All’ingresso della “Balena” di Budapest, il luccicante centro multifunzionale adagiato sulle sponde del Danubio dove si svolge per il secondo anno consecutivo (dal 4 al 5 maggio) il convegno europeo dei conservatori americani (CPAC), un avviso su un architrave bianco e blu interdice il passaggio ai woke, i “risvegliati” della sinistra, sensibili alle ingiustizie sociali: No Woke Zone. Il divieto va subito oltre il suo senso letterale: le guardie di sicurezza respingono i giornalisti Jacob Heilbrunn di Politico e Flora Garamvolgyi del Guardian, nonostante abbiano entrambi ricevuto conferma di accredito dal Center for Fundamental Rights, il think-tank ungherese che co-organizza l’evento. Anche se i suoi oratori amano definirsi paladini della libertà d’espressione, alla CPAC hanno rapporti difficili con i media.
Sul palco Kari Lake, ex candidata trumpiana a governatrice dell’Arizona, scandisce i titoli con cui la stampa etichetta la due giorni di conferenze e li commenta con un sarcastico gioco di parole: «Noi politici di estrema destra [far-right]? Sapete che vi dico? Lo accetto. Finora [so far], abbiamo avuto ragione [we have been right] su tutto». «Abbiamo appreso che in Ungheria i giornalisti devono sottoscrivere alcune regole», dice Matt Schlapp, lobbista vicinissimo a Trump e presidente dell’American Conservative Union, che organizza le CPAC. «Devono essere onesti, devono scrivere la verità, devono essere bipartisan. E visto che siamo determinati a riscrivere le regole dei media americani, abbiamo deciso che faremo come l’Ungheria e che decideremo noi chi è un giornalista onesto e chi no».
Ciascuno degli oltre cinquanta interventi è infatti introdotto da un elogio al primo ministro Viktor Orbán e al suo governo. Non è mera piaggeria: nell’Ungheria si vede il futuro dell’Occidente e non suscita alcun imbarazzo sapere che Orbán abbia gradualmente trasformato un paese membro dell’Unione Europea in un’autocrazia elettorale dove la magistratura ha perso la propria indipendenza, i media sono direttamente o indirettamente controllati dall’esecutivo e i collegi elettorali ridisegnati perché le opposizioni perdano a tavolino. Dopo oltre mezzo secolo in cui i repubblicani americani hanno influenzato le destre europee con il proprio soft power ideologico, ora il modello di riferimento per gli Stati Uniti è l’orbanismo, la ricetta di un piccolo paese delle dimensioni del Kentucky e con la popolazione del Michigan, ma magnificato come baluardo della cristianità ed eroico avversario solitario di smisurate forze globaliste.
Come spesso accade, l’avvicinamento è cominciato sui media. Nell’estate 2021 Tucker Carlson, ex conduttore di punta di Fox News, ha condotto per una settimana il suo show da Budapest, mostrando con orgoglio l’imponente recinzione anti-migranti eretta al confine con la Serbia. Pochi mesi più tardi, in un documentario quasi di regime, Carlson ha ritratto Orbán come il difensore della civiltà dalla Grande Sostituzione, la teoria del complotto del suprematismo bianco secondo cui le élite guidate da George Soros pianificano l’importazione di milioni di illegali dal Terzo Mondo per trasfigurare la demografia europea e americana.
Il nome del finanziere ricorre minaccioso nelle parole dei conferenzieri, tra cui lo stesso primo ministro ungherese. C’è un’uniformità singolare e inquietante nella retorica dei presenti, come se appartenessero tutti allo stesso partito, a dispetto dell’eterogeneità dei Paesi di provenienza, dal Messico al Giappone passando persino per Israele, rappresentata dal giornalista Gadi Taub, ora docente proprio a Budapest, e da Matan Peleg, leader del movimento sionista Im Tirzu. La CPAC ungherese non è, in effetti, un evento isolato, ma segna una nuova accelerazione nel coordinamento fra destre radicali ed estreme.
