*Daniela Albrecht è laureata in psicologia e ricercatrice in servizio sociale, militante del movimento antimanicomiale e del PSOL di Rio de Janeiro

MP: Un mese fa, l’uccisione di Marielle Franco, consigliera comunale di Rio de Janeiro per il PSOL e militante nera, femminista e lesbica, e dell’autista Anderson Gomes hanno avuto una straordinaria eco globale, riverberata dalle reti sociali a centinaia di piazze cittadine. In Italia, il ruolo fondamentale nell’organizzazione è stato svolto da Non una di meno, facendo sì che l’attenzione fosse focalizzata (com’è legittimo) sulla militanza femminista di Marielle. Nella sfera mediatica italiana, quantomeno, ne è nata una narrazione concentrata sulla vicenda personale di Marielle e sulla sua figura potentissima, che ha forse trascurato il contesto di quella che Giuseppe Cocco su effimera ha definito «un’esecuzione politica» e ha isolato Marielle dalla sua militanza, cioè dal motivo per il quale è stata uccisa. Tuttavia, gli eventi successivi che hanno coinvolto il fondatore del PT hanno rifocalizzato l’attenzione mediatica italiana ed europea sul Brasile, producendo un moto di affetto politico – tanto comprensibile quanto spesso acritico – nei confronti di Lula. Non sono mancati interventi – tra i quali citerei quello di Eliane Brum uscito su El País e tradotto su Transglobal e Euronomade – che hanno avuto la capacità di analizzare il funzionamento della macchina mitologica del Lula in vita e le contraddizioni insuperabili del progetto politico del PT. Questa intervista – realizzata il 2 aprile 2018 – si pone come obiettivo quello di provare a comprendere la situazione politica brasiliana attraverso l’esecuzione di Marielle Franco e insieme le ragioni di quella esecuzione alla luce di quel contesto, in un dialogo con una voce interna al partito nel quale Marielle Franco militava.

MP: Qual è la situazione in Brasile?

DA: Per capire meglio il contesto del Brasile oggi, secondo me, è necessario partire dal 2013 – un anno di grande sconvolgimento sociale e mobilitazioni di piazza, che scoppiarono quasi all’improvviso, a seguito dell’aumento dei prezzi dei biglietti degli autobus. In quel momento, divenne chiaro alla borghesia che il Partido dos Trabalhadores (PT), dopo 12 anni al potere, non era più in grado di mantenere il suo ruolo nel patto sociale, di garantire il consenso sociale intorno al progetto borghese come aveva fatto fino ad allora. Allora la borghesia cominciò a interrogarsi sul suo progetto politico, a perdere unità intorno a questa sua rappresentanza politica, con una parte della borghesia che cominciò a volere la caduta del governo PT.  In quella occasione, la stampa brasiliana – che solitamente criminalizza fortemente le lotte sociali – di fronte alla portata delle manifestazioni popolari trasformò radicalmente la sua strategia e tentò di intestarsi le manifestazioni, dettandone le parole d’ordine. Tentò cioè di depoliticizzare quelle rivendicazioni che avevano un contenuto sociale e chi contestava l’ordine in questo senso, lanciando lo slogan della lotta alla corruzione. Una parte della stampa era già contro lo stesso PT.

Con le manifestazioni di piazza del 2014, in corrispondenza dei Mondiali di calcio, la popolazione scese in strada nuovamente per i suoi bisogni fondamentali. Per farti un esempio, lo slogan più diffuso era: «Copa do Mundo, não quero não! Quero dinheiro pra saúde e educação!». Le elezioni presidenziali del 2014 furono un altro momento importante in questa traiettoria: le elezioni furono fortemente polarizzate, e Dilma (PT) riuscì a vincerle grazie un posizionamento di sinistra nel secondo turno, che poi rinnegò non appena eletta. Tuttavia, si entrava in una fase di grandissima instabilità politica nel Paese.

Nel 2016, avvenne l’impeachment di Dilma: il golpe non è stato tanto un golpe contro il PT, ma contro quello che il PT rappresentava, anche se ormai solo simbolicamente; un golpe insomma contro la classe lavoratrice. L’obiettivo del golpe era permettere ai rappresentanti della borghesia nello Stato di fare le riforme delle quali il capitale aveva bisogno con la velocità e intensità necessarie. E così Michel Temer (PMDB) ha velocemente fatto approvare per esempio una proposta di modifica alla Costituzione (PEC 241, approvata come EC 55), che impone il blocco della spesa pubblica per la salute e l’istruzione per vent’anni, e ha anche eliminato tutti i ministeri delle e per le minoranze. Nonostante la borghesia abbia tentato di creare consenso intorno all’impeachment e al golpe, anche attraverso nuovi movimenti di destra come MBL (Movimento Brasil Livre), l’instabilità politica è forte, al punto che Temer non è ancora riuscito far votare la riforma della previdenza sociale, che è un obiettivo centrale e per la quale la stampa ha portato avanti una massiccia campagna pubblicitaria.

