L’ammissione della tortura: il governo risarcisce sei detenuti di Bolzaneto

da PRESSENZA.COM

06.04.2017 Riccardo Noury

L’ammissione della tortura: il governo risarcisce sei detenuti di Bolzaneto
(Foto di Ares Ferrari)

La Corte Europea dei Diritti Umani ha accettato la proposta dell’Italia di risarcire con 45.000 euro ciascuno sei delle oltre 60 persone che, dopo aver subito torture nel centro di detenzione genovese di Bolzaneto nel 2001, si erano rivolte alla giustizia europea. Con la scelta del patteggiamento, la Corte ha accettato la “risoluzione amichevole” di quei casi.

A orientare l’accettazione della Corte è stato l’impegno del governo italiano che ha accompagnato la proposta di risarcimento. Il governo italiano ha “riconosciuto i casi di maltrattamenti simili a quelli subiti dagli interessati a Bolzaneto come anche l’assenza di leggi adeguate. E si impegna a adottare tutte le misure necessarie a garantire in futuro il rispetto di quanto stabilito dalla Convenzione europea dei diritti umani, compreso l’obbligo di condurre un’indagine efficace e l’esistenza di sanzioni penali per punire i maltrattamenti e gli atti di tortura”.

Manca un’indicazione temporale. Suona anche strano che il governo italiano prenda un impegno con la Corte europea mentre in Parlamento continua a non venir calendarizzata la discussione sul reato di tortura, il cui testo è fermo al Senato dopo l’approvazione della Camera. E resta il fatto che, a 16 anni di distanza dalle torture del G8 di Genova, solo un torturato su 10 dei ricorrenti alla Corte di Strasburgo ha accettato il risarcimento.

Dunque, quella di oggi è una buona notizia solo a metà.

Bruno Giorgini: Quaranta anni fa. Il 77

fonte INCHIESTAONLINE

Il quarantennale del ’77 non è proprio scansabile. Almeno se si vive a Bologna. Per un verso l’establishment politico istituzionale, o nomenclatura, teme un revival magari sul’onda delle iniziative politiche del cua, il collettivo autonomo universitario che fa parecchio tribolare i poteri costituiti, per l’altro i collettivi universitari e centri sociali comunque definiti che di sriffa o di sraffa in quel movimento pretendono di innestarsi. Mentre coloro che lo agirono da protagonisti moltiplicano gli eventi della memoria dei giorni che furono, cercando di evitare il “reducismo” e/o la retorica da “ex combattenti”.

Avviene così che la mattina dell’11 marzo, quando orsono quarantanni Francesco Lorusso studente già militante di Lotta Continua morì fucilato da un carabiniere, e da allora ogni anno i suoi compagni si ritrovano, il cua minacciando sfracelli, non siano presenti nè rappresentanti delle istituzioni politiche elettive, diciamo il Comune, e neppure dell’Università, diciamo il Rettore e/o qualche suo delegato. Non gli par vero a sindaco e rettore di evitare così l’imbarazzo di una presenza sotto la lapide che ricorda l’omicidio di Francesco : «I compagni di Francesco Lorusso qui assassinato dalla ferocia armata di regime l’11 marzo 1977 sanno che la sua idea di uguaglianza di libertà di amore sopravviverà ad ogni crimine. Francesco è vivo e lotta insieme a noi.».

Già, una lapide mai sottoscritta e/o riconosciuta nella sua verità dalle istituzioni politiche tanto quanto accademiche. Sono venuti quando proprio non potevano farne a meno, ma sempre quatti quatti rasente i muri, perchè mai assunsero gli eventi del’77 e l’assassinio di Lorusso nella loro inequivocabile realtà. Ovvero per paradosso l’intransigente volontà militante del cua che dice: Lorusso è nostro, nostra memoria che sindaco e rettore non possono condividere, mette al riparo proprio i poteri costituiti, li conforta nella loro assenza e mancanza, e in un certo qual senso offre giustificazione alla loro vigliaccheria e incapacità di fare i conti con quanto accadde quaranta anni fa. O peggio: offre il dito dietro cui nascondere la loro complicità più o meno dispiegata di allora con i fucilatori in divisa.

Per non dire dell’osceno funerale cileno di Francesco, confinato ai margini della città tra elicotteri e schiere di armati che il sindaco Zangheri accettò, e che purtroppo il movimento subì, funerale che sembra ormai scancellato dalla memoria di questa nostra città rincagnata e ottusa, dimentica della generosità. Nel mentre la vulgata racconta  di un movimento del ’77 irremediabilmente violento fin dal suo dna, quasi esplosione di barbarie nella civile e democratica Bologna, che poverina dovette soffrire l’affronto delle sue celebri vetrine frantumate a colpi di pietra. Ma se si rimette sui piedi quel movimento ecco apparire il disegno di una realtà ben diversa. Sul piano generale si può dire che quel movimento era composto di giovani donne  e uomini che aspiravano e volevano essere liberi e uguali. Niente di più e niente di meno. Nonchè volevano autogestire ampi spazi culturali, scientifici, materiali all’interno dell’università e in proiezione anche in città. Con diverso linguaggio: tentavano di definire e praticare un diritto di cittadinanaza “comunista” a Bologna. Ma non in modo utopico e/o totalmente anarchico. Anzi il movimento andò costituendosi attorno a strutture organizzate e di pensiero precise. Innanzitutto A/traverso, il giornale animato essenzialmente da Bifo con in parallelo l’invenzione di Radio Alice, la comunicazione via etere libera e libertaria. Per dirla in termini dotti, A/traverso e Radio Alice costruiscono una vera e propria praxis linguistica rivoluzionaria (Gramsci) su cui non mi soffermo, ma che, se si vuole, è significata dalla diffusione nel movimento di un robusto testo psicofilosofico come l’Antiedipo di Deleuze e Guattari nonchè dalle poesie e dalla poetica di Majakovskij, compreso il suo suicidio – si pensi al ’68 quando buona parte dei militanti agitava, se non leggeva, il libretto rosso di Mao, compendio di approssimate massime di derivazione marxista leninista, e si misurerà la differenza. Qui la Repubblica in un numero del suo settimanale culturale Robinson, in parte dedicato al movimento del ’77, supera se stessa in quanto a mistificazione, non solo riproponendo il feticcio di un’ala creativa del movimento (gli indiani metropolitani cosidetti) contrapposta a un’ala militante pura e dura, ma riuscendo a parlare di A/traverso senza mai citare Bifo!

Quindi incontriamo il collettivo Jacquerie inventato tra gli altri da Diego Benecchi, il riferimento alle rivolte che precedettero la rivoluzione francese è esplicito e voluto. Jacquerie che si qualifica tra l’altro per la pratica delle autoriduzioni nei ristoranti di lusso, non nelle mense universitarie e/o aziendali. Perchè il diritto non attiene semplicemente la sopravvivenza biologica mangiando un cibo povero per i poveri a poco prezzo, ma invece quello di godersi un pasto ricco e buono, a un prezzo possibile per tasche normali, un prezzo autodefinito e che si ottiene con l’autorganizzazione che diventa autoriduzione. Un terzo nucleo costituente il movimento del ‘77 è il collettivo dei lavoratori precari dell’università, dove si individua il precariato intellettuale non come una patologia transeunte del sistema di studi, insegnamento, formazione e ricerca, ma come un asse portante di lungo periodo della produzione e diffusione del sapere universitario. E dove si pone il problema fondamentale della riappropriazione e uso sociale da parte dei cittadini tutti dell’intelligenza scientifica prodotta nelle aule e nei laboratori, problema ancora aperto; anzi oggi più urgente che mai se si vuole sperare di contrastare in qualche modo efficace il cambiamento climatico globale in corso.

Poi c’erano le assemblee di facoltà, lettere, fisica, giurisprudenza eccetera che discutevano,deliberavano, agivano di giorno e di notte, i cortei notturni essendo un’altra delle caratteristiche di quel fantastico febbraio del 1977 nella zona universitaria “liberata”.  Infine gli spezzoni dei vari gruppi extraparlamentari e della cosidetta all’epoca sinistra rivoluzionaria. Lotta Continua si era sciolta nel congresso del settembre 1976, Potere Operaio si stava trasformando nell’Autonomia Operaia, il Manifesto vivacchiava stentatamente, epperò legami politici rimanevano e alcune strutture continuavano più o meno per inerzia a esistere, in particolare i servizi d’ordine. Tutto questo e altro ancora non precisamente definibile, per esempio la partecipazione di giovani proletari provenienti dalle periferie, confluiva nel movimento. Un movimento a ampio spettro che ebbe ben presto anche i suoi cantori, uno su tutti Claudio Lolli con quella splendida ballata che è “Ho visto anche degli zingari felici” scritta nel 1976, anticipando se non annunciando il ’77. Un movimento denso di gioia, empatia dei corpi, intelligenze in sinergia, dove si respiravano libertà, eguaglianza, fantasia. Un movimento tutt’altro che violento, certo occupando l’università dove al massimo echeggiavano i cori di scemo scemo all’indirizzo dei giovin burocrati della SUC, la sezione universitaria del PCI, scesi in campo a difendere il compromesso storico e la politica dei sacrifici.

