloccato le opere contro il dissesto idrogeologico.

La vera sfida però riguarda la possibilità di tornare a investire nel capitale umano. Sulla ricerca, sull’innovazione, sulle città sostenibili. E tutto parte dalla scuola. Il nostro disegno di legge – maturato dopo una campagna di ascolto lunga mesi – può essere migliorato ancora. Siamo aperti e pronti all’ascolto. Ma un punto deve essere chiaro: la scelta dell’autonomia è decisiva. Significa che la scuola non deve essere nelle mani delle circolari ministeriali e dei sindacati, ma dei professori, delle famiglie, degli studenti. Grazie alle scelte del PD in Parlamento per la prima volta dopo anni ci saranno più soldi per le scuole e per l’edilizia scolastica, si torna ad assumere e si faranno di nuovo i concorsi, i professori avranno più risorse per la loro formazione, il merito dovrà essere valutato in modo puntuale e dagli asili nido al diritto allo studio il sistema educativo sarà più giusto.

Lo stiamo facendo in un momento non facile. Avanza in Europa un’ondata di contestazione che è forte in tutti i Paesi, a cominciare dalla Francia di Le Pen. In Italia questa sfida demagogica è incardinata su due forze, non solo su una: la Lega di Salvini, i Cinque Stelle di Grillo. Il PD è stato argine a questa deriva, grazie alla scelta di fare le riforme attese da anni su cui altri governi si sono, invece, fermati e impantanati in passato. Le riforme istituzionali e costituzionali sono il simbolo di questa battaglia. C’è chi contesta il sistema e chi propone di cambiarlo: noi siamo questo cambiamento, possibile e necessario.

Gli italiani ci hanno dato credito. Eravamo al 25% nel 2013, siamo passati al 41% nel 2014. In un anno abbiamo aumentato in modo incredibile il consenso. Abbiamo vinto nel 2014 cinque regioni su cinque: una era l’Emilia Romagna, le altre quattro le abbiamo strappate al centrodestra. Siamo oggi la forza politica che può restituire speranza e orgoglio all’Italia. Ma non possiamo fare melina. Non possiamo puntare a star qui solo per conservare la poltrona: siamo al Governo per servire l’Italia, cambiandola. Non ci abitueremo mai alla palude di chi vorrebbe rinviare, rinviare, rinviare.

Ecco perché la legge elettorale che domani va in Aula alla Camera diventa decisiva. Non solo perché è una legge seria, in linea con le precedenti proposte del nostro partito. Ma anche perché non approvare la legge elettorale adesso significherebbe bloccare il cammino di riforme di questa legislatura. E significherebbe dire che il PD non è la forza che cambia il Paese, ma il partito che blocca il cambiamento. Sarebbe il più grande regalo ai populisti. Ma sarebbe anche il più grande regalo ai tanti che credono nel potere dei tecnici: quelli che pensano che la parola politica sia una parolaccia e bisogna affidarsi ai presunti specialisti che ci hanno condotto fin qui, prima dell’arrivo al governo del PD.

Nel merito la legge elettorale è modellata sulla base dell’esperienza dei sindaci. Chi vince governa per cinque anni. È previsto il ballottaggio. Il premio è alla lista per evitare che i partiti più piccoli possano dividersi dal giorno dopo le elezioni e mettere veti. Circa la metà dei seggi viene attribuita a candidati espressione del collegio (candidato di collegio, non più liste bloccate come nel porcellum) e l’altra metà con preferenze (massimo due, una donna e un uomo). Si può sempre fare meglio, per carità. Ma questa legge rottama il Porcellum delle chilometriche liste bloccate con candidati sconosciuti e il Consultellum che tanto assomiglia al proporzionale puro della prima repubblica, imponendo inciuci e larghe intese.

Questa legge l’ha voluta il PD. L’abbiamo definita una urgenza e ora dovremmo fermarci? L’abbiamo proposta alle primarie del dicembre 2013, con due milioni di persone che ci hanno votato. L’abbiamo ribadita alla prima assemblea a Milano. L’abbiamo votata in direzione a gennaio 2014. L’abbiamo votata, modificata sulla base delle prime richieste della minoranza interna, alla Camera nel marzo 2014. L’abbiamo di nuovo modificata d’accordo con tutta la maggioranza e l’abbiamo votata al Senato nel gennaio 2015. L’abbiamo riportata in direzione nazionale e l’abbiamo votata. Poi abbiamo fatto assemblea dei deputati e l’abbiamo votata ancora una volta. L’abbiamo votata in Commissione e adesso siamo alla terza lettura alla Camera, in un confronto parlamentare che è stato puntuale, continuo, rispettoso.

Vi domando: davvero è dittatura quella di chi chiede di rispettare il volere della stragrande maggioranza dei nostri iscritti, dei nostri parlamentari, del nostro gruppo dirigente? Davvero è così assurdo chiedere che dopo 14 mesi di dialogo parlamentare si possa finalmente chiudere questa legge di cui tutti conosciamo il valore politico? Davvero vi sembra logico che dopo tutta questa trafila ci dobbiamo fermare perché una parte della minoranza non vuole?

Se questa legge elettorale non passa è l’idea stessa di Partito Democratico come motore del cambiamento dell’Italia che viene meno. Se davanti alle prime difficoltà, anche noi ci arrendiamo come potremo costruire un’Italia migliore per i nostri figli? Se gli organi di un partito (primarie, assemblea, direzione, gruppi parlamentari) indicano una strada e poi noi non la seguiamo come possiamo essere ancora credibili? Abbiamo portato il PD a prendere tanti voti degli italiani: davvero oggi possiamo fermarci davanti ai veti?

Ecco perché nel voto di queste ore c’è in ballo la legge elettorale, certo. Ma anche e soprattutto la dignità del nostro partito. La prima regola della democrazia è rispettare, tutti insieme, la regola del consenso interno. Quando ho perso le primarie, ho riconosciuto che la linea politica doveva darla chi aveva vinto. Adesso non sto chiedendo semplicemente lealtà; sto chiedendo rispetto per una intera comunità che si è espressa più volte su questo argomento, a tutti i livelli. Perché questa legge elettorale l’abbiamo cambiata tre volte per ascoltare tutti, per ascoltarci tutti. Ma a un certo punto bisogna decidere.

