Appello alle Autorità, ai Cittadini … e in particolare alle Cittadine e ai Cittadini che non intendono accedere alla vaccinazione anti-Covid

AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA

AL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI

AL PARLAMENTO ITALIANO

AI GRUPPI PARLAMENTARI

AI PARTITI POLITICI

AI MEZZI DI COMUNICAZIONE

ALLE CITTADINE E AI CITTADINI

Davanti al crescere e propagarsi in Italia e in Europa dei livelli di infezioni e ricoveri ospedalieri da Coronavirus ci sentiamo in dovere di appellarci alle Autorità dello Stato e, nel medesimo tempo, alle Cittadine e ai Cittadini che non intendono accedere alla vaccinazione anti-Covid richiamando alcuni dati di realtà che, vistosamente incalzanti, potrebbero riportare il nostro Paese nel pieno delle tragiche e note conseguenze socio-sanitarie.

Queste le osservazioni:

– le vaccinazioni coprono ormai oltre l’80% della popolazione italiana;

– il vaccino esenta dall’ammalarsi gravemente in misura di circa il 90% e del 98% dal ricovero in Reparti di terapia intensiva, dall’intubazione e dall’exitus;

– ad oggi il vaccino costituisce l’unica misura efficace contro infezione e malattia da Covid, insieme a distanziamenti personali, uso di mascherine certificate e di soluzioni alcoliche per le mani;

– il vaccino non è scevro da rischi, e questo vale per tutti i farmaci e le azioni diagnostico-terapeutiche, i quali sono infinitamente bassi rispetto ai gravi rischi che l’infezione virale comporta;

– il vaccino riduce gradualmente la propria efficacia dopo 6-7 mesi dalla sua completa inoculazione;

– la guarigione dall’infezione conferisce un’immunità, per efficacia e durata, simile a quella raggiunta dalla vaccinazione;

– gli oltre 7 milioni di Cittadini di non vaccinati in Italia favoriscono la diffusione del virus, la crescita di varianti e l’affollamento di Ospedali, rallentando i percorsi diagnostico-terapeutici per urgenze e malattie cronico-degenerative e neoplastiche;

– la mobilità fra Paesi europei favorisce la diffusione virale;

– la nostra Costituzione fonda il suo baricentro sul Bene comune pur prevedendo il dissenso e la libertà personale di rifiutare azioni diagnostico-terapeutiche;

– la vaccinazione rappresenta oggi l’attuazione del Bene comune, in assenza di una legge che la imponga.

Queste le proposte:

– fornire da subito a tutta la cittadinanza informazioni chiare e puntuali su rischi e vantaggi della vaccinazione;

– fornire da subito a tutta la cittadinanza informazioni chiare e puntuali sulla situazione pandemica con dati analitici su tassi d’infezione, ricoveri ospedalieri, mortalità e guarigioni in vaccinati e non vaccinati e per classi d’età;

– semplificare e accelerare a grandi passi su acquisizioni e somministrazioni delle terze dosi di vaccino;

– rilanciare le regole prudenziali di distanziamento personale, uso di mascherine certificate, anche all’aperto in luoghi di transito e affollati, disinfezione delle mani;

– controllare con meticolosità coloro che giungono sul suolo italiano;

– escludere i non vaccinati dall’ingresso in luoghi e mezzi di trasporto pubblici e privati, che costituiscano forme di aggregazione civile, e organizzare efficaci controlli in questo senso.

Grazie per l’attenzione e cordiali saluti

O.d.V.:      “SCIENZA MEDICINA ISTITUZIONI POLITICA SOCIETA’ “

sito: www.smips.org  e-mail: smips1@libero.it

Le prime firme :

Francesco Domenico Capizzi, presidente SMIPS, Bologna; Adriano Prosperi, Scuola Normale di Pisa; Vincenzo Balzani, Università di Bologna; Francesco Corcione, Università di Napoli; Giancarla Codrignani, docente, politica e giornalista, Bologna; Daniele Menozzi, Scuola Normale di Pisa; Marzia Faietti, già  direttrice degli Uffizi, ricercatrice Kunsthistorisches Institut, Firenze; Gabriella Galletti, segretaria SMIPS, Bologna; Giancarlo Gaeta, Università di Firenze; Francesca Isola, vice-presidente SMIPS, Bologna; Giuseppe Giliberti, Università di Urbino; Gianpaolo Bragagni, dirigente medico, Bologna; Marina Marini, Università di Bologna; Bruna Bocchini Camaiani, Università di Firenze; Francesco Di Matteo, giurista, Bologna; Giuseppe Cucchiara, chirurgo, Roma; Elda Guerra, storica, Bologna; Franco Favretti, chirurgo, Vicenza; Claudia Rizzi, dirigente medico, Bologna; Lucia Migliore, Università di Pisa; Adriana Destro, Università di Bologna; Gino Rubini, esperto di sicurezza sul lavoro, Bologna; Ugo Mazza, politico, Bologna; Giovanna Facilla, dirigente scolastica, Bologna; Renzo Tosi, Università di Bologna; Carlo Hanau, presidente del Tribunale della salute OdV, Bologna; Ildo Tumscitz, psicoterapeuta, Bologna; Mauro Pesce, Università di Bologna; Monica Bini, docente, Bologna; Marilia Sabatino, dirigente scolastica, Bologna; Maria Teresa Cacciari, docente,  Bologna; Davide Peretti Poggi, pittore, Bologna; Giuseppe Bartolotta, medico, Rimini; Luciano Fogli, dirigente medico, Bologna; Anne Drerup, docente, Bologna; Michele Del Gaudio, magistrato, Torre Annunziata; Graziella Di Cicca, orafa, Rimini; Amedeo Alonzo, chirurgo, Novara; Sergio Boschi, dirigente medico, Bologna; Giorgio Dragoni, Università di Bologna; Alessandra Ferretti, docente, Bologna; Daniele Capizzi, dirigente medico, Bologna; Paolo Rebaudengo, presidente di Olivettiana APS, Bologna; Vincenzo Frusci, dirigente medico, Melfi; Domenico B. Poddie, medico vaccinatore volontario, Ravenna; Enzo Lucisano, Università di Bologna; Margherita Venturi, Università di Bologna; Silvia Lolli, docente, Bologna;

Per aderire all’Appello inviate l’adesione a smips1@libero.it

Il decreto-legge 146 su salute e sicurezza sul lavoro è un passo falso.Sono necessarie modifiche al decreto. È necessario un intervento organico in materia

Lettera aperta al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Ministro della Salute, al Ministro del Lavoro, al Presidente della Conferenza delle Regioni.

 

Il decreto-legge 146 su salute e sicurezza sul lavoro è un passo falso.

Sono necessarie modifiche al decreto. È necessario un intervento organico in materia

 

Con il decreto-legge 21 ottobre 2021, n. 146 il Governo intende portare alcune significative modifiche del Decreto Legislativo n. 81/2008, cosiddetto testo unico sulla sicurezza del lavoro. Un decreto emesso sulla spinta di ‘fare qualcosa’ con urgenza – spinta ben comprensibile e condivisibile – per il quale è stato verosimilmente utilizzato il ‘materiale’ sul quale gli uffici del Ministero del Lavoro stavano da tempo lavorando (1) e che a nostro avviso non convince. Non si comprende il motivo per cui il Governo abbia deciso di duplicare i soggetti che intervengono nella vigilanza anziché realizzare condizioni per permettere ai servizi di prevenzione collettiva delle aziende sanitarie di essere maggiormente operativi in termini di personale e di presenza sul territorio nazionale. La duplicazione dei soggetti che intervengono non si traduce in migliori e maggiori interventi di vigilanza, anzi, è possibile ipotizzare conflitti di competenze e/o interventi duplicati.

 

LO STATO DELLE COSE

Colpisce particolarmente che i tipi di incidenti mortali sono ancora quelle ‘antichi’, da anni 50 del secolo scorso. La stragrande maggioranza di questi incidenti erano e sono evitabili con una corretta organizzazione del lavoro, con pratiche concrete di valutazione e gestione dei rischi, con una formazione professionale mirata ai rischi specifici connessi alla mansione. La vigilanza da parte dello Stato nelle sue articolazioni è importante, ma non potrà mai sostituire il compito delle imprese nella gestione dei rischi, con il contributo di controllo e partecipazione dei lavoratori. Non vi saranno mai abbastanza ispettori per vigilare che vi sia una corretta gestione della sicurezza a livello aziendale nella miriade d’imprese e microimprese. I determinanti che spesso hanno causato l’incidente riguardano la precarietà del rapporto di lavoro, la mancata e/o inadeguata formazione alla sicurezza dei lavoratori, la debolezza contrattuale dell’impresa che fornisce prestazioni in regime di subappalto verso la stazione appaltante, l’’informalità maligna’ che regola l’organizzazione approssimativa del lavoro nelle reti dei subappalti, la sostanziale impreparazione tecnica e professionale di talune imprese pur iscritte alla Camera di Commercio.

 

Lavori instabili e scarsa regolazione nell’occupazione sono più la regola che l’eccezione. La diffusione del cosiddetto subappalto ha esploso il ventaglio delle condizioni di lavoro rendendo sovente complicata la stessa rappresentazione della condizione lavorativa. La giungla dei contratti collettivi nazionali di lavoro esistenti in Italia – ben 985 registrati a giugno dal Cnel, l’80% in più nell’arco di un decennio – riflettono un mercato del lavoro frammentato e dove proliferano accordi pirata firmati da sindacati o associazioni di impresa sconosciuti.

 

A fronte di questa ‘realtà effettuale’ il decreto-legge 146/2021 rischia di essere un passo falso perché crea una condizione di non chiarezza sul ‘chi fa che cosa’ circa l’attività di vigilanza sul rispetto delle misure di sicurezza svolte dalle istituzioni di controllo, tende a disgiungere la stessa vigilanza dalla prevenzione. Appare sostanzialmente orientato alla mera repressione ed opera uno strappo nell’ordinamento giuridico vigente. Per la prima volta dall’entrata in vigore della riforma sanitaria (legge 833/1978) si mette in crisi quella che è stata una delle innovazioni più importanti della riforma stessa, che consisteva nell’assegnare le competenze relative alla salute dei lavoratori al Servizio sanitario nazionale come una delle funzioni comprese nella promozione della salute del cittadino. La riforma sanitaria produsse in questo settore effetti positivi legati al fatto che le misure di prevenzione utili alla tutela della salute dei lavoratori potevano essere non solo individuate dai servizi pubblici, ma successivamente anche imposte con poteri dispositivi e prescrittivi (2), realizzando quindi una continuità tra prevenzione, vigilanza e repressione (vi è infatti un forte legame tra legge 833/78 che stabilisce i principi e decreto legislativo 81/2008 e D.L.vo 758/94 che forniscono gli strumenti per applicare tali principi). Certi caratteri del provvedimento DL 146 nell’attuale stesura sembrano in contrasto anche con recenti dichiarazioni del Ministro del Lavoro (3).

