Nessuna svolta del Pse. Il “blairismo” ha ucciso la socialdemocrazia

fonte micromega che ringraziamo .

L’elezione di Tajani a presidente del Parlamento europeo ha evidenziato la rottura delle larghe intese tra Pp e Pse, che aveva scelto l’italiano Pittella come candidato e che ora parla di “rottamazione del Fiscal Compact”. Ma ciò non è sufficiente per attestare una discontinuità dei socialisti rispetto al passato: soltanto mettendo sotto accusa il paradigma della Terza Via, le socialdemocrazie possono tornare a rappresentare un’alternativa all’Europa dell’austerità. Ipotesi che al momento appare improbabile.

di Matteo Puciarelli e Giacomo Russo Spena

L’ultimo tradimento in ordine cronologico è quello dei socialisti spagnoli che hanno deciso di dare il proprio appoggio esterno al governo conservatore di Mariano Rajoy. Una scelta sofferta, costata la leadership di Pedro Sanchez, contrario alla capitolazione verso le ragioni della destra. Ma è la conferma, l’ennesima, di come le socialdemocrazie europee abbiano abbandonato le ragioni della sinistra – sposando spesso e volentieri le larghe intese, ma anche a livello programmatico – da quando si è assunto come proprio il paradigma della “terza via” di Tony Blair, la stessa stagione di Bill Clinton e dei tanti emuli successivi. I quali hanno utilizzato la parola “riformismo” per sostenere guerre umanitarie, privatizzazioni, deregulation, restringimento del welfare state e precarizzazione della vita dei cittadini.

Quella dei socialdemocratici è stata una mutazione genetica. Dovuta sia ad errori soggettivi (la riaffermazione del primato assoluto dell’economia e del mercato sulla politica; la subalternità culturale all’ideologia delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni rispetto alla pubblica programmazione e pianificazione; il salario e l’occupazione come variabili dipendenti dai moderni processi di valorizzazione del capitale) che alla insufficiente analisi e comprensione nel «mare in subbuglio di quel capitalismo in via di mutazione», per parafrasare lo storico Eric Hobsbawm.

Le socialdemocrazie hanno, in massima parte, esaltato le magnifiche sorti e progressive della globalizzazione liberista, rimuovendo allo stesso tempo il contesto di nascita e di pervasività di un capitale finanziario predatorio che sempre più assumeva una dimensione biopolitica, di coinvolgimento violento delle vite stesse dei cittadini. Un nuovo capitalismo impossibile da gestire e dominare, sovranazionale, tecnicamente avanzato, capace di imporre l’agenda ai governi, pena la crisi economica di interi Stati.

I dirigenti del centrosinistra italiano sono stati i primi a precarizzare il mondo del lavoro o a proporre le detenzioni come risposta agli esodi massicci ed inarrestabili di migranti; i “socialdemocratici” hanno scelto, e scelgono ancora, la via dei Cpt (Centri di permanenza temporanea) e dei Cie (Centri di identificazione ed espulsione), cioè dei lager mascherati che privano di libertà gli esseri umani. Così, in moltissimi campi, con il pretesto delle famigerate “riforme” hanno intrapreso un percorso poi proseguito dalle destre. Come dimenticarsi del pacchetto Treu, della Turco-Napolitano o delle guerre “umanitarie”?

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L’avvento di Trump e il rischio per la democrazia nel mondo

Ringraziamo Luigi Troiani per questo articolo apparso sul Blog     Lavocedinewyork.com

Il nuovo presidente USA a parole per “gli uomini dimenticati”, nei fatti per il liberismo sfrenato di Reagan e Thatcher

Reaganomics e thatcherismo mutano il modello di società nata in Occidente nel dopoguerra per volontà anglo-americana. Sono i semi che hanno generato la folle situazione dell’economia mondiale attuale dove l’1% della popolazione mondiale detiene quasi il 55% della ricchezza. Danald Trump che modello seguirà? A parte la sua retorica, i segnali sono chiari
donald trump giuramento

Donald Trump giura sulla Costituzione degli Stati Uniti (Immagine ripresa da youtube)

di Luigi Troiani

Nel guardare come si va conformando la mappa dei governi nei paesi che contano, in attesa del responso del biennio elettorale europeo che coinvolgerà Germania, Francia, Olanda e forse Italia, ci si chiede verso quale tipo di regimi nazionali e di successive alleanze internazionali stiamo andando. e se il nuovo quadro politico mondiale potrà comportare la retrocessione delle nostre società democratiche a regimi semi-autoritari, con la fine della società “tana libera tutti” che dalle utopie del ’68 si è in qualche modo venuta affermando, non solo in occidente.

