Sovranismo versus globalismo? Chiusura/apertura & altri schemi manichei di ordinaria diffusione.

 

Nel mese di marzo 1983, il presidente socialista François Mitterand, dopo il fallimento del piano economico keynesiano di rilancio, ha deciso di intraprendere una politica dell’offerta: meno vincoli sulle aziende e “moderazione salariale”. Nella stessa logica di “désinflation compétitive”, Mitterand ha appoggiato la scelta europeista di Jacques Delors, allora ministro francese delle Finanze, di accelerare l’integrazione europea: l’Atto Unico togliendo i dazi fu firmato a Milano nell’estate 1985. Da allora, si potrebbe affermare che, per i socialisti francesi, il progetto appunto socialista, fosse stato sostituito dal progetto europeo, e mai più ripristinato nei fatti. La contemporaneità e la complementarietà delle due decisioni strategiche è rimasta nell’immaginario francese. Assieme all’affermazione di una economia globalizzata e finanziarizzata, ai mutamenti sociali e culturali cosi generati e al progredire di una costruzione europea liberista, la coerenza di questa scelta da parte del partito socialista francese durante 35 anni non è stata però accompagnata di un aggiornamento esplicito come la Terza Via del NewLabour di Tony Blair o il Nuovo Centro della SPD di Gehrard Schroeder. Peggio: il vecchio blocco sociale di sinistra si è progressivamente sbricciolato a favore delle destre e dell’estrema destra, senza che l’aggregazione dei nuovi ceti medi agiati attorno ai diritti civili, a un ambientalismo moralistico e precisamente a presunti “valori democratici europei” possano contrastare con efficacio la defezione dei ceti popolari verso le destre e soprattutto l’astenzione.

Dal referendum del 1992, mentre già i ceti popolari hanno votato contro il Trattato di Maastricht, a quello del 2005, quando si sono aggiunte parti dei ceti medi contro il progetto di Trattato Costituzionale Europeo, molti elettori francesi hanno mostrato sfiducia nei confronti della costruzione europea.
Oggi, i limiti alla sovranità nazionale ripetuti in tante occasioni, dalla Grecia 2015 all’Italia 2018, contribuiscono alla diffidenza ancora diffusa in Francia. Dal “bisogna rispettare prima di tutto gli accordi firmati” (da precedenti governi) per Wofgang Schaeuble al “pilota automatico” di Mario Draghi, che corregge da se la rotta finanziaria ed economica, numerose sono le richiamate alla precedenza delle regole europee su quelle costituzionai e sul voto dei cittadini. Certo, quando c’era un deal tra costruzione europea e interessi economici della maggior parte della popolazione come negli anni 2000 (deal pericolo, come si è visto in Europa del Sud), lo scambio poteva sembrare vincente-vincente, ma oggi, quando l””austerità espansiva” (tanto elogiata per esempio nel caso complesso della Spagna) vede l’espansione approfitare solo a una minoranza della popolazione e quando la vecchia teoria liberista dello sgocciolamento (dall’alto verso il basso) sembra più che mai una bugia, lo scambio appare ai più come una truffa. Ovviamente con conseguenze diverse secondo i Paesi e secondo i momenti.
Nella stampa mainstream e non solo in Francia, l’opposizione chiusura nazionale versus apertura europea è diventata un topos, uno schema ripetuto e spesso non più discusso. Ma allo stesso tempo sono in molti quelli che avvertono però che, nonostante la riduzione degli spazi di dibattito e la crescita dell’astensione, il livello nazionale rimane quasi l’unica area ampia di democrazia, mentre il livello europeo (comunitario o intergovernativo che sia) si afferma come in realtà ristretto, opaco ed permeabile solo alle grandi lobbies.

