All’inizio di agosto era stata lanciata una vasta campagna internazionale per contrastare i tentativi del presidente brasiliano Michel Temer di commutare in legge un controverso parere legale sul possibile mancato riconoscimento territoriale ai popoli indigeniche non stavano occupando le loro terre ancestrali prima del del 5 ottobre 1988, quando l’attuale costituzione del paese è entrata in vigore. Questa nuova proposta, chiamata “marco temporal” o “limite temporale” dagli attivisti e dagli esperti in legge, lo scorso 16 agosto è stata rigettata da una sentenza unanime della Corte Suprema del Brasile, che si è espressa a favore dei diritti territoriali dei popoli indigeni in due casi di controversie terriere. Tutti e otto i giudici hanno votato a favore dei diritti indigeni e contro il governo dello stato del Mato Grosso, nell’Amazzonia, che aveva chiesto un risarcimento per alcune delle terre demarcate come territori indigeni alcuni decenni fa. Continua a leggere “Brasile, “La nostra storia non è iniziata nel 1988””
L’analisi di Massimo Giannini sulla sinistra divisa e minoritaria è, come sempre, impietosamente lucida. Eppure credo che non sia l’unica lettura possibile.
Essa appare, ed è, realistica, se diamo per scontato, come sempre si fa, un dato di fondo: e cioè che i rapporti di forza tra destra, sinistra e pentastellati siano, sul breve periodo, stabili. Ma se proviamo a pensare che cambi la base elettorale attiva, anche questo scenario può cambiare. In altre parole, Giannini fa quello che fanno i leaders di tutti i partiti: dà per scontato che continuerà a votare circa la metà del Paese. E che l’altra metà sia sostanzialmente perduta alla vita della democrazia italiana.
Quello che Anna Falcone ed io abbiamo provato a proporre è di cambiare occhiali: e di provare a svegliare quest’altra metà del Paese. Perché noi due, che non siamo politici, né tantomeno leaders? Perché durante la campagna referendaria del No abbiamo visto con i nostri occhi questa altra Italia, quella che non vota: l’abbiamo vista partecipare a riunioni e assemblee. E poi il 4 dicembre l’abbiamo ritrovata nelle urne.
Di seguito presentiamo il testo integrale del discorso del presidente cinese Xi Jinping alla cerimonia di apertura del Forum per la cooperazione internazionale della Belt and Road* nella sua versione italiana tradotta da Marco Pondrelli per il sito italiano Marx21.it.
Discorso di S.E. Xi Jinping, presidente della Repubblica popolare cinese alla Cerimonia di Apertura del Forum per la cooperazione internazionale della Belt and Road: 14 maggio 2017.
Distinti Capi di Stato e di governo, capi delle organizzazioni internazionali, Signore e signori, Cari amici,
In questa bella stagione di inizio estate mentre ogni cosa vivente è piena di energia, desidero accogliere tutti voi, illustri ospiti, che rappresentate più di 100 paesi, in questo importante forum sulla Belt and road Iniziative BRI* che si svolge a Pechino. Questo è davvero un incontro di grandi menti. Nei prossimi due giorni spero che, impegnandoci in uno scambio di opinioni, contribuiremo a perseguire l’iniziativa BRI, il progetto del secolo di cui possano beneficiare le persone di tutto il mondo.
Signore e signori, Cari amici,
Oltre 2000 anni fa i nostri antenati percorsero vaste steppe e deserti aprendo il passaggio transcontinentale che collega Asia, Europa ed Africa, conosciuto oggi come la via della Seta. I nostri antenati, navigando in acque difficili, crearono rotte marittime per collegare l’Oriente con l’Occidente, la Via della seta marittima. Queste antiche rotte della seta aprirono rapporti amichevoli tra le nazioni, aggiungendo un capitolo splendido alla storia del progresso umano. Il millenario “braccialetto di seta in bronzo” esposto al Museo di Storia della Cina di Shaanxi ed il “relitto di Belitung” scoperto in Indonesia testimoniano questo emozionante periodo della storia.
Attraverso migliaia di chilometri ed anni le antiche vie della seta incarnano lo spirito della pace e della cooperazione, l’apertura e l’inclusione, l’apprendimento reciproco ed il reciproco vantaggio. Lo spirito della via della seta è diventato un grande patrimonio della civiltà umana.
-Pace e cooperazione. In Cina durante la dinastia Han intorno al 140 a.c. Zhang Qian, un emissario reale, lasciò Chang’an capitale della Dinastia Han. Viaggiò verso ovest per una missione di pace e aprì una via terrestre per collegare l’Oriente e l’Occidente, un’impresa audace conosciuta come il viaggio di Zhang Qian nelle regioni occidentali. Secoli dopo durante gli anni delle dinastie Tang, Song e Yuan, si espansero questi sentieri sia in terra che in mare. I grandi avventurieri tra cui Du Huan dalla Cina, Marco Polo dall’Italia e Ibn Battuta dal Marocco hanno lasciato le loro orme lungo queste antiche rotte. All’inizio del Quattrocento, Zheng He, il famoso navigatore cinese della dinastia Ming, fece sette viaggi verso i mari occidentali, un’impresa ricordata ancora oggi. Questi pionieri hanno guadagnato il loro posto nella storia e non come conquistatori, con le loro navi da guerra, con le armi o con le spade. Sono piuttosto ricordati come emissari amichevoli che condussero carovane di cammelli e navi a vela con i loro tesori. Generazione dopo generazione i viaggiatori della via della seta hanno costruito un ponte per la pace e la cooperazione est-ovest.
Senza limiti, questa classe dirigente argentina non si ferma davanti a nulla: la cessione di beni comuni indisponibili è il primo passo verso il baratro. A quando la vendita degli umani in eccedenza come schiavi ?? editor
RIQUEZAS NATURALES OFRECIDAS COMO AVAL DE LA DEUDA EXTERNA. RENUNCIA A LA INMUNIDAD SOBERANA
Denuncian a Macri por abuso de garantías
Por dos decretos de este año, el Ejecutivo habilitó a que las riquezas y recursos naturales puedan ser considerados como garantía del pago de la deuda externa. Tres letrados denunciaron al Presidente por defraudación y abuso de autoridad.Los recursos hidrocarburíferos, el litio, otros recursos minerales estratégicos y las empresas del Estado quedaron fuera de la protección de inmunidad soberana contemplada en las emisiones de deuda externa y, por lo tanto, pasaron a ser pasibles de embargo y ejecución en una hipotética disputa legal con acreedores externos. Los abogados Eduardo Barcesat, Jorge Cholvis y Arístides Corti sostienen que esa posibilidad quedó habilitada por los decretos 29 y 231 de 2017. “Son precisamente esos recursos y riquezas naturales los que resultan la garantía del pago de la deuda externa que se contrae por los decretos impugnados, traicionando la manda de la Ley Suprema de la Nación”, advierten los letrados en el texto de la denuncia que realizaron contra el presidente Macri por defraudación contra la administración pública y abuso de autoridad. La demanda, que recayó en el Juzgado Federal Nº1 a cargo de María Romilda Servini de Cubría, también alcanza al jefe de Gabinete, Marcos Peña, y el titular de Finanzas, Luis Caputo. “Ni la dictadura se atrevió a tanto”, advirtió el bloque de diputados del Frente para la Victoria ayer a través de un comunicado.
Esponenti politici e giornalisti stanno in questi giorni dedicando ampio spazio all’operato delle Organizzazioni Umanitarie che salvano chi fugge soprattutto dalla Libia. Le Ong svolgono a nostro avviso un lavoro immenso e generoso che ha già evitato migliaia di ulteriori vittime eppure sono sottoposte ad attacchi, calunnie, insinuazioni in merito al proprio agire a volte lasciano esterrefatti. Nel frattempo c’è chi, come l’Unesco, le premia, chi, come il Papa, incontra in udienza privata coloro che si dedicano in questa maniera agli altri e chi, quotidianamente è in mare e non si lascia intimidire.
Grazie all’Ufficio Stampa di SOS Mediterraneé abbiamo intervistato una operatrice dell’organizzazione, attraverso una conferenza skype. L’abbiamo intervistata mentre era sulla nave Aquarius, in acque internazionali, per la sua seconda missione SAR (Search And Rescue). Non c’è né tempo né voglia per formalismi, ci si dà del tu immediatamente per provare a raccontare. Lei si chiama Benedetta Collini, una cadenza che è un misto di francese e italiano, una voce vivace ma precisa di chi è abituata alla sintesi che in poche parole, accenni, riesce a trasmettere immagini ed emozioni, quell’umanità del e nel mare, che spesso ritorna nel dialogo che si fa cifra etica di un impegno.