 

Per quanto riguarda la vigilanza, ciò che occorreva ‘con urgenza’ – insieme al certamente necessario incremento del personale dell’Ispettorato finalizzato al controllo del lavoro nero e rapporti di lavoro irregolari – era, piuttosto, porre rimedio alla situazione di abbandono nella quale i governi e le regioni hanno tenuto gli organi delle aziende sanitarie incaricati della prevenzione e della vigilanza, lasciando che gli addetti in dieci anni diminuissero del 50%, senza provvedere alle necessarie nuove assunzioni. Depauperamento che ha inciso sulla qualità delle prestazioni dei servizi territoriali di prevenzioni, con la difficoltà ad affrontare la complessità delle condizioni di lavoro e temi come quelli della salute, del disagio psicosociale, dello stress correlato al lavoro, delle malattie da lavoro. Si avverte un rischio di scivolamento burocratico verso un ruolo pressoché esclusivo di «ispettore» e non anche di «tecnico della produzione di salute», con un’attenzione orientata più alla verifica del rispetto del dettato normativo e non anche alla ricerca condivisa di soluzioni ai problemi di salute e sicurezza. Ben sappiamo che l’efficacia della prevenzione non è completamente corrispondente a quella di “numero di unità locali controllate”. Le attività di igiene ambientale (misurazione diretta degli inquinanti) sono pressoché scomparse. I tagli alle iniziative di formazione e la carenza di figure specialistiche (chimici, ingegneri, biologi, psicologi del lavoro, …) caratterizza pressoché tutte le regioni. In alcune regioni, come la Toscana, si sono intraprese anche iniziative di riorganizzazione che prevedono una separazione gestionale e programmatica (non solo dell’opportuna valorizzazione della specificità professionale) delle diverse categorie di operatori della prevenzione, invece di garantire una piena integrazione interprofessionale.

 

Nell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) non esistono oggi le competenze specifiche per esercitare le nuove funzioni che richiedono elevata e specifica professionalità, requisiti presenti negli operatori dei servizi delle ASL (Tecnici della Prevenzione, Medici del lavoro, Ingegneri, Assistenti sanitari, Chimici, Biologi, Psicologi del Lavoro,…) acquisiti attraverso specifica formazione universitaria. Nei Servizi delle ASL, inoltre, permane comunque un patrimonio scientifico e di esperienze gestionali, arricchitosi nel corso di decenni di attività, volto alla soluzione dei problemi e non solo alla ricerca dei reati. Si è adottato un provvedimento ‘con urgenza’ i cui effetti non si vedranno, ad essere ottimisti, che tra qualche anno: giusto il tempo per bandire e concludere i concorsi per le assunzioni del personale all’ispettorato (oggi drammaticamente insufficiente anche solo per i controlli sul lavoro nero o sulle violazioni del rapporto di lavoro), avviare i neoassunti alla necessaria formazione in materia di vigilanza e far acquisire loro quel minimo bagaglio di esperienza che garantisca qualche risultato sul fronte della sicurezza per i lavoratori.

 

Il ‘doppio binario’ della vigilanza crea confusione. Con l’individuazione di due organi, entrambi deputati alla vigilanza su salute e sicurezza sulla totalità dei comparti, si è anche disattesa una delle indicazioni del Senior Labour Inspectors Committee (SLIC), rappresentate nel Report on The Evaluation of The Italian Labour Inspection System (4). In un recente contributo sulla necessità di incremento numerico delle ispezioni, ma effettuate in modo più mirato, si discute, anche con confronti internazionali, l’affermazione che “è tempo di ripensare all’idea di un unico Ispettorato nazionale del lavoro, il cui fallimento era stato preannunciato” (5).

 

LE COSE NECESSARIE

La necessità di avere un coordinamento e un indirizzo nazionale del tema salute e sicurezza sul lavoro, di un controllo della coerenza tra principi e modelli organizzativi regionali, obiettivamente da molto tempo carente in sanità pubblica (6), è indubbia (ad es., risulta che dal 2018 non viene prodotta una relazione organica sull’attività svolta da questi servizi nelle diverse regioni, che, pure, hanno operato dando un contributo importante anche nel fronteggiare la pandemia).

È chiaro, inoltre, che per incidere sul fenomeno degli incidenti mortali occorre una iniziativa su diversi piani, dalla regolarità del lavoro, alle regole sugli appalti, ecc. La vigilanza in materia di sicurezza degli Enti preposti è solo uno degli strumenti, importante, ma non sufficiente.

 

Di seguito avanziamo alcune indicazioni, che potrebbero essere attivate anche a legislazione corrente, frutto di tante esperienze e ricerche, ma che finora non hanno trovato corrispondenza in decisioni politico programmatiche.

 

  • Posto che è quanto mai opportuno rafforzare il numero degli ispettori dell’INL (come effettivamente propone il decreto 146) per rafforzare la vigilanza sui rapporti di lavoro, la cui irregolarità è concausa degli infortuni e delle malattie professionali, è indispensabile rafforzare gli organici dei Servizi di Prevenzione Collettiva delle ASL stanziando apposite risorse nella Manovra di bilancio attualmente in discussione in Parlamento, controllandone (da parte del Ministero della Salute) l’effettivo utilizzo da parte delle Regioni e delle ASL (gli addetti ai Servizi di Prevenzione delle ASL sono passati da 5.060 operatori nel 2008 a 3.246 nel 2018). Necessario, inoltre, definire degli standard di personale per i Servizi delle ASL in modo da garantire omogeneità delle strutture territoriali e assicurare loro la formazione necessaria, alla luce delle importanti modifiche del tessuto produttivo.
  • È indispensabile rafforzare il ruolo del Comitato ex art. 5 D.Lgs. 81/08 dotandolo di poteri decisionali e di adeguate risorse. Nella nota una proposta di modifica dello stesso articolo (7). Il Comitato deve relazionare periodicamente e pubblicamente l’efficienza e l’efficacia dei programmi di prevenzione attuati in relazione al Piano Nazionale della Prevenzione (PNP) e ai Livelli essenziali di assistenza (LEA). Raccolta e diffusione linee guida, buone prassi e iniziative di prevenzione meritevoli di estensione ed incremento degli interventi di prevenzione nelle piccole imprese, cooperative, lavoratori autonomi, sviluppando attività di assistenza. Dare nuovo impulso (in attuazione del Piano Naz Prevenzione) alla prevenzione delle malattie da lavoro, in particolar modo per quelle di tipo cronico-degenerative, con interventi di igiene industriale mirati alla riduzione dell’esposizione ad agenti chimici, cancerogeni e mutageni. A questo stesso livello si deve effettivamente attuare un efficace coordinamento delle strategie e attività tra INL e Regioni/ASL. Analoghe considerazioni possono essere fatte per il livello regionale e provinciale, assicurando la collaborazione delle forze sociali.
  • all’interno del Ministero della Salute devono essere rafforzate/costituite le funzioni relative al governo della prevenzione nei luoghi di lavoro, con compiti di indirizzo e verifica delle attività svolte dalle varie strutture e delle risorse impegnate.
  • un sistema di registrazione nazionale di infortuni, malattie da lavoro e rischi indipendente da finalità assicurative, che costituisca strumento per l’analisi del fenomeno e la programmazione e fonte ufficiale di comunicazione periodica dei dati da parte del Ministero della Salute e degli Assessorati Regionali (anche questo punto è effettivamente trattato anche nel DL 146).
  • Rafforzamento della rete degli RLS

 

Queste proposte ed altri suggerimenti erano già stati indicati nella nota della Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione inviata il 27 maggio 2021 al Presidente del Consiglio, ai Ministri della Salute e del Lavoro e al Presidente della Conferenza delle Regioni.

 

Un intervento legislativo più consistente e organico di aggiornamento del d.lgs. n. 81/2008 (mancano anche circa 20 provvedimenti di attuazione del DLgs 81!) è comunque necessario. Riportiamo alcuni punti che reiteriamo fondamentali:

  • adozione di un sistema di qualificazione delle imprese (andando oltre il mero modello della patente a punti, non applicabile a tutti i settori come per l’edilizia e che interviene a posteriori dopo infortunio e/o sanzione), considerato l’aumento esponenziale del lavoro in appalto e del numero rilevante di infortuni che si verificano nello svolgimento delle mansioni svolte nell’ambito di tali contratti.
  • riforma della formazione. Non esaurendosi solo sulla revisione dei programmi (almeno riferiti alla figura dell’RSPP/ASPP, ruolo di necessaria trasformazione) e sul sistema di accreditamento degli enti erogatori sul territorio, ma in particolare sull’introduzione dell’obbligo nei riguardi dei datori di lavoro e nei programmi scolastici, fin dai primi anni dell’istruzione
  • un rafforzamento e qualificazione delle figure del Responsabile Sevizio di Prevenzione e Protezione (RSPP) e del medico competente, nella loro autonomia professionale e nel loro rapporto con le strutture pubbliche.
  • un potenziamento delle funzioni svolte dell’ex Istituto Superiore di Prevenzione e Sicurezza nei Luoghi di Lavoro (ISPESL), attualmente accorpate all’INAIL, con l’ipotesi di un loro inserimento nell’Istituto Superiore di Sanità (ISS).

 

MODIFICARE IL 146

Parallelamente a queste indicazioni di fondo, la fase di conversione in legge del 146 offre la possibilità di poter intervenire sul testo. A questo riguardo concordiamo sostanzialmente con le osservazioni espresse dal Coordinamento Tecnico delle Regioni – Area Prevenzione e Sanità Pubblica (Parere sullo schema di disegno di legge di conversione del decreto-legge 21 ottobre 2021, n.146. Proposta di emendamenti). In particolare, riteniamo corretta e utile la proposta di abrogazione della duplicazione della competenza ispettiva. L’ottimizzazione dell’azione di vigilanza si può realizzare con il rispetto delle competenze concorrenti di cui all’articolo 117 della Costituzione, nonché di quanto disposto dalla legge 833/78. Nella stessa nota del Coordinamento tecnico delle Regioni, infatti si osserva che “L’azione di vigilanza avrebbe potuto ricevere ulteriore (e facile) impulso rafforzando le ASL e non già affiancando l’INL, Ente che, considerati i profili professionali del personale che lo sostanzia (legali, amministrativi), possiede abilità per i soli controlli formali (e non sostanziali) che si tradurranno in un mero intervento repressivo a danno (anche economico) alle imprese, peraltro in una fase in cui – superata auspicabilmente l’emergenza pandemica – l’impegno del Paese è supportare la ripresa”. E, ancora: “la presenza di un secondo organo di vigilanza costituisce essenzialmente elemento di forte criticità dell’azione di coordinamento che il nuovo art. 13 comma 4 DLgs 81/08, per il solo livello provinciale, pone in capo sia alle ASL che all’Ispettorato (“A livello provinciale, nell’ambito della programmazione regionale realizzata ai sensi dell’articolo 7, le Aziende Sanitarie Locali e l’Ispettorato nazionale del lavoro promuove e coordina sul piano operativo l’attività di vigilanza esercitata da tutti gli organi di cui al presente articolo. …” ).

 

CONCLUSIONI

Il proposto DL 146 manca di una più approfondita valutazione della causalità sociali del fenomeno delle malattie da lavoro e degli infortuni. Risulta non considerare adeguatamente alcuni elementi strategici, di ordine culturale e politico, della legislazione fondamentale in materia, nonché di recenti raccomandazioni di derivazione europea. Nella NADEF (Nota di aggiornamento al doc di economia e finanza 2021) sono previsti una serie di impegni e riforme specifiche tra le quali quello di un ‘DDL per l’aggiornamento e il riordino della disciplina in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro’. Per le considerazioni svolte in questa nota lo stesso decreto non può certo assolvere questo impegno.

 

Sul tema salute e sicurezza del lavoro si giocano i caratteri fondanti della dignità delle persone che lavorano e, più in generale, del grado di incivilimento di un paese. I soggetti collettivi devono riaprire una discussione, un confronto con i lavoratori, i servizi pubblici, le istituzioni, per definire una nuova politica, un complesso ‘organico’ di provvedimenti, per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro. Alla base ci deve essere piena consapevolezza dalla ‘realtà effettuale’ dell’Italia, caratterizzata così fortemente dalla prevalenza della microimpresa, dalla massiccia estensione del subappalto e del lavoro precario e nero, che rendono più impegnativa la costruzione di veri sistemi aziendali di gestione del rischio. Questo rende particolarmente forte il bisogno di ‘assistenza’ e ‘formazione’ e la necessità di un rinnovato controllo delle insopportabili inappropriatezze mercatiste delle consulenze private in questo campo, insieme, naturalmente, alla irrinunciabile deterrenza della vigilanza e repressione dei reati. I provvedimenti parziali e contingenti dovrebbero essere coerenti con questa visione.