Ho preso l’impegno con voi, iscritti al PD, di guidare il partito fino al dicembre 2017, quando si terranno le primarie. In quell’appuntamento toccherà a voi, alla nostra comunità, scegliere se cambiare segretario. Ma fino a quel giorno lavorerò senza tregua per dare alla nostra comunità la possibilità di essere utile all’Italia. Milioni di nostri concittadini affidano le loro speranze al nostro lavoro: già altre volte in passato le divisioni della nostra parte hanno consentito agli altri di tornare al potere e di fare ciò che abbiamo visto. Farò di tutto perché questo non risucceda. Possono mandare a casa il Governo se proprio vogliono, ma non possono fermare l’urgenza del cambiamento che il PD di oggi rappresenta.

Grazie per il sostegno
Matteo

Commento: oltre al messaggio palese vi è in questa epistola ai “fedeli” che sono rimasti ” in comunità ” un altro messaggio meno evidente ma molto chiaro. Cari signori voi fate parte di una comunità della quale io sono il capo che deciderà chi di voi sarà dentro o fuori dalle liste nelle prossime elezioni…
Quindi non rompete le scatole, dimenticate la vostra autonomia di parlamentari ( art.67 della Costituzione ) e fate come vi dico io … Sembra dire il Renzi. In altri termini si può dire che si tratta di un testo minaccioso che delinea chi sarà dentro al “cerchio magico ” e chi sarà mandato a casa con l’esclusione dalle liste. Il tacchino impettito avrà da alzare la voce con qualche deputato e alla fine tutto finirà con la cosiddetta sinistra che voterà tutto, anche il proprio suicidio politico definitivo. Il voto alla Camera non sarà un voto per la legge elettorale ma su Renzi.Ancora una bufala

2014-2020 SALUTE E SICUREZZA SUL LAVORO . ESISTE ANCORA UNA STRATEGIA EUROPEA? GLI ATTI

Atti del Convegno in formato audio .wav
 
2014-2020 Salute e sicurezza sul lavoro . Esiste ancora una strategia Europea?
 
Italia ed Europa a confronto: tendenze delle strategie su Salute e sicurezza sul lavoro  fra mercato e diritto alla salute .
 
Convegno promosso dalla Cgil Emilia Romagna – 20 aprile 2015
 
 
– Introduzione di Andrea Caselli  Responsabile Area Salute Sicurezza Lavoro Cgil Emilia Romagna Audio 
 
– Relazione di Laurent Vogel ,  Ricercatore presso l’Unità Condizioni di lavoro, Salute e Sicurezza dell’Istituto Sindacale Europeo ETUI
“Come rilanciare la politica europea di salute e sicurezza dopo dieci anni di paralisi ” AUDIO
 
Interventi preordinati
 
Dott.ssa Lalla Bodini , Società Nazionale degli Operatori della Prevenzione Audio 
 
– Giuseppe Monterastelli – Assessorato politiche per la Salute Regione Emilia Romagna Audio 
 
– Gino Rubini – Rivista on-line “Diario  per la Prevenzione” Audio 
 
– Sebastiano Calleri – CGIL Nazionale  Audio 
 
Dibattito e interventi dal pubblico
 
– Fulvio Ferri , medico del lavoro, Asl Reggio Emilia  Audio 
 
Donatella Ianelli , avvocato  Audio 
 
Luca Lenzi, Rls Basf Pontecchio Marconi  Audio 
Nanda Mantovani , Ambiente Lavoro E.R. Audio 
 Merli , Rls Lamborghini Auto  Audio 
 
Rls Coop Estense  Audio
 
Rappresentante AIAS  Emilia Romagna Audio
 
Dibattito e risposte dei relatori  Audio 
 
– Conclusioni di Antonio Mattioli , Segretario Cgil ER  Audio 

 

Un no all’uomo di vetro !!

Un no all’uomo di vetro !!

I lavoratori non sono uomini e donne di vetro, trasparenti e scrutabili all’interno per misurarne la conformità alle esigenze aziendali . Questo desiderio malsano di potere di controllo è stato in qualche misura bloccato da una raccomandazione del Consiglio d’Europa che pone dei limiti al potere delle aziende di “monitorare” i lavoratori. La disinvoltura del governo nel concedere alle aziende, nel Jobs Act, i controlli a distanza sui lavoratori tramite gli strumenti di lavoro elettronici ( pc, smartphone, sistemi di geolocalizzazione nei trasporti, bracciali elettronici e chip inseriti nelle scarpe da lavoro e …altro ancora ) ha subito, sia pure indirettamene, una censura severa da parte del Consiglio d’Europa

La raccomandazione del Consiglio d’Europa non mette in discussione le strumentazioni di controllo “difensive” ai fini della sicurezza aziendale, mette invece in discussione, come si evince dal documento, tutte quelle azioni di “monitoraggio” che consentono all’impresa di costruire un “profilo” del lavoratore che va ben oltre la relazione di lavoro. Le tecniche di profilazione dei comportamenti sono ora accessibili con software a basso costo e possono divenire strumenti di violazione della privacy della persona per aspetti che poco hanno a che fare con la prestazione lavorativa. Il rischio di una violazione di massa della privacy è stata la preoccupazione che verosimilmente ha mosso il Consiglio dei ministri europei.

Una preoccupazione che ha origine dalla cultura liberale classica ( non neoliberista ) in questo caso è tornata utile ai lavoratori. Una cultura liberale che pare non essere patrimonio dei nostri governanti. L’equazione che i lavoratori italiani sono anche cittadini europei portatori di diritti, tra i quali quello della privacy, non ha neppure sfiorato la mente di Renzi e Poletti e dei loro illustri consulenti giuridici.

Il Jobs Act apriva le porte ad un uso disinvolto delle nuove tecnologie per il controllo a distanza dei lavoratori. Dal Consiglio d’Europa è arrivato uno stop con un chiaro divieto ai datori di lavoro di monitorare e raccogliere dati sensibili dei loro dipendenti. Questo non è l’unico limite che le aziende dovranno rispettare per non invadere la vita privata dei loro dipendenti. Nella raccomandazione del Consiglio dei ministri europei vi sono poi una serie di paletti sia rispetto al controllo della corrispondenza sia rispetto all’utilizzo di queste informazioni raccolte tramite le nuove tecnologie di tracciamento presenti in molte macchine elettroniche.