«Ora siamo a circa 20 miglia marine dalla costa libica ma durante la notte ci dobbiamo allontanare per ragioni di sicurezza. Faccio parte di un SAR Team che ha come ruolo quello di andare a cercare e soccorrere sia chi vediamo nel nostro raggio d’azione sia chi ci viene segnalato dall’MRCC (Centro Coordinamento di Soccorso Marittimo, di Roma). In caso di nostro avvistamento, contattiamo immediatamente l’MRCC e da quel momento in poi agiamo sotto il loro coordinamento fino allo sbarco delle persone recuperate in mare presso il porto che ci viene assegnato dall’MRCC stesso. A bordo dell’Aquarius per questa missione siamo in 36: 11 persone dell’equipaggio, 9 di MSF e 13 di SOS Mediterraneè. In più ci sono due giornalisti che vogliono poter vedere come operiamo. L’apertura alla stampa per noi è fondamentale, qui possono vedere ogni cosa, non abbiamo segreti. Ogni nostra missione dura 3 settimane e abbiamo, come volontari, unicamente un rimborso delle spese».
E come sei arrivata a fare questo?
«Diverse ragioni. Mi aveva già colpito la sensibilità al tema dei giornali italiani, che è migliore rispetto ad altri paesi, poi ha pesato la mia precedente esperienza marittima. In mare ho imparato che non si lascia morire nessuno. Io da oltre 15 anni faccio anche la volontaria in una scuola di vela francese come istruttrice. Avevo un assegno di ricerca all’università occupandomi di letteratura francese, ma da un anno quella fase si è chiusa e ho iniziato a lavorare nel campo della nautica e della vela. Io sono innamorata perdutamente del mare. Un amico mi ha parlato di una analoga esperienza, e SOS Méditerranée mi è parsa affidabile. Ho spedito il mio CV avvalendomi anche del fatto che da quando avevo 20 anni, per 10 anni, ho prestato servizio sulle ambulanze a Milano e mi hanno scelto. Credo sia stato anche ben considerato il fatto che sono una donna, l’equipaggio misto è migliore, funziona meglio e poi questa esperienza mi ha fatto sentire utile, forse anche per l’educazione familiare che ho ricevuto e l’esperienze con gli scout».
Il primo imbarco?
«È molto recente, sono salita a bordo il 30 marzo scorso e ho cominciato da poco la “seconda rotazione”. Mi sono ambientata subito perché c’è tanta adrenalina che ti si fissano le cose in testa e si capisce bene quelli che sono i tuoi compiti già dopo il primo soccorso. Per me il “battesimo” è stato relativamente tranquillo. Eravamo stati chiamati dall’MRCC in tempo per prepararci e le operazioni si sono svolte durante il giorno. C’erano 4 gommoni, alla giusta distanza l’uno dall’altro quindi l’impatto è stato intenso ma positivo, non traumatico. L’esperienza in ambulanza si è rivelata fondamentale anche se le differenze sono enormi. Senti gli stessi odori quelli del contatto con le persone, odore di persone che hanno paura, oltre che in precarie condizioni igieniche. Ma un conto è sentirlo addosso a una o due persone, un conto è percepirlo su centinaia di persone. Il secondo soccorso è stato più impegnativo, complicato e forte. C’era un morto, persone malate su un gommone che abbiamo incontrato di notte. Poi ne abbiamo intercettati altri, intervenendo in raccordo con altre navi di ONG in zona, sempre sotto il coordinamento dell’MRCC. Ed è stata dura ma ce l’abbiamo fatta».
Era la fine di Maggio quando salivo sullo strano ponte (appresi piu´tardi che era opera dei prigionieri della prima guerra mondiale) che collegava Treptow Park con l`isoletta dove avrei vissuto con mia moglie per un anno e mezzo. La fermata del bus, davanti alla sede del Comune mi aveva offerto una prima sorpresa: diversi cartelli indicavano i nomi e le relative distanze kilometriche dei paesi e citta´gemellate e, in caratteri blu, scorsi la scritta „ Albinea“ (prov. di Reggio Emilia). Lo presi per un segno benaugurante, come dire: gira gira sei sempre a casa.
Ormai avevo alle spalle gran parte della mia vita: attivita´ pubblica, quasi tutta la rete familiare, gli amici; insomma, si potrebbe dire tutto, tranne la pensione, la valigia che mi trascinavo appresso e mia moglie che mi attendeva. Di segnali beneauguranti ne avevo proprio bisogno ed ero disposto anche ad inventarmeli.
Possono i cittadini riconquistare la sovranità sulla tecnologia? Sì, ma solo a patto di riconquistare prima la sovranità sull’economia e la politica, andando oltre le favolette fabbricate dal contemporaneo capitalismo tecnologico. Per gentile concessione di Codice edizioni, proponiamo stralci dalla prefazione alla nuova edizione di “Silicon Valley: I signori del silicio” di Evgeny Morozov.
di Evgeny Morozov
La sinistra non è mai stata un asso nel creare eccitanti narrazioni a sfondo tecnologico, e infatti anche in questo caso non ha alcuna eccitante narrazione da offrirci. Peggio ancora: non ne avrà mai una se non riscriverà la storia di internet – l’humus intellettuale della Silicon Valley – come una storia di capitalismo e imperialismo neoliberista.
Già come concetto, internet non è una nitida fotografia della realtà. Somiglia più alla macchia d’inchiostro del test di Rorschach, e di conseguenza chi la guarda ne trarrà una lezione diversa a seconda della sua agenda politica o ideologica. Il problema di internet come concetto regolativo su cui basare una critica alla Silicon Valley è che la rete è così ampia e indeterminata – può contenere esempi che portano a conclusioni diametralmente opposte – che lascerebbe sempre alla Silicon Valley una facile via di fuga nella pura e semplice negazione. Dunque qualsiasi sua critica efficace dovrà anche sbarazzarsi del concetto stesso.
Persino progetti come Wikipedia si prestano a questa lettura duplice e ambigua. Nel sinistrorso ambiente accademico americano la tendenza dominante è leggere il suo successo come prova che le persone, lasciate a se stesse, sono in grado di produrre beni pubblici in modo del tutto altruistico e fuori dal contesto del mercato. Ma da una lettura liberista (o di destra) emerge un’interpretazione diversa: i progetti spontanei come Wikipedia ci dimostrano che non serve finanziare istituzioni perché producano beni pubblici come la conoscenza e la cultura quando qualcun altro – la proverbiale “massa” – può farlo gratis e per giunta meglio. […]
La nostra incapacità di smettere di vedere ogni cosa attraverso questa lente internet-centrica è il motivo per cui un concetto come la sharing economy risulta così difficile da decifrare. Stiamo assistendo all’emergere di un autentico post-capitalismo collaborativo o è sempre il buon vecchio capitalismo con la sua tendenza a mercificare tutto, solo elevata all’ennesima potenza? Ci sono moltissimi modi di rispondere a questa domanda, ma se partiamo risalendo agli albori della storia di internet – è stata avviata da una manica di geni intraprendenti che smanettavano nei garage o dai generosi fondi pubblici delle università? – difficilmente troveremo una risposta anche solo vagamente precisa. Vi do una dritta: per capire l’economia della condivisione bisogna guardare – indovinate un po’… – all’economia.
Da una prospettiva culturale, la questione non è se internet favorisca l’individualismo o la collaborazione (o se danneggi o agevoli i dittatori); la questione è perché ci poniamo domande così importanti su una cosa chiamata internet come se fosse un’entità a sé stante, separata dai meccanismi della geopolitica e dal contemporaneo capitalismo iperfinanziarizzato. Finché non riusciremo a pensare fuori da internet, non potremo tracciare un bilancio corretto e attendibile delle tecnologie digitali a nostra disposizione.
[…]Ci siamo fossilizzati sulla tesi della centralità di internet per spiegare la realtà (a seconda delle volte fosca o edificante) attorno a noi, e così continuiamo a cercare aneddoti che confermino la correttezza della nostra tesi; il che non fa che convincerci ancora di più che la nostra tesi preferita debba essere centrale in qualsiasi spiegazione dei nostri problemi attuali.
