Il pericoloso virus di autoritarismo e carrierismo nella giustizia che infligge calvari a persone innocenti di Lorenzo Diana

FONTE ARTICOLO21

Da una vita di lotta alla camorra ad indagato innocente, la storia di come un “semplice” indagine avviso di garanzia mi abbia cambiato la vita in un istante ed esposto a cinque anni e mezzo di gogna mediatica.

Solo pochi giorni fa il GIP Marco Giordano, su richiesta del pm Catello Maresca della procura di Napoli, ha archiviato l’ultima delle due indagini aperte sul mio conto.
Quella relativa ad un presunto abuso d’ufficio nella nomina di un avvocato, che, da presidente del CAAN, il Centro Agroalimentare di Napoli (il mercato), avevo dovuto nominare per la difesa nel giudizio contro la società Cesap, appartenente ad un noto camorrista tuttora detenuto.

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Il virus censorio ha attaccato MicroMega. Domani a chi tocca?

Alcuni accadimenti della realtà ti raccontano la verità dei fatti più di tanti nobili convegni di studi. Il perentorio avviso di conclusione della vita editoriale nella casa madre GEDI da parte del direttore della divisione stampa nazionale (con letterina telegrafica) a Paolo Flores d’Arcais è un monito generale. Se da gennaio il glorioso bimestrale sarà costretto ad andare avanti contando quasi esclusivamente sulle sue forze, con i rischi del caso, il messaggio si fa chiaro ed esplicito.

Nella crisi storica dell’editoria, alle prese con l’età digitale e l’immanenza dei robot in redazione, la miopia del capitalismo del settore porta a una selezione darwiniana. Chi è fuori dal coro del mercato mainstream va espulso e non un euro merita di essere investito o speso. Guai, ovviamente, ad aprire una seria riflessione autocritica sugli errori madornali di un mondo che ha supposto di vivere di rendita, senza accorgersi del movimento carsico della rete via via egemonizzata dagli Over The Top. E senza cogliere la portata del futurismo tecnologico. Tra l’altro, il decreto cosiddetto ristori in aula al Senato (con voto di fiducia) è stato inclemente proprio sui temi dell’editoria, dando un ulteriore colpo a corpi già malati. E nubi si addensano pure sugli emendamenti omologhi presentati alla proposta di legge di bilancio ora alla Camera dei deputati.

Torniamo a MicroMega. Si tratta di una testata storica (nata nel 1986), che ha animato con vivacità il dibattito politico e culturale. Lo spazio di ricerca è sempre stato largo e inclusivo, con una fertile miscela tra le culture di sinistra e quelle liberali. Una testata laica e progressista. La rivista ha un tratto distintivo chiaro, figlio e continuatore dello spirito antico e originario immaginato da Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari.

Quell’impostazione politica ed editoriale è andata avanti per tanti anni, con picchi alterni, ma pur sempre legati al ceppo costitutivo. Da quando la famiglia De Benedetti ha lasciato il campo agli Agnelli-Elkann, avendo già indebolito la tensione iniziale, le crepe si sono allargate inghiottendo identità e numerose professionalità non per caso uscite dalle redazioni.

Si è detto del capitalismo dell’informazione, ma le gradazioni e gli stili sono nel frattempo profondamente cambiati. Probabilmente, il famoso avvocato avrebbe chiamato Flores alle sei del mattino, invitandolo alla partita della Juventus per parlargli. Il risultato, magari, non sarebbe cambiato nel lungo periodo, ma la transizione sì. Ragione economica e brutalità non sono la stessa cosa.

Il caso MicroMega è la spia di una tendenza omologante e venata di autoritarismo. I principali gruppi, chi più chi meno, si chiudono secondo le convenienze immediate delle proprietà e l’eresia non è perdonata. Già, il bimestrale che rischia di chiudere è sempre stato eccentrico rispetto alle tifoserie dominanti. Non incline ad assecondare le sinistre storiche, ma severo contro le immoralità e le cialtronerie dei vecchi pentapartiti. Ferocemente polemico con il berlusconismo nelle sue varie forme e nei numerosi complici ed epigoni.

