FONTE ILLAVOROCULTURALE
Anche quest’anno il lavoro culturale – insieme a La Balena Bianca – sarà al Festival della Letteratura di Mantova, con il ciclo di incontri “Prossimamente”, uno spazio di approfondimento dedicato alle nuove frontiere della conoscenza, del sapere e della comunicazione.
Richard Grusin sarà ospite di Prossimamente sabato 9 settembre alle ore 18.00.
Pubblichiamo un estratto del testo sull’uso dei media da parte di Donald Trump, che Richard Grusin ha presentato l’11 maggio 2017 nell’ambito della giornata studi “Forme di vita e Radical Mediation”, organizzata dal Dipartimento di Scienze Umane dell’università LUMSA di Roma. La traduzione è a cura di Angela Maiello.
Molti commentatori politici si stanno ancora chiedendo come Donald Trump sia riuscito a essere eletto presidente degli Stati Uniti d’America. La sua vittoria viene spesso attribuita all’interferenza della Russia, alla disastrosa strategia elettorale di Hillary Clinton, o all’incapacità dei supporter di Bernie Sanders di buttarsi alle spalle la nomination democratica. Un linguista cognitivo, George Lakoff, ha notato, tuttavia, che gli osservatori politici raramente danno credito allo stesso Trump per aver vinto l’elezione grazie alle proprie azioni e continuano a sottostimarlo, correndo così un grande rischio. Mi rifiuto di correre lo stesso rischio. La mia tesi, infatti, è che la campagna di Trump sia riuscita con successo a trasformare la stampa, la televisione e i media della rete in armi per produrre un umore o un sentimento nazionale collettivo in cui una presidenza di Trump si configurasse come un futuro legittimo, possibile, desiderabile e, per molti, inevitabile.
Nell’interminabile copertura mediatica della campagna elettorale, i media americani non hanno dato notizia delle posizioni politiche di Trump (dopotutto lui stesso ha scelto di non dedicare molto tempo all’articolazione di tale posizioni), ma, in modo più determinante, hanno premediato incessantemente il potenziale di una sua presidenza. L’impatto materiale, affettivo e incarnato, generato dalle continue speculazioni dei media su come sarebbe potuta essere una presidenza Trump è stato tale che finanche la maggioranza degli elettori che hanno votato contro Trump ha cominciato a ritenere plausibile tale eventualità, nonostante gran parte della stampa, della televisione e dei media della rete si fossero schierati apertamente contro la sua candidatura. Attraverso la continua premediazionedella nomination di Trump e della sua elezione, i nostri media socialmente connessi in rete, quelli ufficiali e quelli non ufficiali, hanno contribuito a dare vita a questa presidenza, innanzitutto facendo sembrare, in TV, che Trump fosse già presidente.
Questa premediazione, tuttavia, non è stata un’iniziativa unilaterale dei media. Lo staff di Trump ha ingaggiato una persistente campagna di ciò che io definisco “mediazione malvagia”, per mettere al sicuro la nomination repubblicana e poi la Casa Bianca, una campagna che è continuata, in modo diverso, fino ai primi cento giorni della nuova amministrazione. Muovendo dalla perspicace analisi dei “media malvagi” proposta da Matthew Fuller e Andrew Goffey’s s, utilizzo il termine di mediazione malvagia per cercare di spiegare le tecniche, legittime e non, utilizzate da Trump per ottenere la presidenza degli Stati Uniti d’America, una posizione che, secondo molti, lo rende l’uomo più potente della terra. Mi concentro qui sui meccanismi infrastrutturali della mediazione malvagia di Trump, perché la sfida incalzante dinanzi alla quale ci troviamo – ovvero opporci e in ultima analisi porre fine alla rimediazione fascista del governo americano operata da Trump – richiede nuovi modi di pensare, nuovi modi per criticare, resistere e, in definitiva, deporre questa figura autocratica illegittima.