Ma cosa significa in pratica pensare fuori da internet? Be’, significa andare oltre le favolette fabbricate dal complesso industrial-congressuale della Silicon Valley. Significa prestare attenzione ai “dettagli” economici e geopolitici relativi al funzionamento di molte società hi-tech. Scopriremmo così che Uber – grande promotore della mobilità e della lotta alle élite – è un’azienda che vale più di 60 miliardi di dollari, in parte finanziata da Goldman Sachs. Allo stesso modo, ci renderemmo conto che l’attuale infornata di trattati commerciali come il TiSA, il TTIP e il TPP, nonostante siano ormai falliti, mira a promuovere anche il libero flusso di dati – scialbo eufemismo del ventunesimo secolo per “libero flusso di capitali” –, e che i dati saranno sicuramente uno dei pilastri del nuovo regime commerciale globale. […]
Una simile lente post-internet potrebbe far sembrare il mondo un posto assai deprimente, ma non più di quanto già lo sia la realtà stessa del capitalismo di oggi. Questo nuovo modo di vedere ci offrirebbe anche un’idea di quello che bisogna fare e dei soggetti a cui si potrebbe affidare un eventuale programma di emancipazione. Una discussione adulta e matura sulla costruzione di un solido futuro tecnologico deve iniziare dal riconoscimento che dovrà essere anche un futuro tecnologico non liberista.
Quindi, invece di continuare a discutere all’infinito su quanto emancipante possa essere il consumo o su come dobbiamo adattarci all’ultima calamità imparando a codificare la nostra soluzione individuale, dovremmo chiederci quale effetto hanno le politiche di austerity sugli stanziamenti per la ricerca. Dovremmo indagare sul fatto che l’evasione fiscale delle società tecnologiche impedisce alle alternative pubbliche di emergere. Dovremmo ammettere che l’incapacità delle persone di arrivare a fine mese a causa della crisi economica rende la sharing economy, con la possibilità che offre di mettere sul mercato tutto ciò che si possiede, non solo allettante ma anche inevitabile.
[…] Per tornare a una delle prime domande che ci siamo posti: possono i cittadini riconquistare la sovranità sulla tecnologia? Sì, ma solo a patto di riconquistare prima la sovranità sull’economia e la politica. Se la maggior parte di noi crede in qualche specie di “fine della Storia” – perché non ha voglia o non è capace di indagare la possibilità di una genuina alternativa sia al capitalismo globale sia al ruolo dominante del mercato nella vita sociale –, allora davvero non c’è speranza. Qualsiasi nuovo valore internet abbia potuto contenere al suo interno sarà schiacciato dall’attrattiva del soggettivismo neoliberista.
Tuttavia, se si pensa allo stato disastroso in cui versa oggi il capitalismo – dalla crisi finanziaria alle guerre in Medioriente al possibile sgretolamento dell’Unione Europea –, è difficile non dare per scontata una simile teoria della “fine della Storia”.
Insomma, la cattiva notizia è che, se vogliamo che internet esprima fino in fondo il suo potenziale, il capitalismo deve finire. La buona notizia è che questo potrebbe succedere prima di quanto pensiamo.
La criminalizzazione dei migranti, degli impoveriti ed esclusi, dei cittadini manifestanti è la fine della giustizia, della democrazia della libertà.
Alcuni giorni fa, a Ventimiglia, diverse persone sono state condannate per aver dato del cibo agli immigranti. In certi comuni italiani, agire con carità è diventato un atto criminale. Gli immigranti sono persone non grate. Da anni anche la criminalizzazione degli impoveriti, degli esclusi, della “gente di viaggio” (specie i Rom) è un fenomeno diffuso, non solo nel nostro paese. I “senza casa”, per esempio, sono sistematicamente rigettati dal “soggiorno” in luoghi pubblici accusati di insudiciare il decoro delle nostre città. Infine, ora, la semplice intenzione, di partecipare ad una manifestazione pubblica autorizzata può, addirittura, “giustificare” l’interdizione di manifestare in pubblico e l’ingiunzione di un ritorno obbligatorio (il foglio di via) al proprio luogo di residenza. Incredibile, eppure ciò è accaduto il 25 marzo scorso in occasione delle manifestazioni per il 60° anniversario dei trattati di Roma. Tre pullman di manifestanti sono stati fermati per controlli di polizia e successivamente condotti presso il centro di Tor Cervara dove i manifestanti sono stati trattenuti per ore inibendo cosi loro la partecipazione al corteo. Nel corso delle perquisizioni sarebbe stato rinvenuto un coltellino da formaggio. A ventitre “manifestanti intenzionali” trattenuti erano stati preventivamente notificati fogli di via per il periodo di 3 anni; trattasi di persone incensurate a cui non è stato contestato alcun comportamento illegale.
Lo stesso sta accadendo in queste settimane ai cittadini del Salento che manifestano, insieme ai loro sindaci, contro la costruzione del gasdotto TAP (Trans-Adriatic Pipeline). Questa prevede lo sradicamento di centinaia di ulivi secolari e la perforazione del terreno lungo spiagge non ancora devastate e in zone agricole, con grave pregiudizio per il patrimonio paesaggistico e naturale e le attività turistiche ed agricole del salentino.
Opporsi ad una decisione governativa, usando il diritto di libertà di pensiero e di opinione non per rigettare gli altri, non per far violenza contro i più deboli, i più fragili, non per praticare l’odio e la guerra economica competitiva fra i popoli, ma per difendere i diritti umani e della natura, la giustizia e la democrazia, è considerato oramai un atto criminale. Come nel caso delle manifestazioni anti-TAV, i cittadini che manifestano rispettando la democrazia e i diritti sono minacciati di condanne per atti “sovversivi” contro lo stato in nome del denaro, dietro l’alibi mistificatore dello “sviluppo” e del “benessere economico” (dei pochi e per i potenti).
I tre fenomeni di criminalizzazione descritti sono una dimostrazione gravissima della violenza sempre più senza limiti operata contro i cittadini dalle oligarchie che hanno preso il potere in Italia ed in Europa nel corso degli ultimi trent’anni. È urgente lottare affinché i nostri giovani non debbano gridare fra alcuni anni, come dovette fare il popolo francese nel 1792 contro gli oppressori interni ed esterni, “Aux armes citoyens”. La rivolta armata, la guerra civile, non sono il nostro futuro né debbono diventarlo.
La media cara de Milagro Sala que circula por este país y el mundo –se la pudo ver en las calles de Roma, Madrid, París, y Amsterdam esta semana– fue hace siete años la cara completa de una dirigente social de rasgos coyas, la cara morena y latinoamericana que el relato de la Argentina “normal” había desplazado y reemplazado por otros rasgos étnicos, fabricando la falsedad de que los argentinos somos un subderivado europeo en una región donde el hedor de América, como entendió Rodolfo Kusch, está controlado, disciplinado y colocado en el altar subterráneo del vencido.
Esa cara completa es la que el fotógrafo Seba Miquel retrató en Rosario, en 2010, cuando dos columnas de diversos antiguos pueblos se encontraban y fundían en el recorrido de lo que fue la Marcha de los Pueblos Originarios, que el 10 de mayo de aquel año cubrió la Plaza de Mayo de un paisaje sobrecogedor. Miquel ya había llevado a cabo su ensayo sobre la Tupac Amaru, AbyaYala, Los hijos de la tierra. Pude ver ese magnífico trabajo cuando unos meses después se expuso en el Palais de Glace. Yo venía de trabajar en el libro Jallalla, que se publicó ese mismo año, y lo primero que me estremeció fue el blanco y negro. Porque en esas fotos sobre Milagro y sobre los oficios de los tupaqueros, sobre su modo de vida comunitaria y su mística política que hace confluir al Che, a Evita y a Tupac Amaru, Miquel hacía que el blanco y negro funcionara además en otro plano agregado a los que sostienen al blanco y negro como una posición estética.
For decades, mining has formed the backbone of Zambia’s economy, accounting for 12 per cent of its GDP and 70 per cent of its export earnings. But however much Zambia earns in export revenues as Africa’s largest producer of copper and cobalt, for residents of the town of Kabwe, the cost is too much to bear.
Home to approximately 300,000 people in Zambia’s Central Province, the environmental damage that has been caused by lead mining in Kabwe has been nothing short of catastrophic. Ten years ago Time magazine named it alongside Chernobyl as one of “the world’s most polluted places” and experts say that millions of adults and children have been poisoned over the years.
Long-term exposure to lead – which enters the bloodstream and attacks the central nervous system – affects everything from fertility to birth weight to childhood development. It can result in high blood pressure, brain damage and even death. Children are particularly vulnerable to the affects of lead.
Zambia’s largest lead mine and smelter operated in Kabwe from 1902 until it closed operations in 1994. While it was operating, there were no regulations regarding emissions from the mine or the smelter plant. As a result, Kabwe’s soil, plants and air were all contaminated over a course of decades.
Today in Kabwe, the average levels of lead in the blood of its residents range from between 60 and 120 microgrammes (mg) per decilitre (dl), while lead concentrations of an astonishing 300 mg/dl have been recorded in local children – that figure should be no more than 15 mg/dl.
In addition, a World Bank study found that as much as 26,000 mg of lead can be found in the most polluted areas of the town, and that land as far as 14 kilometres away from Kabwe can no longer be used for agriculture.