Firme prestigiose, da Camilleri a Tabucchi a Rodotà a Dario Fo e Franca Rame; da don Andrea Gallo a Gustavo Zagrebelsky a Sandra Bonsanti. Insomma, un luogo di riferimento di un rilevante movimento di opinione (il celebrato ceto medio riflessivo), i cui progenitori si possono ritrovare in vari protagonisti del glorioso Partito d’azione. C’è da sperare che vi sia un ripensamento. In ogni caso, niente deve passare nella rassegnazione. Se finisce una storia editoriale è necessario lanciare l’allarme.

Oggi a MicroMega, e domani a chi toccherà? I comitati di redazione di GEDI hanno fatto sentire qualche voce, come pure si è sentita la protesta della Federazione della stampa. Non basta, però. Ciò che accade attorno alla libertà di espressione in Italia non ha le sembianze virulente degli attacchi in corso in numerosi paesi, ma il quadro è preoccupante. Disoccupazione, precariato, ricorso massivo alle querele temerarie, minacce e intimidazioni sono lo sfondo atroce delle chiusure e delle censure. Se, poi, colleghiamo i fili alle sgradevoli sorprese normative, è bene cominciare a urlare. Il silenzio non è d’oro.

L’articolo è tratto da il manifesto del 16 dicembre

L’”istinto di classe” del virus di Marco Revelli

Fonte : Volerelaluna 

Napoli – La mensa dei poveri al Santuario del Carmine

Che il virus, come la sfortuna, non fosse cieco, anzi ci vedesse benissimo – che fosse dotato di una solida coscienza di classe alla rovescia, colpendo molto più duro in basso che in alto -, l’avevamo capito fin dalla prima ondata. Ce lo dicevano le mappe più che non le tabelle dell’Iss, quelle (poche, purtroppo, ma eloquentissime) con la distribuzione dei contagi per quartieri nelle grandi città, con le ZTL (Parioli a Roma, Crocetta e Centro a Torino, Magenta e Sempione a Milano) quasi risparmiate dal morbo e quelle periferiche (l’oltre raccordo anulare, le barriere, l’aldilà del cerchio dei viali) flagellate. Ora lo certifica anche il Censis, rivelando che ne è consapevole il 90,2% degli italiani.

L’epidemia ha scavato voragini negli strati popolari, sia sul piano del bios, nella nuda vita, considerata spesso vita di scarto, comandata al lavoro quando le fasce alte si difendevano col lockdown, costretta a elemosinare un posto sempre più raro in terapia intensiva mentre per gli altri c’era il reparto “Diamante” al San Raffaele; sia sul piano dell’oikos ovvero dell’”economia domestica” dove le misure anti-contagio (certo sacrosante) hanno operato con effetti inversamente proporzionali alla collocazione lungo la piramide sociale: tanto più duramente quanto più fragili erano le figure colpite. Gli occupati con funzioni manuali in settori esposti alla cassa integrazione e ai suoi meccanismi spesso lesionati da ritardi e decurtazioni, che se va bene si sono visti un reddito già risicato ulteriormente ridotto del 20 o 30%. O, più sotto, quelli che stan sospesi in settori industriali già in crisi prima della pandemia (e sono tanti), ora avviati a un “fine vita” lavorativa senza orizzonte. E poi giù giù, fino ai penultimi, i lavoratori marginali, le categorie deboli della manifattura e soprattutto dei servizi, quelli a tempo determinato, delle imprese piccole e piccolissime, che temono ad ogni scadenza la “discesa agli inferi della disoccupazione” (è già toccato a 400.000 di loro). E agli ultimi, i precari, quelli della “gig economy”, del lavoro a giornata (“casuale” lo chiama il Censis), del sommerso e del nero, quelli che, appunto, se non lavorano non mangiano perché non hanno cuscinetti di grasso messi da parte per i tempi difficili per la semplice ragione che non hanno mai vissuto ”tempi facili”. Se va bene ricorreranno al silver welfare offerto da nonni o genitori pensionati, altrimenti saranno soli a contendersi un reddito di cittadinanza benedetto ma avaro (da marzo a settembre 2020 582.485 individui in più vi hanno fatto ricorso, con una crescita del 22,8%, con buona pace dei non pochi oppositori di un istituto troppo spesso liquidato con la retorica “del divano”).

