Fonte Areaonline.ch che ringraziamo |
Mese: Marzo 2024
Uno spettro si aggira per l’Europa: non è il comunismo, ma la guerra – di Giuseppe Manenti
Fonte Effimera che ringraziamo
Questo testo nasce da una mia proposta a Gianni Giovannelli che ha dato anche un notevole contributo di suggerimenti e di stesura. Stimolato dal suo “Tempesta e bonaccia” dove la nostra “bonaccia” mentre corrisponde a eccidi e genocidi, non ci lascia indenni, ma ci rende sempre più impotenti, impoveriti e disarmati di fronte all’avidità del potere e del capitale. Tuttavia mi ritengo insoddisfatto perché avrei voluto essere in grado di motivare ad insorgere contro la guerra, a trovare gli argomenti convincenti e cogenti, a trovare i punti, i modi, le leve per rivoltare questa “bonaccia”. Allora mi rivolgo ai compagni e spero che arrivino da loro idee, propositi, tutto quello che serve per fare la guerra alla guerra. (G.M.)
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Tutti i partiti di governo e di opposizione si dichiarano contro la guerra. Intanto continuano a vendere armi e le industrie che le producono si arricchiscono esponenzialmente, anche grazie a un trattamento fiscale favorevole.
La sola Leonardo italiana ha triplicato il valore delle proprie azioni in tre anni. Il ministro della difesa, Crosetto, nel 2021, ha ricevuto 619.000 euro da questa società, quale compenso per la funzione di advisor, svolta quale presidente dell’Aiad. Per gli azionisti continua la buona stagione.
L’impegno finanziario dell’Italia nei confronti dell’Ucraina è presumibilmente tre volte superiore a quel che ci dicono i dati ufficiali: i 2,2 miliardi di euro dichiarati come aiuti militari, stante la mancanza di trasparenza, si calcola possano essere almeno 5 miliardi complessivi reali, sottratti alla spesa sociale. E andrebbero aggiunti i danni, notevoli, provocati dal conflitto e dalle sanzioni che vanno a gravare sull’economia delle singole famiglie nel nostro paese.
In concomitanza con l’invasione russa dell’Ucraina si apre la guerra del gas, con cui l’America ha risolto il problema del suo gas liquido che secondo Einhorn (fu lui, con un anno di anticipo, a prevedere che Lehman Brothers sarebbe saltata) era una bolla che gravava per 100 miliardi di dollari di perdite su Wall Street. Le sanzioni contro il gas russo e l’offerta che non si poteva rifiutare del gas americano a 80dollari al mq, provocarono un meccanismo perverso, il prezzo di questo gas “made in USA” indicizzato alla Borsa Olandese fu usato nei contratti commerciali per rivendere il gas russo, mentre il gas russo, al prezzo stimato dai 2 ai 10 dollari, continuava a fluire nei gasdotti per i contratti in essere. Le Compagnie che ricevevano il gas russo fecero guadagni stellari alle spalle della popolazione europea, salutando questa guerra come un bengodi ed ovviamente erano poco interessate a fermarla. Anche questa guerra commerciale ha provocato sofferenze e disagi.
Il governo Meloni partecipa attivamente al conflitto ucraino , continuando a stanziare miliardi di euro in finanziamenti e ad inviare armi e istruttori assieme alla NATO.
Anche perché dopo le armi e le distruzioni, il business della guerra continua e le industrie e le banche italiane sono pronte a partecipare al grande affare della “ricostruzione dell’Ucraina”. che implica liberismo sfrenato, sfruttamento di masse ridotte alla fame.
Chi paga tutto ciò? L’85% degli Italiani che non vogliono la continuazione della guerra, ma la pace, ora e subito!