Dopo il convegno del maggio 2022 a Budapest, il 10 dicembre il presidente del club dei giovani repubblicani di New York, Gavin Wax, ha invitato amici dal Partito della Libertà austriaco (FPÖ) e da Alternativa per la Germania (AfD), nonché l’ambasciatore ungherese Szabolcs Takács, per un elegante gala su Park Avenue insieme ai più fedeli deputati trumpiani, come Marjorie Taylor Greene, e alle figure più in vista dell’alt-right americana, come Steve Bannon, Peter Brimelow e Jack Posobiec. L’atmosfera era così amichevole che Greene si è lasciata andare a battute sull’assalto Capitol Hill: «Se l’avessimo organizzato io e Steve Bannon, avremmo vinto. Senza dimenticare che saremmo stati armati».
Dal 15 al 17 maggio, poi, un altro convegno organizzato da un think-tank americano, la National Conservatism Conference, ha fatto tappa a Londra per coinvolgere l’ala meno moderata dei Tories. Si tratta del terzo appuntamento europeo in tre anni, dopo quello di Bruxelles dello scorso anno e di Roma del 2020, aperto da Giorgia Meloni.
È proprio con l’etichetta di “conservatorismo nazionale” che la destra radicale, archiviata la stagione del populismo sbandierato, cercano di ribrandizzarsi. Una dichiarazione di principi, firmata tra gli altri da Francesco Giubilei (consigliere del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano ed enfant prodige dei circoli intellettuali della destra italiana), la sintetizza in dieci punti, dal rifiuto del globalismo liberale alla rivendicazione di Dio, Patria e Famiglia come cardini dello Stato nazione. Se il populismo di destra insisteva propagandisticamente sul binomio popolo-élite per mascherare un’indeterminatezza di fondo negli obiettivi politici, se non addirittura per occultare un indirizzo economico neoliberista, al centro del conservatorismo nazionale c’è il conflitto fra i valori tradizionali del popolo-nazione e la corruzione morale delle élite sovranazionali. In due parole: guerra culturale.
Alla CPAC, d’altronde, nessuno parla di economia. Per quanto il nemico sia individuato nei «globalisti marxisti e comunisti», come afferma Donald Trump nel suo videomessaggio di saluto, «questo non è un attacco economico, è un’arma biologica contro di noi», enfatizza Orbán con una metafora del complottismo pandemico. «Siamo sotto l’attacco di un virus, sviluppato nei laboratori dei progressisti liberal. Questo virus sta attaccando il punto più vulnerabile del mondo occidentale: la nazione. L’immigrazione, il gender, il wokismo sono tutte varianti dello stesso virus».
Le guerre culturali presuppongono infatti che lo scontro politico si sia esacerbato fino a rappresentare una battaglia per la sopravvivenza. Perdere un’elezione non significa più cedere temporaneamente il potere all’avversario, ma scivolare verso il baratro della cancellazione, anche fisica. Gli altri controllano ogni aspetto della vita pubblica: media, scuole, università, magistratura, sindacati, aziende. È un totalitarismo anticristiano, non diverso da quelli del ventesimo secolo. I toni sono quindi apocalittici e descrivono la sindrome di accerchiamento e il senso di persecuzione delle destre. Più ci si percepisce come vittime, più è giustificata la controffensiva su larga scala. Non è un caso che il pensatore più citato sia Antonio Gramsci. Lo menzionano esplicitamente Francesco Giubilei, Eduardo Bolsonaro, figlio dell’ex presidente brasiliano, e Janez Janša, ex primo ministro sloveno. L’idea è che la guerra politica si vinca sul piano dell’egemonia culturale: «dobbiamo imparare una lezione che la sinistra conosce bene: chi controlla la narrazione, chi controlla la cultura, chi controlla l’opinione pubblica, alla fine ne beneficerà politicamente» dice Stephen Bartulica, parlamentare croato del Movimento Patriottico.