Occorre partire proprio dal termine “occidente”,  che scrivo da sempre con lettera minuscola, essendo la sua conformazione certa solo per quanto riguarda la geografia, non la politica. Pur avendo, quel termine, subito gli abusi della propaganda e delle umane presunzioni, ha tuttavia significato, nella cultura dei più, il riferimento di una civiltà, quella che parte dall’illuminismo, dal privilegio della ragione su ogni altra capacità umana, dalla liberazione degli esseri umani da poteri come le aristocrazie di ogni tipo e le superstizioni. Grazie a quelle premesse, nei secoli successivi, i paesi dove quella civiltà ha prevalso, hanno potuto avvantaggiarsi in termini di sviluppo tecnologico e progresso scientifico, ricchezza e progresso sociale, generando un potere mondiale che trova espressione ancora ai nostri giorni. Quell’occidente avrebbe rivendicato, in taluni pensatori, radici greco-romane; in altri cristiane. La diatriba qui non rileva.

Interessa che da quella vicenda storica siano venuti nei secoli successivi nel chiamato occidente, beni politici ritenuti essenziali come le  tante libertà di cui godiamo: di pensiero, parola, genere, religione, ricerca scientifica, impresa, associazionismo, e così via. Per affermare e difendere quei beni, in occidente si sono fatte terribili guerre e sanguinarie rivoluzioni, si sono promossi sommovimenti sociali e politici epocali. Nel Novecento, nel segno di quei beni, American  Boys hanno attraversato due volte l’Atlantico immolando le vite. Nello stesso segno, i presidenti degli Stati Uniti hanno tutti, coerentemente, combattuto e vinto prima il nazi-fascismo, poi negli anni del bipolarismo il totalitarismo comunista.

Dentro quel concetto, vigeva un elenco di undisputed given, che nessun governo, fino all’avvento di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, aveva immaginato di rimuovere. Tra i tanti, la separazione tra politica e affari, il ruolo dello stato come equilibratore delle più aspre diseguaglianze sociali e di barriera agli appetiti del grande capitale, il rafforzamento dei ceti medi come garanzia dell’ascensore sociale che avrebbe consentito a chiunque di migliorare la propria situazione socio-economica, una tensione all’apertura verso le altre nazioni e alla diplomazia multilaterale. A sostegno della realizzabilità di quel modello, stato e sue articolazioni come le autonomie locali e regionali, avrebbero finanziato un vasto settore di spesa pubblica a carattere “sociale” che avrebbe consentito ai percettori di basso reddito di far accedere i figli all’istruzione, ricevere assistenza sanitaria, disporre di pensioni, e così via. Sul piano internazionale, l’empatia sociale interna si sarebbe trasferita in politiche di aiuto ai paesi poveri, garanzie per i migranti, costruzione di istituzioni internazionali condivise.

Non si dimentichi che, in piena Seconda guerra mondiale, quando ancora le sorti del conflitto erano tutt’altro che scontate, Londra e Washington, una con un primo ministro come Winston Churchill ferocemente conservatore l’altra con il presidente forse più progressista d’America, Franklin Delano Roosevelt, giocano le carte di propaganda bellica in previsione del dopo, su due paralleli documenti: la Carta Atlantica (12 agosto 1941) e il Rapporto Beveridge (20 novembre 1942). Il primo promette diritti politici e sociali, l’altro il welfare state. Sorprenderà sapere che Hitler, che alla Germania sulle orme del Primo Reich guglielmino di Bismarck aveva regalato uno stato sociale che all’epoca non prevedeva confronti, temette soprattutto gli effetti del secondo (circolava alle grande tra i soldati alleati, ed era stato illustrato in più conferenze in America dallo stesso lord Beveridge), tanto da averne il testo, con annotazioni di suo pugno, nel bunker berlinese.

Reaganomics e thatcherismo mutano alla radice il modello di società che in occidente è nata nel dopoguerra per volontà anglo-americana.

Sono gettati nei loro anni di governo i semi che hanno generato la folle situazione dell’economia mondiale attuale dove l’1% della popolazione mondiale detiene quasi il 55% della ricchezza e 8 individui l’equivalente di ciò che hanno per vivere i 3, 6 miliardi di persone più povere. E’ dagli anni di Reagan e grazie ai cambiamenti strutturali che lui induce nella società e nell’economia, che i presidenti democratici non avranno capacità e/o volontà di violentare, che i salariati statunitensi si trovano a non intercettare un solo centesimo dell’arricchimento che nei decenni ha percorso l’America, finito tutto nelle tasche delle élite finanziarie ed economiche e delle loro propaggini politiche. E qui si riscontra il primo paradosso del voto americano del novembre 2016 e della retorica populista della quale il presidente ha infarcito il discorso d’insediamento. Si affida l’esigenza di miglioramento a chi ha scelto di porsi nel solco di Reagan, dimenticando che Obama aveva preso l’America con l’economia devastata da Bush W. e la lascia con disoccupazione al 4,5% e il Pil in crescita, su base annua, superiore al 3%. Il fatto che il primo decreto firmato da Trump riduca le misure di equità sanitaria fissate da Obama, illustra quanto possa essere vendicativo e sprezzante la risposta a quell’esigenza.

