Con l’abbassamento delle temperature, l’inverno ormai alle porte, i media riscoprono come di consueto l’esistenza delle persone senza dimora. Questa stagione è iniziata, contrariamente al solito, con articoli diversi dal racconto del pericolo di vita per chi è costretto a dormire all’aperto. Verso fine novembre abbiamo letto la notizia dell’applicazione del Daspo Urbano – previsto dal decreto Minniti-Orlando, convertito nella legge 48 del 2017 – comminato a una decina di persone homeless nella città di Bologna. Con la loro presenza queste persone  avrebbero ostacolato il passaggio dei pedoni; sono state, quindi, forzatamente costrette ad andarsene in nome del decoro e della sicurezza urbana. Cosa si intende per sicurezza urbana? «Per sicurezza urbana si intende il bene pubblico che afferisce alla vivibilità e al decoro delle città, da perseguire anche attraverso interventi di riqualificazione e recupero delle aree, l’eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale, la prevenzione della criminalità, la promozione del rispetto della legalità e l’affermazione di più elevati livelli di coesione sociale e convivenza civile».

Successivamente è il turno di un altro sindaco, questa volta della città di Como, che con un’ordinanza rende illegale «mendicare in forma dinamica ponendo in essere forme di accattonaggio molesto ed invasivo tali da coartare l’autodeterminazione delle persone a compiere atti di liberalità; mendicare in forma statica occupando spazio pubblici anche con l’utilizzo di cartoni, cartelli ed accessori vari che arrecano disagio al passaggio dei pedoni».

A suo dire la città da tempo manifesta bisogno di decoro e contrasto all’accattonaggio molesto. Mi colpiscono il linguaggio e di conseguenza le rappresentazioni che tale linguaggio suggerisce: l’accattonaggio viene descritto come molesto e invasivo al punto da costringere, limitare l’autodeterminazione delle persone. In che modo potrebbe realmente limitare l’autodeterminazione delle persone? Anche il termine persone è indicativo: viene utilizzato solo per “gli altri”, non per chi mendica. E l’autodeterminazione di chi si trova a chiedere l’elemosina? O di chi vuol portare cibo e bevande a chi si trova per strada e non può perché è stato dichiarato illegale? La solidarietà, la gentilezza sono illegali durante il periodo dello shopping natalizio. Essere poveri e farsi vedere, è illegale durante il periodo dello shopping natalizio, è quel che si evince leggendo che è vietato mendicare il forma statica. I poveri devono sparire dalla vista.

Al di là della cronaca proviamo, dunque, a fare qualche prima riflessione che successivamente andrà senz’altro sviluppata e ampliata.

Il rapporto complesso tra disagio abitativo e disagio sociale caratterizza le politiche a contrasto della povertà in Italia e, nello specifico, le politiche rivolte alle persone senza dimora. Storicamente nel nostro paese “il diritto alla casa”  per chi non ha un tetto sopra la testa ha occupato un posto estremamente marginale nel dibattito politico istituzionale mentre il concetto di esclusione sociale ha avuto senza dubbio un ruolo di primo piano. Tale concetto viene spesso usato in maniera impropria senza essere problematizzato. Castel (e.g. 2007), ad esempio, ha sempre messo in evidenza, tra gli altri, il rischio che la nozione di esclusione porti a ragionare in termini di condizioni e stati determinati anziché di processi. In tempi recenti a dire il vero anche alcune politiche di contrasto alla povertà stanno timidamente muovendo qualche passo nella direzione del superamento della dicotomia inclusi/esclusi ma si tratta ancora, appunto, di primi passi.

Riflettere  sul rapporto tra disagio abitativo e sociale è fondamentale poiché a seconda dell’accento posto sul primo o sul secondo termine le soluzioni attivate nella pratica differiscono significativamente le une dalle altre. Se si parte dal presupposto che le persone abbiano un disagio legato alla mancanza di un’abitazione, gli interventi implementati andranno nella direzione di colmare questa mancanza fornendo materialmente un tetto sopra la testa a chi ne è sprovvisto. Diversamente, se si mette in evidenza il disagio socialeche caratterizzerebbe gli individui senza dimora, si giustifica la messa in moto della macchina dell’accoglienza. Le persone vengono esposte (relegate?) alla “presa in carico sociale” ovvero dormitori, container provvisori allestiti nei mesi invernali, mense ecc. In questa concezione chiamata modello a gradini la casa è il traguardo finale di un lungo percorso di rieducazione. «Per la sua stessa strutturazione il modello può configurarsi come un dispositivo di controllo ancor più che un attivatore di diritti; la casa, collocata alla fine del percorso, risulta essere il “premio” al termine di un lungo percorso in salita, anziché un diritto di base» (Porcellana, 2016, p. 50). Nella letteratura anglosassone questo sistema di intervento viene definito treatment first e può essere contrapposto alla concezione housing first i cui fautori sostengono che si debba partire dal fornire alla persona una casa per farle recuperare sicurezza e da lì ripartire.