 

Susanna Cantoni, già direttore Dipartimento Prevenzione ATS Città Metropolitana Milano

Beniamino Deidda, già Procuratore Generale Firenze, componente comitato direttivo Scuola Superiore della Magistratura

Mauro Valiani, già direttore Dipartimento Prevenzione ASL Empoli

Massimo Bartalini, Tecnico della Prevenzione Siena

Stefano Fusi, Tecnico della Prevenzione Firenze

Giuseppe Petrioli, già direttore Dipartimento Prevenzione ASL Firenze e componente Commissione Interpelli

Gino Rubini, editor blog Diario della Prevenzione, già sindacalista CGIL

Carla Poli, Tecnico della Prevenzione ASL Toscanacentro

Stefano Silvestri, igienista del lavoro, collaboratore Università del Piemonte orientale

Fulvio Cavariani, già direttore Centro Regionale Amianto Regione Lazio

Eugenio Ariano, già Direttore Dipartimento Prevenzione ASL Lodi

Lalla Bodini, medico del lavoro Milano

Ettore Brunelli, medico del lavoro Brescia

Daniele Gamberale, già direttore Dipartimento Prevenzione ASL Roma 1

Bruno Pesenti, già Direttore Dipartimento Prevenzione ATS Bergamo

Giuliano Tagliavento, già Direttore Direzione Tecnica Prevenzione Collettiva ASUR Marche

Dusca Bartoli, medico del lavoro Empoli

Giuliano Angotzi, già Direttore Dipartimento Prevenzione ASL Viareggio

Teresa Vetrugno Medico del lavoro ex RSPP in Azienda Sanitaria

Rodolfo Amati Medico del Lavoro già Responsabile Spisll Ausl 9 Grosseto

Danilo Zuccherelli già Direttore del Dipartimento di Prevenzione USL 6 Livorno

Francesco Loi già Responsabile Dipartimento di Prevenzione ex Azienda USL 7 Siena

Andrea Innocenti già Responsabile PISSL USL Toscana centro (Pistoia)

Lucia Bramanti Responsabile Servizio di prevenzione igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro AUSL Toscana nord-ovest zona Versilia

Raffaele Faillace già Responsabile per la regione Toscana dei servizi di prevenzione e direttore generale di varie ASL

Augusto Quercia Direttore Dipartimento di prevenzione ASL VT e Direttore UOC PRESAL ASL VT

Sandro Celli Dirigente Professioni Sanitarie della Prevenzione

Tiziana Vai medico del lavoro UOC PSAL ATS Milano città Metropolitana

Donatella Talini medico del lavoro presso Azienda USL Toscana Nordovest

Giovanni Pianosi medico del lavoro

Stefania Villarini Responsabile U.O.S. PRESAL Distretto A AUSL Dott.ssa Stefania

Leopoldo Magelli , medico del lavoro, già responsabile SPSAL di Bologna e primo presidente SNOP

Fulvio Ferri medico del Lavoro Reggio Emilia

Graziano Maranelli Trento

 

 

Scarica il documento integrale da cui è tratto l’articolo:

“ Il decreto-legge 146 su salute e sicurezza sul lavoro è un passo falso”, lettera aperta al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Ministro della Salute, al Ministro del Lavoro, al Presidente della Conferenza delle Regioni (formato PDF, 235 kB).

 

Scarica la normativa di riferimento:

Decreto-Legge 21 ottobre 2021, n. 146 – Misure urgenti in materia economica e fiscale, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili.

 

Loris Campetti: La salute nel sindacato

 

Fonte: Inchiestaonline.it

Diffondiamo da il manifesto in rete del 29 ottobre

Serve ancora il sindacato, nel secondo decennio del terzo millennio dopo Cristo? Seconda domanda: chi rappresenta il sindacato nella stagione della globalizzazione neoliberista, quali figure sociali tutela e quali sono invece abbandonate allo strapotere del turbocapitalismo? Terza domanda: cosa è diventato il sindacato? Sono tre domande difficili, le risposte non possono essere semplici né individuali. Quel che posso tentare di fare è di inquadrarle nel contesto dato, qui e ora ma con un occhio al futuro analizzando le linee di tendenza.

 

La miseria della politica

La prima cosa che mi viene da dire è che non è mai stato così difficile come oggi fare sindacato e, al tempo stesso, non è mai stato così necessario. Indispensabile, aggiungerei. La ragione prima della difficoltà rimanda alla politica, alla sua mutazione nella chiave dell’autoreferenzialità, allo sfilacciamento e allo snaturamento della democrazia e allo svuotamento della partecipazione. Non solo in Italia, certo, ma sulle dinamiche in atto nostro paese val la pena soffermarsi. Bastava dare un’occhiata alla grande manifestazione di Firenze organizzata dal collettivo e dalle Rsu Fiom della Gkn per rendersi conto dell’abisso che separa la lotta operaia, le condizioni materiali dei lavoratori, dalla Grande Politica. Nelle interviste realizzate per un libro-inchiesta – Ma come fanno gli operai – mi aveva colpito il racconto di un giovane delegato di una fabbrica aerospaziale del Varesotto: “Vedi, lì dai tempi dei tempi è appesa una gigantografia di Enrico Berlinguer. Per i vecchi operai la sinistra incarnata dal segretario del Pci rappresentava un riferimento forte, identitario. Per i giovani operai, invece, gli eredi principali del Pci sono quelli che più scientificamente hanno abbattuto i diritti dei lavoratori, a partire dall’attacco allo Statuto dei lavoratori”. La rabbia può addirittura spingere gli operai convintamente di sinistra a votare per dispetto un partito con cui non si ha nulla a che fare pur di punire chi è accusato di essere passato dall’altra parte, dalla parte dei padroni. Un operaio della Fiat diceva parole condivise da tanti suoi compagni in tuta blu: “Ho votato per Appendino sindaca di Torino anche se non mi aspetto nulla dai grillini, perché il Pd ripresentava Piero Fassino, quello che nello scontro tra la Fiom e Marchionne si era schierato con Marchionne. Non ho votato come sarebbe stato normale per Giorgio Airaudo, ottimo compagno, perché il modo più sicuro per far perdere Fassino era votare per il M5S”. I lavoratori sono ormai privi di una rappresentanza politica forte, per essere più precisi non hanno sponde nella politica (so bene che a sinistra del Pd ci sono forze come il Prc che si battono al fianco dei lavoratori, ma se vuoi trovarle devi andare nelle manifestazioni di lotta, non in Parlamento e nelle istituzioni. Ma ciò richiederebbe una riflessione a parte che esula da questo articolo). E’ stupido e ipocrita meravigliarsi a ogni elezione per la fuga fuori dalla sinistra del voto operaio. I lavoratori sono soli, il centrosinistra cerca consensi e voti nei ceti alti, nei centri storici e nei quartieri bene delle città, nei cda delle banche più che tra i bancari, in quella che una volta si chiamava borghesia. Fare sindacato senza avere sponde nella politica e nelle istituzioni, con il Pd che è il più convinto sostenitore della dittatura del mercato, è davvero dura.

 

C’era una volta l’internazionalismo

Di un altro elemento di difficoltà a fare sindacato scrivo solo il titolo, è il passaggio dall’internazionalismo proletario all’individualismo proprietario: la fine del bipolarismo con l’inevitabile e tardiva implosione del socialismo reale ha “semplificato” lo scenario mondiale e abbattuto icone e riferimenti. Ciò ha contribuito, in assenza di un progetto politico alternativo, cioè di un’altra idea di sinistra e del mondo, ad accelerare lo scatenarsi della guerra tra poveri, tra lavoratori del nord e quelli del sud e dell’est, tra uno stabilimento e l’altro. Insomma, la crisi della solidarietà è cresciuta di pari passo con le diseguaglianze. Consiglio a tutti una gita a Monfalcone, davanti ai cancelli della Fincantieri, per farsene un’idea. Il sindacato, nato con l’idea che i proletari di tutto il mondo dovessero unirsi, oggi più che in passato avrebbe bisogno come il pane di un’ottica internazionale, globale se preferite, che invece manca da tempo. Senza una strategia e un coordinamento globali si può far poco per ridimensionare la prepotenza delle multinazionali, si può salvare per un po’ una fabbrica magari a discapito di un’altra collocata in un’altra città o in un altro continente. Ma così non si fa molta strada.

A parità di prestazione parità di trattamento

Privati di ogni rappresentanza (e sponda) politica, i lavoratori rischiano di trovarsi soli di fronte all’arroganza del potere. Là dove non esiste neppure una rappresentanza sindacale, il passo è breve per arrivare alla cancellazione dell’insegnamento di Giuseppe Di Vittorio: mai più con il cappello in mano davanti al padrone. Allo svaporarsi della centralità del lavoro in sede politica e, ahimè, nell’immaginario collettivo, si accompagna la massiccia rivoluzione portata dal capitalismo nell’organizzazione del lavoro, nelle relazioni sociali, nella composizione della classe lavoratrice. La crescita esponenziale della logistica agevolata dalla pandemia, inoltre, sta scardinando il bagaglio dei diritti conquistati nel secolo breve, personalizzando il rapporto padrone-dipendente, e a occuparsi della mediazione non è certo il sindacato bensì il caporale. E non solo nella logistica ma anche nell’agricoltura, nell’edilizia, fino al cuore della produzione industriale dove le scelte politiche e dunque la legislazione hanno accompagnato e favorito la frammentazione del ciclo moltiplicando le diseguaglianze e scatenando il dumping sociale. Il vecchio adagio ‘a parità di prestazione parità di salario, orario, diritti’ è stato travolto dal sistema di appalti e subappalti e dalla possibilità concessa alle imprese di scegliere la forma contrattuale più conveniente grazie a un menù disponibile di decine di forme diverse. Spesso il sindacato è in grado di rappresentare e tutelare solo la parte alta del lavoro nella piramide in cui esso è stratificato. Ma fino a quando riuscirà a rappresentare, facciamo un esempio, i dipendenti diretti della Fincantieri? Cioè, fino a quando i lavoratori della Fincantieri riusciranno a difendere i propri diritti, sotto la grandine del dumping prodotto dal sistema degli appalti? Credo che non ci sia futuro, persino per un sindacato di classe come è ancora la Fiom, senza la capacità di andare a mettere mani e cuore nelle fasce più deboli del mondo lavoro, riconquistando proprio quell’idea che a parità di prestazione deve corrispondere parità di trattamento.

La solitudine del nuovo proletariato

La pandemia ha ulteriormente spinto verso un superamento dei corpi intermedi, detto in parole povere sta ulteriormente indebolendo il sindacato. Essendo mutato nel profondo l’impianto della produzione, della distribuzione e dei consumi anche il sistema legislativo andrebbe riscritto, e persino lo Statuto dei lavoratori – quel che ne resta dopo i colpi d’accetta degli ultimi anni – andrebbe aggiornato per includere e tutelare le nuove figure sociali, il nuovo proletariato. I sindacati confederali sono in grave ritardo nella conoscenza dei nuovi lavori; soltanto negli ultimi mesi la Cgil, che ha impiegato un paio d’anni per capire che quello dei rider è un lavoro a tutti gli effetti dipendente, ha messo a fuoco i ciclofattorini che solo grazie alla loro soggettività e le loro battaglie in bicicletta condotte in solitaria sono riusciti a imporsi all’attenzione di tutti. Nella logistica le prime lotte sono state portate avanti con il fragile appoggio dei sindacati di base e i confederali a fatica stanno cercando di mettere qualche radice tra i lavoratori. Quando un camionista travolse un facchino ai cancelli durante uno sciopero si scoprì che i camionisti sono (debolmente) rappresentati dalla Cgil e i facchini (debolmente) dai sindacati di base. Se si perde di vista il nemico vero si finisce in una guerra dei penultimi contro gli ultimi.