“People get sick, the water is spoiled and fish die,” says Bernadette Mulamba, a local environmental activist for the Catholic Commission for Justice and Peace.
“[Lead] mining has stopped in Zambia, however, the blood levels of lead found in children can cause coughs, weak joints and stunted growth,” says Brian Wilson, an technical advisor in international lead poison management with Pure Earth, a global non-profit that has been working to clear up the environmental impact of lead mining in Zambia. “If lead residue is not thoroughly cleaned from the land and water, affected communities could see illnesses mutate into hard-to-treat strains of lung tuberculosis, for example.”
No choice but to work with poison
The misery that Kabwe’s residents face is compounded by their poverty.
Unemployed men, women and even children sometimes sneak into abandoned mine smelter dams or shafts to search for scrap quarry stones or metal which they can then resell.
Although this is illegal and dangerous (as they are exposed to water and dust infused with lead metal residue), they feel they have no other choice.
For 12 years, 69-year-old Angela Miyoba earned a living by collecting mud from the banks of the Lunsemfwa River – which was the source of hydro-electricity for the mines – to bake, burn and dry clay cooking pots which she then sold to other women in the town. But now she is too ill to work.
“Doctors say my lungs are full of fluid. They were damaged from inhaling the fumes of soil loaded with lead when I refine my pots on the fire,” Miyoba tells Equal Times. For the past two years she has also been unable to walk so she now spends her days sat in her compound, her limbs frozen by the pain caused by lead exposure.
“In 2016 we treated dozens of people affected by infertility, lung tissue damage and breathing difficulties arising from using poisoned water,” says Kabwe’s director of public health, Paul Mukuka. “You will see that the worst affected are the hungry poor. We give nutrients supplements such as amino acids for kids and sugar bars to offset the effects of lead.”
However, chelation therapy – where patients take oral medication until they excrete the lead in their urine – is not available in Kabwe. “We usually send those who are acutely sick with lead poisoning to larger hospitals in the capital Lusaka, but even to get a blood test is very expensive for the average resident in Kabwe,” says Mukaka.
The Zambian minister responsible for the Central Province, Chanda Kabwe, tellsEqual Times: “We acknowledge the damage done by mining waste. From 2016 to 2021 we are working with the World Bank to heal and restore land polluted by heavy metals in Kabwe and other towns.”
This is not the first such attempt. In 2003, the World Bank financed – through a combination of credit and grants – the US$40 million Copperbelt Environment Project. However, when an independent research team visited the city in 2014 it found surface soil lead concentrations ranging from 139 mg/kg to 62,142 mg/kg – in Zambia, officials say that figure should be 200 mg/kg.
The World Bank says its new project aims to pick up where the previous one left off in terms of assisting with the proper closure of the mines, remediation of contaminated hotspots and the improved enforcement of environmental regulations and monitoring.
“The goal is a 70 per cent reduction in toxic levels of lead in soil and water by 2021,” says Zambia’s World Bank Country manager, Ina-Marlene Ruthenburg.
Mukuka says that more than 60, 000 lives could be protected from the effects of lead when the project comes to an end in 2021. But until then, Kabwe’s residents will continue to pay the unfair price for decades of neglect and mismanagement
Il testo “Il mondo al tempo dei quanti” di Mario Agostinelli e Debora Rizzuto (ed. Mimesis, Milano, Gennaio 2017) offre un audace e innovativo punto di vista su molti aspetti che riguardano la vita degli uomini e delle donne, il loro organizzarsi in società, la struttura iniqua delle relazioni economiche e la crisi di democrazia che caratterizza il nostro tempo.
Diversi sono i destinatari cui suggerire una riflessione sul testo qui proposto. La tesi di fondo del libro, che individua nella rivoluzione scientifica del XX secolo il punto di svolta per l’interpretazione della realtà intera da cui siamo circondati – “dall’infinitamente piccolo all’infinitamente esteso” – non si limita alla materialità del mondo fisico, come potrebbe far intravvedere la permanente separazione delle culture umanistica e scientifica. Come era avvenuto con il compimento del “momento newtoniano”, nei suoi risvolti istituzionali (l’indebolimento dell’assolutismo), produttivi (la nascita dell’industria), antropologici (la natura diventa quantitativamente e illimitatamente trasformabile in merce e ricchezza), il “momento relativistico-quantistico”, che stiamo percorrendo pur rimanendone concettualmente lontani, andrebbe portato all’attenzione di chiunque abbia il compito di orientare la società in questi tempi di sconvolgimenti tanto repentini da lasciarci privi di chiavi di lettura e, pertanto, senza visioni di lungo periodo. Il ricorso all’impiego delle più recenti intuizioni e scoperte scientifiche è il compito che si danno gli autori usando metafore di forte suggestione per la trasposizione al mondo sensibile, pur mantenendo la sostanza scientifica dell’approccio che ha sconvolto fisica, chimica, biologia e neuroscienze a partire da Plank, Einstein e Bohr.
Perciò, prima destinataria è la politica per la sua estraniazione dalla società, semplificata in esclusi e inclusi, padroni della natura e del tempo e derubati della vita e dei beni comuni. Questa fase storica è segnata da cambio di dimensioni, inomogeneità, discontinuità, incertezza e probabilità al posto di determinismo e causalità. L’Universo è un mondo curioso ma non lo riteniamo reale, perché continuiamo a vivere nel “momento newtoniano”, come se Einstein e Heisenberg fossero esistiti solo per chi progetta smartphone, internet, GPS e laser e non per chi ne fa uso quotidiano.
La nuova scienza – dalla fisica, alla chimica, alla biologia, alle neuroscienze – in parte causa essa stessa del cambiamento, può e deve fornire nuovi occhiali agli ambientalisti, ai responsabili delle organizzazioni del lavoro, alle associazioni culturali, alle espressioni di lotte territoriali e per i beni comuni, agli accoglitori di migranti, che vedono solo come curiosità nozioni specialistiche come salto quantico, velocità relativa, indeterminazione, che invece entrano prepotentemente nella realtà che- come dice Rovelli – non è quella che ci appare
Viviamo in ambienti dove si simula l’intelligenza a velocità irraggiungibili per la mente umana, con il lavoro controllato da robot e macchine che rispondono ai tempi prefissati da un flusso che va dal progettista al consumatore e che è organizzato per impedire ad ogni costo i “colli di bottiglia”. Comunichiamo attraverso piattaforme che hanno modificato il linguaggio e che codificano a velocità sub-luminari i nostri profili affidati inconsapevolmente a imprese private che strutturano la conoscenza e la memoria, influenzando così il futuro in cui piomberemo. Nel tempo in cui clicchiamo sul nostro conto bancario, un algoritmo a noi sconosciuto esegue migliaia di operazioni finalizzate a produrre denaro su denaro, con transazioni finanziarie eseguite accelerando fotoni nelle fibre ottiche e utilizzando magari quel titolo che io sto gelosamente conservando per tempi migliori. L’esaurimento delle risorse naturali procede in tempi non biologici pregiudicando vita, salute, clima. La moltitudine di informazioni ormai presenti nel Cloud, merce preziosa per multinazionali e governi rese possibili dalla meccanica quantistica, è stata raccolta e “misurata” ricorrendo a osservatori che sono parte in causa del fenomeno osservato. Di conseguenza, la gestione dei “big data” e il loro utilizzo a scopi più o meno benevoli, non sarà avulsa dagli attori in causa, tra cui, i governi. I dati sanitari della popolazione USA raccolti da Trump o da Obama non sono la stessa cosa.
La scienza potrebbe quindi diventare un alleato prezioso per la classe politica e per la società che democraticamente si fa rappresentare o si autorappresenta e che mai come oggi è chiamata ad un compito impegnativo e interconnesso all’azione di fenomeni che viaggiano alle velocità più elevate codificati in onde, particelle, dentro un universo tutto fatto della medesima polvere di stelle… Di questo nuovo mondo se ne erano accorti gli artisti – Braque, Picasso, Manet, Matisse, Boccioni – che alla scoperta della realtà dentro di noi, mettevano sule loro tele le “illuminazioni” che turbavano Plank, Pauli o Schroedinger, come illustra un capitolo del libro.