E’ probabile che i decreti attuativi del Jobs Act in materia di controlli a distanza subiscano un forte ritardo se non un prudenziale accantonamento: sarebbe saggio e sarebbe auspicabile che il governo desse ascolto alla raccomandazione del Consiglio d’Europa.

Oltre il lavoro, su questa tematica dei controlli a distanza o meglio sulle potenzialità di profilazione delle persone tramite i comportamenti in rete, in particolare sui social network, sarebbe opportuna una campagna d’informazione preventiva che suggerisse alle persone di non consegnare inconsapevolmente un insieme di dati che organizzati divengono un profilo che può essere giocato contro di loro.

Sono troppi i giovani che raccontano i propri fatti privati in rete e sono molti gli addetti degli uffici del personale delle aziende che vanno a ricercare informazioni in rete sui candidati ad un’assunzione e a volte qualcuno viene escluso proprio in ragione dell’immagine che ha dato di sè su facebook o twitter.

Gino Rubini

fonte diario prevenzione

“Frau Merkel, con gli USA non andiamo da nessuna parte”

“Frau Merkel, con gli USA non andiamo da nessuna parte”

Un attacco frontale al filo-atlantismo e alla politica di rigore della Merkel. Dalla leader dell’opposizione Sahra Wagenknecht una dura critica alle ingerenze USA in Europa. Dai rapporti con la Russia all’approvazione del TTIP, dal caso Grecia alla sudditanza alla Troika.
Supervisione editoriale Adolfo Marino, traduzione Maria Heibel, editing Santiago Martinez de Aguirre. Pandora TV – 2015
Intervento integrale di Sahra Wagenknecht (Die Linke) al Bundestag il 19 marzo 2015. Sottotitoli in italiano.

La Fiom sfida Renzi: la partita non è finita

La Fiom sfida Renzi: la partita non è finita
di Loris Campetti ( da area7.ch )

Il segretario lo chiama “il genio di Firenze” e gli consiglia di «stare sereno perché voti di fiducia e varo del Jobs Act non ci fermano». Il delegato vuole essere ancora più esplicito, «è il califfo di Firenze». Il chirurgo in collegamento dalla Sierra Leone dove dirige uno degli avamposti nella lotta contro Ebola dice con la schiettezza che lo contraddistingue: «Ho preso la tessera della Fiom, uno dei pochi rimasugli della democrazia, e ne sono orgoglioso perché è una delle poche organizzazioni che può contrastare la cancellazione dei diritti, la deriva dell’indifferenza, la violenza quotidiana che è entrata nella nostra società come l’Ebola. Condivido l’idea di aggregare intorno al vostro sindacato tutte le persone per bene che vogliono cambiare questo paradigma, per affermare i diritti, il sociale, l’uguaglianza. Io sono con voi».
Il segretario è Maurizio Landini, il delegato uno dei 600 rappresentanti dei lavoratori metalmeccanici riuniti a Cervia per costruire una coalizione sociale in grado di disegnare una nuova primavera della democrazia, contro l’offensiva reazionaria senza precedenti dalla caduta del fascismo guidata dalla coalizione confindustriale di Matteo Renzi, il genio, o forse il califfo di Firenze. Il chirurgo è naturalmente Gino Strada, uno dei principali interlocutori di Landini, insieme con il presidente di Libera e fondatore del Gruppo Abele don Luigi Ciotti, e un bello schieramento di giuristi, giuslavoristi, costituzionalisti della forza di Rodotà, Zagrebelsky, Romagnoli. Ci sono gli studenti di sinistra impegnati contro la trasformazione del sapere in impresa capitalistica, c’è la bombardata costellazione del precariato. Se una fabbrica metalmeccanica chiude e i suoi dipendenti vengono licenziati, quegli operai smettono di essere metalmeccanici? E la Fiom dovrebbe smettere di seguirli e rappresentarli? Così, semplicemente com’è suo costume Landini spiega l’esigenza che il sindacato compia un salto di paradigma aiutando la costruzione di una coalizione sociale di chi lavora, o non lavora più, o non riesce a trovare un lavoro o ad andare in pensione. Di chi è il bersaglio del liberismo all’italiana ed è spinto a individuare il suo nemico tra coloro che dovrebbero essere i suoi compagni, di chi non può più curarsi perché la salute è diventata un lusso per pochi o non può più permettersi di mandare all’università i figli. In poche parole, una coalizione sociale di chi non ha rappresentanza politica nell’Italia renziana, per unire ciò che il renzismo-marchionnismo divide e contrappone.

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A proposito di merito di Bruno Trentin, 13 Luglio 2006

In quest’epoca nella quale si discute e si polemizza  anche sull’utilizzo della memoria di un grande leader riteniamo opportuno che si studino le carte e le argomentazioni autentiche di Bruno Trentin. La ricerca dei percorsi per l’affermazione della dignità del lavoro non può bypassare i nodi critici irrisolti affrontati da Trentin in quest’articolo del 13 luglio 2006 . editor

 

