di Alexik
[A questo link il capitolo precedente.]
I licenziamenti collettivi alla Doppieri rivelano la dimensione femminile dell’espulsione dalle fabbriche bolognesi negli anni ’50. È questo un aspetto poco noto, nascosto fra le righe del linguaggio asessuato che caratterizza anche la stampa operaia e comunista di quel periodo, segno della scarsa considerazione attribuita alla contraddizione di genere che si voleva del tutto riassunta nella contraddizione di classe. Un errore, sia sul piano teorico che su quello dell’analisi di una realtà che la guerra mondiale aveva violentemente ribaltato, mutando la divisione sessuale del lavoro, con gli uomini al fronte a far da carne da cannone e le donne a sostituirli in produzione.
Richiamate al lavoro “per il bene della patria”, dopo essere state ricacciate fra le mura domestiche nel corso del ventennio, le casalinghe erano tornate operaie. La resistenza le aveva rese combattenti, non solo nei ranghi delle organizzazioni partigiane, ma come avanguardie della resistenza sociale, nella preparazione di scioperi, manifestazioni, sabotaggi, diffusione della propaganda antinazista, assistenza ai perseguitati politici e razziali 1.
Le donne furono in prima fila negli scioperi della primavera del ’44, con fermate alla Ducati, Calzoni, Weber, SASIB, ACMA, Giordani, OMA, calzaturificio Montanari, SAMA, Baroncini, SALM, Pecori, Hatù. A Castelmaggiore, cento operaie fermarono la VITAM 2, mentre alle Saponerie Italiane (Panigal) di Bologna lo sciopero compatto delle donne impedì la deportazione in Germania di 14 compagne3. A Corticella le operaie bloccarono per tre giorni il pastificio, e negli stessi giorni ad Imola i fascisti spararono su una manifestazione di donne per il pane, uccidendo Maria Zanotti e Livia Venturini4.
Erano queste donne, che avevano affrontato la fame, scavato macerie, seppellito i 2.481 morti dei bombardamenti alleati su Bologna5, quelle che dopo il 21 aprile ’45 una nuova vulgata propagandistica pretendeva di rimandare a casa, come “rimedio” alla disoccupazione dei reduci di guerra.
Nel 1951 il 34,6 % della manodopera industriale bolognese era formata da lavoratrici, che erano maggioranza nel tessile/abbigliamento, calzaturiero, tabacco, nella cartotecnica, chimica e gomma, ma con una presenza significativa anche nella metalmeccanica e metallurgia. Per loro la condizione operaia era più dura. A loro erano riservate le qualifiche inferiori, senza sconti sui lavori di fatica, e con salari notevolmente più bassi (anche del 60%) di quelli dei maschi a parità di mansione. Interminabili gli straordinari non pagati, frequentissime le ammonizioni e le multe, numerosi gli infortuni e le malattie professionali6.
“Vi sono periodi nei quali vengono imposte 15/16 ore di lavoro giornaliero e si resta fino a 6-7 ore senza prendere cibo e guai a chi è sorpreso a mangiare un pezzo di pane. Quando si arriva verso le ore piccole e per la stanchezza, le operaie non reggono più, vengono apostrofate con parole triviali che vanno ad offendere anche la loro moralità. Al mattino, dopo aver cessato il lavoro alle 24 o all’ 1, se il proprietario ritiene che le operaie non lavorino in fretta, sono redarguite con frasi come questa “Cosa fate alla notte, invece di dormire andate in giro per le mura”. (Rapporto sulla ditta Rapalli)
“Il padrone, in un primo tempo, pretendeva da cinque operaie la pulitura di 250 paia di scarpe al giorno. Oggi da quattro ne pretende 300, e quando un’operaia non raggiunge questa cifra è insultata con frasi come queste: “Sei una cretina buona a nulla, io ti pago per lavorare e non per tirarti le dita”. Molto spesso, oltre a questo, le operaie vengono multate per lo stesso motivo. Tutto questo è fatto per imporre un ritmo più veloce alla produzione”. (Rosa, licenziata dal calzaturificio Biemme)
“Le lavoratrici sono costrette a lavorare a contatto con le sostanze nocive e già alcuni casi gravi di intossicazione si sono verificati … “è sofferente di un notevole grado di astenia con ipotensione arteriosa spiccata, accompagnata da anemia e da disturbi del sistema endocrino. Fra questi ultimi è da notare soprattutto la mancanza dello sviluppo sessuale per ciò che riguarda le mestruazioni, sia per quelli dei caratteri sessuali secondari. Tutti i disturbi sopraelencati sono da ascriversi, potendo scartare con sicurezza altre cause, all’influenza dannosa esercitata dalle sostanze organiche usate nel lavoro”. (Rapporto sulla ditta Deisa)
“Andai sotto con un dito, perché ci facevano lavorare fino alle dieci della sera senza pause. Al sabato fino a sera, alla domenica fino a mezzogiorno… faceva in maniera di fare un bel magazzino pieno di roba. Poi dopo tre o quattro mesi ci licenziava”. (Bruna, licenziata da La Bolognese).