A dispetto del titolo che richiama un principio scientifico, i “quanti”, forse bizzarro e oscuro ai più, è la visione filosofica della società post-moderna il vero cuore del libro ed è sicuramente anche al mondo della filosofia che il testo si rivolge, con un monito che riecheggia più volte nel testo: è profondamente sbagliato ritenere la scienza esclusivo appannaggio di tecnologi e ingegneri. Anche il mondo dell’Umanesimo ha il dovere di occuparsene e di valutare gli effetti delle sue ricadute ideologiche sul mondo di oggi. Gli accadimenti attorno a noi ce lo impongono e vengono presi in considerazione secondo schemi non rituali nelle conclusioni. Guardando al futuro con una lente non rituale, si sono tracciati un programma e una gerarchia di priorità che si sottraggono al gioco degli specchi delle notizie quotidiane: la sfida climatica, la democratizzazione dell’economia, il modello energetico, la riappropriazione del tempo, la critica della velocità associata alla tecnocrazia, la riduzione dell’orario di lavoro, il rapporto finanza-economia reale, il tema nucleare, la guerra, il fenomeno dei rifugiati, la società “smart”. Ed anche un’idea per una più adeguata rappresentanza, che vada oltre il meccanicismo classico di cui si è fin qui impregnata la nozione e l’organizzazione del “partito”.
Leggere questo libro può rappresentare una avventura di viaggio, una seppur faticosa risposta alla curiosità, che è incoraggiata da insospettati punti vista e il lettore può trovare spunti afferenti al proprio interesse specifico, nel nome di una dichiarata interdisciplinarietà.
Il futuro è vicino, si trova a Lodrino. Una ditta piemontese poco tempo fa ha ottenuto una licenza di costruzione per uno stabilimento dove si produrrà rubinetteria. Nei 10.000 metri cubi del capannone lavoreranno sei persone: tre amministrativi e tre operai che controlleranno le 16 linee robotizzate. Ma la vera novità è che le nuove tecnologie rimpiazzano non solo il lavoro manuale, ma anche quello intellettuale. Che ne sarà delle persone, del lavoro, dello Stato sociale come oggi lo conosciamo? Sono interrogativi urgenti che affrontiamo in questo articolo.
A Lodrino il gruppo Nobili investirà 1,8 milioni di franchi per costruire uno stabilimento lungo 70 metri per 25, per un totale di 10.000 metri cubi distribuiti su due livelli. I nuovi posti di lavoro creati saranno sei, di cui tre operai e tre amministrativi. La produzione la faranno 16 macchine robotizzate. 100.00 i franchi di imposte annuali previsti. Elevata automazione dunque, dove la presenza umana è notevolmente ridotta. Il Gruppo Nobili vanta una lunga storia in quest’ottica. Nel suo stabilimento principale a Suno (Novara), 252 dipendenti producono ogni anno 2,6 milioni di pezzi finiti, un volume che mediamente richiede il lavoro di 500/600 addetti. Il doppio. «Ora abbiamo un centinaio di robot antropomorfi che svolgono il lavoro di venti persone ciascuno» ha spiegato al quotidiano Il Sole 24 Ore il titolare Alberto Nobili. Si potrebbe pensare che alla fabbrica novarese l’entrata dei robot abbia ridotto il personale umano. Invece no. La ditta si vanta di non aver licenziato negli anni più difficili, come la crisi globale del 2008. Fonti sindacali italiane interpellate da area, lo confermano. Alla crisi il Gruppo Nobili ha risposto con investimenti nell’automazione.
Questo è un piccolo esempio. C’è chi lo fa su larga scala. La provincia di Guangdong, epicentro manifatturiero cinese, ha stanziato finanziamenti per 152 miliardi di dollari in 2.000 fabbriche. L’obiettivo è avere otto fabbriche su 10 totalmente automatizzate entro 2020.
Il futuro è tracciato. Per comprimere i costi della forza lavoro, delocalizzare o importare la manodopera sottopagata è roba superata. Oggi si punta all’automazione di ultima generazione.
Il risultato sarà un mondo del lavoro radicalmente trasformato in tempi brevi. Lo attestano tutti gli studi sulla materia. Limitiamoci a citarne due. Nell’ultima edizione, il World Economic Forum ha presentato l’analisi “Future Jobs”. I risultati dicono che da qui al 2020 nel mondo si perderanno 7,1 milioni di posti di lavoro, a cui farà da contrappeso la nascita di altri 2,1 milioni di posti di lavoro più specializzati. 5 i milioni di impieghi persi in quattro anni.
Secondo studio: «Il futuro della forza lavoro» finanziato da Ubs. Esso prevede che entro il 2025 (meno di nove anni dunque) il 47% delle professioni odierne – quasi un lavoro su due – scomparirà a causa del progresso tecnologico. La metà dei lavoratori rimanenti diventeranno quasi tutti dei freelance,
lavoratori indipendenti o pseudo tali. Se freelance potrebbe suonare carino, val la pena ricordare che anche i proprietari di auto e pseudo tassisti Uber li considera indipendenti per pagarli una cicca mentre loro incassano miliardi senza sborsare un soldo per coperture sociali.
È indubbio che l’impatto della rivoluzione tecnologica sarà devastante.
Non solo per le persone, le modalità di lavoro e le sue condizioni, ma per l’intera società. Lo Stato si fonda sul lavoro. Le pensioni, l’assicurazione invalidità e la disoccupazione si finanziano con i prelievi sui salari versati da dipendenti e aziende. Se il lavoro dipendente calasse vertiginosamente perché sostituito dall’intelligenza artificiale e da un’esplosione di freelance, lo Stato sociale come lo conosciamo oggi in Svizzera sparirebbe. Basti dire che la legge attuale impedisce a un lavoratore indipendente di versare i contributi dell’assicurazione disoccupazione, e dunque di averne diritto nel caso di necessità.
Il problema è reale. In Europa il numero di freelance è cresciuto tra il 2004 e il 2013 del 45%, passando da 6 a 9 milioni. Buona parte di questi lavoratori indipendenti sopravvivono con molteplici lavoretti precari e malpagati che li occupano tutto il tempo. Senza contare che non hanno alcuna copertura in caso di ferie, malattia, invalidità e difficilmente riusciranno a garantirsi una pensione.
Non si tratta di fare del catastrofismo, ma di guardare in faccia la realtà prima che questa ci investa come un treno in corsa.
A rubarci il lavoro non sarà la delocalizzazione o l’importazione di forza lavoro immigrata a basso costo. Sarà l’intelligenza artificiale. Quest’ultima non va confusa con l’automazione, cioè la semplice ripetizione meccanica di un gesto, tipico dei robot da catena di montaggio per intenderci. Intelligenza artificiale intesa come computer in grado di acquisire un’enormità di dati e, grazie a un algoritmo, ragionare autonomamente producendo una soluzione. Sono dei computer che imparano, anche dagli errori, e migliorano col tempo diventando sempre più affidabili.
La quarta rivoluzione tecnologica non farà prigionieri. Dai lavori più semplici a quelli elaborati, non si salva nessuno. I pony express saranno sostituti da droni per le consegne. Già oggi la Posta svizzera li sta testando per le consegne domenicali o nelle zone periferiche. La stessa Posta sta testando in Vallese da qualche anno gli autopostali senza conducente. Nel medesimo campo, la Daimler ha ottenuto lo scorso anno la prima licenza per circolare sulle autostrade del Nevada di un camion guidato da un software, il Freightliner Inspiration. Nell’ultimo censimento degli Stati Uniti, l’autista di Truck era la professione più alta in 29 stati su 50. Ben si capisce il timore causato da questa novità.
Gli operatori dei call center lasceranno invece il posto ad Amelia, il software talmente sofisticato da interagire con gli umani senza che questi si accorgano di parlare con un computer. Negli ospedali americani, Tug, un robot, porta i pasti, le lenzuola e le medicine. El Camino Hospital di Mountain View, la stessa città sede di Google, possiede 19 Tug. Il risparmio netto dell’ospedale è di 350.000 dollari di spesa iniziale contro un milione di personale umano l’anno.
Ma la vera novità è che le nuove tecnologie rimpiazzano non solo il lavoro manuale, ma anche quello intellettuale. E la rivoluzione tecnologica viaggia talmente veloce che i posti di lavoro soppressi saranno notevolmente di più dei nuovi creati. Disoccupazione tecnologica, l’aveva definita con largo anticipo l’economista John Maynard Keynes negli anni ’30. Non è fantascienza. Prendiamo l’esempio della professione di chi qui scrive. La rivista Forbes è famosa per le sue classifiche dei più ricchi al mondo. Tutte le sue notizie online trimestrali sulle principali aziende americane le scrive il software Narrative Science. Anche il Los Angeles Times ha un software che confeziona articoli su terremoti, incendi e omicidi attingendo a fonti certe. Pure le cronache sportive minori sono scritte da computer. Il software non fa inchieste o approfondimenti, ma Narrative Science può persino calibrare la prosa, attingendo a articoli di grandi giornalisti di un tempo. Il lettore sarà estasiato, senza accorgersi che è stata scritta da una macchina.