Quello vissuto dai conferenzieri è un vero e proprio panico morale. L’ideologia woke si sarebbe ormai infiltrata nelle scuole e indottrinerebbe i bambini per separarli dai genitori e renderli così dipendenti dallo Stato. La sinistra impiegherebbe così le stesse infide tattiche dell’intellighenzia sovietica o dei predicatori fondamentalisti delle scuole coraniche. Secondo Jack Posobiec, il più famoso propugnatore del Pizzagate, «il wokismo è un virus della mente, che colpisce la possibilità di interagire con la realtà». Non servirebbe dunque una monumentale opera di convincimento per far prevalere i valori conservatori nella società, ma sarebbe sufficiente il semplice racconto della realtà e della verità, perché – come si suggerisce in un dibattito sulla famiglia – non è in corso uno scontro tra due ideologie, ma tra un’ideologia fanatica e la biologia. Il problema – sottolinea in un panel sulla libertà di espressione Eva Vlaardingerbroek, giovane commentatrice olandese ed ex corrispondente di Carlson dall’Europa – è che «qualunque tipo di opinione che sia contraria alla narrativa mainstream o sia considerata dissonante è ora bollata come disinformazione».
Eppure, per vincere la guerra culturale ogni mezzo è ritenuto lecito, persino la demonizzazione degli avversari e le teorie del complotto. Per Martin Helme, leader del Partito popolare conservatore estone, «non è per stupidità che la sinistra tenta di distruggere la famiglia, i diritti dei genitori, la salute di bambini normali. È per malvagità. C’è un intelligente disegno malvagio che lega tutto. Le forze del male hanno costruito una rete impressionante di persone e istituzioni per distruggerci e schiavizzarci». La cospirazione globalista prevederebbe sia un attacco da fuori, attraverso l’immigrazione controllata per «denazionalizzarci nei nostri stessi paesi» (Anders Vistisen, europarlamentare del Partito popolare danese), sia dall’interno, attraverso l’abbattimento scientifico dei valori millenari della civiltà occidentale.
È la teoria del complotto del cosiddetto “marxismo culturale”, che ha ispirato le stragi di terroristi di estrema destra come Anders Breivik e che aleggia terrificante nei discorsi di Janša e Bolsonaro. L’ossessione è tale che ogni proposta politica da sinistra si tramuta nell’indizio di un’imminente oppressione distopica. Così, per Hermann Tertsch, europarlamentare spagnolo di Vox, «il Green Deal è solo uno degli strumenti con cui distruggere la nazione, un grande piano leninista per intervenire nei decenni a venire in tutte le sfere della vita, un piano di ingegneria sociale». Per Andrej Babis, ex primo ministro ceco, in un futuro non lontano «le persone che spendono troppo in benzina, mangiano troppa carne, viaggiano troppo in aereo, spendono troppo in cibo potrebbero vedersi bloccati prestiti bancari, negate tariffe aeree o potrebbero persino essere escluse dai servizi pubblici».
La salvezza viene riposta nel recupero della fede cristiana, della famiglia tradizionale e, soprattutto, della sovranità nazionale. Può apparire strano che nell’equilibrio geografico degli interventi la CPAC ungherese penda sproporzionatamente verso l’Est europeo, ma lo sbilanciamento si spiega esattamente con l’esaltazione delle virtù nazionali, in quest’ottica rivalorizzate dai Paesi liberatisi dal giogo del Patto di Varsavia e invece sviliti da un Occidente che omogeneizzerebbe e appiattirebbe le specificità in nome del multiculturalismo. L’elezione di Giorgia Meloni pone l’Italia al centro di queste riflessioni, perché rappresenta il primo grande Stato europeo ad aver abbracciato i valori del conservatorismo nazionale. Significativamente, ad avere il privilegio dell’ultima parola è Vincenzo Sofo, europarlamentare di Fratelli d’Italia, nonché marito della nipote di Le Pen, Marion Maréchal.
La vera novità consiste tuttavia nel ruolo sempre più preponderante che i repubblicani, storicamente ripiegati sui problemi interni all’America, hanno assunto nel guidare l’internazionale delle destre. Come evidenzia il politologo Cas Mudde, le strette connessioni con i partiti più estremi del panorama europeo e latinoamericano sono un’eredità della radicalizzazione operata dal trumpismo, ormai ideologicamente indistinguibile dallo stesso orbanismo. Il risultato è che la polarizzazione che ha incendiato gli Stati Uniti negli ultimi anni può ora propagarsi all’Europa. Le CPAC sono insomma il combustibile irrorato nel dibattito pubblico in attesa di un innesco che permetta al fuoco di divorare ciò che resta delle nostre democrazie.
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