A proposito di merito di Bruno Trentin,13 Luglio 2006

Era stata respinta come una sostituzione della formazione e dell’educazione, che solo possono essere assunte come criterio di riconoscimento dell’attitudine di qualsiasi lavoratore di svolgere la funzione alla quale era candidato. Già Rousseau e, con lui, Condorcet respingevano con rigore qualsiasi criterio, diverso dalla conoscenza e dalla qualificazione specializzata, di valutazione del «valore» della persona e lo riconoscevano come una mera espressione di un potere autoritario e discriminatorio. Ma da allora, con il sopravvento nel mondo delle imprese di una cultura del potere e dell’autorità il ricorso al «merito» (e non solo e non tanto alla qualificazione e alla competenza accertata) ha sempre avuto il ruolo di sancire, dalla prima rivoluzione industriale al fordismo, il potere indivisibile del padrone o del governante, e il significato di ridimensionare ogni valutazione fondata sulla conoscenza e il «sapere fare», valorizzando invece, come fattori determinanti, criteri come quelli della fedeltà, della lealtà nei confronti del superiore, di obbedienza e, in quel contesto, negli anni del fordismo, dell’anzianità aziendale. Nella mia storia di sindacalista ho dovuto fare ogni giorno i conti la meritocrazia, e cioè con il ricorso al concetto di «merito», utilizzato (anche in termini salariali) come correttivo di riconoscimento della qualificazione e della competenza dei lavoratori. E, soprattutto negli anni 60 del secolo passato, quando mi sono confrontato con la struttura della retribuzione, alla Fiat e in altre grandi fabbriche e ho scoperto la funzione antisindacale degli «assegni» o «premi» di merito, quando questi, oltre a dividere i lavoratori della stessa qualifica o della stessa mansione, finirono per rappresentare un modo diverso di inquadramento, di promozione e di comando della persona, sanzionato, per gli impiegati, da una divisione normativa, che nulla aveva a che fare con l’efficienza e la funzionalità, ma che sancivano fino agli anni 70 la garanzia del posto di lavoro e quindi la fedeltà all’impresa. Un sistema di inquadramento e di organizzazione del lavoro apertamente alternativo alla qualifica definita dalla contrattazione nazionale e aziendale. Ma molto presto questa utilizzazione dei premi di merito o dei premi tout court giunse alla penalizzazione degli scioperi e delle assenze individuali (anche per malattia), quando di fronte a poche ore di sciopero o alla conseguenza di un infortunio sul lavoro (mi ricordo bene una vertenza all’Italcementi a questo proposito), le imprese sopprimevano anche 6 mesi di premio. È questa concezione del merito, della meritocrazia, della promozione sulla base di una decisione inappellabile di un’autorità «superiore» che è stato cancellato con la lotta dei metalmeccanici nel ‘69 e con lo Statuto dei diritti del lavoro che nel 1970 dava corpo alla grande idea di Di Vittorio di dieci anni prima. Purtroppo una parte della sinistra, i parlamentari del Pci, si astennero al momento della sua approvazione, solo perché esclusa dalla partecipazione al Governo. Ma quello che è più interessante osservare è come, alla crisi successiva del Fordismo e alla trasformazione della filosofia dell’impresa, con la flessibilità ma anche con la responsabilità che incombe sul lavoratore sui risultati quantitativi e qualitativi delle sue opere, si sia accompagnato in Italia a una risorgenza delle forme più autoritarie del Taylorismo, particolarmente nei servizi, santificata non solo dal mito del manager che si fa strada con le gomitate e le stock options, ma dalla ideologia del liberismo autoritario. Con gli «yuppies» che privilegiano l’investimento finanziario a breve termine, ritorna così per gli strati più fragili (in termini di conoscenza) l’impero della meritocrazia. A questa nuova trasformazione (e qualche volta degrado) del sistema industriale italiano ha però contribuito, bisogna riconoscerlo, l’egualitarismo salariale di una parte del movimento sindacale, a partire dall’accordo sul punto unico di scala mobile, che ha offerto, in un mercato del lavoro in cui prevale la diversità (anche di conoscenze) e nel quale diventa necessario ricostruire una solidarietà fra persone e fra diversi, una sostanziale legittimazione alle imprese che hanno saputo ricostruire un rapporto diverso (autoritario ma compassionevole) con la persona sulla base di una incomprensibile meritocrazia. Non è casuale, del resto, che, di questi tempi, il concetto di merito, sinonimo di obbedienza e di dovere, abbia ritrovato un punto di riferimento nel sistema di promozione e di riconoscimento delle organizzazioni militari nel confronto del comportamento dei loro sottoposti. Le stesse osservazioni si possono fare per i «bisogni», contrapposti negli anni 60 del secolo scorso, alle domande che prevalgono nel vissuto dei cittadini nella società dei consumi. Era questa anche la convinzione di un grande studioso marxista come Paul Sweezy. Sweezy opponeva i «needs» (i bisogni reali, le necessità) ai «wants» (le domande, i desideri), attribuendo implicitamente ad uno stato illuminato e autoritario la selezione, «nell’interesse dei cittadini» fra gli uni e gli altri. Come se non fossero giunti i tempi in cui le domande e i desideri, pur influenzati dalla pubblicità, di fronte alle dure scelte e alle priorità imposte dalla condizione del lavoro e dalle lotte dei lavoratori si trasformano gradualmente in diritti universali, attraverso i quali, i cittadini, i lavoratori (non un padrone o uno stato illuminato), con il conflitto sociale, riuscirono a far progredire la stessa nozione di democrazia. Meriti e bisogni o capacità e diritti? Può sembrare una questione di vocabolario ma in realtà la meritocrazia nasconde il grande problema dell’affermazione dei diritti individuali di una società moderna. E quello che sorprende è che la cultura della meritocrazia (magari come antidoto alla burocrazia, quando la meritocrazia è il pilastro della burocrazia) sia riapparsa nel linguaggio corrente del centrosinistra e della stessa sinistra, e con il predominio culturale del liberismo neoconservatore e autoritario, come un valore da riscoprire. Mentre in Europa e nel mondo oltre che nel nostro paese, i più noti giuristi, i più noti studiosi di economia e di sociologia, da Bertrand Swartz a Amartya Sen, a Alain Supiot si sono affannati ad individuare e a riscoprire dei criteri di selezione e di opportunità del lavoro qualificato, capaci di riconciliare – non per pochi ma per tutti- libertà e conoscenza, di immaginare una crescita dei saperi come un fattore essenziale, da incoraggiare e da prescrivere, introducendo così un elemento dinamico nella stessa crescita culturale della società contemporanea. La «capability» di Amartya Sen non comporta soltanto la garanzia di una incessante mobilità professionale e sociale che deve ispirare un governo della flessibilità che non si traduca in precarietà e regressione. Ma essa rappresenta anche l’unica opportunità (solo questo, ma non è poco) di ricostruire sempre nella persona le condizioni di realizzare se stessa, «governando» il proprio lavoro. Perché questa sordità? Forse perché con una scelta acritica per la «modernizzazione», ci pieghiamo alla riesumazione – in piena rivoluzione della tecnologia e dei saperi – dei più vecchi dettami di una ideologia autoritaria. Forse qui si trova la spiegazione (ma mi auguro di sbagliare) della ragione per cui malgrado importanti scelte programmatiche del centrosinistra in Italia, per affermare una società della conoscenza come condizione non solo di «dare occupazione» ma anche per affermare nuovi spazi di libertà alle giovani generazioni, la classe dirigente, anche di sinistra, finisce per fermarsi, in definitiva, di fronte alla scelta, certo molto costosa, di praticare nella scuola e nell’Università ma anche nelle imprese e nei territori, un sistema di formazione lungo tutto l’arco della vita, aperto, per tutta la durata della vita lavorativa, come sosteneva il patto di Lisbona, a tutti i cittadini di ogni sesso di ogni età e di ogni origine etnica (e non solo per una ristretta élite di tecnici o di ricercatori, dalla quale è pur giusto partire). Speriamo che Romano Prodi che così bene ha iniziato questo mandato, sia capace di superare questa confusione di linguaggi, e di rompere questo handicap della cultura meritocratica del centro sinistra. Anche un auspicabile convegno sui valori, le scelte di civiltà di un nuovo partito aperto alle varie identità e alla storia dei partiti come della società civile, dovrebbe, a mio parere, assumere il governo e la socializzazione della conoscenza come insostituibile fattore di inclusione sociale.