Anche le professioni mediche possono essere in parte sostituite. Enlitic è un software che legge meglio dei radiologi le radiografie. È stato dimostrato che le analisi umane delle colonscopie erano sbagliate nel 6% dei casi rispetto a quelle di Enlitic. La malattia c’era, contrariamente a quanto diagnosticato dal radiologo umano. Enlitic legge meglio, più in fretta e costa meno, molto meno, di un radiologo. Sedasys invece è un computer utilizzato in quattro ospedali statunitensi che ha preso il posto dell’anestesista nel sedare i pazienti per analisi invasive. Economicamente un bel risparmio, vista la tariffa oraria di un anestesista. C’è perfino il dottor Watson, un computer dell’Ibm in grado di fagocitare in pochi minuti i resoconti medici del mondo intero su una malattia specifica che circolano nel web, elaborare una diagnosi, prescrivere medicine e preparare la farmacia per il paziente. Per ora solo un test, ma presto sarà una realtà. Gli avvocati non pensino di essere al sicuro. Il software capace di elaborare pareri giuridici sulla scorta della giurisprudenza e dottrina in tempo reale già esiste. Alcuni studi legali americani già li utilizzano.
Anche gli analisti finanziari hanno poco da sorridere. Il programma Warren già oggi sta sostituendo gli analisti junior, cioè quelli all’inizio della loro esperienza. D’altronde, buona parte dei giochi in borsa sono determinati da algoritmi. «Le tecnologie finanziarie provocheranno una riduzione del personale delle banche» ha dichiarato Sergio Ermotti, amministratore delegato di UBS, al Salone internazionale dei servizi finanziari di Ginevra lo scorso mese, concludendo: «Senza intelligenza artificiale sarà impossibile stare al passo».
Economicamente, non c’è storia nel conflitto uomini contro software. Lavorano 24 ore su 24, non vanno in vacanza, non si ammalano, non rivendicano aumenti di paga né migliori condizioni di lavoro. Il capitalismo, che per sua natura ha l’obiettivo del massimo margine di profitto, non può che rimanere affascinato. Ma senza reddito da lavoro, i consumi crolleranno. E questo è un altro nodo importante da sciogliere.
Quella che un tempo si sarebbe detta la ‘fase’ ci mostra in atto, con le imponenti migrazioni tra gruppi parlamentari, e con lo sbando della destra, la decostruzione del sistema partitico, caratterizzata da un’intensità analoga a quella del biennio 1992-94; e al contempo l’affermarsi di un soggetto quasi post-partitico, il Pd di Renzi, che occupa una posizione centrale nel sistema politico, e vi funge, oltre che da architrave, anche da scambiatore di persone, di carriere, di poteri, in una prospettiva neo-trasformistica. Parallelamente a questo concorrere degli interessi forti, e di parte di quelli diffusi, verso il centro del sistema, si manifestano segnali crescenti di esclusione, sia nell’area istituzionale – dove all’esterno del Pd e delle forze che in vario modo e grado ne dipendono (il centro e il centro-destra; ma anche Sel non ha larghe prospettive autonome) c’è solo una protesta (Lega e M5S) che per la sua mancata spendibilità politica rafforza il Pd stesso – sia fuori dalle istituzioni, dove i cittadini non votanti sono ormai la maggioranza. Non è dunque ancora risolta la questione dei partiti, ovvero della rappresentanza e insieme della partecipazione, apertasi un quarto di secolo fa.
Eppure in questa debolezza della politica – troppo includente e al contempo troppo escludente – c’è evidentemente una forza, resa tale sia dallo stato di necessità, sia dall’abilità politica del leader del Pd e del governo, sia dall’assenza di alternative praticabili – in termini di personale politico e di programma –.
Una forza che fa sì che l’attuale fase veda anche operarsi, sia pure con fatica e in modo non ancora compiuto, una trasformazione della democrazia italiana: l’Italia sta infatti assumendo una nuova forma politica.
Sia chiaro che non si tratta di una forma di per sé autoritaria: l’alternativa fra democrazia e autoritarismo appartiene alla cattiva scienza politica e alla pigra filosofia politica. Fra i due corni di quell’alternativa c’è in realtà un vastissimo spazio di sfumature e di posizioni, in cui l’Italia sta occupando il quadrante di una speciale “democrazia d’investitura rafforzata” – rafforzata, s’intende, da un evento non formalmente costituzionale come l’appoggio quasi plebiscitario che i poteri economici e mediatici (peraltro largamente coincidenti) offrono al leader.
Le riforme in via di approntamento coinvolgono le tre facce dell’unico sistema di potere dei nostri giorni – la tripartizione di Montesquieu fra legislativo, esecutivo, giudiziario è infatti largamente obsoleta –: potere economico (qui si è intervenuti col jobs act sul mercato del lavoro, senza disturbare in alcun modo il capitale e la finanza), potere politico (riforma della costituzione e della legge elettorale), potere formativo e informativo (riforma della governance della Rai e della scuola).
I risultati sono, quanto al primo punto, la privatizzazione e la spoliticizzazione del lavoro (che divenendo affare personale – questo significano infatti la flessibilità e l’ideologia della protezione del lavoratore e non del posto di lavoro –, perde il rango di fondamento primario della democrazia repubblicana) e la sua subalternità reale al potere del capitale; durante la lunga fase delle tutele incomplete il lavoratore non sarà particolarmente combattivo, com’è ovvio supporre.
Quanto al secondo punto, la politicizzazione della Costituzione, che cessa di essere un’arena di istituzioni in cui, all’interno di un antifascismo originario e di un progressismo sistematico (l’art. 3 Cost.), le forze politiche si affrontano alla pari, e che – da una legge elettorale squilibrata e unica nel mondo occidentale – viene invece consegnata senza contrappesi significativi al vincitore delle elezioni politiche, organizzate come un breve duello che ha in palio il comando politico indisturbato fino alla scadenza della legislatura, quando si scatenerà una nuova resa dei conti per la successiva investitura.
E, quanto al terzo punto, si lascia invariato il dominio mediatico degli oligopoli economici, e anche la tendenza a trasformare la politica in spettacolo – in una logica di sistematico svilimento –, e sarà sottratta la Rai ai partiti e rafforzata la sua dipendenza dal potere politico, mentre la trasmissione scolastica di cultura si incentrerà sulle competenze, sulle abilità e sul problem solving. Come al primo punto si esclude il conflitto, e al secondo la politica in quanto attività complessa prolungata e diffusa, così al terzo punto si limita lo spirito critico: risolvere i problemi è importante, ma lo è ancora di più capire perché e come sono nati, a vantaggio e a svantaggio di chi.
A uno sguardo attento queste trasformazioni sembrano andare verso l’importazione in Italia dell’ideologia dei Trattati Ue, resa esplicita con la formula che vuole l’Europa impegnata a realizzare “un’economia sociale di mercato altamente competitiva” – l’esclusione del conflitto sociale, la costituzionalizzazione dell’equilibrio di bilancio, i parametri di Maastricht, l’orientamento all’esportazione, i bassi salari (gli 80 euro non invertono certo la rotta in modo significativo), vanno tutti in questa direzione -.
Un’ideologia moderata ma non certo autoritaria o antidemocratica, quindi; che si presenta in Italia con una curiosa e importante variante: i corpi intermedi (partiti, sindacati, associazioni economiche, burocrazie, Länder) che nello schema originario sono i perni strutturali della stabilità sistemica, da noi invece sono sotto attacco mediatico e politico, e pare prevalere un modello populista-democratico di leadership intensamente politica che fa appello direttamente al popolo scavalcando ogni mediazione, denigrata come ‘casta’. La differenza è grande, certo; e nasce dal fatto che, nonostante l’opera demolitoria di Berlusconi, per molti versi il lavoro di abbattimento delle strutture e delle mentalità ‘socialdemocratiche’ (partiti e sindacati) e ‘vetero-costituzionali’ (burocrazie e regolamenti) resta ancora da fare, ed ancora esige – agli occhi, ovviamente, di chi si assume l’onere politico di riformare l’Italia nella direzione indicata – un grande investimento di energia politica innovativa (impropriamente spesso elevata al rango di ‘decisionismo’, ma certamente debordante).
Resta da vedere, ed e’ un grande dilemma interpretativo e politico, se questo “quasi-decisionismo” sarà una fase transitoria, un accompagnamento verso la stabilità di un ordine nuovo, o se invece resterà la cifra di una politica restia (o inadatta) a precipitare in soluzioni ordinative, e tutta spostata verso l’attivismo e l’occasionalismo.