 

Il covid al lavoro

Tra le conseguenze più pesanti del covid sul lavoro c’è il suo uso ricattatorio da parte del sistema delle imprese: con la perdita di centinaia di migliaia di posti, tentano di imporre il peggioramento delle condizioni lavorative con annessa riduzione di salario, diritti, sicurezza e dunque dignità. Se vuoi lavorare, è la parola d’ordine, accetta le mie condizioni perché la ripresa in una competizione internazionale senza esclusione di colpi impone i suoi diktat e c’è la fila di persone disposte a prendere il tuo posto. Del milione e duecentomila posti cancellati nel primo anno di pandemia se ne sono recuperati cinquecentomila nel primo semestre del 2021, ma per la quasi totalità si tratta di lavori variamente precari, a termine e in somministrazione cioè in affitto. E parlano con altrettanta chiarezza i numeri dei morti sul lavoro che continuano a crescere paurosamente (più di mille nei primi 8 mesi dell’anno a cui si aggiungono quasi 200 tra medici e infermieri vittime del covid).

 

L’inadeguatezza del sindacato

Questo è il contesto, reso più aspro dalla debacle del sistema dei partiti che hanno commissariato a un banchiere un’Italia già cloroformizzata dal coronavirus. I sindacati sono usciti indeboliti dalla pandemia, dopo più di un anno di riunioni e assemblee da remoto: il distanziamento è un ostacolo al rapporto tra organizzazioni sindacali e lavoratori, cioè alla pratica dei valori fondanti dell’azione collettiva e della stessa democrazia. Sic stantibus rebus, non basta dire che il sindacato è fondamentale, che è uno dei pochi strumenti di autodifesa dei lavoratori. Bisogna chiedersi se il sindacato dato è all’altezza della sfida che ha di fronte. Detto che più che di sindacato bisogna parlare di sindacati, è difficile negare l’inadeguatezza delle organizzazioni dei lavoratori. Per tutte le ragioni oggettive sin qui enunciate o solo accennate (per prima la mancanza di una dimensione internazionale), ma anche per cause soggettive. Nel tempo i sindacati sono diventati una costola dello stato e, nei casi peggiori, dei governi. L’autonomia sindacale si è indebolita ed è cresciuta la burocratizzazione, quasi un’abitudine a vivere di rendita, trasformandosi da organizzazioni di lotta in strutture di servizio, caf e via dicendo. Era proprio obbligatorio tenere chiuse per un anno e mezzo le Camere del lavoro? Anche dentro la Cgil – taccio su Cisl e Uil, ma anche sul cosiddetto sindacato europeo, la Ces, per evitare querele – il corpaccione dei funzionari vede ogni cambiamento come un attentato allo status – e allo stipendio – acquisito. Anche così si spiegano le difficoltà incontrate da Maurizio Landini nel suo tentativo di rigenerazione o rifondazione che dir si voglia dell’organizzazione, riportandola in strada (il sindacato di strada è un buon esempio laddove viene sperimentato) e dentro i luoghi di lavoro. Ha sostanzialmente retto, invece, la struttura dei delegati, le Rsu che hanno, spesso in solitudine, tenuto vivo e costante il rapporto con i lavoratori.

La resistenza e il cambiamento

Che il sindacato serva lo dimostra l’esempio della Gkn: la Fiom ha lasciato liberi i suoi quadri di costituire un collettivo che insieme alle Rsu sta gestendo una difficile vertenza e ha intentato causa all’azienda per antisindacalità, vincendola. Certo, per vizi di forma, il modo (del licenziamento via mail) ancor m’offende. Ha consentito ai lavoratori di tirare una boccata d’ossigeno ma nella sostanza il problema resta immutato per l’acquiescenza della politica alle imprese e alla pratica delle multinazionali di chiudere stabilimenti per delocalizzare la produzione là dove di diritti ce ne sono ancora meno. Almeno, la Fiom si conferma un sindacato di resistenza, ne fa fede l’esperienza straordinaria degli operai napoletani della Whirlpool; non che non abbia un progetto sociale in testa, ma questo si impantana nelle stanze della politica e fatica ad avviare un percorso unitario con le altre categorie della sua stessa confederazione. Il nobile tentativo di costruire una coalizione con movimenti e forze sociali avviato qualche anno fa dall’unico sindacato che già a inizio secolo aveva scelto di stare con il movimento cosiddetto no-global, si è presto arenato, un po’ per la debolezza e la frammentazione degli interlocutori, un po’ per la diffidenza della Cgil e un po’ perché non basta mettere insieme le teste pensanti, i leader, per trascinare con sé tutto il resto. Le alleanze non possono che costruirsi dal basso. Come ai tempi della Flm e dei delegati di gruppo omogeneo, verrebbe da dire.

E forse proprio dal basso bisognerà ripartire per costruire un sindacato adeguato alle nuove sfide.

Loris Campetti è nato a Macerata nel 1948. Laureato in chimica, già nella seconda metà degli anni Settanta è passato al giornalismo. Al “manifesto” fino al 2012 ha ricoperto tutti i ruoli e si è occupato prevalentemente di lavoro e lotte operaie. Ha scritto molti libri di inchiesta e nel 2020 è stato pubblicato da Manni il suo primo romanzo, “L’arsenale di Svolte di Fiungo”.

Qatar, 12 mesi ai Mondiali di calcio. Ultimo anno senza progressi sui diritti dei lavoratori migranti

(Foto di Thameur Belghith, Wikimedia Commons)

 

Fonte : Pressenza.com 

 

Manca un anno all’inizio dei Mondiali di calcio: il tempo perché il Qatar mantenga gli impegni di abolire il sistema denominato “kafala” e di aumentare la protezione dei diritti dei lavoratori migranti sta scadendo.

Lo ha dichiarato oggi Amnesty International nel suo “Reality check 2021”, una nuova analisi della condizione del sistema del lavoro in Qatar. Dalla ricerca emerge come nell’ultimo anno non vi siano stati progressi e alcune vecchie prassi siano tornate in auge, con la riemersione di alcuni dei peggiori aspetti del sistema del “kafala” e la neutralizzazione delle recenti riforme.

Nonostante le riforme legislative adottate dal 2017, la realtà quotidiana per molti lavoratori migranti resta drammatica. Mentre, con l’approssimarsi dell’inizio dei Mondiali la situazione dei diritti umani in Qatar attira sempre maggiore attenzione, Amnesty International chiede alle autorità locali di prendere misure urgenti per ridare vita alle riforme prima che sia troppo tardi.

“Le lancette dell’orologio continuano ad andare avanti, ma non è ancora troppo tardi per tradurre le promesse in azioni concrete. Le autorità del Qatar devono attuare interamente il loro programma di riforme. Se non lo faranno, ogni progresso fatto finora sarà stato vano”, ha dichiarato Mark Dummett, direttore del programma Temi globali di Amnesty International. “L’atteggiamento compiacente delle autorità del Qatar sta lasciando migliaia di lavoratori migranti alla mercé dello sfruttamento da parte dei loro datori di lavoro: molti non sono in grado di cambiare impiego e rischiano di essere privati del salario. Hanno scarse possibilità di ottenere rimedi, risarcimenti e giustizia. E dopo i Mondiali, il futuro di chi resterà in Qatar sarà ancora più incerto”, ha aggiunto Dummett.

Nell’agosto 2020, il Qatar aveva adottato due leggi per porre termine ai limiti posti ai lavoratori migranti di lasciare il paese e cambiare impiego senza il permesso del datore di lavoro. La loro completa applicazione avrebbe colpito al cuore il sistema del “kafala”, che invece continua a vincolare i lavoratori ai datori di lavoro.

Pur non prevedendo ancora il diritto dei lavoratori di aderire a sindacati, il processo di riforme era iniziato già nel 2017, attraverso limitazioni all’orario di servizio per il lavoro domestico, la costituzione di tribunali del lavoro per favorire l’accesso alla giustizia, l’istituzione di un fondo per risarcire i salari non pagati, l’introduzione del salario minimo e la ratifica di due importanti trattati internazionali. La mancata attuazione delle riforme ha fatto sì che lo sfruttamento continuasse.

Sebbene il Qatar sulla carta abbia cancellato l’obbligo, per la maggior parte dei lavoratori migranti, di chiedere e ottenere il permesso di uscire dal paese e di cambiare lavoro attraverso un certificato di nulla-osta da parte dei datori di lavoro, questi ultimi riescono ancora a bloccare i trasferimenti dei lavoratori e a tenerli sotto controllo, chiedendo ad esempio somme esorbitanti – in alcuni casi, cinque volte superiori al salario mensile – per concedere il nulla-osta, che dunque di fatto, pur essendo stato abolito per legge, rimane in vigore.

Le organizzazioni che difendono i diritti dei lavoratori migranti e le ambasciate degli Stati d’origine in Qatar hanno rilevato che se non si è in possesso di qualche documento scritto da parte del datore di lavoro, le possibilità di cambiare lavoro diminuiscono. Questa situazione ha dato luogo a una sorta di commercio dei nulla-osta assai lucrativo per i datori di lavoro privi di scrupoli.

Tra le altre pratiche illegali che rendono difficile cambiare impiego si segnalano il trattenimento dei salari e dei bonus, l’annullamento del permesso di soggiorno e le denunce di “latitanza”. Nella sua analisi, Amnesty International ha anche rilevato che i ritardati o mancati pagamenti dei salari e dei bonus contrattuali rimangono una delle principali forme di sfruttamento subite dai lavoratori migranti in Qatar. A questa si aggiungono le difficoltà di accedere alla giustizia e il divieto di organizzarsi in sindacato per difendere i propri diritti.

Nell’agosto 2021 Amnesty International aveva denunciato la mancanza di indagini da parte delle autorità del Qatar sulle decine di migliaia di morti di lavoratori migranti, nonostante fossero emerse prove della relazione tra questi decessi e la mancanza di sicurezza sul lavoro. Nonostante l’introduzione di alcune misure di protezione, restano ancora grandi situazioni di rischio: ad esempio, non è previsto un periodo di riposo obbligatorio proporzionale alle condizioni climatiche o al tipo di lavoro.

“Il Qatar è uno degli stati più ricchi al mondo, ma la sua economia dipende da due milioni di lavoratori migranti. Ognuno di loro ha il diritto di essere trattato equamente e di ottenere giustizia e risarcimenti”, ha commentato Dummett. “Il Qatar potrebbe farci assistere a un torneo che tutti potremmo ricordare, se inviasse segnali chiari contro lo sfruttamento, se punisse i datori di lavoro che violano le leggi e se proteggesse i diritti dei lavoratori. Ma così ancora non è”, ha concluso Dummett.

Amnesty International si è rivolta anche alla Fifa, organizzatrice dei Mondiali di calcio del 2022, affinché adempia alle sue responsabilità di identificare, prevenire, mitigare e porre rimedio a rischi per i diritti umani collegati all’evento sportivo. Tra questi rischi vi sono quelli per i lavoratori dei settori dell’ospitalità e dei trasporti, in forte espansione in vista dell’inizio dei Mondiali. La Fifa deve chiedere in forma privata e pubblica al governo del Qatar di attuare il suo programma di riforme nel sistema del lavoro prima del calcio d’inizio dei Mondiali.

