LA SCRITTRICE ASLI ERDOGAN: ‘LA TURCHIA? UN REGIME KAFKIANO’

fonte ANSA.IT

LA SCRITTRICE ASLI ERDOGAN: ‘LA TURCHIA? UN REGIME KAFKIANO’

136 giorni passati nelle prigioni della Turchia per “terrorismo”. Colpi sparati? Zero: del resto, si dichiara anti-militarista e professa l’obiezione di coscienza, vietatissima da queste parti. Azioni clandestine? Nessuna, secondo i suoi stessi accusatori. Parole? Di quelle, a fiumi: come si conviene a una scrittrice. Asli Erdogan, cinquant’anni appena compiuti, autrice pluripremiata e tradotta in 17 lingue (in Italia con Il mandarino meraviglioso, ed. Keller), è diventata il simbolo delle centinaia di intellettuali colpiti dalla repressione nella Turchia post-golpe. “Un paradosso per una scrittrice esistenzialista”, come si definisce in un’intervista all’ANSA. Parla senza quasi mai smettere di gesticolare, agitando spesso la sigaretta spenta, tra pile di libri ammucchiati all’ultimo piano di un’importane casa editrice nel centro di Istanbul: “Non mi considero una figura politica. Ma adesso non mi tiro indietro. Non posso tacere, perché la mia esposizione serve a parlare di tutti gli oppressi”.

Al presidente Erdogan, la lega solo un’omonimia. Non potrebbero essere più diversi. “So di rappresentare tutto quello da cui è ossessionato: provengo dalle cosiddette élites laiche, sono una donna indipendente, e soprattutto una turca che si batte per i diritti di tutti, anche dei curdi, pur non essendo curda. Per questo mi considerano ancora più pericolosa”.

Per i magistrati che l’accusano, e per lei chiedono l’ergastolo, il corpo del reato di Asli Erdogan è il suo nome stampato sulla gerenza e sugli articoli di Ozgur Gundem, quotidiano filo-curdo chiuso dopo il golpe, di cui è stata per anni tra i consulenti. Su questa base, le rimproverano legami con i “terroristi” del Pkk. “Il giornale era sotto pressione, così è stata avviata una campagna di solidarietà per la libertà di stampa. Molti intellettuali hanno fatto simbolicamente il direttore per un giorno. Anche loro ne hanno pagato le conseguenze. In quel caso è stato un abuso della legge, ma nel mio una punizione totalmente illegittima: tutti gli avvocati mi hanno assicurato che un semplice consulente non può essere considerato legalmente responsabile”.

Un mese dopo il putsch andato a vuoto il 15 luglio, Asli Erdogan è finita in manette: “Hanno fatto irruzione in casa mia e mi hanno arrestata con la più grave delle accuse: quella di far parte di un’organizzazione terroristica”. Da lì, è iniziato il suo incubo. “Mi hanno lasciata in una cella di isolamento per 5 giorni. La prigione di Bakirkoy, dove ero detenuta, ospita per lo più prigioniere comuni. Ma io potevo solo decidere se stare nella sezione delle detenute del Pkk o con quella di estrema sinistra”. Ha scelto le prime.

Giorno dopo giorno, è stata costretta a fare i conti con la nuova vita in carcere. La sua casa è diventata la cella numero 16, condivisa con una giovane militante curda. Quella stessa stanza di pochi metri quadrati, prima di lei l’aveva occupata Esra Mungan, nota docente di psicologia cognitiva alla prestigiosa università del Bosforo di Istanbul, arrestata perché promotrice dell’appello degli ‘Accademici per la Pace’, che chiedevano la fine delle operazioni militari contro il Pkk. Il presidente Erdogan li aveva definiti “traditori della patria”, invocando per loro una dura punizione. E la professoressa, puntualmente, è finita in prigione. In quella cella è rimasta per oltre un mese, prima di poter riabbracciare – letteralmente – i suoi studenti, che l’aspettavano emozionati fuori dal carcere. Da lei, Asli ha ereditato uno di quei rituali che sembrano dare un senso alle lunghe giornate in prigione: “Oltre le sbarre della finestra, c’era un piccione a cui dava da mangiare ogni giorno. Era così abituato alla sua presenza che continuava a tornare anche quando non c’era più. Allora me ne sono presa cura io”.