Se ci si chiede come si sia arrivati a ciò – al di là delle vicende più recenti, che hanno visto l’insuccesso elettorale del tentativo blandamente socialdemocratico di Bersani –, non si può non fare riferimento alla sconfitta storica della sinistra, maturata fra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, a opera della rivoluzione neoliberista che ha chiuso il ciclo rooseveltiano (o, per dirla all’europea, i Trenta gloriosi); e anche all’introiezione, fortissima, da parte delle sinistre europee, delle logiche e delle categorie analitiche del mercatismo imperante.
Che continua a imperare nonostante le sue contraddizioni (soprattutto due: esige molta più energia politica di quanto abbia mai ammesso, e in nome dell’individualismo riduce i singoli soggetti, e i loro diritti, a irrilevanza sociale ed esistenziale) e nonostante le sue crisi, che si abbattono sulle società occidentali come calamità naturali a cui si fatica molto a rispondere (e particolarmente fatica il modello ordoliberista europeo).
Di fatto, sia quando funzionava a regime sia quando e’ entrato in crisi, il sistema neoliberista ha prodotto, in Occidente, un grave logoramento del legame sociale, generando disuguaglianza e insicurezza tanto gravi da mettere a rischio l’auto-identificazione democratica della cittadinanza. E per di più sembra oggi che il legame si possa ricostituire intorno alla paura dei conflitti e dei terrorismi che terribili squilibri geo-strategici hanno ormai portato alle soglie di casa. Un contesto di impoverimento e di paura che certo non aiuta la sinistra
Non facile, com’è evidente, individuare se non rimedi, se non un programma, almeno alcune strategie sensate e coerenti da parte di una sinistra che non pare godere, nemmeno a livello europeo, di particolare fortuna e consenso. E che nondimeno dovrà affrontare l’ experimentum crucis dell’identità, ovvero della contrapposizione consapevole allo stato di cose esistente, e della prassi, ovvero della responsabilità governante.
Tutto ciò esige che chi si oppone al ciclo politico in corso, e alle sue scelte qualificanti, sia prima di tutto all’altezza, intellettuale politica comunicativa, del compito. Ovvero che si renda ben conto della posta in gioco, tanto politica (la forma costituzionale del Paese) quanto sociale (l’esigenza di cambiare politiche economiche o inesistenti o finalizzate a parametri che non tengono conto dell’occupazione). E che si ponga apertamente l’obiettivo, l’unico che la sinistra può realisticamente darsi, di ricostruire il legame sociale e la tenuta democratica del Paese a partire dal lavoro, e dall’obiettivo dell’impiego produttivo di massa e, perché no, dalla difesa del sistema industriale italiano.
A tal fine si devono accettare alcune sfide.
La prima e’ quella delle riforme, la cui esigenza prescinde dall’Europa. E’ la storia delle nostre debolezze, della fase terminale della Prima repubblica e di gran parte della Seconda, che ce le impone. Ma se cambiare si deve, non si tratta però di cambiare per il gusto di cambiare (e’ già stato fatto) ne’ per adeguare il Paese a incomprensibili (o comprensibilissimi) diktat transalpini. Il fatto è che ‘riforme’ e ‘innovazione’ sono termini ambigui: ogni riforma può essere impostata secondo direzioni diverse, e ha conseguentemente costi sociali diversamente distribuiti: e finora i costi sono stati pagati dai deboli, che lo sono divenuti ancora di più. La coppia oppositiva vecchio/nuovo non può sostituire quella di destra/sinistra. Quindi, e’ ora di chiedersi apertamente “quali riforme”? “Riforme per chi?”.
La seconda sfida consiste nell’uscire dal concetto di ‘minoranza’, che è solo numerico e aritmetico, e non ha rilievo qualitativo, politico. Devono cessare le ambiguità e le incertezze della politica (delle sinistre) intesa come proclamazione di penultimatum, come posizionamento interno, come contrattazione degli emendamenti (in certi casi utili, non lo si nega, ma confinati per loro natura in un’ottica di riduzione del danno, di male minore). La sinistra deve unirsi, almeno a livello di un tavolo permanente di coordinamento, per prendere l’iniziativa, individuando un diverso orizzonte culturale e sociale. Il reddito di cittadinanza, nelle forme appropriate, può essere un’occasione di nuovo protagonismo. Ma lo dovrà essere anche un’elaborazione sul Ttip, snodo strategico a cui non si riflette a sufficienza, e sulla scuola, altrettanto centrale e urgente. E, non ultimo, una battaglia critica e culturale per ridisegnare linguaggi, concetti e categorie (senza ambire all’egemonia, ma per costruire un pluralismo reale).
La terza sfida consiste nel declinare la necessaria centralità della politica (a ogni pulsione antipolitica che si realizza un esponente dei poteri forti si frega le mani) articolandola su tre livelli. Quello del leader (che a sinistra c’è sempre stato), quello della individuazione di un’area sociale di riferimento (la sinistra non può coincidervi, ma non può prescinderne) e quello del partito.
A proposito del quale ci si deve chiedere come una prospettiva di sinistra possa manifestarsi efficacemente in un partito a vocazione maggioritaria se questo anziché essere una delle due grandi forze in campo (secondo i canoni della democrazia competitiva) e’, come oggi avviene del Pd, l’unica forza politica di rilievo, circondato da partiti anti-sistema sotto il 20%. Il che lo porta appunto alla condizione descritta in apertura, di essere cioè un partito pigliatutti, progressivamente sempre più centrista, che si autoproclama partito della Nazione mentre della Nazione non rappresenta che un quarto.
Alla sinistra, dunque, il compito di includere efficacemente il lavoro e i giovani in un orizzonte più vasto e più connotato.
Un sistema mediatico in larga parte asservito al potente del momento scatta come un serpente a sonagli appena spunta all’orizzonte qualcosa che sembra un’aggregazione fuori del coro che parla di cose concrete che vivono ogni giorno le persone normali.
Questo è ciò che sta succedendo appena è apparsa sulla scena la proposta di Maurizio Landini di costruire “Coalizione Sociale ” per dare rappresentanza sociale a chi non ha voce nè rappresentanza dopo la trasformazione che hanno subito i partiti tradizionali della sinistra.
I lavoratori poveri, le false partite IVA, precari e disoccupati sono lasciati senza rappresentanza nè sociale nè politica, una grande massa di persone senza riferimenti, senza un’offerta associativa di rappresentanza sociale e politica.
Senza sindacato di riferimento, senza un partito di riferimento migliaia di persone debbono arrangiarsi a difendere uno straccio di dignità nel lavoro, nella ricerca del lavoro e nella vita.
Coalizione Sociale appare come un nuovo soggetto politico e sociale che si propone di rimettere insieme i frammenti delle esperienze di vita e i bisogni di una moltitudine di persone condannate alla emarginazione sociale e alla povertà.
Il progetto politico post democratico portato avanti nell’intera Europa dalle nuove leadership è invece quello di trasformare questa massa di persone in plebe, senza progetti di vita e consapevolezza dei propri diritti.
Nessun problema per il potere se queste migliaia di nuovi paria non partecipano alla vita attiva, se non votano, tanto si può governare con il 40% dei consensi sulla base di una partecipazione al voto di poco superiore al 50 % degli aventi diritto.
Il pericolo che una moltitudine di soggetti che ora non partecipano alla vita politica e sociale si mobilitino per propri obiettivi sociali e trovino anche nuove leadership politiche che li rappresentino è insostenibile per questa classe dirigente un pò parassitaria che ha conquistato il potere usurpando la reputazione di vecchie forme di partito già del movimento operaio.
Questa è la grande paura, la paura che qualcuno colmi il vuoto che sta tra il PD ed una moltitudine di donne e uomini che sono ora senza rappresentanza.
Hanno capito benissimo tutto questo il Renzi e i suoi sodali e il cerchio magico dei poteri di sempre che utilizzano i media come clave contro qualsiasi proposta che possa incrinare il sistema .
Per questo il tentativo generoso di Landini e della Fiom ha un valore in sè come banco di prova per costruire un orizzonte diverso da quello prospettato da Renzi & C
L’accettazione della linea Renzi significa per la Cgil la fine del sindacato confederale, ovvero la fine della Cgil. Speriamo che Camusso e compagni lo capiscano in tempo se non vogliono essere confinati dal governo in una “riserva indiana” verso un’estinzione lenta e inesorabile .
Va dato atto a Maurizio Landini di avere intuito questo pericolo e di avere reagito. Non va lasciato solo.
