Poco testo e troppi video: così i social ci espongono alla demagogia

Poco testo e troppi video: così i social ci espongono alla demagogia
Lo scrittore iraniano Derakshan: «Una democrazia sana e rappresentativa ha bisogno più testi che video. Non è un problema americano o inglese, ma una minaccia alla nostra civiltà»

fonte La Stampa
I demagoghi di tutto il mondo, di destra o di sinistra, adorano la televisione. Questo mezzo lineare, emozionale e passivo, centrato sull’immagine, ha ridotto la politica a un reality. Come ha dimostrato Neil Postman in «Amusing Ourselves to Death»” (Ci divertiamo da morire) la televisione ha ampiamente abbassato il livello del dibattito pubblico nella maggior parte delle democrazie. Dagli Stati Uniti all’ Iran, dal Venezuela alla Francia, dall’ Egitto alla Russia, dall’ Italia alla Turchia, la competizione per l’audience è pari a quella per le elezioni. In molti paesi l’indice di ascolto è automaticamente tradotto in termini di voti.

E, cosa ancora più allarmante, internet, l’ultimo spazio pubblico dedicato alla parola dopo il declino del giornalismo scritto, si sta arrendendo al format televisivo. La versione della diretta proposta dai social network come Facebook e Twitter sta uccidendo il web e quindi anche il giornalismo scritto. Facebook è più simile al futuro della televisione che al web degli ultimi due decenni.

Una recente ricerca dell’università di Oxford dimostra che guardare video online è un fenomeno in crescita negli Stati Uniti e nella maggior parte del mondo tranne che in Nord Europa. Forse perché lì hanno un equilibrio più sano tra vita e lavoro e anche perché il loro sistema pubblico di istruzione incentiva ancora la lettura e il pensiero critico.

Intanto Facebook ha annunciato che presto i video domineranno gli aggiornamenti delle notizie, perché “comunicano una maggior mole di informazioni in un tempo molto più breve e quindi questa tendenza ci aiuta a diffondere più informazioni in molto meno tempo”, come dice Nicola Mendelsohn, vice presidente di Facebook.

Ciò conferma le mie riflessioni quando, uscendo da una prigione iraniana nel 2014, scoprii un internet completamente diverso dove il testo era in declino e andavano di moda le immagini, ferme o in movimento. Da pioniere del blog in Iran, quello che avvertii dopo sei anni di isolamento era che i blog, il miglior esempio di una sfera pubblica decentrata, erano finiti. Facebook e Instagram avevano ucciso i link esterni per massimizzare i profitti trattenendo gli utenti al loro interno e bombardandoli di pubblicità. Così facendo stavano ammazzando il web aperto, che si basava sui link. Internet è diventato sempre di più uno strumento d’intrattenimento piuttosto che uno spazio alternativo per la pubblica discussione. Peggio ancora, ho iniziato a notare uno strano disagio tra i giovani se dovevano leggere qualcosa più lungo di 140 caratteri.

Ovviamente il testo scritto non morirà mai, ma la capacità di comunicare attraverso l’alfabeto in molte società sta lentamente diventando un privilegio riservato a una piccola élite. Un po’ come nel Medioevo quando solo i politici e i monaci sapevano comunicare con l’alfabeto. Tutti gli altri sono destinati a diventare gli analfabeti del 21 secolo che principalmente comunicano con immagini, video – e naturalmente, emoji.

L’emergere di questa classe di illetterati, inchiodati ai loro vecchi apparecchi televisivi o alle loro personali tv mobili imperniate su Facebook, è una buona notizia per i demagoghi. Basti pensare a come Donald Trump ha magistralmente trasformato la formula televisiva nella sua macchina per le pubbliche relazioni pubblica e gratuita. Neil Postman ha spiegato in modo perfetto il perché nel suo libro del 1985. A suo giudizio negli Usa la differenza tra i discorsi pubblici del 18 o del 19 secolo e quelli attuali è che la pubblica opinione nell’era televisiva è un insieme di “emozioni piuttosto che di opinioni, ecco perché cambiano da una settimana all’altra, come dicono i sondaggi”. A suo avviso la natura della tv, che è di mero intrattenimento, produce solo disinformazione, che “non significa falsa informazione. Significa informazioni fuorvianti — fuori luogo, irrilevanti, frammentarie o superficiali  — informazioni che creano l’ illusione di conoscere qualcosa ma che in effetti allontanano dalla conoscenza”.

La copertura del recente referendum sulla EU da parte delle tv del Regno Unito rappresenta un buon esempio. Anche se erano conformi alle regole britanniche sull’ imparzialità, c’è chi pensa che i numerosi dibattiti dove entrambe le parti avevano lo stesso tempo per argomentare non abbiano reso giustizia a un tema delicato e complesso come la Brexit. Soprattutto ora che alcune affermazioni iniziali dei fautori del sì all’uscita dall’Unione, come i 350 milioni di sterline “dati ogni settimana all’ EU” per conto del sistema sanitario britannico, sono smentite dalle stesse persone che le avevano diffuse. C’era già molto materiale per confutarle disponibile sul web e sulla carta stampata. Ma parlare di numeri e di matematica in tv è sempre noioso e inutile. (un proverbio persiano recita così, “uno stupido getta una pietra in un pozzo, ma un centinaio di saggi non riescono a tirarla fuori.”).

Justin Webb, ex direttore della BBC per il Nord America, è arrivato al punto di dare la colpa alle regole di imparzialità vigenti. La scorsa settimana ha scritto su Radio Times: “Uno dei messaggi più chiari durante la campagna referendaria era che il pubblico agognava la verità. La gente voleva andare oltre i proclami e i contro proclami e capire che cosa c’era di vero.” Il Guardian suggeriva che “i media dovrebbero rivedere il loro modo di coprire la politica e di informare alla luce del voto per lasciare l’Unione europea”. Il tramonto del giornalismo scritto sia sulla carta stampata che sul web, significa discorsi politici super semplificati ed emotivi, partecipazione politica disinformata, e naturalmente, più demagogia nel mondo.

È difficile dire se sia stato prima il pubblico a chiedere più video, o se siano stati i media che, spaventati dalla prospettiva di tecnologie in grado di bloccare la pubblicità, abbiano iniziato la rincorsa ai video, che attirano più pubblico, portano più pubblicità e più difficile da bloccare. E nondimeno, affrontiamo le gravi conseguenze di questa svolta per il futuro delle nostre democrazie. È chiaro che per una democrazia sana e rappresentativa abbiamo bisogno più testi che video, almeno per resistere alle demagogie che si autoalimentano. Questo non è un problema americano o inglese. Questa è una minaccia alla nostra civiltà.

Traduzione di Carla Reschia

*Hossein Derakhshan (@h0d3r) è un autore iraniano-canadese, un giornalista freelance e un analista dei media. Ha scritto “The Web We Have to Save (Matter)” ed è l’ideatore di “Linkage”, un progetto artistico collettivo per promuovere i link esterni e il web aperto.

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