Finchè non arrivò la repressione brutale dello stato sub specie di una colonna di carabinieri che aprì il fuoco contro un piccolo gruppo di manifestanti praticamente a freddo, uccidendo Francesco. Il primo morto in manifestazioni di piazza che si ebbe a Bologna, ovvero un evento eccezionale. Un atto congruente con la strategia della tensione ben nota messa in campo dalle forze più reazionarie del nostro paese. Col concorso di Comunione e Liberazione che stava tenendo una sua riunione all’università da cui furono cacciati in malo modo alcuni compagni del movimento, e tutto ebbe inizio: azione e reazione con l’arrivo delle forze di polizia, che fin qui non avevano trovato pretesti per attaccare il movimento. Forze di polizia che subito apparvero indipendenti da qualunque possibile mediazione – Gori allora capo della Digos, in seguito morto per un incidente stradale da alcuni giudicato non limpido, lo disse in modo esplicito a alcuni manifestanti: tira una brutta aria, fate attenzione, facendo capire che ormai loro, i poliziotti del dialogo, erano esautorati dalla gestione della piazza. Stando al Resto del Carlino di qualche anno fa il capo di Gladio Cossiga avrebbe dichiarato: “Bisogna infiltrare gli studenti con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine, mettano a ferro e fuoco la città (…). Dopodiche forti del consenso popolare (…) le forze dell’ordine (sic! Ndr) non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano”. Sembra la descrizione di ciò che successe al G8 di Genova nel 2001,  di cui le repressioni del movimento del ’77 furono in un certo qual senso i prolegomeni quando Kossiga era soltanto (?!) ministro degli interni.

Comunque sia la morte di Lorusso fu seguita da un corteo con migliaia di persone che aveva di mira la DC individuata come mandante politico morale dell’omicidio, corteo che si scontrò più volte con la polizia, fracassando soprattutto le famose vetrine dello scandalo, vuoi mai che avessero a soffrirne il sacro commercio e mercato. Il giorno dopo poi gli studenti difesero la zona universitaria dall’assalto delle forze di polizia, mentre la notte del 13 marzo verso le quattro intervenivano i blindati dei carabinieri a occupare il quartiere universitario ormai vuoto. Il movimento è sconfitto, la fase dei liberi e uguali chiusa, l’ordine regna di nuovo a Berlino, pardon a Bologna. Un ordine plumbeo ma si sa , non si può avere tutto dalla vita. Soprattutto i carri armati scancellano i colori e calpestano la gioia di vivere e di conoscere.
Fu eccessiva la violenza dei cortei del movimento? Intanto nessuno praticò o propose il precetto biblico che prescrive occhio per occhio e dente per dente. Quindi furono distrutte cose e colpiti dei simboli, ma non ci furono attacchi nè tantomeno attentati contro le persone, neppure gli “sbirri”. Poi ciascuno può dare il suo giudizio, ma per favore senza scandalo e alti lai contro “i violenti”, e senza dimenticarsi en passant dell’omicidio brutale di Francesco, omicidio cui la città nel suo insieme e le sue istituzioni non risposero, anzi il PCI inventò di sana pianta la teoria del complotto ordito da Radio Alice succursale della CIA, un delirio in senso proprio. Certamente qualcuno fu indotto da ciò che accadde in quei giorni a pensare fosse giunto il momento di costruire in Italia un partito armato di massa, e qualcun altro invece credette fosse l’ora di un partito armato d’avanguardia, ma  a Bologna molto pochi, e non per merito dei partiti o del Comune.

In fine perchè quaranta anni dopo alcune centinaia di persone ormai coi capelli bianchi ancora si incontrano in via Mascarella laddove Francesco fu ucciso. Non sono reduci e nemmeno ex combattenti. Soltanto donne  e uomini che così affermano la loro esistenza e appartenenza a quel movimento del ’77, certificando con la loro presenza e amicizia l’ingiustizia della morte di Lorusso, che pesa sull’intera città ieri come oggi. Molte cose sono cambiate anche drasticamente ma quella morte, quell’omicidio impunito sta lì, inamovibile, piantato nel cuore stesso di questa città che da allora non fu più la stessa perchè vive con un cadavere al suo interno.

Nebbia in agosto

Nebbia in agosto

 

E’ il titolo di un film tedesco che da qualche giorno dovrebbe circolare nelle sale italiane e che vi consiglio di andare a vedere.

Il regista e’ Kai Wessel che tratta della storia di Ernst Lossa, tredicenne figlio di zingari jenisch che, benche’ di sana e robusta costituzione, viene internato nella clinica di Irsee, dove, durante il periodo nazista, si praticava l’ eutanasia nei confronti di bambini al fine di purificare la razza ariana dalle imperfezioni genetiche.

La clinica di Irsee faceva parte di una rete di cliniche,  psichiatriche e non, nelle quali i migliori intelletti del tempo si impegnavano a motivare scientificamente e a perfezionare le modalita’ di attuazione del piano di eugenetica hitleriana, chiamato semplicemente T4.

La sigla prende il nome da Tiergartenstrasse, 4, in Berlin, indirizzo della Villa Liebermann,   dove aveva sede il centro direzionale di tutto il progetto, nel quale  operavano 60 medici, luminari di fama mondiale, dediti a studiare i migliori metodi di decimazione di esseri umani. Se avrete occasione di visitare a Berlin il complesso architettonico di Postdamer Platz e di fermarvi davanti alla bellissima costruzione dove ha sede la Philarmonie, potrete trovare una memoria sotto la pensilina del bus. Ci sono capitato per caso un giorno mentre cercavo riparo dalla pioggia e vi assicuro che, dopo aver letto la locandina, quello che e’ oggi  uno dei luoghi culturalmente piu’ belli d’ Europa si e’ trasformato di colpo in un ambiente sinistro, che non saprei descrivere.

La clinica di Irsee era diretta dal Dott. Valentin Falthauser, interpretato nel film da Sebastian koch (gia’ conosciuto come uno degli interpreti principali del film “Le vite degli altri”),  inventore della famosa “dieta E”, assolutamente priva di grassi, grazie alla quale, a costi molto bassi, si poteva far morire per “edema da fame”, quasi naturalmente, centinaia di bambini “problematici” che, in un colpo solo, smettevano di essere un costo per la societa’ e si trasformavano addirittura in risorsa, ovvero in materiale umano per studi anatomici ed esperimenti scientifici. Quando la dieta non era sufficiente, una adeguata dose di barbiturici aiutava gli innocenti “sbagliati” a trapassare serenamente.

Al processo di Norimberga vennero comminate pene irrisorie al Dott. Falthauser e alla infermiera che lo aiutava, nonostante l’ammissione di oltre 200 crimini (numero certamente sottostimato), e, se non ricordo male, i due hanno perfino continuato ad esercitare la loro professione una volta scontata la pena. D’altra parte gli autori dei crimini erano normalissimi dipendenti dello Stato e avevano eseguito un piano ben noto a tutti, che affondava le radici non gia’ e non solo nella follia hitleriana, ma nella diffusissima cultura razzista pluridecennale, prodotta, alimentata e coltivata dalle elites culturali in tutta Europa, capaci di offrire giustificazioni robustissime all’ eutanasia e alla sterilizzazione, sia sul piano economico, sociale, giuridico, etc. (Solo il Vescovo Von Galen ebbe il coraggio, nel settembre del 1941, di chiamare omicidi quelle aberanti azioni, ma il “lavoro” continuo’ perfino dopo la fine della guerra)

Alla luce del grandissimo lavoro di ricerca, insegnamento, propaganda, nel quale era impegnato il fior fiore di una intera societa’, scesa in armi (che eroi!!!) prima di tutto contro la sua parte piu’ debole, le responsabilita’ del Dott. Falthauser possono perfino sembrare irrilevanti!!!! Infatti fu questa la principale linea difensiva dei criminali nazisti a Norimberga, che tentarono di minimizzare le loro responsabilita’ individuali dietro il valore della disciplina e della lealta’.

Cio’ che appare mostruoso in tutto cio’ che il film rivela non e’ la sua eccezionalita’,  ma, al contrario,  proprio la sua normalita’ e non si puo’ fare a meno di ritornare con la mente alla analisi di Hanna Arendt sulla “Banalita’ del male”.

A tale proposito, mi sento di suggerire, a quanti non hanno gia’ avuto la fortuna di vederlo, uno spettacolo di Marco Paolini, che trovate su Youtube. Il titolo e’ Ausmerzen, vite indegne di essere vissute e tratta molto approfonditamente proprio le tematiche cui ho fatto cenno.

Si tratta di un capolavoro nel vero senso del termine e di una lezione magistrale di grande utilita’, non solo per comprendere una delle “follie” del secolo scorso ma per disporre di un importante, anche se insufficiente, antidoto per evitare di cadere vittime delle nuove follie da cui rischiamo ogni giorno di essere travolti.