Era più frequente per le donne la precarietà dei contratti a termine. Le “clausole di nubilato” nei contratti individuali permettevano il licenziamento all’atto del matrimonio, mentre la lettera di dimissioni, fatta firmare in bianco al momento dell’assunzione riappariva dal cassetto della Direzione in caso di sciopero o maternità.
“Lavoriamo in 75 donne: la minaccia di licenziamento è uno di quei mezzi che ci mantiene in uno stato di preoccupazione continua, in particolare per quella parte di lavoratrici che sono assunte con contratto a termine. Un’impiegata è stata licenziata perché ritenuta responsabile di aver organizzato uno sciopero delle sue colleghe per il rispetto del Contratto di lavoro. Oggi, solo se una lavoratrice rivolge una parola ad un’altra, viene multata di L. 100”. (Rapporto sulla ditta Deisa)
Le donne erano le prime nella lista dei licenziamenti, perché la loro espulsione veniva ritenuta meno problematica da una mentalità che considerava il loro status di lavoratrici un’anomalia, un’eccezione temporanea al ruolo di mogli e madri a tempo pieno. Erano le prime della lista perché confinate nelle qualifiche più basse, perché potenzialmente madri, ma anche perché molto politicizzate e combattive. A metà degli anni ’50 in provincia di Bologna si contavano circa 70.000 iscritte alla CGIL, 63.000 iscritte al PCI, 4.000 al PSI, 79.000 all’UDI. Solo dentro la Ducati, 800 operaie avevano la tessera del Partito Comunista7. Per questo si cercò di colpirle particolarmente: dei 960 licenziamenti tentati alla Ducati nel ’53, 660 erano rivolti alle donne. Come vedremo in seguito, furono molto determinate nel ricacciarglieli indietro.
Il protagonismo delle donne dentro le fabbriche si rifletteva solo in parte nelle piattaforme rivendicative. Si denunciava il superfruttamento, si richiedevano le camere di allattamento e gli asili aziendali, ma il sindacato rimaneva vergognosamente arretrato sul piano salariale, battendosi per “l’avvicinamento” dei salari femminili, e non per l’eguaglianza a parità di mansione.
Fuori dalle fabbriche le compagne erano attivissime negli “scioperi a rovescio”8 e nelle lotte per i servizi. Come nell’occupazione, dal 25 novembre del ’50, di un terreno ai Prati di Caprara per rivendicare la costruzione di un grande ospedale che desse lavoro ai disoccupati e assistenza medica alla gente. È grazie a quell’occupazione, che resistette per sei mesi alle cariche della celere di Scelba, se oggi ai Prati di Caprara abbiamo l’Ospedale Maggiore di Bologna9.
Fra il 1951 e il ’54, 1.982 attiviste vennero processate a Bologna per motivi politico sindacali, e 1.212 subirono condanne per un totale di 182 anni di carcere e 6.503.900 lire di multe. Per siffatte donne la discriminazione di genere sui luoghi di lavoro correva in parallelo alla rappresaglia politica e sindacale.