 

L’UNIVERSITÀ: UNA COMUNITÀ APERTA, CRITICA, ANTIFASCISTA

 

 

di Tomaso Montanari

Testo integrale della prolusione del Magnifico Rettore dell’Università per Stranieri di Pisa Prof. Tomaso Montanari [Fonte: Volerelaluna.it)

Autorità, colleghe e colleghi docenti e non docenti, studentesse e studenti, amiche e amici che oggi siete con noi, e caro Magnifico Rettore, caro professor Cataldi – caro Pietro. La prima cosa che voglio dire prima di varcare la soglia che oggi mi porta a continuare il tuo lavoro; la prima cosa che voglio dire, parlando a nome della nostra collettività, è: grazie, Pietro! Grazie per la misura, la grazia, l’equilibrio, la dedizione, la determinazione, e vorrei dire l’amore con cui ti sei preso cura di questa comunità, nella buona e nella cattiva sorte. Grazie per la prosperità, la crescita, l’autorevolezza che hai saputo garantire alla Stranieri. Grazie per la guida sicura nel buio della pandemia. Grazie soprattutto per una cosa, che mi colpì fin dal primo momento che ci conoscemmo: grazie perché non ti sei mai vergognato della tua umanità. Ricordo che pensai che se un rettore di una università italiana era ancora visibilmente un essere umano, allora forse c’era qualche speranza. Da allora ho imparato a conoscerti, e negli ultimi mesi sei stato per me non solo un mentore incredibilmente paziente e uno straordinario didatta, ma anche un amico vero. E, lo sai, da domani ti troverai ad avere ancora più pazienza. E questo grazie, pubblico e solenne, è anche per tutto quello che ancora ti chiederò. Hai chiuso il tuo discorso ricordandoci che «il nostro lavoro è tenere insieme lo spazio definito di questa città tanto identitaria e le quinte sconfinate del mondo, il nostro lavoro – hai detto – è la fatica e la felicità dell’attraversamento». Il nostro lavoro. Fermiamoci su queste due cose: noi, la nostra comunità accademica; e il lavoro che facciamo. Il mio impegno per i prossimi sei anni è che continuiamo ad essere, e diventiamo ancor più, un noi. «Salvarsi da soli è avarizia, salvarsi insieme è politica», diceva don Lorenzo Milani (e lo ripeterà tra poco il ministro Roberto Speranza, che ringrazio per aver voluto essere, virtualmente, con noi): e la nostra politica è quella di pensare non come una somma di egoismi, ma come una comunità. Ho provato a spiegare, nel programma di mandato, cosa questo vuol dire, in concreto e a partire dal ruolo del rettore. Primo. Un governo plurale e paritario, di prorettrici e prorettori, delegate e delegati. Perché l’unico modo di far sì che il potere diventi servizio, non solo nella retorica, è suddividerlo, assumerlo insieme, renderlo largo, trasparente, responsabile. Secondo. Una comunità di eguali fondata sulle diversità. Il che vuol dire: comportarsi ogni volta che sia possibile, e tendenzialmente sempre, come se esistesse un ruolo unico della docenza (e lottare perché esista presto), e abolire ogni odioso segno di gerarchia tra docenti, non docenti e studenti. Siamo persone: rimaniamo persone! E vuol dire anche abbandonare, progressivamente e sostenibilmente, ogni forma di precarietà, cioè di sfruttamento. Tra i docenti, tra i non docenti, tra le persone che assicurano ogni giorno la pulizia e l’accessibilità degli edifici in cui si svolge la nostra vita. E riconoscere, valorizzare, celebrare (in parole e opere) le diversità: quelle dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, quelle delle lingue e delle culture, quelle delle età e dei talenti. Perché «siamo differenti, inteso “differenza” nel senso di diversità delle identità personali» e perché «siamo disuguali, inteso “disuguaglianza” nel senso di diversità nelle condizioni di vita materiali». E l’eguaglianza – questo il punto centrale – si deve realizzare «a tutela delle differenze e in opposizione alle disuguaglianze». Siamo una comunità dalla parte dei più deboli. Delle donne, di chi è o si sente diverso, di chi è povero culturalmente e materialmente, di chi è marginale e periferico. Siamo una comunità antifascista. Ha un prezzo questo? Sì, lo ha. Nelle scorse settimane, per aver espresso un punto di vista culturale, per aver ammonito sulle conseguenze della manipolazione politica della storia, per aver denunciato la strumentalizzazione politica delle vittime delle Foibe, ho dovuto subire un accanito linciaggio mediatico. E voi con me: e ve ne domando scusa. Penso, tuttavia, che ne valga la pena. Nel programma di mandato mi sono impegnato a dedicare dodici aule ai soli dodici professori universitari che non giurarono fedeltà al fascismo, nel 1931: ho capito a mie spese quanto quell’idea fosse attuale. Se guardiamo a quella generazione, la resistenza che ci è richiesta, è ben poca cosa: non farla – per convenienza, viltà, malinteso amore di pace – sarebbe una vergogna imperdonabile. Del resto, da storico dell’arte credo profondamente nella forza dei luoghi, nelle storie e nei destini che nei nomi dei luoghi sono iscritti. Ebbene, la vita della nostra piccola università si muove tra due poli principali: “Rosselli” (questo plesso) e “Amendola” (il rettorato). Il nostro “noi” è piantato nel cuore della toponomastica antifascista: quelle vite, quegli ideali, quelle voci ci accolgono e vegliano su di noi. Carlo Rosselli, a cui è intitolato il piazzale che tutti abbiamo appena attraversato arrivando qua, è una figura altissima di professore, di intellettuale, di antifascista – di martire dell’antifascismo, ucciso insieme a suo fratello Nello in Francia nel 1937, per ordine di Mussolini. Tra le tante pagine che, negli articoli di Carlo Rosselli, sembrano scritte per noi ce n’è una (del 1934) che spiega a fondo cosa significhi essere antifascisti oggi (nel 2021), e cosa significhi esserlo da umanisti, e in una università per Stranieri: «Siamo antifascisti non tanto e non solo perché siamo contro quel complesso di fenomeni che chiamiamo fascismo; ma perché siamo per qualche cosa che il fascismo nega ed offende, e violentemente impedisce di conseguire. Siamo antifascisti perché in questa epoca di feroce oppressione di classe e di oscuramento dei valori umani, ci ostiniamo a volere una società libera e giusta, una società umana che distrugga le divisioni di classe e di razza e metta la ricchezza, accentrata nelle mani di pochi, al servizio di tutti. Siamo antifascisti perché nell’uomo riconosciamo il valore supremo, la ragione e la misura di tutte le cose, e non tolleriamo che lo si umilii a strumento di Stati, di Chiese, di Sette, fosse pure allo scopo di farlo un giorno più ricco e felice. Siamo antifascisti perché la nostra patria non si misura a frontiere e cannoni, ma coincide col nostro mondo morale e con la patria di tutti gli uomini liberi». La nostra patria è il mondo, e la nostra piccola comunità si autodetermina declinando questi valori altissimi nella gioia e nella fatica del lavoro di ogni giorno. Nel Senato accademico (che si riunirà, nella sua nuova composizione, già il prossimo 19), nel Consiglio di Amministrazione, nel Consiglio di Dipartimento decideremo insieme come attuare tutte queste cose, esposte in dettaglio nel Programma di mandato e nel discorso con cui, l’8 giugno scorso, ho chiesto la vostra fiducia. Ma, in questo giorno fausto, abbiamo qua molti ospiti e amici, e dunque nei prossimi minuti non vorrei parlare ancora di noi, bensì del nostro lavoro, continuando a riflettere sulle ultime parole del discorso di Pietro. Qual è, dunque, questo nostro lavoro? È lo stesso della scuola: perché l’università, non 3 mi stancherò di ripeterlo, è parte della scuola – è scuola. E quel lavoro è formare cittadini, e prima ancora persone: persone umane. Tutta l’università esiste per formare umani, anche Legge o Ingegneria non sfornano solo avvocati o ingegneri, ma formano o non formano esseri umani. Noi, poi, come umanisti siamo capaci solo di fare quello: se non lo facciamo più, siamo come il sale quando perde il suo sapore. Ma non possiamo farlo, questo lavoro, se non siamo umani noi stessi. Un singolare paradosso – confessiamocelo. Se passiamo la vita a studiare humanities, e non riusciamo a diventare un poco umani, a cosa davvero abbiamo dedicato la vita? Per questo non si può separare ricerca e didattica, studio e insegnamento, biblioteca e aula: perché se ci separiamo dalla sorgente, siamo fontane aride. E per questo il governo dell’università, la sua organizzazione, non può mai diventare impersonale, spersonalizzata, astratta, burocratica. Non è un’azienda, non si ciba di numeri. Siamo una comunità di persone, in cui le persone vengono prima di ogni altra cosa. Siamo come l’orco della favola a cui Marc Bloch paragona lo storico: «Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda». Solo che non vogliamo mangiarla, la nostra preda: la vogliamo far vivere più intensamente. Più umanamente. La prima cosa che dunque abita le nostre aule è il dubbio, il pensiero critico, la contestazione di ogni dogma, di ogni autorità – a partire dalla nostra. A partire da quella del rettore. La nostra deve essere un’università ribollente di letture tendenziose. È il titolo delle «parole dette [da Franco Antonicelli] per l’inaugurazione della Biblioteca dei portuali di Livorno», il 15 ottobre del 1967. Già, perché gli scaricatori di porto avevano voluto una loro biblioteca: strumento di riscatto e di liberazione. E Antonicelli, questo intellettuale singolarissimo e libero, quel giorno memorabile consigliò loro ciò che oggi vorrei consigliare alle studentesse e agli studenti della Stranieri: «Cercate sempre i libri che vi tormentano, cioè che vi conducono avanti, i libri che vi gettano lo scrupolo di coscienza: questi sono i libri, i libri non di fede accertata, ma di fede incerta. Questi sono i libri che un cittadino, un portuale che diventa, che è, che vuol essere più cittadino deve leggere». Dobbiamo costantemente ricordare che la nostra ispirazione è questa fede incerta, piena di dubbi. Consapevole che abbiamo scelto questa vita e questa via, non perché pensiamo di sapere molto. Al contrario, l’abbiamo scelta perché sappiamo di non sapere. Ha detto la poetessa polacca Wislawa Szymborska, nel discorso di accettazione del Premio Nobel, nel 1996: Ispirazione non è un privilegio esclusivo dei poeti o degli artisti in genere. C’è, c’è stato e sempre ci sarà un gruppo di individui visitati dall’ispirazione. Sono tutti quelli che coscientemente si scelgono un lavoro e lo svolgono con passione e fantasia. Ci sono medici siffatti, ci sono pedagoghi siffatti, ci sono giardinieri siffatti e ancora un centinaio di altre professioni. Il loro lavoro può costituire un’incessante avventura, se solo sanno scorgere in esso sfide sempre nuove. Malgrado le difficoltà e le sconfitte, la loro curiosità non viene meno. Da ogni nuovo problema risolto scaturisce per loro un profluvio di nuovi interrogativi. L’ispirazione, qualunque cosa sia, nasce da un incessante “non so” … A questo punto possono sorgere dei dubbi in chi mi ascolta. Allora anche carnefici, dittatori, fanatici, demagoghi in lotta per il potere con l’aiuto di qualche slogan, purché gridato forte, amano il proprio lavoro e lo svolgono altresì con zelante inventiva. D’accordo, loro “sanno”. Sanno, e ciò che sanno gli basta una volta per tutte. Non provano curiosità per nient’altro, perché ciò potrebbe indebolire la forza dei loro argomenti. E ogni sapere da cui non scaturiscono nuove domande, diventa in breve morto, perde la temperatura che favorisce la vita. Nei casi più estremi, come ben ci insegna la storia antica e contemporanea, può addirittura essere un pericolo mortale per la società. Per questo apprezzo tanto due piccole paroline: “non so”. Piccole, ma alate. Parole che estendono la nostra vita in territori che si trovano in noi stessi e in territori in cui è sospesa la nostra minuta Terra. Se Isaak Newton non si fosse detto “non so”, le mele nel giardino sarebbero potute cadere davanti ai suoi occhi come grandine e lui, nel migliore dei casi, si sarebbe chinato a raccoglierle, mangiandole con gusto. Se la mia connazionale Maria Sklodowska Curie non si fosse detta “non so”, sarebbe sicuramente diventata insegnante di chimica per un convitto di signorine di buona famiglia, e avrebbe trascorso la vita svolgendo questa attività, peraltro onesta. Ma si ripeteva “non so” e proprio queste parole la condussero, e per due volte, a Stoccolma, dove vengono insignite del premio Nobel le persone di animo inquieto ed eternamente alla ricerca. È per proclamare questo «non so», è per questa fede incerta, vedete, che ho preferito non indossare la toga: e chiedo scusa se questo gesto può aver offeso qualcuno. Perché tra quei libri di fede incerta ne ho letti due (i Pensieri di Blaise Pascal e le Tre Ghinee di Virginia Woolf) che mettono in guardia dal rischio di trovare troppo certezze nelle vesti liturgiche dei poteri maschili. Il primo ha scritto che se «i magistrati possedessero la vera giustizia non saprebbero che farsene di quelle loro toghe rosse, dei loro ermellini, di cui s’ammantano come gatti villosi […] se i medici sapessero la vera arte per guarire, non avrebbero palandrane e pantofole, e berrette a quattro pizzi». E Virginia suggeriva che le coloratissime toghe delle università inglesi servissero a suscitare «competitività e invidia». Un recente, luminoso discorso delle allieve e degli allievi della Scuola Normale Superiore di Pisa, mia amata alma mater, ci ha di recente ricordato quanto questi sentimenti siano attivi, e distruttivi, nell’università prigioniera del mito dell’eccellenza. Dunque, non rifugiamoci nelle insegne che proclamano al mondo che siamo quelli che sanno. Preferiamo l’umiltà – cioè l’amorevole, francescana vicinanza alla terra – di chi sceglie come sua insegna il «non so». Agli abiti, ai gesti, ai riti, ai pensieri che disegnano l’università come un clero separato dal mondo, preferiamo tutto ciò che ci restituisce al mondo, e al nostro lavoro per cambiarlo. Per questo accogliamo con gioia e gratitudine le bandiere delle diciassette contrade, il gonfalone della Regione Toscana e quello della Provincia: perché l’università si sente parte di una comunità civile, della sua storia, 4 del suo desiderio di futuro. Siamo profondamente legati all’amatissima città di Siena, e alle sue istituzioni: qua oggi tra noi rappresentate dalla Balzana, il gonfalone civico che salutiamo con deferenza e con affetto. E desidero inviare il saluto più rispettoso e amichevole al Sindaco di Siena, che ha scelto di non essere presente tra noi. Abitare il mondo significa – ce lo insegnano le nostre studentesse e i nostri studenti – aver voglia di cambiarlo dalle fondamenta. E la lezione inaugurale, che tra poco ascolteremo, serve a non lasciare dubbi sulla direzione in cui vogliamo cambiarlo, il mondo. Pietro ed io abbiamo chiesto a Cecilia Strada di aprire questo anno accademico, perché ci pare che Resq, «la nave degli italiani» che solca il Mediterraneo per salvare «esseri umani, leggi e diritti», della quale Cecilia è portavoce, sia tra le luci accese nell’eterna notte della Repubblica. Italiani che accolgono stranieri: e che per accoglierli li strappano al mare, perché non siano riconsegnati alle carceri libiche – a torture pagate con i soldi delle nostre tasse. Resq salva la nostra stessa identità: «Profugo … povero, ignoto, io vago fra i luoghi deserti di Libia / dall’Europa … respinto»1 : sono parole del primo canto dell’Eneide, a parlare è Enea. «Profugo … povero, ignoto, io vago fra i luoghi deserti di Libia / dall’Europa … respinto»: se questo è il mito fondativo di Roma, come potremmo essere più fedeli alla traditio, al passaggio di mano della cultura, se non con la presenza, la testimonianza, la parola di Cecilia Strada? Siamo stranieri in Italia: da sempre meticci, fusi, diversi, sangue misto, bastardi. Questa la nostra storia: questo il nostro progetto per il futuro. Questo, in una università in cui si impara a diventare stranieri, è davvero il nostro lavoro di ogni giorno. La nave Resq dice di sé, lo abbiamo sentito, che salva non solo i corpi, ma anche le leggi. Già, le leggi. Oggi vorrei ricordare che costruendo le basi culturali per aprirci agli stranieri, la nostra università è dalla parte della legge, dell’ordine. È bene ricordarlo, in un’Italia in cui legge e ordine sembrano essere diventate bandiere di chi i migranti li sequestra sulle navi, o li vorrebbe affondare sui barconi. Nadia Fusini – che oggi ci onora della sua presenza – mi ha regalato l’ancora inedita traduzione di un brano del Thomas More, questo dramma scritto nell’Inghilterra del primo Seicento da un collettivo di autori, uno dei quali fu nientemeno che William Shakespeare. E proprio in uno dei brani così evidentemente suoi, leggiamo parole che sembrano scritte per oggi. Tomaso Moro, cancelliere del regno, è chiamato a sedare il tumulto del popolo che vorrebbe cacciare gli stranieri che rubano il lavoro agli inglesi. Così si rivolge loro: Diciamo che sono espulsi, e diciamo che questa vostra protesta.