Siamo a un anno dal voto vincente di Emmanuel Macron di fronte alla Marine Le Pen, voto applaudito allora da tutti quelli che sono attaccati all’Europa odierna. Voto vincente sullo sfondo di un aumento mai visto dell’astensione dal primo al secondo turno e da una esplosione delle schede bianche. Ricordiamoci anche che nella sua sconfitta Marine Le Pen ha incassato più di 10 milioni di voti, cioè il doppio del padre nel secondo turno del 2002. Subito Macron ha fatto suonare l’Inno alla Gioia di Beethoven, simbolo del suo impegno europeista. Oggi, nonostante tutti i conflitti del capitalismo francese sostenuto dallo Stato di Macron con altri paesi europei (particolarmente l’Italia) e dopo i discorsi programmatici della Sorbona e di Strasburgo, anche se affievolata, l’immagine di Macron come campione dell’Europa continua a permanere nella stampa dominante italiana.
Allo stesso momento, in Francia, in questa primavera del 2018, diversi movimenti sociali cercano di opporsi alle politiche del governo Macron: privatizzazione delle ferrovie, numero chiuso e selezione all’Università, riduzione del numero dei dipendenti pubblici… Ma queste politiche si configurano per una parte consistente dei Francesi come l’applicazione delle normative europeee, viste come necessarie da alcuni oppure illeggitime da altri. L’opposizione tra la visione macroniana (“L’Europe nous protège”/L’Europa ci protegge) e quella di molti Francesi (“Lo Stato nazionale ci dovrebbe proteggere dall’Europa, più problema che non soluzione”) rimane in retrofondo e potrebbe esplodere di nuovo con le lezioni europee del 2019: ma comunque probabilmente non si tratta dello stesso NOUS/Noi per entrambi gli schieramenti…

Oggi in prospettiva delle elezioni europee del 2019, Macron pensa di abbinare il suo partito En Marche ad altri anche loro liberisti ed europeisti, come Ciudadanos in Spagna, propagandista della flat tax a favore dei ricchi, ma anche partito spagnolista, critico certo nei confronti del corrotto Partido Popular di Mariano Rajoy ma soprattutto violentemente ostile all’autonomismo catalano.

Da parecchi anni, gli schieramenti “progressisti” in Europa, che vogliono superare il declino delle socialdemocrazie degenerate in Terze Vie liberiste, oltre alle divisioni rispetto all’Europa, socialmente riformabile o non, e dunque rispetto al livello nazionale (da riconquistare o da abbandonare all’estrema-destra), si dividono tra promotori di un nuovo classismo magari aggiornato e militanti del “populismo di sinistra” (élites / popolo). Le elezioni europee della primavera 2019, in un contesto di prossibili regressioni sociali, ma anche di tensioni internazionali probabilmente accresciute, non potranno che rinforzare quelle divisioni?

In Italia, l’attuale tensione tra i “mercati finanziari” sopportati dall’Europa istituzionale (che vieta il ruolo della Banca Centrale finanziatrice in ultima istanza, non compensata dal Quantitative Easing di acquisto dei titoli pubblici sui mercati finanziari) e partiti usciti maggioritari dalle elezioni del 4 marzo ’18, questa tensione tra potenza finanziaria (e i suoi diversi attori istituzionali dall’UE/BCE ed attori istuzionali nazionali) e leggitimità democratica rinnova la polarizzazione tra un europeismo (dove la cessione di sovranità dovrebbe essere compensata con vantaggi per gli Stati-membri, come i bassi tassi di interesse negli anni 2000) e un sovranismo ancora oggi nei Paesi periferici, dove la limitazione della sovranità non viene compensata da misure di solidarietà mutualistica europea e appare in questi anni solo sotto forma di vincoli per una parte crescente della popolazione). Se i rapporti del capitalismo e della democrazia sono un tema classico della scienza politica, cambiando con le evoluzioni dell’uno e dell’altra, il passaggio a uno stadio globalizzato e finanziario ha cambiato la presentazione del dibattito. Non a caso, nel maggio 2005, durante il dibattito francese all’occasione del referendum sul TCE, numerose sono state le critiche all’indipendenza della BCE nel Trattato di Maastricht: molti intuivano che l’autonomia dai poteri statali nazionali, però condizionati dalle elezioni, corrispondeva a una strutturale subalternità ai poteri dei mercati finanziari, ovviamente lontani da ogni leggitimità elettorale e popolare, ovviamente secondo la logica “tecnica” e manageriale” del liberismo senza alternativa. La storia da 13 anni ha illustrato la lucidità di quel timore. La vicenda greca ieri e quella italiana oggi mettono in luce le logiche di una costruzione europea tutt’altra che tecnica. Nella stretta tra una Europa generatrice di disugualianze a rischio di implosione e di tensioni sociali poi elettorali e tra il costo altissimo di una esplosione per Italexit o tutt’altro Exit, opportunità per una strategia del terrore sui “risparmiatori” e sugli “investitori”, ci si può sperare che le elezioni europee della primavera 2019 saranno l’occasione di un dibattito approfondito e radicale. Anche in Francia dopo questa primavera di difficili lotte sconnesse contro l’offensiva liberista di Macron (al contrario della narrazione incantevole della stampa macroniana, cioè quasi-tutta), in Francia dove a sinistra si parla oggi poco di Europa, ma quella dimensione tornerà inevitabilmente a galla.

Jean-Olivier, Pisa, 31.5.2018