 

16 Gennaio 2017                                                     Franco Di Giangirolamo

 

 

Con la riforma del Titolo V via libera allo sfruttamento selvaggio dei territori

fonte BLOG LAVORO SALUTE

Lo sport nazionale dei governi è la riforma di tutto ciò che non piace alle imprese, per invogliarle ad investire nel proprio paese. Sulle riforme per attirare gli investimenti, i governi non hanno molto da inventare, ha già scritto tutto il World Economic Forum,l’associazione delle multinazionali che tutti gli anni organizza l’incontro di Davos, per dettare l’agenda politica. Nei suoi rapporti elenca le condizioni che piacciono alle imprese: basso regime fiscale, bassi oneri sociali, alta flessibilità del lavoro e un assetto istituzionale sicuro e veloce. Cioè governi stabili capaci di garantire continuità politica e parlamenti veloci capaci di produrre in fretta leggi favorevoli agli affari.
Con la riforma del Titolo V via libera allo sfruttamento selvaggio dei territori

Partiamo da un presupposto: il consolidamento della post-democrazia di cui parlava Crouch ha bisogno di riforme costituzionali come quella che saremo chiamati a votare (o meglio a sventare) il 4 dicembre. Il disegno sotteso alla riforma – propagandata come al di sopra del bene e del male, buona di per sé, come se dopo anni di tentativi andati a vuoto il solo concetto fosse salvifico e non ne importasse il carattere migliorativo o peggiorativo – mira alla consacrazione di un sistema politico in cui, invece che restituire sovranità al popolo cui apparterrebbe, si fa il possibile per concentrarla sempre più verso l’alto. Vale la pena ricordare che il colosso finanziario JP Morganaffermava nel 2013 che le costituzioni antifasciste – ispirate ai diritti e all’allargamento della base democratica – sono una zavorra per la crescita e vanno profondamente modificate.

L’indicazione giunta al governo dalle istituzioni finanziarie riguarda dunque la creazione delle condizioni di piena esigibilità per le richieste del mercato: necessarie riforme economiche, necessarie grandi opere, necessario sfruttamento delle risorse naturali, necessari tagli ai diritti sociali e al welfare. Il risultato atteso è legittimare la delega dell’intero esercizio deliberativo ad organismi sempre meno rappresentativi dell’interesse collettivo. La ricetta è lineare: svuotamento dei luoghi della rappresentanza, rarefazione dei centri di potere e corsa a verticalizzarne i meccanismi di decisione tramite maggiori poteri all’esecutivo, la camera politica unica e la nuova legge elettorale che la determinerà, le nuove tipologie di procedimenti legislativi che scavalcano le istituzioni di prossimità.

Uno degli aspetti meno trattati e più rilevanti della riforma è la revisione del Titolo V, che affermerebbe un modello di gestione delle risorse deciso dai ministeri – neppure dal Parlamento – senza previsione di correttivi in senso partecipativo. Le competenze esclusive che tornerebbero allo Stato riguardano produzione, trasporto e distribuzione dell’energia; infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e navigazione; beni culturali e paesaggistici; ambiente ed ecosistema; attività culturali e turismo; governo del territorio; protezione civile; porti e aeroporti civili.

La riformulazione dell’art.117 introduce come ulteriore elemento d’allarme la clausola di supremazia “Su proposta del governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale.“La formula offre all’esecutivo spazio per molteplici forzature: invocando l’interesse nazionale (leit-motiv dell’ultimo decennio) sarà possibile imporre politiche e progetti invisi agli enti locali e alle comunità chiamate a pagarne i costi economici, ambientali, sociali e sanitari. Se ha una sua ratio prevedere che sia il livello centrale a stabilire le regole generali dell’agire in materia di ambiente, garantendo come precondizione il pieno rispetto degli art. 9 e 32 della Costituzione, nello scenario dato il nuovo assetto si tradurrebbe inevitabilmente in un ulteriore arretramento delle legittime pretese dei cittadini potenzialmente o concretamente impattati. Gli enti locali sono inoltre i più esposti – e ricettivi – alle pressioni esercitate dalle comunità locali: elemento rivelatosi spesso decisivo per ottenere la rinuncia a progetti a forte impatto ambientale. Escludere le Regioni dal rapporto di “leale collaborazione” con lo Stato su tutte queste materie senza prevedere di compensare con strumenti di concertazione locale avrà l’effetto di aggravare anziché risolvere il gap (in termini di analisi e proposte) tra comunità e governo centrale.

Da un altro punto di vista, la riscrittura dell’art. 117 è la testa di ariete attraverso cui si tenta di forzare l’introduzione in costituzione di alcuni dei principi contenuti nel decreto sblocca Italia, convertito nonostante forti proteste nella L.164/2014. Si tratta in parte di principi su cui il governo ha dovuto fare marcia indietro in seguito al deposito dei quesiti referendari promossi da 9 Regioni e centinaia di associazioni ambientaliste. Un punto in particolare, che prevedeva l’esclusione delle Regioni dai processi decisionali in materia energetica e infrastrutturale, è stato dichiarato incostituzionale con sentenza n.7/2016 per violazione degli artt.117-118 e recepito obtorto collo dal governo nella legge di stabilità per evitare di sottoporre tale punto (pronto a rientrare in campo proprio con la riforma costituzionale) alla consultazione popolare dell’aprile scorso.

Nonostante la sopravvivenza di un unico quesito, il 17 Aprile oltre 15 milioni di Italiani si sono recati alle urne per affermare il loro diritto a decidere in materia di politiche energetiche. Durante la campagna referendaria il governo ha mostrato quale idea avesse della partecipazione popolare: la proclamazione dell’esistenza di temi troppo difficili su cui esprimersi (guarda caso riguardanti profitti miliardari e devastazioni territoriali), una campagna informativa condotta al fine di boicottare la consultazione, lo sprezzante “ciaone” agli elettori la sera del voto. In quelle stesse settimane emergevano con chiarezza, grazie ad un’inchiesta della magistratura, le connessioni tra il governo e le lobbies energetiche del Paese: scandalo che costrinse l’allora ministro Guidi a dimettersi. Di oggi, infine, è la notizia che il governo Renzi ha autorizzato nuove attività di ricerca di idrocarburi lungo la riviera Adriatica e nel Mar Ionio. Neppure sei mesi dopo il referendum e le continue rassicurazioni circa la rinuncia a nuovi fronti estrattivi, si imbocca nuovamente, indisturbati, la via nera del petrolio. Ulteriore conferma, questa, che lo spirito di quella campagna referendaria e la rivendicazione democratica costruita su centinaia di territori trovano oggi più che mai la loro naturale continuazione nella costruzione di un No collettivo al referendum costituzionale.

Da anni assistiamo all’attivazione di decine di migliaia di persone per ciascuna battaglia territoriale: il movimento No Ombrina in Abruzzo, le lotte contro il Biocidio in Campania, le istanze dei No Triv, No Tav, No Tap e No Muos, le centinaia di altre realtà di resistenza popolare in prima linea per il diritto alla vita, alla salute, all’ambiente. Questo aumento della conflittualità sociale attorno all’imposizione di politiche impattanti (con gravi effetti documentati da rigorosi e numerosi studi ambientali, epidemiologici, economici e demografici) suggeriscono che i meccanismi di funzionamento della democrazia andrebbero riformati in direzione opposta da quella indicata dalla riforma: devolvendo potere decisionale alle comunità sulla gestione delle risorse e inaugurando un nuovo concetto di sovranità legato al territorio.

Alcune tra le maggiori organizzazioni ambientaliste, le 19 big firmatarie dell’appello in cui si chiede al governo di rivendicare la competenza esclusiva dello Stato in materia ambientale senza postulare la necessità di una riforma in senso partecipativo, dimostrano di non aver compreso che la partecipazione alle decisioni e la centralità della volontà popolare non è affatto un corollario marginale per una piena tutela dell’ambiente e dei diritti a esso connessi.

La riforma aiuta infine l’ufficializzazione di una prassi di sospensione democratica già arbitrariamente utilizzata: il massiccio ricorso alla gestione commissariale e allo stato di emergenza, attraverso le quali nell’ultimo decennio si è imposto il meccanismo del comando e controllo come risposta autoritaria all’emergere delle istanze più disparate.

Questa riforma è l’atto finale del processo di trasformazione dello Stato e di suo asservimento a logiche puramente neo liberiste, succubi del mercato e della finanza. Un processo che dopo vent’anni di “berlusconismo”, l’avvento dei tecnici (Monti) e il ricorso a larghe intese (Letta) ha trovato il suo perfetto scudiero in Renzi e la sua definizione formale nella proposta di modifica costituzionale.

Di fronte a questa minaccia, convinti che sia necessario ricostruire un sistema paese fondato sulle redistribuzione dei poteri e della ricchezza e sulla giustizia ambientale, non possiamo che individuare nell’approvazione della riforma un rischio enorme per la tenuta sociale e democratica del paese e nel coinvolgimento pieno delle realtà di resistenza territoriale nella campagna del No una prospettiva concreta per una reale trasformazione del nostro paese.

Marica Di Pierri – Associazione A Sud

Stefano Kenji Iannillo – Rete della Conoscenza

Pubblicato su HUFFINGTON POST del 21 ottobre 2016

Marcinelle, 8 agosto 1956: carbone in cambio di vite umane

di Fiorenzo Angoscini

libretto 3 [Oggi si sente spesso ripetere che l’attuale Unione Europea avrebbe tradito, con le sue misure economiche draconiane, lo spirito fondatore della stessa. Eppure, esattamente sessant’anni fa, la tragedia mineraria di Marcinelle aveva già rivelato il patto di sangue che fondava la CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio).
Il trattato costitutivo della stessa fu firmato a Parigi il 18 aprile 1951 ed entrò in vigore il 24 luglio 1952. Il “mercato comune” previsto dal trattato venne inaugurato il 10 febbraio 1953 per il carbone e il ferro e il 1º maggio seguente per l’acciaio. Il trattato aveva una durata di 50 anni e la CECA successivamente divenne parte dell’Unione europea. I paesi firmatari erano: Belgio, Francia, Repubblica Federale Tedesca, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi. S.M.]