Il Trumpismo globale? Intervista a Miguel Urbon
Riprendiamo da Contretemps.fr che ringraziamo
Autore
Miguel Urbon ha appena pubblicato un libro intitolato Trumpismos (Verso). Sviluppa un’analisi dei nuovi estremi di destra – da Trump a Milei (Argentina) a Bolsonaro (Brasile) e Vox (stato spagnolo) o Chega (Portogallo) – per mettere in discussione le forme di una possibile risposta a questa ondata reazionaria globale.
Ci si chiede spesso se non stiamo vivendo una ristampa degli anni ’30, quando vediamo come le élite politiche ed economiche conservatrici aprono la strada all’estrema destra, nel bel mezzo della crisi dei sistemi liberali. In che misura sperimentiamo una sorta di Repubblica di Weimar?
Troviamo sempre difficile pensare al presente e al futuro e stiamo cercando analogie. Dalla crisi del 2008, c’è stata sia una crisi economica multidimensionale, con alcuni elementi simili, il crollo del 1929, sia l’ascesa dell’estrema destra. E questo solleva la questione se sia possibile una sorta di riemissione del neofascismo.
Queste domande legittime mostrano la nostra incapacità di pensare al futuro, e questo è ciò che ci porta a pensare con le categorie del passato. Ci sono, ovviamente, analogie. L’estrema destra attuale ha alcuni elementi comuni con il fascismo del periodo tra le due guerre, ma quello che sto cercando di difendere in questo libro è che non ci troviamo di fronte a una sorta di riedizione del fascismo del periodo tra le due guerre, ma piuttosto di qualcosa di nuovo.
Questo non significa che sia peggio o meglio, significa semplicemente che è nuovo. E se dobbiamo partire da ciò che il fascismo era per analizzare l’attuale estrema destra, deve essere solo un punto di partenza, non un punto di fine.
C’è stato un elemento fondante dell’estrema brutalità del fascismo, la prima guerra mondiale, che ha generato un’intera base militante di veterani, sia in Italia che in Germania e in altri paesi dove il fascismo era molto forte, come è avvenuto in Francia.
Un altro elemento fondamentale è l’ascesa del movimento operaio. Gli anni ’20 furono un tempo di rivolta, di rivoluzione. In Germania, è la rivoluzione spartachista che sarà sconfitta, e Rosa Luxemburg sarà assassinata; è anche la Repubblica dei Soviet in Ungheria o la rivoluzione russa, naturalmente, che testimoniano che lo stato liberale non può soggiogare la classe operaia semplicemente ricorrendo ai corpi coercitivi dello stato.
Questo è il cosiddetto stato capitalista eccezionale nato: l’apparato repressivo dello Stato non è più sufficiente a porre fine all’ascesa del movimento operaio, e alcuni strati popolari devono essere mobilitati per schiacciare le rialzi rivoluzionarie.
Oggi non abbiamo tali rivolte. È vero che nel 2011, con 15M [15 maggio 2011, l’inizio del movimento di indignazione, Grecia e America Latina, siamo stati in grado di farlo come un assaggio, ma questo non è paragonabile alla profondità dei cambiamenti e alle interruzioni che gli anni ’20 e ’30 hanno rappresentato per il movimento operaio in Europa.
L’altro elemento è lo scoppio della piccola borghesia, la classe media, la classe che dava una soggettività al fascismo del periodo tra le due guerre. Fu questa classe media profonda-federale che fu sovrarappresentata. Troviamo questo parallelo nell’ascesa dell’attuale estrema destra e nell’ascesa del fascismo.
I cattivi maestri del “Corriere”
Fonte Volerelaluna che ringraziamo
Autore :Riccardo Barbero
C’è stato un tempo nel secolo scorso, ormai lontano, nel quale gli esponenti più qualificati della sinistra politica e sindacale italiana si presentavano ai convegni e agli incontri portando sottobraccio un fascio di giornali di tutte le tendenze: il primo di essi, che fungeva da cartellina contenente tutti gli altri, era immancabilmente il Corriere della Sera. C’era forse un po’ di snobismo in quell’atteggiamento, ma sicuramente c’era anche il riconoscimento che gli editorialisti di quella testata della buona borghesia meneghina sapevano rappresentare e illustrare il punto di vista del capitalismo italiano. L’autorevolezza del giornale era data, agli occhi dei leader della sinistra, dall’autorevolezza di un capitalismo nazionale che, dopo il disastro del fascismo e della guerra, era riuscito a promuovere una forte crescita economica, seppur a fronte di gravi sacrifici sociali imposti ai lavoratori.
