Turchia, il sultano azzoppato

FONTE MICROMEGA

di Bernardo Valli, da Repubblica, 18 aprile 2017

Il risultato del referendum turco è rimasto in bilico tra un successo ufficiale e un affronto politico. Convinto di avere carisma e popolarità, Recep Tayyip Erdogan si aspettava di più. Contava su un vero plebiscito di consensi ed è invece per una manciata di voti che ha vinto la consultazione sulla super presidenza. Ha ottenuto una maggioranza risicata (51,4%) ed anche contestata. Per lui l’aritmetica elettorale è severa. L’opposizione chiede che si riconsideri la validità di due milioni e mezzo di suffragi espressi su schede senza timbro ufficiale. Il governo sostiene che già prima dell’elezione era stato riconosciuto il valore di quei bollettini.

La controversia rende ancora più fragile quello che doveva essere un trionfo e che invece ha rivelato la spaccatura quasi netta del Paese. Circa venticinque milioni di turchi hanno votato per i diciotto emendamenti alla Costituzione, cioè un milione e mezzo di più di quelli che li hanno respinti. I due milioni e mezzo di schede contestate rovescierebbero il risultato che Erdogan si è affrettato a definire storico.

Invece di esibirne la compattezza come lui sperava, l’esito della consultazione ha offerto l’immagine di un Paese insubordinato, tutt’altro che rassegnato a rinunciare di propria volontà allo Stato di dirittto e a conferire al rais il controllo dell’esecutivo e di larga parte del legislativo e del giudiziario. Erdogan non ha dunque avuto l’incoronazione solenne su cui puntava, promuovendo una Repubblica superpresidenziale fatta su misura per lui.

La nuova Costituzione entrerà in vigore entro due anni e gli dovrebbe garantire il potere fino al 2029. Ma il percorso non sarà tanto agevole dopo l’esito di domenica, che può appunto essere letto anche come un affronto politico, o perlomeno come il ridimensionamento dell’uomo forte, giudicato invincibile. Il carattere di Erdogan è in apparenza più incline alla collera che alla delusione. In questa occasione ha tenuto i due sentimenti per sé e ha esaltato una vittoria zoppa.

Gli deve essere tuttavia costato vedere le grandi città rifiutargli i poteri di cui pensava di avere diritto. Istanbul, dove è stato per anni il sindaco, gli ha voltato le spalle. Ankara ha fatto altrettanto. Da tempo, dal 1994, le due città votavano in maggioranza per i partiti islamisti, pur essendo abitate, in particolare Istanbul, dagli elettori tradizionali dei partiti laici, kemalisti. Prima il partito della Prosperità e poi il partito della Giustizia e dello Sviluppo (l’Akp) di Erdogan, espressioni di un islamismo conservatore, hanno sempre raccolto vasti consensi. Negli ultimi decenni sono stati favoriti in quanto portatori di un robusto successo economico e di una nuova e più ampia pratica democratica, citata come esempio nei Paesi musulmani. Il crollo dei voti è stato questa volta brusco e inatteso: poco più di un anno e mezzo fa ad Ankara e a Istanbul la corrente islamica, sempre meno moderna e più autoritaria, raccoglieva quasi il 64 per cento dei voti. Domenica il quoziente è crollato al 48 per cento. In alcuni quartieri ci sono state chiassose manifestazioni in favore del “no” al referendum. Donne e uomini si sono espressi sbattendo marmitte e altri strumenti domestici alle finestre. Un’insubordinazione inattesa, che non si è estesa alla Turchia provinciale. Non ha sfiorato pare l’Anatolia rurale, favorita dal miracolo economico e rimasta fedele a Erdogan, al quale viene riconosciuto il merito.

Mentre i partiti d’opposizione, in particolare quello socialdemocratico (Chp) e quello liberale procurdo (Hdp) denunciano le irregolarità durante lo scrutinio e chiedono un nuovo spoglio dei voti, Erdogan annuncia l’intenzione di indire un altro referendum, questa volta sulla pena di morte. È una delle sue rituali provocazioni. Il ripristino della pena capitale escluderebbe un ingresso della Turchia nell’Unione europea. Evento in cui per la verità molti turchi non credono più, e che molti europei giudicano a loro volta molto improbabile. Sollevando il problema della pena di morte Erdogan sbatte la porta in faccia all’Europa che gli fa la morale.

Il risultato di domenica ci fa riscoprire una Turchia tutt’altro che sottomessa o sedotta dall’invadente potere di Erdogan. È riaffiorata una società in parte attratta da un autoritarismo nazionalista, con una forte traccia religiosa, in cui c’è un evidente richiamo neo ottomano, e al tempo stesso in parte conquistata dal liberalismo occidentale. Nel quale si è convertito il kemalismo laico, a lungo autoritario. Dai tempi di Ataturk nessun leader turco aveva mai avuto tanto potere. Dopo i decenni di riconosciuto successo economico ed anche di un esercizio della democrazia, sia pur esitante, che l’avvicinava all’Europa, la Turchia di Erdogan è stata investita dall’eruzione mediorioentale. Dalla guerra in Siria e in Iraq. Ed anche dalle contestazioni interne, con vecchie e nuove radici. Per fare alcuni esempi, da quelle curde, a quelle alavite, a quelle attribuite a Fethullah Gülen, il predicatore e imprenditore installato a Filadelfia, accusato di essere l’organizzatore del fallito colpo di Stato dello scorso luglio, sulle cui origini esistono ancora molti dubbi. La sproporzionata reazione di Erdogan (circa 50.000 arresti e 100.000 epurazioni) ha fatto apparire quel mancato putsch un pretesto per realizzare un vero colpo di Stato.

La Turchia è un grande Paese in balia degli avvenimenti bellici, in corso nei paesi vicini, in cui è coinvolta; degli attentati terroristici con origini varie; delle nuove alleanze con la Russia e l’Iran. Il legame con la Nato, di cui è uno dei principali membri per le dimensioni del suo esercito convenzionale, sopravvive ma sembra meno chiaro. Come sono meno chiari i rapporti con l’Europa. L’inatteso risultato del referendum di domenica ci ha rivelato che quel grande paese resiste alle stravaganze del suo leader. Dopo il verdetto delle urne, Erdogan dovrà avere “un dialogo rispettoso” con tutte le forze politiche. Dovrà insomma essere più ragionevole. È l’invito che gli ha rivolto Angela Merkel, cancelliere del paese in cui vivono milioni di turchi.

(18 aprile 2017)