Marcinelle, sobborgo operaio di Charleroi, lembo di terra vallona dove si è combattuto un frammento di guerra di classe, si trova nel cuore del bacino minerario dello stato artificiale belga.
Polvere nera di mina assassina. Umili abitazioni, piccoli esercizi commerciali di poco svago e relativo divertimento, al cui interno, come in tutto il borgo, si respirano miseria, povertà e silicosi.
Nel resto della nazione, quella con spirito fiammingo, sulle porte e vetrine dei pubblici locali, campeggia un cartello perentorio: “vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”.

marcinelle interdit A Le Bois du Cazier (nome della miniera vigliacca) torri di estrazione, un’infinità di pozzi innaturali, scavati, violentandola, nelle viscere della terra, ingoiano tutti i giorni, tramite montacarichi criminali, uomini (unici e veri infoibati) e vagoncini da riempire di carbone (coke) da barattare, poi, con le loro vite. Alti camini di ciminiere sputano in continuazione fumo e fuliggine insieme a sudore e sangue di immigrati. Una coltre di polvere grigiastra sporca case, giardini, parchi e monumenti.

segue su fonte CARMILLAONLINE

Poco testo e troppi video: così i social ci espongono alla demagogia

Poco testo e troppi video: così i social ci espongono alla demagogia
Lo scrittore iraniano Derakshan: «Una democrazia sana e rappresentativa ha bisogno più testi che video. Non è un problema americano o inglese, ma una minaccia alla nostra civiltà»

fonte La Stampa
I demagoghi di tutto il mondo, di destra o di sinistra, adorano la televisione. Questo mezzo lineare, emozionale e passivo, centrato sull’immagine, ha ridotto la politica a un reality. Come ha dimostrato Neil Postman in «Amusing Ourselves to Death»” (Ci divertiamo da morire) la televisione ha ampiamente abbassato il livello del dibattito pubblico nella maggior parte delle democrazie. Dagli Stati Uniti all’ Iran, dal Venezuela alla Francia, dall’ Egitto alla Russia, dall’ Italia alla Turchia, la competizione per l’audience è pari a quella per le elezioni. In molti paesi l’indice di ascolto è automaticamente tradotto in termini di voti.

E, cosa ancora più allarmante, internet, l’ultimo spazio pubblico dedicato alla parola dopo il declino del giornalismo scritto, si sta arrendendo al format televisivo. La versione della diretta proposta dai social network come Facebook e Twitter sta uccidendo il web e quindi anche il giornalismo scritto. Facebook è più simile al futuro della televisione che al web degli ultimi due decenni.

Una recente ricerca dell’università di Oxford dimostra che guardare video online è un fenomeno in crescita negli Stati Uniti e nella maggior parte del mondo tranne che in Nord Europa. Forse perché lì hanno un equilibrio più sano tra vita e lavoro e anche perché il loro sistema pubblico di istruzione incentiva ancora la lettura e il pensiero critico.

Intanto Facebook ha annunciato che presto i video domineranno gli aggiornamenti delle notizie, perché “comunicano una maggior mole di informazioni in un tempo molto più breve e quindi questa tendenza ci aiuta a diffondere più informazioni in molto meno tempo”, come dice Nicola Mendelsohn, vice presidente di Facebook.

Ciò conferma le mie riflessioni quando, uscendo da una prigione iraniana nel 2014, scoprii un internet completamente diverso dove il testo era in declino e andavano di moda le immagini, ferme o in movimento. Da pioniere del blog in Iran, quello che avvertii dopo sei anni di isolamento era che i blog, il miglior esempio di una sfera pubblica decentrata, erano finiti. Facebook e Instagram avevano ucciso i link esterni per massimizzare i profitti trattenendo gli utenti al loro interno e bombardandoli di pubblicità. Così facendo stavano ammazzando il web aperto, che si basava sui link. Internet è diventato sempre di più uno strumento d’intrattenimento piuttosto che uno spazio alternativo per la pubblica discussione. Peggio ancora, ho iniziato a notare uno strano disagio tra i giovani se dovevano leggere qualcosa più lungo di 140 caratteri.

Ovviamente il testo scritto non morirà mai, ma la capacità di comunicare attraverso l’alfabeto in molte società sta lentamente diventando un privilegio riservato a una piccola élite. Un po’ come nel Medioevo quando solo i politici e i monaci sapevano comunicare con l’alfabeto. Tutti gli altri sono destinati a diventare gli analfabeti del 21 secolo che principalmente comunicano con immagini, video – e naturalmente, emoji.

L’emergere di questa classe di illetterati, inchiodati ai loro vecchi apparecchi televisivi o alle loro personali tv mobili imperniate su Facebook, è una buona notizia per i demagoghi. Basti pensare a come Donald Trump ha magistralmente trasformato la formula televisiva nella sua macchina per le pubbliche relazioni pubblica e gratuita. Neil Postman ha spiegato in modo perfetto il perché nel suo libro del 1985. A suo giudizio negli Usa la differenza tra i discorsi pubblici del 18 o del 19 secolo e quelli attuali è che la pubblica opinione nell’era televisiva è un insieme di “emozioni piuttosto che di opinioni, ecco perché cambiano da una settimana all’altra, come dicono i sondaggi”. A suo avviso la natura della tv, che è di mero intrattenimento, produce solo disinformazione, che “non significa falsa informazione. Significa informazioni fuorvianti — fuori luogo, irrilevanti, frammentarie o superficiali  — informazioni che creano l’ illusione di conoscere qualcosa ma che in effetti allontanano dalla conoscenza”.

La copertura del recente referendum sulla EU da parte delle tv del Regno Unito rappresenta un buon esempio. Anche se erano conformi alle regole britanniche sull’ imparzialità, c’è chi pensa che i numerosi dibattiti dove entrambe le parti avevano lo stesso tempo per argomentare non abbiano reso giustizia a un tema delicato e complesso come la Brexit. Soprattutto ora che alcune affermazioni iniziali dei fautori del sì all’uscita dall’Unione, come i 350 milioni di sterline “dati ogni settimana all’ EU” per conto del sistema sanitario britannico, sono smentite dalle stesse persone che le avevano diffuse. C’era già molto materiale per confutarle disponibile sul web e sulla carta stampata. Ma parlare di numeri e di matematica in tv è sempre noioso e inutile. (un proverbio persiano recita così, “uno stupido getta una pietra in un pozzo, ma un centinaio di saggi non riescono a tirarla fuori.”).

Justin Webb, ex direttore della BBC per il Nord America, è arrivato al punto di dare la colpa alle regole di imparzialità vigenti. La scorsa settimana ha scritto su Radio Times: “Uno dei messaggi più chiari durante la campagna referendaria era che il pubblico agognava la verità. La gente voleva andare oltre i proclami e i contro proclami e capire che cosa c’era di vero.” Il Guardian suggeriva che “i media dovrebbero rivedere il loro modo di coprire la politica e di informare alla luce del voto per lasciare l’Unione europea”. Il tramonto del giornalismo scritto sia sulla carta stampata che sul web, significa discorsi politici super semplificati ed emotivi, partecipazione politica disinformata, e naturalmente, più demagogia nel mondo.

È difficile dire se sia stato prima il pubblico a chiedere più video, o se siano stati i media che, spaventati dalla prospettiva di tecnologie in grado di bloccare la pubblicità, abbiano iniziato la rincorsa ai video, che attirano più pubblico, portano più pubblicità e più difficile da bloccare. E nondimeno, affrontiamo le gravi conseguenze di questa svolta per il futuro delle nostre democrazie. È chiaro che per una democrazia sana e rappresentativa abbiamo bisogno più testi che video, almeno per resistere alle demagogie che si autoalimentano. Questo non è un problema americano o inglese. Questa è una minaccia alla nostra civiltà.

Traduzione di Carla Reschia

*Hossein Derakhshan (@h0d3r) è un autore iraniano-canadese, un giornalista freelance e un analista dei media. Ha scritto “The Web We Have to Save (Matter)” ed è l’ideatore di “Linkage”, un progetto artistico collettivo per promuovere i link esterni e il web aperto.