Se ci si arma di pazienza e soprattutto di senso dello humour, può essere interessante leggere anche oggi, rigorosamente on line, gli editoriali attuali dell’eterno Corriere della Sera. I tempi sono diversi: la situazione economica e soprattutto produttiva del nostro paese non è più quella di un tempo, anche perché, come sappiamo, il quadro internazionale ed europeo è profondamente cambiato in questo nuovo secolo. Proprio in questi giorni è lo stesso Corriere a informarci che tra le 306 imprese del Paese con un fatturato superiore al miliardo di euro, le prime tre (Enel, Eni, Gse) con un giro d’affari ciascuna di oltre 100 miliardi, sono a controllo pubblico e la quarta (Edison) con solo (…) 30 miliardi di fatturato è a controllo francese. Di seguito vengono altre importanti industrie, in origine sia pubbliche sia private, che sono state cedute a capitali esteri: le poche rimaste italiane nella proprietà hanno provveduto a stabilire all’estero la loro sede legale e, soprattutto, quella fiscale. Il Corriere commenta amaramente il confronto con la Germania, altra e maggiore economia industriale europea: le prime dieci società tedesche, infatti, fatturano da sole quanto le prime 306 imprese italiane. Dunque, il capitalismo industriale privato italiano si è molto ristretto in questi ultimi decenni; gli unici imprenditori che fanno parlare di sé sono i vari Briatore, Garnero-Santanchè oppure i balneari, i taxisti, gli agricoltori con i loro trattori e così via. Forse a causa di questa carenza strutturale, gli editorialisti del Corriere appaiono incerti e incredibilmente confusi.
Un tempo, in politica interna, predicavano un “sano” centrismo; oggi, tra le righe, provano ancora, ma con meno convinzione, a consigliare moderazione (…) sia a Schlein, sia a Meloni: la prima dovrebbe abbandonare il rapporto col Movimento 5Stelle e la seconda dovrebbe contenere le intemperanze dei suoi Fratelli più nostalgici e di Salvini. Ma poi inciampano nei fatti che accadono veramente e la loro pretesa coerenza va a farsi benedire: in Sardegna la coalizione Pd-M5S vince per poche centinaia di voti le elezioni regionali e gli editorialisti del Corriere suggeriscono alla “sinistra” di apprezzare quel sistema maggioritario, drogato da un abnorme premio di maggioranza per la coalizione vincente (a fronte di un astensionismo elevatissimo) e di accettare, quindi, come buone, seppur migliorabili, le proposte presidenzialiste di modifica costituzionale della destra.
In politica estera il Corriere è sempre stato ferreamente atlantista e non poteva essere diversamente: oggi, però, la Nato appare in crisi, sia perché gli Usa sembrano dirottare il loro interesse militare prevalente sul Pacifico nel confronto con la Cina, a maggior ragione nel caso di una futura seconda presidenza Trump, sia perché gli stessi membri dell’Alleanza si muovono in ordine sparso e spesso contraddittorio di fronte alla guerra in Ucraina e a quella in Palestina. Ecco allora che gli editorialisti del Corriere fanno buon viso a cattiva sorte e supportano, sulla scia di Mario Draghi, la necessità di una forte (e costosa) difesa comune europea; intanto il Regno Unito, la Francia, la Polonia, la Germania e di seguito tutti gli altri si muovono, invece, su questo tema in ordine sparso: perciò gli articoli di fondo finiscono per accettare e per proporre più modestamente accordi bilaterali di difesa comune con l’Ucraina.