Non è mia intenzione negare che il disagio sociale e problematiche sanitarie, psicologiche, psichiatriche spesso affliggano le persone senza dimora, ma la domanda che ritengo sia importante porre è se tali problematiche siano la causa o la conseguenza della vita in strada.

Bisogna, inoltre, richiamare all’attenzione il fatto che per coloro che rifiutano, o non sono in grado di rapportarsi con l’assistenza sociale, è prevista l’espulsione. Sapersi orientare e relazionare con la galassia variegata di attori e realtà che compongono il sistema d’accoglienza è tutt’altro che facile. Ci sono parecchie regole che vanno apprese, strategie di resistenza da saper inventare e attuare, relazioni da costruire, ruoli da saper giocare (Meo, 2000).

La volontà di espulsione, seppure non sia una condizione generalizzata che riguarda tutte le città, è una tendenza che si sta manifestando in diverse realtà urbane di cui gli ultimi due esempi recentemente sulle cronache dei giornali si sono verificati a Bologna e Como. In nome del “decoro”, termine passepartout, si giustificano misure di una violenza inaudita e si criminalizzano delle persone non perché stanno compiendo atti criminosi, ma in quanto senza dimora.

Il fenomeno dell’homelessness è complesso – la popolazione che vive questa condizione è estremamente variegata – e si può analizzare usando diverse chiavi interpretative: dall’ottica delle disuguaglianze sociali a quella dell’accesso ai diritti di cittadinanza. In questa riflessione si è scelto di focalizzarsi sui processi di governo della povertà.

In questa prospettiva l’obiettivo è di andare oltre il discorso sull’esclusione, che può essere considerato un meccanismo d’occultamento dei dispositivi di controllo sociale (Castel, 2007), per far emergere alcuni tratti essenziali delle forme di governamentalità neoliberale che investono le persone marginalizzate. Parlare di esclusione, quando si definiscono con termini negativi gli individui esclusi, equivale a cancellare lo spazio sociale in cui tali individui sono inseriti (Baroni, Petti, 2014). Dando risalto esclusivamente alla loro presunta desocializzazione, alla minaccia potenziale al decoro, si dà l’avvio a un pericoloso processo di criminalizazione (Sahlin, 2004). Esempio perfetto purtroppo sono le persone senzatetto, senza visibilità né voice (Hirschman, 1970). Allo stesso tempo non si vuol descrivere l’homelessness come una traiettoria individuale, invece che come una figura attraverso la quale si organizza il controllo politico dei gruppi sociali marginalizzati (Baroni e Petti, 2014).

Per far questo è necessario mettere in relazione le politiche sulla sicurezza urbana, che sono parte della gestione dell’homelessness, con la ridefinizione delle modalità di azione dello stato. Smantellamento del sistema di welfare, ruolo sempre più importante degli enti del Terzo Settore, delle fondazioni, degli enti caritatevoli nel sistema di accoglienza che sanciscono il passaggio dal diritto al paternalismo discrezionale, rafforzamento dello stato penale: queste trasformazioni sono il risultato della conversione della classe dirigente all’ideologia neoliberale e sono «le componenti di un nuovo macchinario istituzionale per la gestione della povertà» (Wacquant, 2006, p. 273).

La legge 48 del 2017 e le sue applicazioni pratiche ad opera di alcuni sindaci dichiarano guerra aperta ai poveri anziché alla povertà.

 

Bibliografia

Baroni, W., Petti, G., (2014), Cultura della vulnerabilità. L’homelessness e i suoi territori, Torino, Pearson.

Castel, R., (2007), “Inquadrare l’esclusione”, in G. Covoli (a cura di), Gli esclusi, Macerata, Quodlibet, pp. 47-65.

Hirschman, A., (1970), Exit, Voice, and Loyalty: Responses to Decline in Firms, Organizations and States, Cambridge, Harvard University Press, trad. it., Lealtà, defezione, protesta. Rimedi alla crisi delle imprese, dei partiti e dello stato, Milano, Bompiani, 2002.

Meo, A., (2000), Vite in bilico. Sociologia della reazione a eventi spiazzanti, Napoli, Liguori Editore.

Porcellana, V., (2016), Dal bisogno al desiderio. Antropologia dei servizi per adulti in difficoltà e senza dimora a Torino, Milano, FrancoAngeli.

Sahlin, I., (2004), “Enclosure or Inclusion? Urban Improvement and Homelessness Policies”, in Open House International ,29, 2, pp. 24-31.

Wacquant, L., (2006), Punire i poveri. Il nuovo governo dell’insicurezza sociale, Roma, DeriveApprodi.

 

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