La coalizione sociale e i serpenti a sonagli

 

 

Un sistema mediatico in larga parte asservito al potente del momento scatta come un serpente a sonagli appena spunta all’orizzonte qualcosa che sembra un’aggregazione fuori del coro che parla di cose concrete che vivono ogni giorno le persone normali.

Questo è ciò che sta succedendo appena è apparsa sulla scena la proposta di Maurizio Landini di costruire   “Coalizione Sociale ” per  dare  rappresentanza sociale  a chi non ha  voce nè rappresentanza dopo la trasformazione che hanno subito i partiti tradizionali della sinistra.

I lavoratori poveri, le false partite IVA, precari e disoccupati sono lasciati senza rappresentanza nè sociale nè politica, una grande massa di persone senza riferimenti, senza un’offerta associativa di rappresentanza sociale e politica.

Senza sindacato di riferimento, senza un partito di riferimento migliaia di persone debbono arrangiarsi a difendere uno straccio di dignità nel lavoro, nella ricerca del lavoro  e nella vita.

Coalizione Sociale appare come un nuovo soggetto  politico e sociale che si propone di rimettere insieme i frammenti delle esperienze di vita e i bisogni di una moltitudine di persone condannate alla emarginazione sociale e alla povertà.

Il progetto politico post democratico portato avanti nell’intera Europa dalle nuove leadership è invece quello di trasformare questa massa di persone in plebe, senza progetti di vita e consapevolezza dei propri diritti.

Nessun problema per il potere se queste migliaia di nuovi paria non partecipano alla vita attiva, se non votano, tanto si può governare con il 40% dei consensi sulla base di una partecipazione al voto di poco superiore al 50 % degli aventi diritto.

Il pericolo che una moltitudine di soggetti che ora  non partecipano alla vita politica e sociale si mobilitino per propri obiettivi sociali e trovino  anche nuove leadership politiche che li rappresentino è insostenibile per questa classe dirigente un pò parassitaria che ha conquistato il potere usurpando la reputazione di vecchie forme di partito già del movimento operaio.

Questa è la grande paura, la paura che qualcuno colmi il vuoto che sta tra il PD ed una moltitudine di donne e uomini che sono ora senza rappresentanza.

Hanno capito benissimo tutto questo il Renzi e i suoi sodali e il cerchio magico dei poteri di sempre che utilizzano i media come clave contro qualsiasi proposta che possa incrinare il sistema .

Per questo il tentativo generoso di Landini e della Fiom ha un valore in sè come banco di prova per costruire un orizzonte diverso da quello prospettato da Renzi & C

L’accettazione della linea Renzi significa per la Cgil la fine del sindacato confederale, ovvero la fine della Cgil. Speriamo che Camusso e compagni lo capiscano in tempo se non vogliono essere confinati dal governo in una “riserva indiana” verso un’estinzione lenta e inesorabile .

Va dato atto a Maurizio Landini di avere intuito questo pericolo e di avere reagito. Non va lasciato solo.

Gino Rubini

 

 

 

 

Podcast Notizie Ambiente Lavoro Salute Diario Prevenzione 19/03/2015

 

In questo numero :

– Vogel (Etui), l’Unione Europea ha abbandonato la sicurezza sul lavoro

– La ricorrenza della MecNavi, una storia tragica da non dimenticare perchè ci parla del mondo di oggi

– MORTI BIANCHE 2015: NON CAMBIA NULLA. 50 VITTIME REGISTRATE A GENNAIO, ERANO 51 NEL 2014.

– Svizzera. Turni di lavoro al limite per i macchinisti da AREA7.CH

– LA STORIA DELLA PREVENZIONE : Inchiesta 1980 – La programmazione nei servizi territoriali di medicina del lavoro

– LA STORIA DELLA PREVENZIONE : INCHIESTA N°43 – 1980 – La nuova soggettività operaia nella prevenzione

– NOTIZIE IN BREVE

IL NOTIZIARIO AUDIO  (31 minuti, wav )

 

 

Ivan Cicconi: Expo 2015 e la corruzione negli appalti pubblici

Diffondiamo da “Inchiesta 181 aprile-giugno 2014 questo testo di Ivan Cicconi, intervistato da Tommaso Cerusici

 

Tommaso Cerusici In queste settimane è esploso lo scandalo per gli appalti di Expo 2015. Ci descrivi – dal tuo punto di vista – cosa sta succedendo nel mondo degli appalti, proprio a partire da questa ennesima vicenda di tangenti e corruzione che vede implicati politici, imprenditori e affaristi?

Ivan Cicconi Il 17 aprile 2014 sono state pubblicate in Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea tre nuove direttive: le numero 23, 24 e 25, che vanno ad aggiornare le precedenti direttive europee sugli appalti pubblici; si tratta dell’aggiornamento delle regole del governo della spesa e degli investimenti pubblici. Stiamo parlando di un settore che riguarda circa il 25-30% del Pil europeo e, per quanto riguarda l’Italia, un valore che si aggira sui 300-350 miliardi di euro. Qualsiasi discorso che punti alla spending review, all’ottimizzazione della spesa e degli investimenti pubblici, non può prescindere dalle regole definite dall’ordinamento europeo con queste tre direttive. Il 25 maggio abbiamo votato: non c’è stato alcun partito politico e nessun candidato che abbia minimamente accennato a queste tre direttive europee.