Luigi Ferrajoli Un monocameralismo imperfetto per una perfetta autocrazia

Luigi Ferrajoli
Un monocameralismo imperfetto per una perfetta autocrazia
1. Potere di revisione costituzionale e potere costituente – C’è un fatto che accompagna, da circa trenta anni, la lunga crisi della democrazia italiana. All’aggravarsi di tutti i suoi aspetti – il discredito e lo sradicamento sociale dei partiti, la loro subalternità all’economia e alla finanza, la loro opzione comune e sempre più esplicita per le controriforme in materia di lavoro e di stato sociale – ha fatto costantemente riscontro il progetto di indebolire il Parlamento e di rafforzare il governo, tramite modifiche sempre più gravi della seconda parte della Costituzione repubblicana: dapprima, negli anni Ottanta e Novanta, i tentativi delle  Commissioni Bozzi, De Mita-Jotti e D’Alema; poi l’assalto ben più di fondo alla Costituzione da parte del governo Berlusconi con la riforma del 2005, scritta dai cosiddetti “quattro saggi” in una baita di Lorenzago e bocciata dal referendum del giugno 2006 con il 61% dei voti; infine l’ultima, non meno grave aggressione: la legge di revisione costituzionale RenziBoschi approvata il 12 aprile 2016, sulla quale si svolgerà il referendum confermativo nel prossimo ottobre. Di nuovo, come sempre, l’argomento a sostegno della revisione, oltre a quello penoso e demagogico della riduzione dei costi della politica, è stato la necessità di accrescere la “governabilità” nel tentativo, ancora una volta, del ceto di governo di far ricadere sulla nostra carta costituzionale la responsabilità della propria inettitudine.        L’attuale revisione costituzionale investe l’intera seconda parte della Costituzione: ben 47 articoli su un totale di 139. Non è quindi, propriamente, una “revisione”, ma un’altra Costituzione, diversa da quella del 1948. Ma la nostra Costituzione non consente l’approvazione di una nuova Costituzione, neppure ad opera di un’ipotetica assemblea costituente che pur decidesse a larghissima maggioranza. Il solo potere ammesso dall’articolo 138 della nostra Costituzione è un potere di revisione, che non è un potere costituente ma un potere costituito.

l’articolo segue >>> QUI

 

Preghiera per Cernobyl 30 anni dopo

La  notte del 26 aprile 1986, all’una, 23 minuti e 58 secondi vi fu la prima di una serie di esplosioni che distrusse il reattore e il fabbricato della quarta unità della centrale elettronucleare di Chernobyl. Questo incidente è diventato il più grande disastro tecnologico del XX secolo.I media non hanno ricordato questa tragedia se non in alcuni scarni flash. Se chiediamo ad un ragazzo o ad una ragazza nati nel 2000 cosa sa di quello che è avvenuto Chernobyl è probabile che non lo sappia o che abbia dell’evento una conoscenza non chiara.
L’ondata di notizie false, le manipolazioni dell’opinione pubblica sovietica sono ben descritte nel libro della scrittrice Svetlana ALEKSIEVIC ” PREGHIERA PER CHERNOBYL”, un testo importante che fa chiarezza sul disastro tecnologico, sociale e umano del 1986, un trentesimo anniversario dimenticato.

 

Brasile: colpo di stato mediatico-giudiziario

 

Pubblicato il 11 mar 2016

Con l’arresto di Lula, un nuovo tentativo di golpe in Brasile, che segue di tre mesi la richiesta d’impeachment per la presidente Dilma Rousseff. Ma questa volta il colpo di zappa sembra essere andato sui piedi dei golpisti: ancora una volta il processo sociale torna alla ribalta con grande potenza e offusca gli scenari fasulli che i media controllati dalle oligarchie avevano preparato per la rappresentazione. Il Partito dei Lavoratori, dopo i momenti di difficoltà vissuti nei mesi passati, ritrova la forza e la volontà di ricompattarsi, e ritrova il sostegno di altri partiti progressisti, di movimenti sindacali e dello storico movimento dei Senza Terra.
Approfondimenti su Lava Jato
http://www.pandoratv.it/?p=6215

RAVENNA, SALUTE E SICUREZZA NEL LAVORO OGGI, INTERVISTA AD ANDREA MARCHETTI

SALUTE E SICUREZZA NEL LAVORO A RAVENNA
INTERVISTA AD ANDREA MARCHETTI CGIL RAVENNA

 


Abbiamo intervistato Andrea Marchetti, responsabile per la Cgil del Coordinamento Salute e Sicurezza nel Lavoro sullo stato dell’arte nel territorio di Ravenna.
Come stanno andando le cose a Ravenna, un territorio con molte realtà produttive di grande complessità, dal porto all’industria chimica ove la gestione dei rischi da parte delle aziende è il fattore primario per evitare gravi incidenti sul lavoro e ridurre l’impatto sulla salute non solo dei lavoratori ma anche della popolazione ?
Queste ed altre sono le domande che abbiamo rivolto ad Andrea Marchetti.

L’INTERVISTA

Perché Onde Corte blog sta con Luca Fiorini

Intervista a Luca Fiorini

Perché sto con Luca Fiorini
Stiamo vivendo un’epoca di rottura o , usando un termine diffuso, di disrupting dei diritti costituzionali in nome di un pragmatismo ottuso che pone l’efficienza, gli interessi e il comando dell’impresa come unico valore di riferimento per l’agire quotidiano.Tutto il mondo circostante deve essere al servizio e piegarsi alle esigenze dell’impresa.
Un nuovo dogmatismo autoritario è alla base di questa ideologia che sta avvelenando le relazioni tra lavoratori e impresa: tutto ciò che fa bene all’impresa coincide con il bene comune. I diritti dei lavoratori alla dignità sul lavoro rappresenterebbero , secondo questa ideologia, un ostacolo al pieno dispiegarsi degli obiettivi dell’impresa e quindi vanno ridimensionati se non annullati. Questa ideologia neo autoritaria si manifesta in modo clamoroso nei comportamenti spregiudicati dei manager che ne sono portatori. Innumerevoli sono gli episodi di licenziamenti mascherati nella fattispecie del licenziamento per ragioni economiche per eliminare i lavoratori che hanno sollevato obiezioni sulla qualità della gestione delle relazioni con i lavoratori nell’azienda. Il caso recente più clamoroso riguarda il licenziamento di un delegato della Rsu del Petrolchimico di Ferrara, Luca Fiorini, con il pretesto di un banale alterco nel corso di una trattativa. Tante volte chi scrive è stato testimone in corso di trattative sindacali di reazioni verbali sopra le righe ( da entrambe le parti ) che venivano archiviate con una pausa caffè . Una multinazionale che ha avuto moltissimo dai lavoratori, dalle istituzioni elettive che governano quel territorio per risanare e rimettere in piedi gli stabilimenti, ora si pone come una potenza coloniale che , con questo licenziamento, manda il segnale a tutti i soggetti sociali e istituzionali:il sistema di relazioni è cambiato. Il messaggio che pare provenire da questo episodio suona più o meno così :” D’ora innanzi si cambia registro, noi abbiamo il potere di decidere sia all’interno dell’azienda sia nel territorio senza che ci vengano frapposti ostacoli. Chiunque cerchi di rappresentare un altro punto di vista o altri interessi sia pure legittimi è fuori.”
La fitta trama di relazioni tra lavoratori, sindacato e pubbliche istituzioni con l’azienda che hanno consentito negli anni una governance dei problemi complessi, ambientali, d’innovazione industriale e occupazionali appare come polverizzata da questo atto.
Il comportamento di questi manager non va letto come un rigurgito del passato ma come una strategia tesa a ridisegnare le relazioni complessive tra l’azienda, i lavoratori e le istituzioni locali per redifinire i rapporti di potere e di forza sia nell’azienda sia nel territorio.
Comune di Ferrara, Regione sono state avvisate: non ci saranno più mediazioni praticabili.
Per questi motivi bisogna essere più che mai con Luca Fiorini, perché venga revocato il licenziamento e vi sia un pieno rispetto dei rappresentanti che i lavoratori si sono liberamente scelti.

Gino Rubini, editor del Blog Onde Corte

Gregor Gysi (Die Linke): “La Germania ha avuto un taglio del debito e un ritardo nei pagamenti”.

 

Gregor Gysi (Die Linke): “La Germania ha avuto un taglio del debito e un ritardo nei pagamenti”.

Pandora Tv propone l’intervento del presidente di Die Linke Gregor Gysi subito dopo l’approvazione del nuovo piano di aiuti alla Grecia.
Il parlamentare tedesco ricorda ai suoi colleghi i benefici di cui ha goduto la la Germania per il pagamento dei suoi debiti di guerra.

 

 

Quando c’era Enrico Berlinguer

Le interviste all’inizio del documentario quando c’era Berlinguer danno la misura del processo di cancellazione della memoria. Molti giovani e molte ragazze alla domanda chi era Enrico Berlinguer danno risposte penose se non esilaranti.
Come dire, il grande lavaggio del cervello verso la plebeizzazione di moltitudini di persone… ha già prodotto i suoi risultati.

RAVENNA 13 MARZO 1987. UNA TRAGEDIA SUL LAVORO DI IERI CHE CI PARLA DEL MONDO DI OGGI

RAVENNA 13 MARZO 1987. UNA TRAGEDIA SUL LAVORO DI IERI CHE CI PARLA DEL MONDO DI OGGI
di Gino Rubini

Porto di Ravenna, cantiere navale MecNavi, 13 marzo 1987, alcuni operai stanno ripulendo le stive della motonave Elisabetta Montanari, una gasiera adibita al trasporto GPL, altri operai tagliano e saldano lamiere con la canna ossidrica, una scintilla provoca un incendio.Le fiamme si propagano e tredici uomini che stanno ripulendo le stive muoiono asfissiati dai gas di combustione.

Tredici uomini muoiono come topi nelle stive più profonde.