Giunga a ledere la maestosa dignità dell’Inghilterra. Immaginate di vedere gli stranieri disgraziati, Coi bambini sulle spalle, i loro miseri bagagli, Arrancare verso i porti e le coste per imbarcarsi, E voi assisi in trono, padroni ora dei vostri desideri, L’autorità soffocata dalle vostre risse, Voi, agghindati delle vostre opinioni, Che avrete ottenuto? Ve lo dico io: avrete insegnato A far prevalere l’insolenza e il pugno forte, E come si annienta l’ordine. Ma secondo questo schema Nessuno di voi arriverà alla vecchiaia: Ché altri furfanti, in balìa delle loro fantasie, Con quello stesso pugno, con le stesse ragioni, e lo stesso diritto, Come squali vi attaccheranno, e gli uomini, pesci famelici, Si ciberanno gli uni degli altri. […] Volete calpestare gli stranieri, Ucciderli, sgozzarli, impadronirvi delle loro case, Mettere il guinzaglio alla maestà della legge Per aizzarla poi come un cagnaccio. Ahimè! Diciamo che il Re, Clemente col traditore pentito, rispondesse In modo non commisurato alla vostra grande colpa, Mettendovi al bando: dove ve ne andrete? Quale paese, vista la natura del vostro errore, Vi darà asilo? Che andiate in Francia o Nelle Fiandre, in qualsiasi provincia germanica, In Spagna o in Portogallo, In qualunque luogo che non sia amico dell’Inghilterra: Ebbene, lì sareste per forza stranieri. Vi piacerebbe forse Trovare una nazione di temperamento così barbaro Che scatenandosi con violenza inaudita, Vi negasse rifugio sulla terra, anzi Affilasse detestabili coltelli per le vostre gole, Scacciandovi come cani, come se non fosse Dio 1 «Ipse ignotus, egens, Libyae deserta peragro, / Europa atque Asia pulsus (VIRGILIO, Eneide, I, 385-86). 5 Che v’ha fatto e creato, come se gli elementi naturali Non servissero anche ai vostri bisogni Ma dovessero essere riservati a loro? Cosa pensereste Di un simile trattamento? Questo è il caso degli stranieri, Questa la vostra montagnosa disumanità. Chi caccia lo straniero, chi lo perseguita, chi lo insulta distrugge la legge e l’unico ordine possibile, quello umano. Le parole di Shakespeare sono ancora più vere nell’Italia di oggi, retta da una legge fondamentale, la Costituzione del 1948, che fa del nostro comune essere persone umane il fondamento stesso di ogni legge. E, come vedete, dallo studio della storia e delle lingue, dalla filologia, dalla traduzione estraiamo continuamente, come da un tesoro, cose nuove e cose antiche. Ecco, dunque, il nostro lavoro: tenere in tensione queste cose. L’antico e il nuovo, il passato e il presente: quella tradizione umanistica che ancora può renderci umani. «La nostra patria – ci ha ricordato Carlo Rosselli – non si misura a frontiere e cannoni, ma coincide col nostro mondo morale e con la patria di tutti gli uomini liberi». È un forte, fortissimo invito alla presenza. Ad essere presenti, contro ogni forma di indifferentismo. Oggi siamo felici anche perché finalmente possiamo essere qua in presenza – pur conservando, come è doveroso, distanziamenti, mascherine, porte aperte e prudenza. Il nostro impegno è che questa presenza fisica sia segno e annuncio di una presenza morale, culturale, umana dell’Università per Stranieri: nella città di Siena, in Italia e in un mondo che, anche per noi, coincide con la patria di tutte le donne e di tutti gli uomini liberi. Buon lavoro a tutte, e a tutti! .  Buona festa di tutti i Santi e di tutte le Sante del cielo e della terra, sperando di non smarrire mai la dimensione senza confini della «santità» che non è collo storto e mani giunte in un misticismo di maniera, ma vivere con la consapevolezza di essere non «più stranieri né ospiti, ma concittadini [syn-polîtai] dei santi e familiari di Dio» (Ef 2,19). Essi proprio perché hanno lo sguardo volto al cielo, hanno la loro «pòlis» nel mondo intero, come insegna lo scritto anonimo del I-II sec. a noi giunto come «Lettera a Diogneto»: «I cristiani … abitano nella propria patria, ma come pellegrini; partecipano alla vita pubblica come cittadini, ma da tutto sono staccati come stranieri … Obbediscono alle leggi vigenti, ma con la loro vita superano le leggi … Così eccelso è il posto loro assegnato da Dio, e non è lecito disertarlo!»2 Essere santi e sante è molto facile: basta imitare il Signore Gesù. Il resto è superfluo.

Mario Agostinelli: La necessaria transizione energetica e come realizzarla. Incontro con Mimmo Perrotta e Marino Ruzzenenti

Fonte: Inchiestaonline 

 

Energia e vita

Per cominciare, è necessario spiegare perché di questi tempi è così importante riflettere sull’energia. L’energia è una proprietà che consente a un corpo o a un sistema che la possiede di fare lavoro o di dar luogo a trasformazioni energetiche a spese delle sue caratteristiche di partenza. Quando si dispone di maggiori potenze, il lavoro o la trasformazione avvengono a maggiori rapidità. È questa una delle ragioni per cui si è concentrata sulla potenza l’applicazione prevalente e sempre più devastante dell’energia alla trasformazione della natura inerte e soltanto da poco più di un secolo la scienza tratta con sempre maggior preoccupazione del rapporto tra energia e vita, tenendo conto che i cicli naturali si riproducono raggiungendo condizioni di stabilità ed equilibrio con la minore dispersione di energia. Più ancora che di un oggetto di difficile definizione, si tratta di una lente formidabile attraverso cui si può leggere il mondo – dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande – e capire come tutto sia interconnesso in forma di scambi, di relazioni, che ordinano il vivente mentre “disordinano” l’ambiente in cui sopravvive.

Dalla rivoluzione scientifica del 1600 avevamo tratto la capacità di mettere in relazione quantitativa le grandezze fisiche presenti nel nostro universo, stabilendo leggi matematiche che ritenevamo immutabili e che trasformavano la materia a velocità sempre più elevata, nella presunzione che le risorse cui si applicava il lavoro e l’energia che ottenevamo con la combustione del carbone fossero illimitate. Si profilava e attuava un mondo artificiale sempre più complesso, che circondava le città, le fabbriche, delimitava le campagne e inquinava i fiumi, concentrando sulla produzione e il commercio di manufatti la crescita e la ricchezza delle economie e delle nazioni. È il mondo che Engels scopre nella sua valle di Wuppertal, ormai costipata di manifatture avvolte da nuvole pestifere. Ma è proprio dalla seconda metà dell’800 che nascono i primi studi sistematici e i nuovi modelli per interpretare la vita come fenomeno e valore distinto, irripetibile e fragile, che andava trattato come un insieme e non semplicemente come un “ente” scomponibile o smontabile in parti complementari, giacché il tutto era superiore alla pura somma dei costituenti. L’entrata in campo della vita e delle sue relazioni indissolubili con la natura finì col togliere alle leggi fisiche newtoniane, deterministe, indipendenti dal tempo e dal contesto in cui si applicavano, il primato nel disegnare il nostro futuro e addirittura di stabilire la gerarchia che presiedeva alla politica, consegnando a un approccio interdisciplinare e non più solo specialistico la preoccupazione per la cura, per il benessere, per una giusta sopravvivenza dell’intera biosfera.