Lo scandalo di Expo 2015 è il figlio di questa assoluta disattenzione rispetto alle regole che governano la spesa pubblica. Oltre a questo si somma anche la scarsa consapevolezza o – se si vuole – la totale ignoranza della classe dirigente del nostro Paese delle modifiche profonde, che sono intervenute in questi ultimi anni negli apparati produttivi, nel sistema politico dei partiti, nell’assetto organizzativo e istituzionale e nella gestione dell’amministrazione pubblica.

Questo nuovo scandalo ci viene offerto con una lettura che è condita soprattutto da banalità e luoghi comuni. Uno dei principali – bipartisan in questo caso – è che “tangentopoli” continua come prima e non è cambiato niente. In realtà, il rapporto tra politica e affari è cambiato radicalmente: sta investendo in maniera strutturale la relazione e ci presenta una situazione nella quale “tangentopoli” è radicalmente mutata. Infatti, i magistrati l’avevano definita come il “sistema della corruzione”, quindi un sistema con delle regole precise. A governare il sistema della corruzione era la cupola dei partiti e la cupola della grande impresa. Si trattava di sistemi solidi, ben strutturati, che per finanziare in maniera occulta la politica avevano determinato delle regole precise. In sostanza, le regole degli appalti venivano rispettate e, dietro le quinte, si stabilivano le regole di questa transazione occulta dalle imprese verso i partiti politici, per facilitare l’esecuzione dei contratti. I magistrati hanno parlato, oltre che di sistema, anche di “triangolazione”: cioè un sistema triangolare che era caratterizzato dalla cupola dei partiti e dalla cupola degli imprenditori, che definivano le regole, e un terzo soggetto – il tecnico interno ed esterno all’amministrazione – che validava le modificazioni dei contratti per determinare l’aumento del prezzo dell’appalto di lavoro o di servizio e così costruire, all’interno del bilancio dell’impresa, il finanziamento occulto ai partiti politici. Quello che è successo in questi ultimi venti anni è che tutti questi soggetti sono mutati radicalmente. È mutato il partito politico, è mutata l’impresa ma è mutato anche l’ordinamento statale, le regole con le quali si realizza il rapporto fra il pubblico e il privato, quindi, fra la politica e gli affari.

“Mani pulite” ebbe un relativo successo nei confronti del sistema di “tangentopoli” perché contestava il reato di corruzione nel rapporto tra il pubblico e il privato, cioè l’esito positivo di quelle indagini fu determinato anche dalla limitatezza del reato contestato. Non venivano contestati illeciti amministrativi o contabili, che sicuramente erano connessi con la gestione dell’appalto pubblico, ma veniva contestato esclusivamente il reato di corruzione e altri due reati molto spesso collegati, cioè l’abuso d’ufficio per il corrotto – l’amministratore o il tecnico infedele che sforava le procedure – e il falso in bilancio per il corruttore, che costruiva all’interno del proprio bilancio la copertura per il pagamento delle tangenti alla politica.

 

Tommaso Cerusici Cos’è cambiato negli ultimi anni nel mondo degli appalti e nella relazione tra pubblico e privato?

Ivan Cicconi Quello che è successo in questi anni è che sia il reato di falso in bilancio che l’abuso d’ufficio sono stati, sostanzialmente, depenalizzati. C’è però anche qualcosa che non è successo – ed è l’elemento più determinante – cioè che l’Italia è rimasto l’unico Paese europeo a non aver recepito le indicazioni del Trattato di quindici anni fa, con il quale si invitavano gli Stati membri a introdurre il reato di corruzione nel rapporto tra privati. Oltre al depotenziamento degli strumenti giuridici – con la depenalizzazione del reato del falso in bilancio e dell’abuso d’ufficio – i magistrati oggi si trovano, nelle indagini sul rapporto illegale fra politica e affari, tra settore pubblico e settore privato, senza uno strumento fondamentale come la contestazione del reato di corruzione tra privati. Fra le modifiche profonde, che sono intervenute nella relazione fra pubblico e privato in questi ultimi vent’anni, ci sono, da un lato, i processi di privatizzazione e, dall’altro, l’introduzione d’istituti contrattuali che trasferiscono nella relazione privatistica la gestione del denaro pubblico.

Ad esempio, non esiste più la situazione dell’inizio degli anni Novanta, cioè prima di “tangentopoli”, nella quale la gestione dei servizi pubblici erano in capo ad aziende di diritto pubblico. Queste erano regolate da leggi dello Stato che definivano la nomina dei Consigli di Amministrazione e fissavano le indennità percepite, vi era poi la presenza diretta della Corte dei Conti che attuava un controllo preventivo degli atti e delle delibere di tali soggetti. La stessa condizione l’avevamo a livello territoriale con le aziende municipalizzate, anche esse aziende di diritto pubblico, regolate per legge, con Cda nominati da organi elettivi e che prevedevano addirittura sistemi di votazione a garanzia di tutta la rappresentanza. I Consigli comunali votavano i cinque consiglieri delle aziende municipalizzate, con la possibilità di indicare un solo nominativo. Quindi, la maggioranza del Consiglio comunale poteva catturare la maggioranza del Cda – 3 su 5 – solo se preventivamente indicava ai singoli consiglieri tre nominativi. Comunque, questo metodo garantiva all’opposizione di nominare uno o due consiglieri, secondo la rappresentanza che esprimeva nel Consiglio comunale.

Negli ultimi anni, passiamo da circa 1.500 società di diritto pubblico a circa 20.000 Spa o Srl, sotto il controllo diretto o indiretto dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali. Questo significa, da un lato, 20.000 Presidenti, Cda e Collegi sindacali – nominati da questo sistema dei partiti – e, dall’altro, 20.000 Spa e Srl che, nel diritto privato, governano una fetta consistente della spesa pubblica. Il tutto avviene in un contesto in cui si perde spesso il limite tra cosa è pubblico e cosa è privato, con una buona possibilità che si creino dei ruoli intercambiabili: il politico che diventa manager, l’imprenditore che partecipa alle decisioni, il tecnico che diventa presidente, eccetera.