Ci fu un sommovimento di sentimenti di rabbia e d’indignazione popolare nei giorni che seguirono la tragedia . La parola d’ordine scritta e gridata che venne portata in corteo da giovani generosi di Ravenna era :” MAI PIU’ ”

Lo choc era enorme. Le autorità e molti cittadini mostrarono sorpresa: non era possibile che in un territorio evoluto e civile come quello di Ravenna vi potessero essere condizioni di lavoro così precarie, in nero e prive delle più elementari tutele di sicurezza … Come era potuto succedere tutto questo senza che vi fossero state avvisaglie e interventi preventivi ?

Il mercato sotterraneo del lavoro in nero che si svolgeva in qualche bar nei dintorni del porto pareva essere sconosciuto ai più. Anche a coloro che dovevano esserne a conoscenza per le responsabilità istituzionali e/o associative che ricoprivano.

L’interpretazione che venne data dalle autorità locali sui determinanti di questa tragedia: la Mecnavi era un’azienda che operava al di fuori legge (vero), un residuo di una concezione imprenditoriale retriva e del passato, un’anomalia da eliminare dal tessuto produttivo sano ed evoluto del territorio.

Quell’interpretazione tesa ad isolare il caso Mecnavi come estraneo al tessuto produttivo ravennate era purtroppo errata e consolatoria. Le modalità d’uso del lavoro irregolare, in nero e malpagato, il risparmio sulle procedure di organizzazione del lavoro bypassando la gestione della sicurezza non erano un residuo del passato ma in qualche misura anticipavano la visione postmoderna tesa a svincolare l’impresa dalla responsabilità rispetto al diritto dei lavoratori di lavorare in sicurezza e con salari dignitosi.

Il comportamento criminoso della Mecnavi fu letto solo dal punto di vista del codice penale ma non dal punto di visto della sua “potenzialità negativa” come modello precursore, ancora rozzo e primitivo, di deresponsabilizzazione sociale e civile dell’impresa rispetto ai diritti fondamentali dei lavoratori.

La subcultura imprenditoriale che ancora ricerca il vantaggio competitivo nel lavoro illegale e insicuro e malpagato non è stata certo sconfitta. Dal tempo del “modello Mecnavi” si è evoluta, si è trasformata e ora opera “border line” con maggiore abilità utilizzando le porosità che le attuali norme del mercato del lavoro consentono.

La legislazione sulla gestione della sicurezza è assai migliorata rispetto agli anni ’80 ma vi è un punto fodamentale sul quale occorre fare luce: senza la partecipazione attiva dei lavoratori è assai difficile una gestione efficace della sicurezza. La partecipazione attiva da parte dei lavoratori purtroppo in quest’epoca è in diversa misura paralizzata dalla paura di perdere il lavoro e da una legislazione che può fornire strumenti impropri al datore di lavoro per mettere a tacere chi richiede maggiore sicurezza: la minaccia di demansionamento e/o di licenziamento per “ragioni economiche” possono diventare armi formidabili per silenziare i lavoratori e anche i loro rappresentanti…

L’agibilità dei lavoratori per partecipare tramite loro rappresentanze alla gestione gli aspetti della sicurezza è ora, nei fatti, affidata al senso etico e di responsabilità sociale dell’impresa …. E’ sufficiente ? Questa è la domanda legittima e non retorica cui è necessario rispondere anche nella celebrazione di domani.

Rammentiamo e segnaliamo l’evento di domani 13 marzo a Ravenna per commemorare i lavoratori caduti e segnaliamo altresì “IL COSTO DELLA VITA. Storia di una tragedia operaia ” di Angelo Ferracuti 1), uno dei lavori migliori per capire quello che successe a Ravenna il 13 marzo 1987 e dopo . Gino Rubini

1) Il costo della vita. Storia di una tragedia operaia
Autore Ferracuti Angelo

http://www.ibs.it/code/9788806211059/ferracuti-angelo/costo-della-vita-storia.html

Vincenzo Comito: Quando la Germania era un debitore flessibile

Diffondiamo da www.sbilanciamoci.info del 23 febbraio 2015

 

 

 

Tra l’Ottocento e il Novecento dello scorso millennio lo stato tedesco ha fatto default o ha ottenuto degli alleggerimenti dei suoi debiti ben otto volte

È ben noto come la Germania abbia assunto un atteggiamento intransigente sulla questione del debito pubblico all’interno dell’eurozona e come essa tenda a spingere duramente perché i vari paesi adottino, per risolverlo, delle strette politiche di austerità, politiche che peraltro rischiano di uccidere il malato. Ne abbiamo avuto ancora una riprova con l’attuale crisi greca; nel corso dei negoziati i responsabili del paese teutonico sono stati i capifila e i portabandiera del partito dell’intransigenza, sino ad arrivare all’insulto verso un governo democraticamente eletto.

Ma da diverse parti, negli ultimi tempi, si tende a sottolineare come in passato il paese non sia stato quel campione di virtù che oggi cerca di apparire; in effetti, alcuni studiosi si sono chiesti quale sia stato in concreto, nel corso del tempo, il curriculum di tale paese sulla stessa questione ed hanno trovato degli elementi interessanti.

Si può cominciare ricordando come, certo, la gran parte dei paesi in tutte le regioni del globo sia passata attraverso una o più fasi di default, o comunque di ristrutturazione del proprio debito, nei confronti dei prestatori esteri, ma anche come la Germania sia stata tra i più assidui ad incappare in tale problema.

Apprendiamo così (Reinardt & Rogoff, 2009) che tra l’Ottocento e il Novecento dello scorso millennio lo stato tedesco, in effetti, ha fatto defaulto ha ottenuto degli alleggerimenti dei suoi debiti ben otto volte nel periodo, come del resto la Francia e contro una sola volta per l’Italia e cinque per la Grecia. Va peraltro riconosciuto che i campioni europei in questo sport sono stati gli spagnoli, con ben tredici volte. I tedeschi hanno comunque conquistato un brillante secondo posto a pari merito con il paese transalpino.

La rivalità franco-tedesca e le riparazioni dopo la grande guerra

In un certo senso, la Germania ha cercato di sottoporre la Grecia allo stesso trattamento inflitto alla Francia dopo la guerra franco-prussiana del 1870, quando i cittadini transalpini, dopo la veloce sconfitta, furono obbligati a pagare un grande volume di danni di guerra, 5 miliardi di franchi, pari al 20% del pil di allora del paese; esso dovette inoltre cedere l’Alsazia, una parte della Lorena e dei Vosgi, ai vincitori, che comunque occuparono una vasta area della Francia sino a che non fu effettuato l’intero pagamento del debito, ciò che avvenne, con molta solerzia, nel 1873. Sempre i francesi furono inoltre obbligati a concedere ai nemici la clausola della nazione più favorita.

E viene la prima guerra mondiale. Come è noto, questa volta, alla fine, si rovesciano le parti, la Francia si trova nel rango dei vincitori e la Germania invece in quella degli sconfitti.

L’obiettivo fondamentale del primo ministro francese del tempo, Georges Benjamin Clemenceau, fu allora quello di vendicarsi della sconfitta del 1870 e di annullare praticamente i progressi economici fatti dalla Germania dopo quella data. Egli riuscì ad imporre rilevanti perdite territoriali al paese nemico e cercò parallelamente, nella sostanza, di distruggere, o quantomeno di danneggiare al massimo, il suo sistema economico.

Ecco che lo statista francese riesce ad imporre alla Germania anche il pagamento di danni di guerra molto ingenti. La Gran Bretagna e gli Stati Uniti si accodarono alla fine alle richieste dell’alleato.

Il problema finanziario che si poneva era comunque abbastanza complesso. Da una parte stavano i prestiti interalleati fatti prevalentemente per acquistare le armi e gli equipaggiamenti relativi (la Gran Bretagna aveva preso a prestito dagli Stati Uniti, la Francia dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti), dall’altra il problema delle riparazioni tedesche a Francia e Inghilterra. Le somme in gioco erano enormi: i debiti interalleati erano stimati in circa 26,5 miliardi di dollari, la gran parte dei quali dovuti agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna, mentre la commissione per le riparazioni del 1921 fissò in maniera definita, dopo vari summit preliminari che andavano più o meno nello stesso senso, il debito della Germania in 33 miliardi di dollari, la gran parte dovuti a Francia ed Inghilterra (Aldcroft, 1993). Tali riparazioni avrebbero dovuto essere regolate in rate trimestrali a cominciare dal gennaio del 1922.

Mentre la Francia legava le due questioni, dichiarando che il paese avrebbe ripagato i suoi debiti quando gli sarebbero stati versati i proventi delle riparazioni, la Gran Bretagna e gli Usa avevano chiaro che gli indennizzi non potevano superare certi limiti.

I dubbi di Keynes e i vari tentativi di ristrutturazione del debito

Nel 1919 Maynard Keynes aveva 36 anni e aveva partecipato alla conferenza di pace come rappresentante del governo inglese per le questioni finanziarie. Ma egli si dimise presto, essendosi trovato in totale disaccordo con l’impostazione che gli alleati stavano dando alla sistemazione dell’Europa dopo la guerra.

Egli pubblicò così subito dopo “Le conseguenze economiche della pace”, un saggio molto polemico contro la follia della “pace cartaginese” che i vincitori della guerra stavano, a suo dire, imponendo alla Germania. Le riparazioni avevano un onere finanziario, affermò l’autore, che la Germania non era in grado di sostenere (egli calcolò a questo proposito che il paese avrebbe potuto restituire, grosso modo, solo un quarto della somma stabilita) e previde lucidamente che le conseguenze del trattato di pace sarebbero state molto dannose per il futuro del continente.