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La lotta per la sopravvivenza dei riders di Città del Messico

testo Caterina Morbiato foto Stefano Morrone -tratto da Altreconomia 229

Fonte Americalatina

 

Quando indossa caschetto e borsone termico per lanciarsi nel traffico di Città del Messico, Saúl Gómez ha una parola stampata in mente: guerra. In bicicletta ha distribuito tacos, hamburger e pizze per quasi ognuna delle piattaforme digitali di food delivery che esistono nella capitale messicana. Ha anche assistito colleghi feriti e abbracciato le famiglie di quelli che invece non ce l’hanno fatta. Nel 2018, insieme a una manciata di altri riders, ha fondato Ni Un Repartidor Menos (Non un rider in meno): il primo collettivo messicano di lavoratori di applicazioni. Hanno deciso di organizzarsi dopo la morte di José Manuel Matias Flores, rider di 22 anni investito da un camion dopo aver lavorato per appena tre giorni per la  piattaforma UberEATS.

“Qui prendi la patente senza l’obbligo di fare l’esame di guida, gli automobilisti non sono sanzionati quando uccidono qualcuno e le piste ciclabili vengono fatte senza nessuna pianificazione”, dice Gómez per cui il lavoro di rider non può che coincidere con un atto belligerante: la lotta per la sopravvivenza in una metropoli governata dalle quattro ruote, attraversata da camion con rimorchio e in cui, secondo i dati della Segreteria di sicurezza cittadina, 372 persone hanno perso la vita in incidenti stradali o automobilistici durante il 2019.

In un contesto così aggressivo, una delle prime attività del collettivo è stata la pubblicazione del “Diario di Guerra”, un registro degli incidenti che coinvolgono i fattorini, e la costruzione di un database che raccoglie informazioni utili in caso di incidente: nome del fattorino, codice di registro nell’applicazione, telefono, gruppo sanguigno, allergie o malattie specifiche, contatti di emergenza. Con strumenti limitati ma radicati nel mutualismo, i membri del collettivo suppliscono all’assenza delle imprese e rivendicano il proprio diritto alla sicurezza sul lavoro.

La piattaforma digitale UberEATS è stata la prima ad approdare a Città del Messico. Era il 2016 e da allora la concorrenza non si è fatta aspettare. Nel giro di quattro anni le strade della capitale hanno cambiato volto: borsoni termici arancioni, rossi e neri si sono aggiunti a quelli verdi di UberEATS, simbolo di nuove e agguerrite piattaforme come la colombiana Rappi e la cinese Didi. Il moltiplicarsi delle applicazioni ha significato un aumento dei posti di lavoro ma anche il peggioramento delle condizioni per i riders che hanno visto diminuire sia la quantità di lavoro sia il guadagno per ogni consegna fatta.

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Iran: le autorità stanno preparando una macchina ghigliottina per amputare le dita dei prigionieri.

Le autorità iraniane stanno preparando la loro macchina di tortura per mutilare e traumatizzare ancora una volta deliberatamente le persone attraverso punizioni corporali giudiziarie indicibilmente crudeli, ha dichiarato oggi Amnesty International dopo aver ricevuto informazioni sulle autorità dell’accusa a Urumieh, nella provincia dell’Azerbaigian occidentale, che si preparano a portare una ghigliottina usata per amputare le dita nella prigione di Urumieh. Fino a sei uomini condannati per rapina e detenuti in prigione corrono il rischio imminente di farsi amputare le dita, pochi giorni dopo che le autorità dell’accusa di Teheran hanno frustato 74 volte un attivista per i diritti dei lavoratori per aver organizzato una protesta pacifica che criticava il ministro del lavoro.

Data:
 3 dicembre 2020
IL TESTO DEL RAPPORTO AMNESTY 

Egitto, Zaki e gli altri: solo nel 2019 quasi 1500 arresti della Procura suprema antiterrorismo

Patrick Zaki, lo studente egiziano arrestato con accuse infondate di propaganda sovversiva di rientro dall’Italia in Egitto lo scorso 7 febbraio, dopo 304 giorni in cella resta in carcere. Dopo la scarcerazione dei tre dirigenti di Eipr, l’ng per i diritti umani con cui collaborava lo stesso Zaki, si sperava che finalmente anche per lui si aprissero le sbarre della prigione di Tora. Così non è stato. Il suo calvario prosegue come quello di migliaia di altri attivisti, oppositori o cittadini dissenzienti, 1470 accusati dalla Procura Suprema antiterrorismo del Cairo solo nel 2019. In Egitto manifestare dissenso significa repressioni. E torture. Fino alla morte.

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