Ai tempi della guerra fredda, che ha contrapposto la Nato e il Patto di Varsavia, il Corriere si considerava un baluardo anticomunista, pur dovendo in qualche modo fare i conti in Italia con il maggiore partito comunista occidentale: due anni fa, quando la Russia di Putin ha invaso l’Ucraina, il vecchio spirito dei bei tempi passati è felicemente risorto. Lo scontro tra la Nato e la potenza atomica russa, tra due paesi governati entrambi da oligarchie capitalistiche, nazionaliste, autoritarie e corrotte, è stato letto dal Corriere – ma in questo caso in larga e indifferenziata compagnia con molti altri anche di sponde opposte – come una riedizione delle buone vecchie battaglie di un tempo tra la democrazia liberale e il comunismo. E naturalmente, tra i lettori del prestigioso giornale, qualcuno ci è anche cascato; qualche giorno fa, infatti, in una lettera al giornale un lettore militante così si è espresso a proposito di Putin: «È stato e continua ad essere nella mentalità, negli strumenti e nella repressione della libertà un vero comunista». La risposta, tra il rassegnato e il reticente, di Aldo Cazzullo al fedele lettore è paradigmatica: «[Putin] non è fascista e non è comunista; è un frutto malato del tempo che ci è dato in sorte».
Secondo Angelo Panebianco, invece, la vera malattia di questi tempi è il torpore delle opinioni pubbliche dei paesi dell’Occidente e prova, perciò, a fare una stima: «Un sondaggio ben fatto, probabilmente, mostrerebbe che non più del cinque, massimo dieci per cento, delle opinioni pubbliche si rende conto della gravità della congiuntura storica in cui ci troviamo». E quindi la democrazia da difendere in che cosa consisterebbe?Nell’imporre in qualche modo il punto di vista di quel cinque o dieci per cento che, come il lettore militante di cui sopra, ha le idee più chiare e comunque convergenti con gli autorevoli editorialisti del Corriere? Secondo Panebianco «non possiamo ignorare il fatto che una parte dell’Europa, magari con l’Italia in testa, sarebbe pronta, se le cose si mettessero davvero male in Ucraina, a innalzare un cartello con sopra scritto “meglio putiniani che morti”». Poco oltre, non manca di sottolineare, contradditoriamente, che la minaccia nucleare della Russia non può essere sottovalutata: meglio morti che putiniani, dunque? Qualche settimana fa Ernesto Galli della Loggia l’ha detto più esplicitamente, invitando gli europei e gli italiani a fare i conti concretamente con la possibilità di entrare in guerra.
Ma i veri nemici degli autorevoli editorialisti del Corriere, più ancora che Putin, più dei terroristi di Hamas o degli enigmatici cinesi, sono i pacifisti locali: «Le minoranze politicizzate anti-occidentali: quelli che “è tutta colpa della Nato”, quelli che “le cosiddette democrazie occidentali sono in realtà dittature asservite al capitale finanziario”, quelli che disprezzano Zelensky, quelli per i quali la parola “pace” e la parola “resa” sono sinonimi. Quelli, insomma, che amplificano la propaganda anti-occidentale di Putin. Anche le ampie simpatie per Hamas si spiegano con la diffusa presenza di sentimenti anti-occidentali», secondo Panebianco.
