La lotta per la sopravvivenza dei riders di Città del Messico

testo Caterina Morbiato foto Stefano Morrone -tratto da Altreconomia 229

Fonte Americalatina

 

Quando indossa caschetto e borsone termico per lanciarsi nel traffico di Città del Messico, Saúl Gómez ha una parola stampata in mente: guerra. In bicicletta ha distribuito tacos, hamburger e pizze per quasi ognuna delle piattaforme digitali di food delivery che esistono nella capitale messicana. Ha anche assistito colleghi feriti e abbracciato le famiglie di quelli che invece non ce l’hanno fatta. Nel 2018, insieme a una manciata di altri riders, ha fondato Ni Un Repartidor Menos (Non un rider in meno): il primo collettivo messicano di lavoratori di applicazioni. Hanno deciso di organizzarsi dopo la morte di José Manuel Matias Flores, rider di 22 anni investito da un camion dopo aver lavorato per appena tre giorni per la  piattaforma UberEATS.

“Qui prendi la patente senza l’obbligo di fare l’esame di guida, gli automobilisti non sono sanzionati quando uccidono qualcuno e le piste ciclabili vengono fatte senza nessuna pianificazione”, dice Gómez per cui il lavoro di rider non può che coincidere con un atto belligerante: la lotta per la sopravvivenza in una metropoli governata dalle quattro ruote, attraversata da camion con rimorchio e in cui, secondo i dati della Segreteria di sicurezza cittadina, 372 persone hanno perso la vita in incidenti stradali o automobilistici durante il 2019.

In un contesto così aggressivo, una delle prime attività del collettivo è stata la pubblicazione del “Diario di Guerra”, un registro degli incidenti che coinvolgono i fattorini, e la costruzione di un database che raccoglie informazioni utili in caso di incidente: nome del fattorino, codice di registro nell’applicazione, telefono, gruppo sanguigno, allergie o malattie specifiche, contatti di emergenza. Con strumenti limitati ma radicati nel mutualismo, i membri del collettivo suppliscono all’assenza delle imprese e rivendicano il proprio diritto alla sicurezza sul lavoro.

La piattaforma digitale UberEATS è stata la prima ad approdare a Città del Messico. Era il 2016 e da allora la concorrenza non si è fatta aspettare. Nel giro di quattro anni le strade della capitale hanno cambiato volto: borsoni termici arancioni, rossi e neri si sono aggiunti a quelli verdi di UberEATS, simbolo di nuove e agguerrite piattaforme come la colombiana Rappi e la cinese Didi. Il moltiplicarsi delle applicazioni ha significato un aumento dei posti di lavoro ma anche il peggioramento delle condizioni per i riders che hanno visto diminuire sia la quantità di lavoro sia il guadagno per ogni consegna fatta.

Secondo un sondaggio realizzato tra marzo e luglio 2020 dall’Istituto di studi sulla disuguaglianza (INDESIG), in Messico il guadagno medio di un rider corrisponde a 42 pesos all’ora, circa 1 euro e 60 centesimi; un lavoratore su quattro guadagna però solamente 26 pesos all’ora, un euro. “In Messico esiste una precarizzazione generalizzata dei salari. Questo fa sì che guadagnare poco più di 20 pesos all’ora con le app, anche se sembra poco, è in realtà una prospettiva migliore rispetto al salario minimo. Qui le apptrovano un terreno molto fertile”, spiega Máximo Jaramillo-Molina, economista e fondatore di INDESIG.

A partire dal primo gennaio 2020 il salario minimo è stato fissato in 123,22 pesosgiornalieri (circa 4,80 euro al giorno; al mese 147 euro), una cifra con cui difficilmente è possibile accedere a una buona qualità di vita. Il lavoro offerto dalle piattaforme rappresenta quindi un’alternativa attraente, nonostante spesso implichi la sottomissione a regimi di auto-sfruttamento con giornate di 14 o 15 ore lavorative: unica maniera per riuscire a compensare il pagamento delle tasse, la connessione a Internet dal telefono, il costo della benzina o di ricambi per moto e bici. “La mancanza di un salario minimo dignitoso per molti riders è una giustificazione per lasciare intatto il modus operandi delle app: se non ci fossero il panorama sarebbe peggiore”, afferma Jaramillo-Molina.