L’ipotesi dell’estremismo conservatore parte, soprattutto nella versione thatcheriana, da due principi: all’interno si distruggano i corpi intermedi e le loro rappresentanze, all’esterno l’interesse nazionale prevalga su ogni altra considerazione. E’ il sedimento sul quale germoglieranno, nei decenni successivi, tutti i movimenti populisti, compreso quello trumpiano, che, come si è scritto su questo giornale, sono essenzialmente nazionalismi della più bell’acqua, che si accompagnano all’inevitabile ingresso dei grandi interessi economici e finanziari nella stanza del potere politico.

Da quei principi, la guerra feroce ai sindacati dei lavoratori, ai giornali, alle autonomie universitarie e territoriali, alle imprese che non si identifichino nel progetto di stato chiuso. Sono gli unici soggetti che possono contrastare l’occupazione dello stato da parte delle forze economiche e finanziarie.

Cancellare il diaframma tra potere costituito e società, significa consentire ai poteri forti e ben strutturati, della finanza e dell’economia, della cultura e delle religioni, di fare ordine sociale, in combutta con il potere pubblico che essi stessi hanno contribuito a formare. Le tecnologie informatiche danno un grande strumento alla realizzabilità dell’obiettivo, consentendo il dialogo diretto con elettori e consumatori, senza alcun filtro dei corpi intermedi classici. Se l’elettore e consumatore casca nella trappola, non c’è più nulla che possa salvaguardarlo dal nuovo potere. Si guardi ai miliardari, espressi dai grandi gruppi finanziari e petroliferi, membri del nuovo governo statunitense. Quegli uomini, che hanno creato, le sperequazioni terribili della distribuzione della ricchezza in questa nostra contemporaneità, dovrebbero fare gli interessi dei lavoratori? Suvvia!

La capacità profetica di Baruch Spinoza, aiuta a capire cosa sia accaduto. Scriveva in Tractatus philosophicus: “E’ inoltre certo che una Città è sempre minacciata più dai suoi cittadini che dai nemici: perché i buoni sono rari. Da qui che colui al quale è attribuito il diritto tutto intero dello Stato, dovrà sempre temere i cittadini più dei nemici, e che di conseguenza si sforzerà, quanto a lui, di guardarsene, e quanto a detti soggetti, non di vegliare su di loro, ma di tendere loro trappole, soprattutto a coloro resi illustri dalla loro saggezza, o potenti dalla fortuna”.

Quando il presidente degli Stati Uniti celebra l’”America First”, i “prodotti americani”, il “lavoro per gli americani”, è in estrema coerenza con il modo populista di guardare le cose. Peccato che gli sfuggano le conseguenze, o che, se non gli sfuggono, le accetta e sollecita, il che rende persino più preoccupante la situazione. Il nazionalismo economico genera disordine e conflitti e, in ultima istanza, guerre, come ricordò François Mitterrand nell’ultimo discorso al Parlamento Europeo. Né è possibile rinchiudere nei confini un’economia, come quella statunitense, che è forte perché aperta, che ha bisogno di comprare e di vendere se vuole stare in piedi. Trump vuole un dollaro forte per attrarre capitali e remunerarli? Chi comprerà più merci americane se costeranno troppo? E se le merci non si vendono, cosa fanno i lavoratori che le producono se non starsene a casa? E come le nazioni che si sono indebitate in dollari (perché così Washington, D.C., e Banca Mondiale, anche’essa washingtoniana le hanno sollecitate a fare), ripagheranno i loro debiti? E la Cina messa in difficoltà dall’annunciato protezionismo americano come risponderà alla difficoltà nella quale viene cacciata, investendo negli Stati Uniti dal dollaro forte?

Sono solo alcuni degli interrogativi che sorgono spontanei, dopo aver ascoltato il discorso presidenziale dell’inaugurazione.

Alla vigilia si era anche sentito il rintocco della campana a morto dell’Unione Europea che, sull’onda dell’uscita britannica, dovrebbe, nel pensiero (?) del presidente Trump, disgregarsi e chiudere i battenti. Quantum mutata ab illa, America!, scriverebbe Virgilio! Neppure un anno fa, coerentemente con sette decenni di politica estera statunitense, ascoltavamo la rampogna di Obama ai britannici minacciati di irrilevanza nel caso di uscita dall’Ue. Oggi sentiamo gli attacchi ad Angela Merkel e alla Germania, paese leader di una Ue che, pur nelle sue difficoltà  e contraddizioni, resta, nella fascia geopolitica che parte dalla Cina e finisce in Mediterraneo, l’unica isola di democrazia e progresso socio-economico del quale disponiamo.

E non si considerino le insane idee espresse sulla Nato, unico strumento di sicurezza multinazionale disponibile. Se mai, si attenda, fiduciosi, l’annuncio della prossima chiusura del Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, noto edificio inutile e costosissimo, in quel di Manhattan.

Viene da chiedersi: davvero  Trump può ritenere che questa possa essere la visione politica di un presidente degli Stati Uniti ad inizio mandato, nel XXI secolo? Chissà che non abbia ragione Hannah Arendt quando ricorda: “Più un bugiardo ha successo, più gente riesce a convincere, più è probabile che finirà anche lui per credere alle proprie bugie”.

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