Credo che la lettura più straordinaria che sia stata data negli ultimi anni sul rapporto tra energia e vivente sia quella articolata con suggestioni penetranti nella enciclica Laudato Si’. Con essa Francesco ha prodotto una cesura con la concezione meccanicistica e determinista dell’energia ed ha contribuito a spostare il centro della discussione dall’antropocentrismo e dalla geopolitica alla cura della Terra come complesso coerentemente inscindibile. Per la prima volta un religioso – non soltanto cattolico, ma, probabilmente, unico nelle religioni – fa marciare insieme la scienza più avanzata e la religione e non le mette in rapporto gerarchico e nemmeno dialettico tra di loro. Si tratta di una lettura della realtà che ci circonda, che io non mi sarei aspettato, soprattutto da un’esegesi religiosa, anche perché interiorizza un’idea di un tempo che va immancabilmente e colpevolmente a finire, in cui il disordine provocato dall’ultima specie comparsa sul Pianeta può diventare talmente insopprimibile da mettere in discussione la riproduzione della vita. Molta ecologia già percorreva una strada parallela, ma la diffusione del negazionismo climatico non aveva ancora incontrato un pensiero che – come afferma Peter Kammerer – “ha preso le ali”.

Un altro aspetto da prendere in considerazione nella relazione tra energia e vita è quello della giustizia sociale. Sembrerebbero nozioni assai distanti, ma basta per collegarli dare una definizione all’ordine e al disordine che si crea intorno alla vita: “entropia”. Essa è la misura del grado di ordine e di informazione che si può trarre da un corpo; in natura, fatta di tanti corpi isolati nel loroambiente, l’entropia di [vivente + ambiente] tende irreversibilmente a crescere. Poiché gli esseri viventi sono dotati di un “progetto interno” che mantiene il loro ordine il più elevato possibile, prelevano energia dall’ambiente, creando in tal modo una quantità di scarti, sprechi, rifiuti che fanno crescere il degrado e il disordine complessivo. “Ogni vivente – dice Bertand Russell – è a suo modo un imperialista che cerca di appropriarsi dell’ambiente circostante”. A meno che prevalga una cooperazione, che nel mondo animale e vegetale è assai presente e che la specie umana affronta o rifiuta dandosi regole politiche e sociali. Consumare troppa energia o troppi alimenti o troppi oggetti, e lasciarne privi altri esseri, corrisponde a ridurre potenzialità di vita in base a scelte che prevedono ingiustizia sociale, come accade nel sistema capitalista, che, oltrepassando i limiti naturali, è all’origine anche dell’ingiustizia climatica.

Da solo poco più di cinquanta anni abbiamo consapevolezza di un rapporto tra energia e vita così inquietante quando se ne infrangono i limiti, per due ragioni importanti, che purtroppo non vengono ancora insegnate nelle scuole (non le hanno insegnate neanche a me, che sono un chimico-fisico): la prima riguarda le eccessive potenze (velocità trasformative) con cui si è messa al lavoro da secoli l’energia fossile; la seconda corrisponde alla sottovalutazione dell’innalzamento della temperatura della Terra, che è indice di una crescita della sua energia interna oltre l’equilibrio.

La prima consapevolezza emerge solo negli anni ’60: prima di allora, si pensava all’energia come un magazzino infinito da cui potessimo trarre infinite risorse, impiegate nella trasformazione della natura in mondo artificiale. Solo dopo la metà del Novecento i primi attenti osservatori si accorgono che la natura si consuma e che alcune materie non sono recuperabili in cicli utili, ma vanno scartate e non c’è energia conveniente per rinnovarle. Nel 1972, il Club di Roma individuò nell’uso esasperato di materie prime la possibile fine della presenza umana sulla terra. E quindi spinse per un atteggiamento sobrio rispetto in particolare ai consumi di materia. L’energia fossile con i suoi effetti climalteranti era presa in considerazione solo per la sua esauribilità.

La seconda consapevolezza si è fatta strada quando si è estesa la convinzione che la finestra energetica in cui avvengono processi di vita “salubri” è entro i limiti di due-tre gradi al massimo. E la climatologia cominciò ad avvertire, con milioni di dati alla mano raccolti giorno dopo giorno e ad ogni latitudine e longitudine, che se la temperatura media dovesse aumentare oltre 2°C, le catastrofi sarebbero superiori alle disponibilità di prevenirle e l’estinzione della specie avrebbe un orizzonte temporale di poche generazioni. Non era possibile fino ai primi decenni del Novecento, con la relatività e la quantistica ormai affermate, individuare i meccanismi microscopici che spiegano gli scambi di energia tra raggi solari e Terra, per cui si comprende che l’esistenza della vita dipende da un fatto eccezionale: che questo pianeta è circondato da un insieme minuto e differenziato di particelle che vengono colpite dalla radiazione, che con un meccanismo quantistico ne spezza le molecole oppure, nel caso della CO2 o del metano, induce vibrazioni che trasmettono movimento alle altre molecole che stanno attorno e quindi producono calore. E si comprende, infine, che se questi meccanismi microscopici producono disordine irrecuperabile la vita stessa potrebbe estinguersi. Ad esempio, basta un eccesso di CO2 perché le piante non respirino come prima. Si è cominciato quindi a parlare di bilancio di flussi energetici in atmosfera, di assorbimenti negli oceani, di permeabilità dei suoli, di assorbimento delle foreste. Da questo punto di vista è stato decisivo l’osservatorio di Mauna Loa, alle Hawaii, che dalla fine degli anni ’50 misura costantemente la CO2 nell’atmosfera e la temperatura sulla terra.

Queste due consapevolezze sono molto recenti, storicamente datate e fortemente negate dagli interessi del mondo dell’impresa e delle grandi multinazionali, assecondate da gran parte dei governanti.

 

La transizione ineludibile

Oggi a livello globale tra le fonti di energia prevale ancora nettamente la quota di fossile: ancora molto carbone e, relativamente in crescita rispetto al carbone, petrolio in forma di benzina e diesel per la mobilità e gas per le forniture elettriche. Il futuro è però sicuramente un futuro di azzeramento delle quote fossili, anche se questa prospettiva sarà frutto di aspri conflitti e di resistenza alle pressioni lobbistiche delle multinazionali attivissime in tutte le sedi internazionali (come l’attività di Eni e Snam a Bruxelles e all’interno del governo italiano denunciate da Re:Common). Sono necessari una serie di accordi internazionali, dopo quello insufficiente di Parigi 2015, con il rispetto dei quali il mix energetico si deve drasticamente spostare dal carbonio per provenire esclusivamente da fonte solare in costante equilibrio con il pianeta terra. Questa è la indicazione “da scolpire sulla pietra” assieme ad una riduzione dei consumi energetici pro capite, allineata in ogni regione del globo.

Le fonti fossili sono il lavoro fatto per milioni di anni dal sole e conservato all’interno della crosta terrestre o dei mari in forma altamente condensata, quindi con densità energetica (potere calorifico) rilevante. I giacimenti fossili sono il frutto del sequestro sottoterra o nelle rocce o nei mari – e comunque non in atmosfera – di notevoli quantità di anidride carbonica che, senza processi di equilibrio tra aria, rocce, mari e vegetazione, avrebbero reso la vita impossibile. Man mano che questi stati di carbonio in forma di complessi, cioè carbone, gas, petrolio, sono stati sequestrati e sottratti all’atmosfera attraverso processi geologici, è diminuita la quantità di CO2 che sopravviveva in parti per milione nell’aria, fino a raggiungere un equilibrio attorno a 300 parti per milione, che ha consentito la transizione decisiva verso l’evoluzione, in quanto permetteva all’assorbimento di CO2 da parte delle piante l’emissione di ossigeno e, di conseguenza, l’alimentazione della vita attraverso la respirazione. La presenza di una concentrazione di CO2 sostanzialmente costante ha dato origine all’effetto serra, dovuto a una riflessione in atmosfera della radiazione infrarossa, che ha consentito che la temperatura media del pianeta raggiungesse 15°C, da -18°C in assenza di effetto serra. Ora, però, man mano che emettiamo CO2 in eccesso – siamo nel 2021 a oltre 415 parti per milione – rischiamo di far crescere a tal punto l’effetto serra da avere una temperatura media sul pianeta che non è più completamente compatibile con la riproduzione della vita, a cominciare dai tropici e dai poli.

Si capisce perché occorra tenere sotto terra due terzi di tutto il materiale denso di energia che proviene dal carbonio fossile, sotterrato geologicamente in una successione di miliardi di anni e che la combustione potrebbe invece liberare all’istante. Per questo è indispensabile lo spostamento verso fonti di energia come acqua, vento, sole e in misura meno rilevante geotermia, che non liberano anidride carbonica. L’attenzione così si sposta dal modello di consumo al modello di produzione: non più consumo rapido di energia – non più combustione! un evento che in natura esiste solo come incidente – ma equilibri naturali e ciclo solare secondo tempi biologici di smaltimento delle scorie.

Un secondo fattore che indica l’ineluttabilità dell’abbandono dei fossili sono i costi, che aumentano costantemente rispetto a quelli delle fonti rinnovabili, che oggi sono più convenienti anche considerate nell’intero ciclo di vita. Certo, dal punto di vista dei costi le fonti fossili hanno – ma potremmo dire avevano – un vantaggio rispetto alle rinnovabili: possono essere trasportate e bruciate anche per un intero anno, mentre le rinnovabili sono intermittenti: dipendono dall’esposizione al sole (quindi solo durante le ore del giorno) o al vento (che tira bene per tre quarti dell’anno nel Baltico, per metà dell’anno nel Mediterraneo…). Questo fino a cinque anni fa faceva pendere la bilancia dei costi verso i fossili. Oggi c’è una novità, che è vista come una soluzione decisiva anche in prospettiva: la possibilità che, attraverso l’idrolisi, l’energia elettrica prodotta in eccesso e non consumata (quando magari c’è vento troppo forte o c’è un sole troppo battente o magari di notte quando l’idroelettrico viene usato come pompaggio) venga invece trasformata in idrogeno, che può essere trasportato o di nuovo riconvertito in energia elettrica. Potremmo dire che una soluzione alla sostituzione definitiva dei fossili è già alla portata anche economica: rinnovabili, in particolare eolico, e accanto a esse un sistema di approvvigionamento che possa essere poi ridistribuito e utilizzato nei momenti in cui non c’è dispacciamento diretto di energia elettrica (idrogeno, pompaggi, batterie).

L’UE in questo Next Generation Plan ha puntato quasi tutto in una direzione di questo tipo.

 

Energia e democrazia

Dal punto di vista delle politiche energetiche, questo spostamento verso le fonti rinnovabili è il colpo più duro che potesse subire la geopolitica mondiale, almeno per come l’abbiamo ereditata dalle due guerre mondiali. Mentre le fonti fossili sono ad alta densità e concentrate anche localmente, le energie rinnovabili sono dappertutto: in un deserto c’è molto sole ma non c’è l’acqua, in un fondovalle c’è molto vento e c’è poco sole, in cima ad un ghiacciaio c’è sia sole che vento che acqua condensata. Insomma, le fonti rinnovabili sono largamente disponibili, sebbene in misure e proporzioni diverse, in quasi tutte le parti del pianeta. Questo è il colpo più duro che potessero subire le corporation minerarie e le multinazionali energetiche che avevano dislocato in spazi territoriali circoscritti le loro licenze e proprietà di derivazione sostanzialmente coloniale, visto che ormai il petrolio o il gas si andavano a cercare con strutture e impianti imponenti perfino tra i ghiacci o in fondo al mare, con costi crescenti e sistemi di trasporto smisurati.