“Hai dato retta alla Camera del Lavoro … adesso vai a mangiare da loro ! Tu qui non entri più. A me era morto il babbo … io sono svenuta là per terra. Delle ragazzine mi hanno presa su, e poi pian piano sono andata a casa. L’ho detto con la mia mamma, allora lei, che si sapeva perché non ero l’unica licenziata, la mattina volle venire a sentire se era così o se avevamo fatto qualcosa… Mia madre si è presentata e lui le ha detto “No, no, come operaia mi va bene, ma lei oltre a fare sciopero, lei fa in maniera di convincere anche delle altre”. (Bruna, figlia di antifascisti, licenziata da La Bolognese).
“Poi riguardo alla fabbrica, io sono stata lì fino al ’55, quando ho chiesto la licenza matrimoniale. Lì per lì mi hanno detto: “Bene, bene!”. Ma quando sono andata per prendere la carta, mi hanno dato la lettera di licenziamento. Ho chiesto perché: “Perché abbiamo finito tutte le storie, e per vedere se nella Commissione Interna ci mettono un’altra come te … Perché così. Poi ti sposi e avrai dei bambini”. (Triestina, licenziata Marchesini).
“Certo che ho tirato un tiro mancino alla Sasib, perché non lo sapevo, ma il giorno di ricevimento della lettera di licenziamento ero incinta di quindici giorni. Così dopo gli accertamenti hanno dovuto riassumermi. Non potevano licenziarmi. Però non mi hanno fatto entrare, allora io tutte le settimane mi presentavo il lunedì mattina, mi vedevano, mi salutavano, e io tornavo indietro. Io non sono più entrata”. (Laura, licenziata Sasib).
Spesso bastava poco per essere buttate fuori: la sottrazione, ai tempi della fame, di un pacco di pasta al Pastificio Pardini di Corticella, o il rifiuto di uno straordinario:
“L’orario di lavoro giornaliero è di 9 ore e mezza, e si lavora anche la domenica, chi non vuole fare lo straordinario viene licenziato. Io stessa ho dovuto fare questa amara esperienza. Una domenica, dopo aver lavorato per settimane senza riposo, chiesi di poter rimanere a casa il mattino, perché dovevo studiare. Mi apostrofò con parole volgari, e la mia ferma decisione di rimanere a casa mezza giornata, mi fu risposto con un licenziamento in tronco”. (Rosa, licenziata dal Calzaturificio Biemme)
“L’operaia venne in discussione con la proprietaria per motivi di lavoro. Il motivo fu di venire la sera dopo a lavorare, dove tutte noi avevamo una riunione… La proprietaria allora prese una soluzione o quella sera lì o tutta la settimana a casa … e venne a diverbio alla fine della discussione … si disse “se non le vado bene mi licenzi”. La proprietaria la prese in parola e le disse: vieni a prendere i libretti sabato”.
A volte, prima del licenziamento, le operaie più combattive dovevano subire il demansionamento, l’isolamento dalle compagne e il reparto confino: “Dunque, la cosa si svolse così. Intanto mia madre venne spostata, cosa che per lei fu un’offesa mortale, dalla produzione dove faceva la smerigliatura, a fare i pacchettini in magazzino, lavoro isolato, di nessuna qualificazione. E questo fu per lei una cosa amara, poi un giorno la chiamano in direzione, ed era chiaro che questa chiamata era fatta per dirgli che sarebbe stata licenziata.” (Marta, figlia di Velia, licenziata dalla ICO).
Storie di altri tempi ? Potremmo chiederlo alle 800.000 donne “dimissionate” perché incinta, censite dall’Istat nel 201010. O magari alle prossime vittime del Jobs Act, che si troveranno di nuovo inermi di fronte ai licenziamenti arbitrari11, costrette, di conseguenza, ad accettare di tutto. (Continua)
Nell’immagine in alto: La difesa della Casa del popolo di Crevalcore-1954 (particolare), di Aldo Barbieri.