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Dove vola l’avvoltoio

di Alessandra Cecchi

PAH-Blackstone2“Questo è un messaggio dalla Spagna per Blackstone. Noi siamo gli abitanti delle vostre nuove case, case che erano il nostro focolare. Può darsi che voi non ci conosciate… ma ci conoscerete! Il governo spagnolo e la banca, salvata dal fallimento, vi stanno vendendo le nostre case con uno sconto enorme, uno sconto che a noi è stato negato. Ora state alzando i prezzi, ponendoci tutti a rischio di sgombero. Può darsi che vi riteniate intoccabili, nascosti nei vostri uffici a Manhattan. Ma non lo siete. Voi non sapete di cosa siamo capaci… lotteremo per le nostre case, per i nostri diritti, per la nostra dignità, per i nostri figli e figlie, per i nostri nipoti. Lotteremo contro i vostri interessi economici, contro tutto quello che rappresentate. Noi ci impegnamo affinché tutto il mondo sappia chi siete e cosa fate. Tenetevi pronti ! Noi lo siamo !”

segue su fonte carmillaonline.it

 

Vincenzo Comito: Quando la Germania era un debitore flessibile

Diffondiamo da www.sbilanciamoci.info del 23 febbraio 2015

 

 

 

Tra l’Ottocento e il Novecento dello scorso millennio lo stato tedesco ha fatto default o ha ottenuto degli alleggerimenti dei suoi debiti ben otto volte

È ben noto come la Germania abbia assunto un atteggiamento intransigente sulla questione del debito pubblico all’interno dell’eurozona e come essa tenda a spingere duramente perché i vari paesi adottino, per risolverlo, delle strette politiche di austerità, politiche che peraltro rischiano di uccidere il malato. Ne abbiamo avuto ancora una riprova con l’attuale crisi greca; nel corso dei negoziati i responsabili del paese teutonico sono stati i capifila e i portabandiera del partito dell’intransigenza, sino ad arrivare all’insulto verso un governo democraticamente eletto.

Ma da diverse parti, negli ultimi tempi, si tende a sottolineare come in passato il paese non sia stato quel campione di virtù che oggi cerca di apparire; in effetti, alcuni studiosi si sono chiesti quale sia stato in concreto, nel corso del tempo, il curriculum di tale paese sulla stessa questione ed hanno trovato degli elementi interessanti.

Si può cominciare ricordando come, certo, la gran parte dei paesi in tutte le regioni del globo sia passata attraverso una o più fasi di default, o comunque di ristrutturazione del proprio debito, nei confronti dei prestatori esteri, ma anche come la Germania sia stata tra i più assidui ad incappare in tale problema.

Apprendiamo così (Reinardt & Rogoff, 2009) che tra l’Ottocento e il Novecento dello scorso millennio lo stato tedesco, in effetti, ha fatto defaulto ha ottenuto degli alleggerimenti dei suoi debiti ben otto volte nel periodo, come del resto la Francia e contro una sola volta per l’Italia e cinque per la Grecia. Va peraltro riconosciuto che i campioni europei in questo sport sono stati gli spagnoli, con ben tredici volte. I tedeschi hanno comunque conquistato un brillante secondo posto a pari merito con il paese transalpino.

La rivalità franco-tedesca e le riparazioni dopo la grande guerra

In un certo senso, la Germania ha cercato di sottoporre la Grecia allo stesso trattamento inflitto alla Francia dopo la guerra franco-prussiana del 1870, quando i cittadini transalpini, dopo la veloce sconfitta, furono obbligati a pagare un grande volume di danni di guerra, 5 miliardi di franchi, pari al 20% del pil di allora del paese; esso dovette inoltre cedere l’Alsazia, una parte della Lorena e dei Vosgi, ai vincitori, che comunque occuparono una vasta area della Francia sino a che non fu effettuato l’intero pagamento del debito, ciò che avvenne, con molta solerzia, nel 1873. Sempre i francesi furono inoltre obbligati a concedere ai nemici la clausola della nazione più favorita.

E viene la prima guerra mondiale. Come è noto, questa volta, alla fine, si rovesciano le parti, la Francia si trova nel rango dei vincitori e la Germania invece in quella degli sconfitti.

L’obiettivo fondamentale del primo ministro francese del tempo, Georges Benjamin Clemenceau, fu allora quello di vendicarsi della sconfitta del 1870 e di annullare praticamente i progressi economici fatti dalla Germania dopo quella data. Egli riuscì ad imporre rilevanti perdite territoriali al paese nemico e cercò parallelamente, nella sostanza, di distruggere, o quantomeno di danneggiare al massimo, il suo sistema economico.

Ecco che lo statista francese riesce ad imporre alla Germania anche il pagamento di danni di guerra molto ingenti. La Gran Bretagna e gli Stati Uniti si accodarono alla fine alle richieste dell’alleato.

Il problema finanziario che si poneva era comunque abbastanza complesso. Da una parte stavano i prestiti interalleati fatti prevalentemente per acquistare le armi e gli equipaggiamenti relativi (la Gran Bretagna aveva preso a prestito dagli Stati Uniti, la Francia dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti), dall’altra il problema delle riparazioni tedesche a Francia e Inghilterra. Le somme in gioco erano enormi: i debiti interalleati erano stimati in circa 26,5 miliardi di dollari, la gran parte dei quali dovuti agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna, mentre la commissione per le riparazioni del 1921 fissò in maniera definita, dopo vari summit preliminari che andavano più o meno nello stesso senso, il debito della Germania in 33 miliardi di dollari, la gran parte dovuti a Francia ed Inghilterra (Aldcroft, 1993). Tali riparazioni avrebbero dovuto essere regolate in rate trimestrali a cominciare dal gennaio del 1922.

Mentre la Francia legava le due questioni, dichiarando che il paese avrebbe ripagato i suoi debiti quando gli sarebbero stati versati i proventi delle riparazioni, la Gran Bretagna e gli Usa avevano chiaro che gli indennizzi non potevano superare certi limiti.

I dubbi di Keynes e i vari tentativi di ristrutturazione del debito

Nel 1919 Maynard Keynes aveva 36 anni e aveva partecipato alla conferenza di pace come rappresentante del governo inglese per le questioni finanziarie. Ma egli si dimise presto, essendosi trovato in totale disaccordo con l’impostazione che gli alleati stavano dando alla sistemazione dell’Europa dopo la guerra.