Va detto ancora che in Brasile il fascismo cresce in modo spaventoso. Abbiamo un candidato di estrema destra che auspica il ritorno della dittatura militare e incita abitualmente a crimini di odio, ed è stato già condannato per esempio per aver incitato in Parlamento a violentare una sua collega. Si tratta di Jair Bolsonaro (PSL) che è ora al secondo posto nelle intenzioni di voto in Brasile alle elezioni presidenziali. La settimana scorsa [il 26 marzo] la carovana elettorale dell’ex presidente Lula è stata colpita da proiettili e pietre, una cosa veramente grave che non può essere in nessuno modo relativizzata.

MP: Qual è la situazione a Rio de Janeiro?

DA: Rio de Janeiro ha oggi un ruolo centrale in un nuovo momento di intensificazione del golpe. A febbraio 2018, il governo dello Stato di Rio de Janeiro – dello stesso partito di Temer (PMDB), in una azione coordinata – ha chiesto l’intervento federale per la gestione della sicurezza. L’allegazione è stata un supposto aggravamento del quadro di sicurezza che è del tutto pretestuosa. Questo intervento è un atto inedito da quando è stata promulgatala l’attuale costituzione federale democratica (1988), dopo gli anni della dittatura militare. Per questo è stato mandato l’esercito, con a capo il generale Walter Braga Netto (che era anche stato a capo della presenza militare durante i Mondiali del 2014). I Mondiali, come poi le Olimpiadi, sono stati momenti strategici perché Rio diventasse una “città globale”, un modello di città-impresa adatta ai bisogni del capitalismo mondiale. In una fase di precarizzazione del lavoro e delle vite delle persone, quelli furono momenti di resistenza e allo stesso tempo sono stati dei laboratori per tenere sotto controllo le contraddizioni sociali attraverso l’intervento dell’esercito.

In Brasile esistono due polizie: quella civile e quella militare. La polizia militare, che è quella che sta nelle favelas, è un’eredità della dittatura militare. In generale, la polizia militare a Rio è una polizia molto violenta e molto corrotta, una di quelle che uccide di più al mondo: il 20% degli omicidi a Rio viene commesso dalla polizia, secondo dati di Amnesty International. Ma la presenza del esercito ha un significato ancora più grave, è approfondire la militarizzazione del quotidiano, attraverso una forza di sicurezza nazionale. Quando il generale Braga Netto ha accettato l’incarico, ha detto che l’avrebbe fatto a patto che non venisse riaperta la “Commissão Nacional da Verdade”: il riferimento è alla commissione aperta per investigare i crimini della dittatura militare e il commento di Braga Netto è indice del clima di arroganza e impunità nel quale agiscono le forze armate a Rio, dove la polizia militare già gira per le strade delle favelas con i caveirão, dei blindati con il nome ossimorico di pacificador, dai quali gli altoparlanti dicono: «il caveirão catturerà la tua anima», mentre i poliziotti fanno lo stesso dicendo: «oggi ho voglia di uccidere qualcuno». Lo Stato nelle favelas di Rio ha questa faccia.

Nel parlare dell’esecuzione di Marielle, la militarizzazione e l’intervento militare a Rio è il tema centrale. Bisogna capire che c’è una volontà da parte della stampa e di chi rappresenta di utilizzare la morte di Marielle strumentalmente, per giustificare la necessità dell’intervento militare nelle favelas, che è proprio quello contro il quale lei si batteva, quello che lei denunciava. È questa la posta in gioco.

MP: In questo contesto, che cosa rappresenta il PSOL di Rio, nel quale Marielle militava?

DA: In generale in Brasile, è un momento di grande difficoltà per la sinistra – e qui come sinistra intendo quei partiti e gruppi che ancora con grande difficoltà cercano un’alternativa al PT. Ma a Rio mi sembra che c’è stato un momento di rinascita, in qualche misura anche segnata dalla figura di Marcelo Freixo (PSOL), deputato del Parlamento dello Stato di Rio, che ha svolto un importante lavoro nel campo dei diritti umani e che è stato candidato sindaco delle ultime elezioni a Rio: il PSOL di Rio ha spinto molte persone a fare politica, anche se c’è da dire che i militanti del PSOL vengono ancora piuttosto dai ceti medi. Le difficoltà nel creare un vincolo con la classe lavoratrice sono un riflesso del dramma che è stata la traiettoria del PT: è un riflesso della sconfitta storica che abbiamo subìto in Brasile ma anche internazionalmente. In Brasile questo si declina concretamente nella storia del PT, che è stata una storia di lotte della classe lavoratrice che è arrivata al punto di diventare potere: è innegabile che questa storia ha avuto una grande forza, ma è innegabile anche che non ha avuto successo nel processo di emancipazione che si prefiggeva. Nel suo realizzarsi ha acquisto un altro volto. E questo è un processo sul quale dobbiamo ancora riflettere tantissimo: dobbiamo mettere in discussione la strategia che abbiamo avuto nella lotta di classe, dobbiamo discutere il ruolo dello Stato all’interno della nostra strategia. Nella strategia democratico-popolare, che è stata la strategia del PT, arrivare al governo dello Stato era un obiettivo centrale e nel suo sviluppo ogni altra cosa è stata ritenuta secondaria rispetto a questo obiettivo. È sbagliato ricondurre la deriva del PT solo alle scelte della leadership del partito: c’è bisogno di una riflessione più ampia sulla strategia nella lotta di classe.