Su questo tema della critica, in particolare, ai giovani occidentali che non si sentono fortemente orgogliosi e riconoscenti di esserlo, il vero specialista è, però, Federico Rampini, anche in forza della sua profonda autocritica di essere stato di “sinistra”: un grave peccato di gioventù, come l’ha definito lui stesso. Se nelle università americane i giovani prendono le distanze dalla politica aggressiva della Nato, se denunciano le stragi di palestinesi, messe in atto da Israele, per vendicare l’assalto di Hamas del 7 ottobre dell’anno scorso, allora per Rampini essi abdicano al ruolo egemone dell’Occidente e spianano la strada al prevalere delle dittature orientali. La delusione per lui è forse ancora più forte, proprio perché è diventato cittadino americano, magari anche per costruire un fossato invalicabile con i suoi peccati di giovane europeo e peggio ancora di italiano: anche negli Usa oggi si trova di fronte a quelle posizioni per lui rinunciatarie e ingrate verso la civiltà occidentale. Ma come sempre implacabilmente i fatti accadono e talvolta contraddicono speranze e illusioni anche dei più autorevoli commentatori: così infilando i pollici nelle sue sgargianti bretelle colorate, prendendo atto che la guerra in Ucraina sta andando male, che gli ulteriori aiuti americani sembrano non arrivare, che la proposta di Macron di intervenire direttamente nel conflitto non ha raccolto nessuna adesione né dalla Nato, né dagli altri paesi europei, Rampini “detta” le condizioni per un armistizio: concessioni territoriali alla Russia in cambio dell’avvio di un lungo e non facile – a detta sua – percorso di adesione dell’Ucraina alla Nato “europeizzata” e all’Unione europea. Ecco, dunque, si concretizza proprio il rischio evidenziato da Panebianco: «Le opinioni pubbliche, man mano che si aggrava la congiuntura internazionale, potrebbero passare repentinamente dalla incomprensione alla paura e dalla paura al desiderio di saltare sul carro del vincitore». E tuttavia questo accade all’interno dello stesso giornale….
Sono i ricchi il vero pericolo per la democrazia
Fonte Emigrazione-Notizie che ringraziamo
Non quello che l’ex presidente americano George W. Bush ha battezzato “l’asse del male”, non Vladimir Putin, né il terrorismo, né tantomeno le migrazioni. Non sono questi, come ci raccontano, i più grandi pericoli che incombono sulla democrazia. Ciò che sta uccidendo il sistema democratico è invece l’erosione delle sue istituzioni messa in pratica sistematicamente da una oligarchia di super-ricchi, che ormai controllano e piegano al proprio volere l’intera infrastruttura democratica e minano alla base i pilastri su cui essa si poggia, come l’informazione libera, i corpi intermedi, la politica, lo stato sociale.
Favorita dal processo di accentramento della ricchezza e del reddito innescato dal neoliberismo, questa oligarchia sta costruendo un potere che svuota dall’interno il processo democratico e allarga a dismisura le disuguaglianze, con lo scopo di mantenere un sistema di privilegi e creare attorno ad essi un consenso ideologico.
Come spiega bene l’economista Emiliano Brancaccio nel suo Democrazia sotto assedio, “la centralizzazione capitalistica spinge verso un accentramento del potere, non solo economico ma a lungo andare anche politico, e per questo è destinato a compromettere la divisione dei poteri e il sistema dei diritti su cui reggono le democrazie liberali contemporanee”. Ad oggi, spiega ancora Brancaccio, “la proprietà delle imprese quotate a livello internazionale è concentrata nelle mani di un nucleo ristrettissimo di azionisti”. In particolare, nel 2016, l’80% del valore del mercato azionario globale era controllato solo dall’1% degli azionisti.
L’accelerazione di questa deriva, causata anche dalle crisi sempre più ravvicinate e devastanti dell’ultimo ventennio, ha già prodotto uno smantellamento sistematico dello stato sociale nei Paesi occidentali che va di pari passo con la crescita delle disuguaglianze e con l’immobilizzazione dell’ascensore sociale. Effetti ben descritti nei loro studi oltre che da Brancaccio, anche Luciano Gallino, Thomas Piketty e tantissimi altri. E tutto ciò è stato possibile anche per la mancanza di un’efficace alternativa prodotta dal sistema democratico, che si dimostra carente di valide risorse politiche e ideologiche per contrastare il fenomeno.