Egli pubblicò così subito dopo “Le conseguenze economiche della pace”, un saggio molto polemico contro la follia della “pace cartaginese” che i vincitori della guerra stavano, a suo dire, imponendo alla Germania. Le riparazioni avevano un onere finanziario, affermò l’autore, che la Germania non era in grado di sostenere (egli calcolò a questo proposito che il paese avrebbe potuto restituire, grosso modo, solo un quarto della somma stabilita) e previde lucidamente che le conseguenze del trattato di pace sarebbero state molto dannose per il futuro del continente.

I tedeschi cominciarono a versare le prime rate, ma nel corso del 1922 la situazione economica del paese si deteriorò rapidamente, con l’accelerazione dei processi di inflazione e di svalutazione della moneta; i tedeschi chiesero dunque una moratoria dei pagamenti, ma essa fu loro negata. Ma la Germania non era più in grado di pagare (Aldcroft, 1993) e, comunque, non fece nessuno sforzo per tentare.

Nel gennaio del 1923, i francesi e i belgi, di fronte al fatto che i tedeschi non pagavano le somme richieste, decisero di occupare la Ruhr. Ma tale mossa concorse a completare il collasso economico e finanziario della Germania.

Si stabilì, a questo punto, di convocare una conferenza internazionale, che si tenne a Londra nel 1924 e che diede origine al piano Dawes, dal nome del presidente della conferenza, un banchiere americano. Secondo questo piano, la moneta tedesca avrebbe dovuto essere stabilizzata dopo l’enorme livello raggiunto dall’inflazione e le truppe francesi avrebbero dovuto essere ritirate dalla Ruhr. Un flusso di aiuti americani alla Germania avrebbe permesso a quest’ultima di rimborsare i suoi creditori. L’importo totale dei debiti della Germania veniva lasciato quale fissato nel 1921, ma venivano allungati i tempi di pagamento.

Così nel periodo 1924-1930 la Germania prese a prestito soprattutto dagli Stati Uniti circa 28 miliardi di marchi e ne restituì ai paesi alleati come danni di guerra circa 10,3 (Aldcroft, 1993).

Ma, quando nei tardi anni venti, i prestiti statunitensi smisero di arrivare e molte banche straniere richiesero la restituzione di prestiti precedenti, la situazione si fece di nuovo difficile.

Un ulteriore accordo venne così negoziato nel 1929; era il piano Young, dal nome di un altro plenipotenziario statunitense. Il piano proponeva ormai una riduzione del totale del debito tedesco e degli importi da pagare annualmente.

La situazione economica internazionale intanto non fece funzionare l’accordo che per due anni. Nel 1931 la moratoria Hoover sospese per un anno i pagamenti, ma di fatto si trattò di una moratoria definitiva.

Alla fine gli Stati Uniti avevano ricevuto in restituzione dagli alleati circa 2,6 miliardi di dollari, contro crediti per prestiti ed interessi di 22 miliardi. La Francia a sua volta aveva ricevuto in pagamento dalla Germania circa un terzo dell’importo stimato dei danni di guerra (Aldcroft, 1993).

Le riparazioni dopo la seconda guerra mondiale

E viene poi la seconda guerra mondiale. Anche in questo caso, dopo la fine delle ostilità, si trattava di sistemare la questione delle riparazioni.

La conferenza di Postdam nell’agosto del 1945 fissò subito il principio delle restituzione dei danni di guerra e un accordo di base in proposito venne ipotizzato per le zone occidentali del paese nel 1950. Intanto era stato avviato il piano Marshall, con il quale gli Stati Uniti concessero al paese rilevanti somme di denaro per far ripartire la loro economia.

Furono gli Stati Uniti a guidare tutta l’operazione dei risarcimenti nel 1953, consci che fosse necessario aiutare la ripresa della Germania e dell’Europa dopo una guerra devastante, evitando di commettere gli stessi errori del primo dopoguerra. Pesava fortemente, peraltro, anche la volontà degli Stati Uniti di fare della Germania Occidentale un baluardo contro il blocco sovietico.

Così nell’agosto del 1953, dopo trattative durante diversi mesi, ventuno paesi firmarono a Londra un trattato, noto come London Debt Agreement, che consentì alla Germania di suddividere la questione in due parti. La prima corrispondeva ai debiti accumulati fino al 1933, stimati in 16 miliardi di marchi; fu consentito di rateizzare il loro pagamento in 30 anni, a tassi di interesse molto bassi, ciò che equivaleva alla pratica cancellazione dello stesso. L’altra parte, corrispondente ad altri 16 miliardi di marchi e che faceva riferimento ai debiti dell’epoca nazista e della guerra, avrebbe dovuto essere ripagata, secondo modalità da concordare, dopo l’eventuale riunificazione del paese. Ma nel 1990, a processo di unificazione concluso, il governo tedesco si oppose alla rinegoziazione dell’accordo, a ragione in particolare dei costi che sarebbero stati necessari per risollevare economicamente la parte est del paese.

In ambedue le occasioni tra i creditori c’era anche la Grecia, che dovette accettare molto a malincuore tali decisioni.

La stessa Grecia ha sollevato a più riprese, ma invano, la questione dei danni di guerra subiti da parte della Germania. Tra l’altro, in effetti, nel corso delle vicende belliche il paese, occupato dai tedeschi, era stato costretto a prestare al Reich 476 milioni di reichsmark senza interessi. Tale somma corrispondeva ormai nel 2012, secondo alcuni calcoli, a circa 14 miliardi di dollari e a circa 95 miliardi se si calcolavano anche degli interessi al tasso molto ragionevole del 3% annuo. A fine 2014 la cifra totale dovrebbe aver superato i 100 miliardi di dollari.

La Germania si rifiuta a tutt’oggi di prendere in considerazione l’intera partita.

 

Testi citati nell’articolo

-Reinardt C. M., Rogoff K. S., This time is different, Eight centuries of financial follies, Princeton University Press, Princeton, N. J., 2009

-Aldcroft D. H., The european economy 1914-1990, Routledge, Londra, 3a ed., 1993