A fronte del loro declino, oggi è in corso una duplice forma di guerra. La prima è di sapore antico, militare: per procurarsi il petrolio e il gas, gli eserciti sono in continua crescita e si contendono i territori con forme di occupazione ad alto dispendio di automazione e controllo a distanza. Si noti che il terzo produttore di CO2 al mondo, se lo considerassimo come uno stato, è il settore delle armi: droni, portaerei, cacciabombardieri, missili puntati, ordigni nucleari sempre allerta su mezzi mobili. Questa enorme mole di energia degradata ora dopo ora, sprecata e irrecuperabile contraddice profondamente la possibilità invece di convivere con un’energia rinnovabile, cioè rigenerabile nei tempi della vita umana o nel susseguirsi di generazioni in tempi storici. Le armi, evidentemente, contraddicono qualsiasi principio di rinnovabilità: in un tempo il più breve possibile scaricano il massimo di energia distruttiva. Non è un caso se questo papa è andato in Iraq, dove c’è una guerra per il petrolio, per l’acqua, per l’accaparramento degli elementi naturali.

Il secondo tipo di guerra lo stanno conducendo le grandi multinazionali dei fossili, che hanno capito che dal punto di vista economico in un tempo di venti o trent’anni bisogna passare a un mix dove le fonti naturali saranno nettamente superiori rispetto ai fossili e non hanno alcuna intenzione di lasciare il campo senza combattere. Già nel 2019 e nel 2020 nel mondo si sono fatti più investimenti in rinnovabili che in tutti gli altri settori, compreso il nucleare. L’economia sembra prendere un corso diverso: in tal caso le multinazionali provano a ritardarne quanto possibile la trasformazione anche a spese di salute e clima, per poter reindirizzare tutte le riserve finanziarie del mondo fossile, che sono tutt’ora enormi, verso sistemi ancora centralizzati, proprietari, a dimensione non territoriale.

Il sistema delle rinnovabili, al contrario, è territoriale, decentrato, democratico, cooperativo, senza sprechi. Con le fonti idriche, solari ed eoliche si potrebbe organizzare la produzione di energia in autentiche comunità, che siano in comunicazione tra loro attraverso sistemi informatici e usare il criterio della sufficienza – e ce n’è, perché abbiamo una quantità di sole infinitamente superiore a quella che serve per dare vita alla terra e a tutte le forme che la popolano – mentre il resto dell’energia prodotta potrebbe essere distribuita per eliminare la povertà energetica.

Purtroppo, nell’attuale fase di transizione le grandi corporation elettriche o fossili puntano a costruire ancora grandi impianti, di potenza non distribuita, stoccata eventualmente in grandi bacini di gas, idrogeno e acqua di loro proprietà.

A Civitavecchia è in corso uno scontro chiarissimo e con i connotati sopra riportati. La sostituzione della centrale a carbone dell’Enel – a dispetto della cittadinanza e delle sue rappresentanze territoriali – viene prevista con la combustione di gas metano e un tracollo dell’occupazione anche in prospettiva, con un silenzio tombale finora di Governo e Regione. A questa soluzione, deprecata e contrastata anche dai piani di raggiungimento della neutralità climatica approvati dal Parlamento europeo, i movimenti ambientalisti e la mobilitazione dei lavoratori e della popolazione stanno contrapponendo un modello territoriale concretamente perseguibile, con vantaggi tangibili sul piano della salute, dell’occupazione, della cura del territorio. Un sistema eolico galleggiante a distanza nel mare e una rete alimentata da fotovoltaico sull’area del carbonile attuale, assistiti da stoccaggio con idrogeno, alimenterebbero la città e il territorio circostante, estendendo anche alla mobilità e al calore i benefici di un sistema pulito. A Civitavecchia si è palesato uno straordinario esempo di protagonismo del mondo del lavoro, che si è schierato per la transizione energetica: i dipendenti della centrale, appoggiati dalla Uil, dalla Camera del Lavoro, dall’Usb e dai due maggiori comitati contro i fossili della città, hanno già indetto più ore di sciopero contro il progetto sbandierato con una dose di arroganza da altri tempi dalla direzione Enel attraverso la pagina locale del Messaggero.

 

La difficile transizione nei grandi stabilimenti produttivi e il rischio del nucleare

La svolta in corso adesso non ha i tempi che i governanti vorrebbero imporre. Una parte larga della società, compresi gli studenti, si rende conto che può vivere utilizzando di fatto le fonti solari, sebbene nei luoghi di lavoro questa consapevolezza non sia ancora giunta a piena maturazione.

Certo, non c’è ancora oggi una ricerca avanzata e una tecnologia non solo sperimentale per alimentare con sistemi a fonti rinnovabili alcuni processi produttivi complessi, ad alta temperatura e che richiedono energia molto condensata: acciaierie, cementifici, certi processi chimici. Il caso tipico riguarda le acciaierie di Taranto (io sono di quelli che pensano che l’Ilva andrebbe chiusa al più presto, perché non c’è soluzione per un sistema che non dispone di investimenti e progetti in ricerca di alternative, poiché non si sono prese per tempo le precauzioni per affrontare la transizione). I modelli alternativi per un impianto di quella portata e in condizioni di crisi così impellente non sono ancora all’altezza della sfida. L’idrogeno dovrebbe svolgere un ruolo chiave nella futura decarbonizzazione dell’industria siderurgica e di altre industrie pesanti. Può essere utilizzato come materia prima, combustibile o vettore energetico e stoccaggio e ha molte possibili applicazioni. Di recente la Germania ha adottato il documento “Steel Action Concept” per la decarbonizzazione dell’industria siderurgica tedesca attraverso un aumento dell’utilizzo di energie rinnovabili e l’introduzione dell’idrogeno verde nei processi industriali. Le acciaierie di Lienz in Austria funzionano totalmente a idrogeno, con quattro idrolizzatori; è uno stabilimento davvero notevole e fa un acciaio specialissimo, tuttavia produce solo un quarantesimo di quello dell’Ilva.

Penso che, se consumi e trasporti si convertono a energie rinnovabili e, cosa altrettanto importante, l’agricoltura viene convertita ad agricoltura di vicinanza, senza ricorso ai concimi chimici, allora anche il problema delle grandi produzioni verrà affrontato con uno sforzo maggiore di ricerca e con lo straordinario apporto che può offrire la nuova generazione.

Temo che in questa fase torni una spinta al nucleare, per i grandi impianti. Il nucleare è non solo peggio dei fossili, ma è ben più devastante e irrimediabile in tempi storici. Basti pensare che il tempo di dimezzamento del plutonio è di 121.400 anni e noi ancora non sappiamo dove mettere le scorie in depositi sicuri. E, ancora, che a Fukushima si continua a versare bario e stronzio radioattivo nel Pacifico per tenere a bada la fusione dei tre reattori avvenuta 10 anni fa. Così come ritengo pericolosa l’affermazione avventata del nuovo ministro per la transizione Cingolani sulla disponibilità a dieci anni della fusione nucleare: un diversivo – temo – per non giocare a fondo il passaggio a multipli di potenza rinnovabile già nei prossimi tre anni.

Non ci sono soluzioni meramente tecnologiche, se le tecnologie cercano di risolvere i problemi lasciandone inalterata la causa.

 

Le prospettive dell’Italia

L’Italia tra le nazioni europee ha una particolare caratteristica: possiede una quota di carbone nel suo mix energetico inferiore in genere alla gran parte degli altri paesi, ma non tende a innescare, come accade ad esempio in Germania e Spagna, un processo di crescita di eolico e solare equivalente agli obiettivi a cui tende l’Europa. Eppure, la sua posizione geografica glielo consentirebbe. Negli ultimi anni vi è stato uno stallo: se nel 2007 avevamo il 24,2% di energia elettrica prodotta con fonti rinnovabili (compreso l’idroelettrico, su cui l’Italia vanta una eredità importante, grazie ai grandi impianti alpini e appenninici), nel 2014 siamo arrivati al 38,6%, ma nel 2019 la quota era scesa al 35,9%. Una vera e propria flessione, con una responsabilità politica. Dal 2011 al 2019 abbiamo mantenuto statica la quantità di energia fornita da vento, sole e acqua, mentre abbiamo aumentato la quota di gas, soprattutto in funzione di stoccaggio nel caso di black-out, lasciando del tutto inattivi i bacini di pompaggio pronti all’occorrenza. La crescita di generazione

fotovoltaica in Italia dal 2017 al 2019 è stata un quinto di quella della Germania. Inoltre, soffriamo di un forte disavanzo commerciale riguardo alle “tecnologie verdi”, perché i pannelli fotovoltaici prima prodotti, oggi sono completamente importati.

Nel nostro piano energetico nazionale (PNIEC), per raggiungere l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura media al di sotto di 1,5 gradi, noi dovremmo ridurre anno dopo anno della metà le emissioni di CO2, installando almeno 17 GW di rinnovabili, cosa del tutto improbabile se non si sblocca il meccanismo delle autorizzazioni e se il PNIEC rinuncia all’obbiettivo UE del 55% rimanendo fermo al 48%. Un problema tuttora molto acuto è quello dei trasporti: impieghiamo più energia nei trasporti che nell’industria, abbiamo il carico di auto per famiglia più alto in Europa e un parco macchine che mediamente supera i 135 grammi di CO2 di emissione per km.

Naturalmente una transizione come quella in discussione è fitta di conflitti, ma anche di imbrogli. Il più imbarazzante lo sta gestendo Eni a Ravenna, con il progetto di produrre idrogeno da una centrale a metano con sequestro della CO2 da pompare sottoterra. È un progetto non solo ambientalmente dannoso, data la pericolosità di un giacimento di anidride carbonica, ma anche assurdo, perché l’idrogeno verrebbe a caricarsi dei costi della cattura e della compressione del gas climalterante nelle falde sotterranee. Senza mettere in conto le perdite inevitabili di metano nelle condutture dell’impianto, sotto osservazione per il suo pesante effetto sull’innalzamento della temperatura terrestre.

Rispetto al governo Draghi e al nuovo ministero per la transizione ecologica non sono ottimista. Lo sarei se le associazioni ambientaliste e le rappresentanze locali avessero voce e potessero partecipare alla formulazione dei PNRR (Piani nazionali di ripresa e resilienza). Ma il fatto che la validazione avvenga attraverso McKinsey significa affidarsi a una cultura che punta esclusivamente all’efficienza in termini di come la valuta l’impresa. E qui non siamo di fronte a una contabilità aziendale e nemmeno a progetti che vengano semplicemente delegati agli accordi che Eni, Enel e Cassa Depositi e Prestiti raggiungono a livello ministeriale, nel silenzio dei cittadini e dei lavoratori.

Io non credo che il ministro Cingolani possa presumere di avere da solo la cultura sufficiente per affrontare questo passaggio. Occorre svolgere un dibattito pubblico, accessibile e informato, ma di ciò finora non si ha notizia alcuna. Nemmeno a Civitavecchia, dove la transizione energetica è all’ordine del giorno. Penso che, per quanto riguarda l’ecologia integrale, la tecnologia, che spesso diventa tecnocrazia, prenda il problema per la coda anziché per la testa: è il nostro modo di produrre e consumare che va radicalmente cambiato. A Cingolani proporrei di partire da una attenta considerazione della  Laudato Si’.