Anzi, secondo l’ultimo rapporto Oxfam, a livello globale le 5 persone più ricche del mondo hanno raddoppiato le proprie fortune dal 2020, mentre 4,8 miliardi di persone (ben più della metà della popolazione) sono più povere oggi rispetto al 2019.
Tra i Paesi in Ue dove questi divari si stanno ampliando con maggiore velocità c’è proprio l’Italia. Come spiegato da un recente studio di Openpolis, che ha elaborato dati di Banca d’Italia e Istat, in Italia l’1% dei super-ricchi detiene il 13,6% di tutto il reddito nazionale e, tra il 1980 e il 2022, la Penisola ha registrato il più marcato accentramento delle ricchezze in UE: +7,4%.
Non stupisce dunque che proprio in Italia ci sia ormai da tempo una fortissima spinta per diminuire le tasse ai più ricchi, non si combatta efficacemente l’evasione fiscale, che infatti dilaga, vigano enormi sacche di privilegio intoccabili e si punti allo smantellamento sistematico dello stato sociale, della sanità, dell’istruzione e dei poteri che potrebbero contrastare in qualche modo gli squilibri crescenti, come quello della magistratura e del presidente della Repubblica, sempre più nel mirino. E’ l’effetto del potere di quell’1% sulla politica e sulle istituzioni, che sta scardinando lo Stato e rendendo un guscio vuoto la nostra democrazia.
Coordinamento nazionale FILEF
Dai raccoglitori di rifiuti ai riciclatori: reinventare un settore disprezzato
fonte Znetwork che ringraziamo
Marisol Mendoza esce di casa in moto alle 5:45. Percorre una strada sterrata fiancheggiata da cespugli e attraversa un ruscello fino alla discarica, dove ha lavorato per quattro anni.
Ci sono migliaia di pepenadores, o raccoglitori di rifiuti, che si guadagnano da vivere differenziando e vendendo i rifiuti delle discariche a cielo aperto del Messico. Mendoza non è uno di questi. Ha uno stipendio mensile, un orario fisso, assistenza sanitaria, ferie retribuite, pause regolari e accesso a dispositivi di protezione. San Lorenzo Cacaotepec, una cittadina di circa 13.000 abitanti nello stato meridionale di Oaxaca, impiega formalmente Mendoza e altri 16 nella discarica locale, dove vengono chiamati riciclatori, non raccoglitori di rifiuti.
San Lorenzo Cacaotepec, che ha formalizzato questo lavoro nel 2016, è probabilmente l’unico comune del Messico ad averlo fatto. Ma altri potrebbero presto seguire l’esempio. Nel 2021, le autorità statali di Oaxaca hanno sviluppato un programma per incoraggiare altri comuni a emulare il sistema di successo. “Vogliamo mostrare agli altri comuni che è possibile, che una comunità con poche risorse federali… è riuscita a generare posti di lavoro e un’attività economica interessante”, afferma Helena Iturribarría, ministro dell’Ambiente, dell’Energia e dello Sviluppo Sostenibile.
I materiali riciclabili che Mendoza e i suoi colleghi raccolgono nella discarica generano tra gli 11.000 e i 13.000 pesos messicani (543 e 643 dollari) al mese per San Lorenzo Cacaotepec. Il lavoro dei riciclatori ha inoltre prolungato la durata di vita della discarica. Si prevedeva che lo spazio avrebbe raggiunto la capacità massima nel 2016, sette anni dopo la sua costruzione. Anche se dovrà essere ampliata a breve, la discarica rimane operativa sei anni dopo.
“Se non facessero la raccolta differenziata non ci sarebbe alcun guadagno per il Comune”, dice Perla Procopio, biologa dell’Assessorato alla Salute e all’Ecologia di San Lorenzo. “Senza di loro, affogheremmo nella spazzatura”.
I miglioramenti alla discarica hanno garantito la sicurezza di Mendoza e dei suoi colleghi. “Prima che iniziassi a lavorare qui, la discarica non aveva il tetto”, racconta. “Ora, l’area in cui differenziamo i rifiuti ha un tetto… il che ci aiuta davvero”.