I tedeschi cominciarono a versare le prime rate, ma nel corso del 1922 la situazione economica del paese si deteriorò rapidamente, con l’accelerazione dei processi di inflazione e di svalutazione della moneta; i tedeschi chiesero dunque una moratoria dei pagamenti, ma essa fu loro negata. Ma la Germania non era più in grado di pagare (Aldcroft, 1993) e, comunque, non fece nessuno sforzo per tentare.

Nel gennaio del 1923, i francesi e i belgi, di fronte al fatto che i tedeschi non pagavano le somme richieste, decisero di occupare la Ruhr. Ma tale mossa concorse a completare il collasso economico e finanziario della Germania.

Si stabilì, a questo punto, di convocare una conferenza internazionale, che si tenne a Londra nel 1924 e che diede origine al piano Dawes, dal nome del presidente della conferenza, un banchiere americano. Secondo questo piano, la moneta tedesca avrebbe dovuto essere stabilizzata dopo l’enorme livello raggiunto dall’inflazione e le truppe francesi avrebbero dovuto essere ritirate dalla Ruhr. Un flusso di aiuti americani alla Germania avrebbe permesso a quest’ultima di rimborsare i suoi creditori. L’importo totale dei debiti della Germania veniva lasciato quale fissato nel 1921, ma venivano allungati i tempi di pagamento.

Così nel periodo 1924-1930 la Germania prese a prestito soprattutto dagli Stati Uniti circa 28 miliardi di marchi e ne restituì ai paesi alleati come danni di guerra circa 10,3 (Aldcroft, 1993).

Ma, quando nei tardi anni venti, i prestiti statunitensi smisero di arrivare e molte banche straniere richiesero la restituzione di prestiti precedenti, la situazione si fece di nuovo difficile.

Un ulteriore accordo venne così negoziato nel 1929; era il piano Young, dal nome di un altro plenipotenziario statunitense. Il piano proponeva ormai una riduzione del totale del debito tedesco e degli importi da pagare annualmente.

La situazione economica internazionale intanto non fece funzionare l’accordo che per due anni. Nel 1931 la moratoria Hoover sospese per un anno i pagamenti, ma di fatto si trattò di una moratoria definitiva.

Alla fine gli Stati Uniti avevano ricevuto in restituzione dagli alleati circa 2,6 miliardi di dollari, contro crediti per prestiti ed interessi di 22 miliardi. La Francia a sua volta aveva ricevuto in pagamento dalla Germania circa un terzo dell’importo stimato dei danni di guerra (Aldcroft, 1993).

Le riparazioni dopo la seconda guerra mondiale

E viene poi la seconda guerra mondiale. Anche in questo caso, dopo la fine delle ostilità, si trattava di sistemare la questione delle riparazioni.

La conferenza di Postdam nell’agosto del 1945 fissò subito il principio delle restituzione dei danni di guerra e un accordo di base in proposito venne ipotizzato per le zone occidentali del paese nel 1950. Intanto era stato avviato il piano Marshall, con il quale gli Stati Uniti concessero al paese rilevanti somme di denaro per far ripartire la loro economia.

Furono gli Stati Uniti a guidare tutta l’operazione dei risarcimenti nel 1953, consci che fosse necessario aiutare la ripresa della Germania e dell’Europa dopo una guerra devastante, evitando di commettere gli stessi errori del primo dopoguerra. Pesava fortemente, peraltro, anche la volontà degli Stati Uniti di fare della Germania Occidentale un baluardo contro il blocco sovietico.

Così nell’agosto del 1953, dopo trattative durante diversi mesi, ventuno paesi firmarono a Londra un trattato, noto come London Debt Agreement, che consentì alla Germania di suddividere la questione in due parti. La prima corrispondeva ai debiti accumulati fino al 1933, stimati in 16 miliardi di marchi; fu consentito di rateizzare il loro pagamento in 30 anni, a tassi di interesse molto bassi, ciò che equivaleva alla pratica cancellazione dello stesso. L’altra parte, corrispondente ad altri 16 miliardi di marchi e che faceva riferimento ai debiti dell’epoca nazista e della guerra, avrebbe dovuto essere ripagata, secondo modalità da concordare, dopo l’eventuale riunificazione del paese. Ma nel 1990, a processo di unificazione concluso, il governo tedesco si oppose alla rinegoziazione dell’accordo, a ragione in particolare dei costi che sarebbero stati necessari per risollevare economicamente la parte est del paese.

In ambedue le occasioni tra i creditori c’era anche la Grecia, che dovette accettare molto a malincuore tali decisioni.

La stessa Grecia ha sollevato a più riprese, ma invano, la questione dei danni di guerra subiti da parte della Germania. Tra l’altro, in effetti, nel corso delle vicende belliche il paese, occupato dai tedeschi, era stato costretto a prestare al Reich 476 milioni di reichsmark senza interessi. Tale somma corrispondeva ormai nel 2012, secondo alcuni calcoli, a circa 14 miliardi di dollari e a circa 95 miliardi se si calcolavano anche degli interessi al tasso molto ragionevole del 3% annuo. A fine 2014 la cifra totale dovrebbe aver superato i 100 miliardi di dollari.

La Germania si rifiuta a tutt’oggi di prendere in considerazione l’intera partita.

 

Testi citati nell’articolo

-Reinardt C. M., Rogoff K. S., This time is different, Eight centuries of financial follies, Princeton University Press, Princeton, N. J., 2009

-Aldcroft D. H., The european economy 1914-1990, Routledge, Londra, 3a ed., 1993

 

Podcast Audio Diario Prevenzione – Ambiente Lavoro Salute – 27 febbraio 2015 – puntata n° 26

 
 
In questa puntata parliamo di:
 
– Guariniello e la sentenza Eternit: quando si consuma il reato di disastro? una intervista a Punto Sicuro
 
 
– JOBS ACT : COSA CAMBIA NELLA GESTIONE SALUTE E SICUREZZA NEL LAVORO 
 
 
– Primi risultati della seconda indagine Osha Eu su scala europea sulle imprese 12/02/2015
 
 
– Le iniziative programmate il 13 marzo 2015 a Ravenna  in occasione dell’anniversario della tragedia della Mecnavi
 
 
– Jobs act, Poletti: “Smantellare articolo 18? Un anno fa non lo avrei immaginato”
 
 
– Frittura mista – notizie in breve
 
 

 

LE RAGIONI DI LANDINI

 

di Paolo Ciofi – 25 febbraio 2015

Ricapitoliamo i fatti. Il segretario della Fiom Maurizio Landini, in un’intervista rilasciata al Fatto Quotidiano, dichiara che siamo alla «fine di un’epoca» e che pertanto «è venuto il momento di sfidare democraticamente Renzi». Per questo, precisa, «il sindacato si deve porre il problema di una colazione sociale più larga e aprirsi a una rappresentanza anche politica». Il quotidiano diretto da Marco Travaglio traduce e strilla un titolo a tutta pagina «Landini: ora faccio politica». Si scatena una indecente bagarre mediatica. E sebbene lo stesso Travaglio riconosca che quelle parole messe tra virgolette Landini non le ha mai pronunciate, il capo del governo le brandisce come un’arma impropria per mettere fuori gioco il segretario del principale sindacato operaio di questo paese, con l’obiettivo di delegittimarlo anche moralmente. Come se fare politica sia diventato un peccato mortale: per gli altri naturalmente, non per chi il potere politico lo detiene.

Il repertorio di frasi ad effetto del governante di Rignano, che come al solito si spoglia di ogni responsabilità pubblica, è abbondante. Ma la qualità è nettamente al di sotto del livello medio di alfabetizzazione politica: «Landini sceglie la politica perché ha perso con Marchionne»; «non è Landini che abbandona il sindacato, è il sindacato che ha abbandonato Landini»; «sul Jobs Act ognuno può avere l’opinione che vuole (bontà sua), ma è difficile pensare che tutte le manifestazioni non fossero propedeutiche all’entrata in politica». E così via. Senza alcun riferimento ai contenuti della materia del contendere. Perché, essendo stati imposti da colui che comanda, i contenuti sono per definizione giusti e «di sinistra». Dunque, indiscutibili.

In questa logica è addirittura inconcepibile che un sindacalista possa organizzare la protesta popolare e di massa contro l’eliminazione di diritti fondamentali come quelli sanciti dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Se lo fa non è per difendere un principio costituzionale, e perché crede nella giustizia sociale, nella solidarietà e nella democrazia, ma perché motivi loschi lo spingono a «entrare in politica». E se i sindacati protestano contro una patente violazione dei diritti del lavoro che moltiplica la precarietà, vanno ricondotti all’ordine. Meglio ancora se diventano una protesi dell’impresa, cioè del capitale, eliminando qualsivoglia rappresentanza generale e cancellando la contrattazione collettiva.