La pandemia di Covid-19 si è abbattuta con forza sull’economia messicana. Secondo i dati dell’Instituto nazionale di statistica e geografia durante aprile, il mese più colpito dalla chiusura imposta dalla crisi sanitaria, si sono persi 12,5 milioni di posti di lavoro. Uno di questi era quello di Saúl García Meléndez, un giovane di 25 anni che fino a marzo scorso faceva il cameriere in un ristorante di sushi nel Sud di Città del Messico. Papá di una bimba di poco più di un anno e unico lavoratore salariato della sua famiglia, dopo il licenziamento Saúl aveva deciso di iscriversi a UberEATS e aspettare che la pandemia si calmasse per trovare un altro impiego.

 

 

Verónica Melendez  regge il casco bianco di suo figlio, Saúl García Meléndez, durante uno sciopero dei riders a Città del Messico

Il lavoro di rider era stata una delle poche se non l’unica opzione possibile. Non gli dispiaceva però: aveva tempo per stare con sua figlia e fare lavori in casa durante la mattina. Inoltre poteva girare la città in sella alla sua Vento rossa. “Amava andare in moto”, dice con affetto Verónica Meléndez. Ricorda che suo figlio aveva sempre avuto moto di seconda mano o prestate: con la Vento nuova era stato il ragazzo più felice del mondo. “I suoi 25 anni li ha vissuti bene, ha goduto della vita. Sono convinta che Saúl sia morto senza soffrire perché non ho sentito l’angoscia che provavo ogni volta che gli succedeva qualcosa”.

La notte di martedì 2 giugno Saúl stava facendo una consegna di UberEATS. Percorreva il Circuito interior -una circonvallazione a sei corsie che cinge la zona più centrale di Città del Messico- nelle vicinanze del Bosco di Chapultepec. L’automobilista che l’ha investito è fuggito. E forse, come sospetta Verónica, per dileguarsi nel nulla ha dato dei soldi ai poliziotti del posto di blocco che sta a 100 metri da dove Saúl è stato ucciso. Secondo il sondaggio di INDESIG, il 62% dei riders ha fatto un incidente durante le ore di lavoro. Di questi solo il 7% ha ricevuto assistenza da parte delle imprese. “Siamo la società della fretta”, riflette Verónica. “L’impresa Didi stava regalando una moto a chi faceva più consegne. È assurdo: i ragazzi si affannano per andare più veloci ma la loro vita non vale una moto”.

Da novembre 2018 a luglio 2020, Ni Un Repartidor Menos ha documentato la morte di 18 riders a Città del Messico e di altri 44 nei vari Stati del Paese. Per il biennio precedente non esistono dati: i riders morti sul lavoro potrebbero essere molti di più ma restano invisibili. Se le famiglie delle vittime danno il loro consenso, il collettivo installa una bici, un casco o un borsone dipinti di bianco nel punto in cui hanno perso la vita i loro colleghi. Prima di parlare con i ragazzi e le ragazze del collettivo, a quel borsone Verónica voleva dargli fuoco. L’idea di tingerlo di bianco, e incastonarlo nella selva urbana in memoria di Saúl, le è però sembrata giusta. La gente, sostiene, deve rendersi conto che i riders stanno morendo e “che li stanno ammazzando mentre lavorano”.

“Stiamo superando i livelli dei più grandi disastri industriali messicani, come quello della miniera di carbone di Pasta de Conchos in cui morirono 65 minatori”, osserva Paolo Marinaro, ricercatore del Center for Global Workers’ Rights della Global Labour University. “In quel caso esiste un sindacato che accusa di omicidio industriale il Grupo México, l’impresa responsabile della miniera”.

La lunga sequela di corruzione e clientelismo politico che caratterizza i sindacati messicani provoca però diffidenza nei membri di Ni Un Repartidor Menos che da sempre insistono: “Siamo riders che aiutano altri riders, non un sindacato”.“Se uno dei loro obiettivi è la regolamentazione del lavoro digitale,  nel momento in cui il governo deve instaurare un dialogo con degli attori, loro non sono riconosciuti come una persona giuridica”, avverte Marinaro. “Il rischio è che poi chi si costituisce come tale sia invece qualcuno che non rappresenta realmente gli interessi dei riders, ma un sindacato giallo formato dalle imprese.