Il suo collega Salvador Martínez, che lavora nella discarica da un anno e mezzo, è d’accordo: “Il nostro lavoro è pericoloso, ma con i dispositivi di sicurezza che utilizziamo mi sento molto più sicuro”. Il capo delle operazioni Pedro Díaz, che ha iniziato come riciclatore, afferma che l’orario fisso, dalle 6:00 alle 14:00, gli dà “abbastanza tempo per prendersi cura degli alberi di casa mia e stare con la mia famiglia”.
L’iniziativa a San Lorenzo Cacaotepec è stata ideata da Sikanda , pluripremiata organizzazione no-profit di Oaxaca che sviluppa progetti di inclusione sociale per i raccoglitori di rifiuti. Fondata nel 2009, Sikanda ha formato più di 200 lavoratori nelle tecniche di riciclaggio e compostaggio e ha contribuito a costruire centri di riciclaggio. Ha donato un trituratore di plastica e mezzi di trasporto a San Lorenzo Cacaotepec, dove ha anche allestito un orto comunitario, un pollaio e un contenitore per l’organico per prevenire l’inquinamento del fiume, del sottosuolo e dell’atmosfera.
“Vogliamo che il loro lavoro venga riconosciuto, che ricevano salari con orari fissi e sicurezza sociale e che le loro esigenze specifiche siano affrontate direttamente”, afferma José Carlos León, fondatore di Sikanda.
La maggior parte dei 2.471 comuni del Messico non include la raccolta differenziata nella propria strategia di gestione dei rifiuti. Le discariche sono solitamente all’aperto e il riciclaggio è informale. “In questi [luoghi] si sviluppa un mercato attorno ai rifiuti”, afferma Johannes Cabannes, professore dell’Università Nazionale Autonoma del Messico e dell’Università Iberoamericana specializzato in politica municipale. “Ci sono persone che vivono fisicamente in una discarica, nutrendosi di tutto ciò che riescono a processare. Raccolgono la spazzatura che sanno di poter vendere a intermediari o aziende che riciclano determinati materiali, e poi vivono marginalmente di quelle vendite.
Un raccoglitore di rifiuti, dice, può guadagnare tra 600 e 1.200 pesos (30 e 60 dollari) a settimana.
Non ci sono dati ufficiali sul numero di raccoglitori di rifiuti in Messico, o sulla quantità di denaro generata dalle loro attività. In uno studio del 2007 commissionato dalla International Finance Corporation, un’organizzazione sorella della Banca Mondiale, il ricercatore Martin Medina ha stimato il numero di raccoglitori di rifiuti in Messico a circa 100.000, di cui il 25% minorenni. Un rapporto del 2020 del Segretariato messicano per l’ambiente e le risorse naturali afferma che ci sono raccoglitori di rifiuti in tutti i siti di smaltimento finale del Messico. “Non vengono riconosciuti per questo e non vengono compensati sotto forma di salario o diritti per il lavoro che forniscono”, afferma León.
I comuni cambiano amministrazione ogni tre anni, il che complica gli sforzi per emulare il programma di San Lorenzo Cacaotepec. “Non ha senso iniettare risorse se un progetto verrà interrotto quando si insedierà il prossimo governo”, afferma Cabannes. León aggiunge che Sikanda deve negoziare gli obiettivi del progetto con ogni nuova amministrazione. “Quando incontriamo un’amministrazione apatica”, dice, “il progetto smette di funzionare come dovrebbe”.
Nonostante ciò, Díaz e Martínez affermano che il loro lavoro alla discarica ha insegnato loro l’importanza del riciclaggio, a partire dalle proprie case. “Questo lavoro è un modo per me di fare la mia parte per prendermi cura dell’ambiente”, afferma Mendoza. “È un modo per guadagnare un reddito e socializzare con i colleghi.”