Come si vive oggi in un carcere turco, “neppure tra i più duri”, Asli Erdogan lo racconta nel dettaglio: “Prima dello stato d’emergenza si potevano avere 3 visitatori esterni, ora è permesso solo ai familiari più stretti, e io ho solo mia madre. Ti permettono di fare una telefonata di 10 minuti a una sola persona ogni 2 settimane. Puoi avere al massimo 15 libri. Io ho dovuto abbandonarne molti che la gente mi mandava. La carta per scrivere? Quella potevamo comprarla al negozio della prigione, ma io spendevo quasi tutto in sigarette”, ammette sorridendo.

Nella sezione ‘politica’ del carcere, racconta di essersi sentita all’inizio come un corpo estraneo. “Le detenute erano quasi tutte poco più che ventenni, di origine curda, molte arrestate nelle montagne dove si erano nascoste. Mi guardavano come una ‘turca bianca’ (la parte più laica e occidentalizzata della società turca, ndr). Con me, non avevano nulla a che fare. Poi, pian piano, è cresciuto il rispetto reciproco. Sono state loro a darmi le coperte quando avevo la febbre alta, e le autorità non mi hanno fatto visitare da un medico per giorni. Sono state loro a prendersi cura di me, portandomi il tè e vegliandomi. Il dottore potevamo vederlo solo il venerdì, le medicine arrivavano il lunedì. Quando me le hanno date, ero già guarita, ma avrei potuto essere morta”. E non è solo un modo di dire, per lei. Asli Erdogan soffre d’asma e diabete. Quando l’hanno arrestata, ancor prima di chiederne il rilascio, i suoi sostenitori imploravano che le permettessero di prendere i farmaci urgenti.

“Devo quel po’ di libertà che ho adesso al sostegno internazionale. Senza questo, probabilmente sarei rimasta in prigione e, se non fossi morta, anche per le mie condizioni di salute, sarei stata rilasciata con tante scuse solo dopo anni. Ormai lo stato di diritto non esiste più. Può accadere qualsiasi cosa. Tantissimi giudici sono in galera. Può toccartene uno di 25 anni, che magari cerca di fare buona impressione sul suo capo, o semplicemente di non finire a sua volta sotto accusa: è molto difficile credere ancora nella giustizia. Il mio è stato uno dei casi più ridicoli e kafkiani. E credo sia un messaggio per tutti gli intellettuali: state lontani dai curdi, o vi tratteremo come loro”.

Scarcerata alla vigilia di Capodanno, ora non può lasciare la Turchia, malgrado gli inviti a premi e convegni da mezza Europa. Sulla sua testa, continua a pendere la spada di Damocle di una condanna a vita. La prossima udienza l’attende a giugno. Allora, chissà come sarà la Turchia. “Io credo che il referendum sul presidenzialismo passerà, e la situazione temporanea dello stato d’emergenza diventerà permanente. La Turchia non è la Germania del 1938, ma ci sono molte somiglianze. La costruzione di un regime totalitario è quasi completa. Oggi, opporsi a Erdogan è praticamente impossibile”.

Prima di diventare una scrittrice a tempo pieno, alla fine degli anni Novanta, Asli Erdogan lavorava come fisica al Cern di Ginevra. Ed è da lì che prende a prestito la metafora finale sulla sua condizione: “Il potere mi accusa, crede di aver capito come spaventarmi, ma di me in realtà non sa nulla: dice di avere trovato un buco nero, ma non riesce nemmeno a vedere il sistema solare”.