In ogni caso, il PSOL di Rio stava avendo buoni risultati elettorali, e aveva inoltre una presenza importante nelle lotte a Rio. La sua presenza cominciava a dare fastidio. In particolare, Marielle, proprio in virtù di tutto quello che era, portava in sé una possibilità di identificazione. Marielle era nera, della favela, bisessuale, ed era socialista. Marielle, anche se è vero che non è stata eletta con tanti voti della favela, era della favela: la gente delle favelas si riconosceva in lei. E questo è fondamentale per capire la potenzialità che aveva di rappresentare anche una riconnessione con quella base, di far sì che la gente tornasse a credere che era possibile cambiare le cose. Marielle denunciava quotidianamente la violenza della polizia nelle favelas, pochi giorni prima di essere uccisa aveva denunciato la morte di quattro ragazzi ad Acari, un bairro della zona nord. Poco tempo prima era stata anche nominata parte di una commissione di consigliere/i comunali per il monitoraggio dell’intervento dell’esercito federale a Rio. Marielle non aveva mai ricevuto una minaccia, a differenza di Freixo, per esempio, che aveva la scorta di Stato. Il messaggio è stato molto diretto: «non puoi, non succederà, questa storia non può crescere».

MP: Il rischio di astrarre la figura di Marielle da questo contesto del quale mi hai parlato è molto alto, e farlo mi sembra molto pericoloso. La direzione sarebbe quella di una santificazione della persona di Marielle, una celebrazione rituale del suo coraggio, che non è quello che ci importa.

DA: Nel raccontare la persona di Marielle, è già in atto un tentativo di depoliticizzarne la figura, che è stato lanciato da subito dalla stampa brasiliana che, di fronte all’ingiunzione di parlare di Marielle e delle tantissime manifestazioni che hanno seguìto il suo omicidio, ha scelto una precisa strategia comunicativa. La strategia prevede di raccontare Marielle come una “self-made woman” concentrandosi sulla sua storia di emancipazione e sul suo successo personale: si tratta evidentemente di una narrazione volta a cancellare la natura politica della sua vita e la sua militanza. L’obiettivo di questa stampa è sfruttare la morte di Marielle per giustificare e chiedere l’implementazione della presenza federale militare a Rio, che è il contrario di quello che voleva Marielle – per Marielle non c’erano dubbi: era fin da subito contraria all’intervento militare nello Stato di Rio, perché conosceva il volto e il colore della pelle di chi avrebbe sofferto di più.

Tuttavia, diversamente dal 2013, quando la stampa ha creato le parole d’ordine per le piazze, Marielle apparteneva a un partito, ed è un po’ più difficile ignorare le prese di posizione del partito di Marielle sulla sua vicenda. Nei giorni successivi alla sua esecuzione sono state lanciate un sacco di notizie false con la chiara intenzione di promuovere un processo di “giustificazione” della morte di Marielle: è già stato scoperto, per esempio, che parte di queste notizie è partita dal MBL. Il PSOL sta facendo in questi giorni un lavoro di denuncia in sede legale delle notizie false che vengono pubblicate su Marielle, e sta riuscendo a frenarne la diffusione. In generale, il PSOL e le compagne e i compagni di Marielle stanno avendo un ruolo importante nell’indirizzare i processi narrativi e memoriali e contrastare il tentativo di appropriazione della memoria.

Ma quello che a me sembra più importante di tutto è la reazione che è seguita a questa morte. Marielle diceva e aveva come motto per le sue azioni: «io sono perché noi siamo». La morte del corpo di Marielle non ha colpito la sua forza, sembra invece averla moltiplicata ancora più. Diciamo: «hanno cercato di seppellirti, ma non sapevano che eri un seme». Oggi folle di persone a Rio, in Brasile e dappertutto alzano la loro voce insieme a Marielle, facendo risuonare e rafforzando la sua lotta, che è la lotta contro lo sfruttamento e tutte le forme di oppressione. La morte di Marielle è stata un crimine politico, e la gente che oggi scende in piazza strada a chiedere giustizia lo sa. La sfida oggi è trasformare la richiesta globale di giustizia per Marielle in un no all’intervento federale nella città di Rio de Janeiro, che è anche un no al genocidio della popolazione povera e nera. Non in nome di Marielle Franco, non in nostro nome.