Insomma, un inguacchio retrogrado che guarda al passato. E che però è la dimostrazione inconfutabile della validità delle ragioni di Landini, quando denuncia che oggi il lavoro non ha rappresentanza politica, e che il sindacato deve coinvolgere tutti coloro che «per vivere devono lavorare». Dal sistema dei media l’attenzione viene invece strumentalmente concentrata sul dilemma se il segretario della Fiom scenderà o no in politica, nel tentativo finora riuscito di oscurare la sostanza del problema. In verità sono ormai molti anni che la classe operaia tradizionalmente intesa, i nuovi lavoratori generati dalla rivoluzione digitale, i precari e le partite iva, donne e uomini, giovani e anziani, non dispongono di un’autonoma e libera rappresentanza politica, che ne tuteli i diritti e la dignità, la condizione materiale e morale di fronte allo strabordante potere del capitale.

In questa area largamente maggioritaria sta la massa crescente degli elettori che non si sente più rappresentata dal sistema politico nel Parlamento della repubblica democratica fondata sul lavoro. Come dimostrano, tanto per stare ai dati più recenti, il successo di Grillo nelle elezioni politiche e l’astensione di oltre il 60 per cento degli elettori nel voto regionale dell’Emilia-Romagna. Landini dunque, sebbene con ritardo, enuncia una verità solare quando dice che in Italia il lavoro non ha rappresentanza politica. È un problema che dovrebbe agitare il sonno e turbare la coscienza di ogni democratico, perché il lavoro senza rappresentanza equivale a un’amputazione della democrazia. E proprio in questa amputazione risiede la causa più profonda della crisi democratica che stiamo vivendo, dalla quale certo non si esce con le (contro)riforme sociali e costituzionali del governo.

Non aiutano a chiarificare il quadro le filosofiche bubbole di Scalfari, per usare un termine a lui caro. Il quale prima ci fa sapere che «la definitiva attuazione del Jobs Act è un elemento molto positivo della politica economica renziana, anche se la fisionomia “classista” non sfugge a nessuno». E poi si rammarica osservando che se «la democrazia partecipata […] è in forte declino», «la causa si chiama indifferenza, soprattutto dei giovani». Come a dire: chi ti dovrebbe rappresentare non lo fa e anzi ti bastona, ma per non essere indifferente tu lo devi comunque votare.

Nel vuoto di rappresentanza che dura da anni, e che genera crescente indifferenza, c’è oggi però una novità rispetto al passato che Landini descrive così: «Renzi ha preso il programma di Confindustria e lo sta applicando», perdipiù «senza che nessun italiano abbia potuto votarlo». In altre parole, Renzi, che si proclama di sinistra, sta attuando il programma della destra e sta facendo ciò che neanche Berluscuni, il padre-padrone della destra, era riuscito a fare. Il massimo del trasformismo, che da una parte umilia il Parlamento esautorato della sua funzione legislativa, e dall’altra adotta un linguaggio menzognero e insultante degradando la politica a pura irrisione dell’avversario. Chi è Landini, se non uno sfigato, un povero perdente che vuole entrare in politica per scopi poco chiari? È dunque del tutto legittimo esporlo al pubblico ludibrio.

Nella sostanza si delinea una forma dura di autoritarismo, che punta al massimo di personalizzazione della politica, e quindi all’ascesa non effimera dell’uomo solo al comando. Con l’intento di consolidare un nuovo sistema di potere, conformando a questo fine l’insieme delle istituzioni e dei corpi dello Stato, dal parlamento alla magistratura. Su un aspetto Scalfari coglie nel segno: dal punto di vista sociale, questa è una fisionomia tipicamente classista, senza virgolette. In altre parole, siamo di fronte a un tentativo di modernizzazione capitalistica feroce, che cerca di farsi largo nella dimensione europea puntando tutto su un consenso trasformistico e mediatico. Ed è contemporaneamente la sepoltura senza onore della sinistra che sarebbe dovuta nascere dalla svolta della Bolognina di Occhetto.

Se ancora con Bersani l’ideologia prevalente nel Pd tendeva a conciliare il conflitto tra capitale e lavoro, fino a negarlo in una immaginaria visione buonista del liberismo dominante, con Renzi l’incantesimo si rompe. Lui sta con Marchionne contro Landini senza se e senza ma, vale a dire dalla parte del capitale contro il lavoro. E ci sta in modo ostentatamente dichiarato. Così il conflitto, che è organico al capitale come rapporto sociale, e che perciò non era mai scomparso in presenza di una la lotta di classe condotta con spietatezza dall’alto verso il basso, riappare alla luce del sole in una dimensione dichiaratamente politica. Fino a diventare un asse portante del governo e a mettere in discussione i principi della Costituzione, che fonda sul lavoro l’Italia democratica

da paolociofi.it

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Podcast Audio Diario Prevenzione – Ambiente Lavoro Salute – 10 febbraio 2015 – puntata n° 25

 


In questa puntata parliamo di:

La grande prevenzione. l’Europa è in fibrillazione per il rischio che la guerra “a bassa intensità” che si sta consumando in Ucraina si trasformi in guerra globale che potrebbe coinvolgere l’intera Europa. La “grande prevenzione è “smontare” le dinamiche che rischiano di portare al “punto di non ritorno” della guerra … Speriamo anche questa volta di cavarcela…

RSPP – Rassegna Stampa sulla Prevenzione e Protezione dai rischi e danni da lavoro
Newsletter mensile contenente materiali su temi ergonomici e di prevenzione dei rischi e danni da lavoro, oltre una rassegna stampa di materiali pubblicati sui maggiori siti dedicati alla materia. Uno strumento di lavoro di grande utilità ….

– FONDAZIONE DON CARLO GNOCCHI – ONLUS  IRCCS S. Maria Nascente
DISABILITA’  E   ACCOMODAMENTO   RAGIONEVOLE:   DAGLI  AMBIENTI  DI  VITA   AI  LUOGHI DI LAVORO Convegno,  Milano, 6 marzo 2015

L’EMILIA ROMAGNA E LE MORTI BIANCHE.UN TRAGICO BOLLETTINO DIETRO IL QUALE SI CELA L’IMMANE DOLORE PER LA PERDITA DI 93 LAVORATORI.
A BOLOGNA SONO 16 LE VITTIME REGISTRATE. SEGUONO: MODENA (13), REGGIO EMILIA (12), FERRARA E FORLI’ –CESENA (11), RAVENNA (9), PARMA (8), PIACENZA (7) E RIMINI (6).QUASI LA META’ DEI LAVORATORI ERANO QUARANTENNI E CINQUANTENNI. IL SETTORE MANIFATTURIERO QUELLO PIU’ COLPITO. 15 LE DONNE MORTE SUL LAVORO. 19 I LAVORATORI STRANIERI COINVOLTI NEL DRAMMA.

– Emilia Romagna: l’obbligo di installazione di linee vita in edilizia

Dal 31 gennaio 2015 in Emilia Romagna vige l’obbligo dell’installazione di dispositivi permanenti di ancoraggio sulle coperture. Focus sulle indicazioni della Delibera
149/2013 e sulle linee di indirizzo per la prevenzione delle cadute dall’alto.


– La sicurezza dei pedoni: un manuale sulla sicurezza stradale per decisori e professionisti

Il rischio chimico per i lavoratori nei siti contaminati  MANUALE OPERATIVO

Pubblicazione realizzata da INAIL
Dipartimento Innovazioni Tecnologiche e Sicurezza degli Impianti, Prodotti e Insediamenti Antropici
Progetto: Gruppo di Lavoro INAIL su “Salute, ambiente e sicurezza nelle attività di bonifica dei siti contaminati”, Linea di ricerca P18L03 “Salute e sicurezza nelle attività di bonifica dei siti contaminati” (Piano di attività 2013-2015)

– Notizie in breve 

Documenti e  notizie di cui parliamo nel Podcast  sono pubblicate su
http://www.diario-prevenzione.it

 

 

Modena city ramblers – La strage delle fonderie

Modena city ramblers – La strage delle fonderie

Pubblicato il 18 feb 2013

canzone tratta dal nuovo disco dei Modena city ramblers, “Niente di nuovo sul fronte occidentale”
Testo:
Era un freddo mattino di un giorno d’inverno,
l’aria era piena di sogni e paure,
Renzo Bersani con gli altri operai
per un futuro che non sarà mai.

Angelo Appiani, di anni trenta,
condannato a morte senza sentenza,
aveva lottato contro i tedeschi,
finiva in un colpo la sua Resistenza.

Arturo Chiappelli provò anche a scappare
lungo i binari che correvan lontano,
ma un mitra bastardo lo prese di netto,
di rosso macchiò il suo nero cappotto.

Alla Crocetta erano in tanti davanti
ai cancelli della fonderia,
volevano pane e lavoro per tutti,
vennero uccisi e cosi sia.

Roberto Rovatti portava un cartello,
venne picchiato con il calcio dei fucili,
a sangue freddo gli spararono addosso,
come una bestia buttato in un fosso.

Ennìo Garagnani aveva vent’anni,
corse via in fretta per la paura,
un colpo solo fermò la sua fuga,
pistola vigliacca lo prese alla nuca.

Arturo Malagoli guardò verso il cielo,
pensava che forse potesse salvarlo,
un altro sparo esplose assassino,
colpendolo a morte senza avvisarlo.

Di quella fabbrica e quel giorno
d’inverno restano solo finestre sventrate,
restano solo mattoni spezzati,
mattoni e ricordi mai cancellati.

Alla Crocetta erano in tanti
davanti ai cancelli della fonderia,
volevano pane e lavoro per tutti,
vennero uccisi e così sia.
Volevano pane e lavoro per tutti,
vennero uccisi e così sia.