“Questo è un messaggio dalla Spagna per Blackstone. Noi siamo gli abitanti delle vostre nuove case, case che erano il nostro focolare. Può darsi che voi non ci conosciate… ma ci conoscerete! Il governo spagnolo e la banca, salvata dal fallimento, vi stanno vendendo le nostre case con uno sconto enorme, uno sconto che a noi è stato negato. Ora state alzando i prezzi, ponendoci tutti a rischio di sgombero. Può darsi che vi riteniate intoccabili, nascosti nei vostri uffici a Manhattan. Ma non lo siete. Voi non sapete di cosa siamo capaci… lotteremo per le nostre case, per i nostri diritti, per la nostra dignità, per i nostri figli e figlie, per i nostri nipoti. Lotteremo contro i vostri interessi economici, contro tutto quello che rappresentate. Noi ci impegnamo affinché tutto il mondo sappia chi siete e cosa fate. Tenetevi pronti ! Noi lo siamo !”
“Abbiamo bisogno di cambiare radicalmente” “Quando siamo partiti c’era un ragionamento che diceva abbiamo bisogno di cambiare radicalmente. Non avevamo puntualmente definito tutti i punti su cui intervenire e i singoli problemi”, continua il ministro. “Non era possibile andare avanti” “La situazione di oggi – aggiunge – non è quella di 20 anni fa: era maturata la consapevolezza in Italia che c’era la necessità di un cambiamento radicale. I cittadini hanno realizzato che così non era possibile andare avanti”. fonte rainews
Come dire, questo signore dall’aria mansueta un anno fa non si immaginava neppure che avrebbe “smantellato” l’art.18. Come giustificazione allo scippo di diritti dei lavoratori, la cui mancanza si comincerà a vedere a livello sociale e molecolare nelle fabbriche e in tutti i luoghi di lavoro tra non molto, afferma ” non era possibile andare avanti…” i cittadini hanno realizzato che così non era possibile andare avanti…”
A quali cittadini si riferisce il nostro amabile conterraneo ? Ai lavoratori precari che rimarranno precari ? A quei lavoratori che saranno “demansionati” perchè non sono simpatici al padrone ? Ai genitori con figlioli trentenni che non trovano lavoro , che sanno che non avranno mai un lavoro vero se non precario e malpagato magari in una delle fantasiose cooperative sociali romane che tanto piacevano al nostro ministro…
Questo ministro signorsì, mansueto e obbediente pilastro del leader autoritario e avventuriero Signor Renzi, si comporta come un apprendista stregone che manipola senza troppa contezza miscele umane, sociali e professionali pericolose.
Il risultato di queste misure sarà quello di rendere inappetibile in tutte le sue forme il lavoro dipendente: un giovane o una ragazza con talento non avranno di certo nel loro orizzonte la meta di un lavoro dipendente, senza diritti e demansionabile a piacimento del padrone, licenziabili ad nutum con una manciata di spiccioli.
Cercheranno altro, faranno altro con micro aziende di servizi, piccoli bar e trattorie, con la fuga all’estero. Sarà l’impresa ad elevata tecnologia e complessa che farà fatica a trovare tecnici e operai specializzati, ma questi scenari non sono nella mente del nostro mansueto e obbediente ministro.
Gli effetti del Job Acts nel ricambio generazionale dei lavoratori si vedranno tra qualche anno quando avremo un paese pieno di resturant e bettole e le aziende ad alta vocazione specialistica e tecnologica se ne saranno andate a cercare lavoro di elevata qualità altrove.
Sia pure agnostici non ci resta che dire : ” Perdonali perchè non sanno quello che fanno”
Hoy resulta indispensable poner a la luz a los que son excepcionales, a usarlos de ejemplo, de punto de partida, de contraste.
En Pepe Mujica hemos encontrado a un hermano, una inspiración, un latido que se encuentra con miles de soñadores en el mundo. Sin duda, José Mujica tiene un corazón de león.
Puoi non avere neppure un soldo depositato o nessun credito con loro, ma le banche son dentro la tua piccola economia, anche se non te ne accorgi. Se leggi notizie su scandali bancari o su multe milionarie, in un modo o nell’altro ti riguarda. Di solito non ci si crede, o perché è difficile capirci o perché si ritiene che tocca altri, i danarosi.
Un primo grosso scandalo è capitato con i tassi interbancari detti Libor. I Libor sono tassi di interessi fissati a Londra tra le 18 più importanti banche internazionali (l’acronimo significa appunto: London Inter Bank Offered Rate). Sono importanti perché servono da guida per fissare i tassi con cui le banche prestano in tutte le varie monete, per compiere operazioni finanziarie e commerciali, per i prestiti ipotecari o al consumo, per la revisione dei tassi di prestito variabili, per derivare i costi di investimenti, di produzione e quindi le possibilità di occupazione. Le inchieste avviate dopo aver scoperto alcuni casi da parte di alcuni giornalisti economici, hanno dimostrato che le manipolazioni dei tassi duravano ormai da diversi anni, contro tutte le regole professionali o le vantate attestazioni di trasparenza. Per quale ammontare complessivo? Per 450 mila miliardi di dollari (avete letto bene, 450 seguito da dodici zeri). È quindi ovvio che anche delle semplici variazioni hanno un effetto moltiplicatore immenso sia per chi lucra (banchieri), sia sugli operatori economici o sui singoli creditori, sia sull’economia in genere (tutti noi).
Come si forma una classe dirigente ? Come si sedimenta il sistema di valori che divengono il punto di riferimento per il leader e per lo stato maggiore di una nuova classe dirigente ?
Questi interrogativi sono più che mai opportuni rispetto alla vicenda politica italiana. Come sta avvenendo il ricambio generazionale della classe dirigente e su quali valori si fonda la vision e le strategie di questa classe dirigente?
Per un osservatore esterno ai giochi di potere e , per quanto possibile, vaccinato rispetto alle nostalgie del tempo passato e senza ambizioni politiche personali , decifrare il profilo culturale e politico di questa nuova generazione e’ una sfida utile e stimolante.
Il primo aspetto che emerge dai comportamenti e’ l’ energia vitale di questo personale politico giovane .
L’ascesa rapida non resistibile del leader e l’aggregazione di uno stato maggiore composto da giovani donne e uomini che usano linguaggi, rappresentazioni del mondo e di se’ che sono una frattura con il sentire e la visione del mondo delle generazioni precedenti sono davanti agli occhi di tutti.
Per trovare una spiegazione su questa ascesa rapida e irresistibile di questa nuova elite oltre alle tradizionali chiavi interpretative ispirate alla sociologia ritengo utile utilizzare l’etologia, lo studio dei comportamenti degli animali.
Dopo anni di immobilismo e di palude berlusconiana, emerge una leadership tutta centrata sulla tecnica della conquista del potere, sul potere come elemento fondante ed esaustivo dell’agire politico.
Emerge il leader , in etologia il il capo branco, l’uomo che promette di sbloccare l’Italia, di garantire la governabilità. Rottamazione di uomini e donne politici del secolo scorso e di formule e linguaggi della politica, queste sono le promesse mantenute che smuovono a livello diffuso, tra le generazioni più giovani, il desiderio di cambiamento e e alimentano l’avidità di potere. In questo senso il leader capo branco ha uno straordinario istinto per interpretare la voglia di potere dei componenti e dei candidati a fare parte del branco…
Fare prevenzione vuol dire anche contrastare il processo di impoverimento e di plebeizzazione di milioni di uomini e donne che vivono del proprio lavoro.
Le turbolenze non solo climatiche e meteo che stanno percorrendo il nostro paese ci obbligano ancora una volta a fare il punto sulla situazione.
Nonostante il clima generale di incertezze e di tensioni sociali rileviamo con piacere la tenacia di molti operatori che si occupano di prevenzione a perseverare con la continuità e l’impegno quotidiano nello sviluppare progetti, a elaborare proposte, a mantenere attivi Servizi di Prevenzione con risorse sempre più scarse.
Questo è un dato positivo, importante, che fa bene sperare per il futuro, pure a fronte di una molteplicità di segnali negativi che indurrebbero molti a ritirare i remi in barca.
Come vedrete dalle notizie che riportiamo dalla newsletter nel corso di poche settimane si sono celebrati diversi eventi di rilevante importanza che mostrano che non vi è la resa rispetto ad un adattamento passivo e ad un ridimensionamento delle aspettative di una migliore qualità del lavoro, delle relazioni sociali, della vita.
Il Convegno monotematico Alcol e Lavoro che si è svolto a Bari si è caratterizzato per l’elevata qualità dei contributi dei relatori e per le elaborazioni e i programmi che ne sono scaturiti.
Diversi Seminari che si sono svolti nell’ambito del Salone Ambiente Lavoro hanno affrontato temi scottanti cercando di aggiornare metodologie e pratiche professionali di chi si occupa di prevenzione rispetto ai problemi di quest’epoca triste per chi vive del proprio lavoro.
Tra questi temi segnaliamo l’emergente problema dell’invecchiamento nel lavoro o meglio degli anziani costretti ancora a lavori pesanti e disagiati.