Per una sociologia della bufala

FONTE ALFABETA2 che ringraziamo

Fabrizio Tonello

Se si cerca in rete alla voce “Hillary Clinton arrested” compaiono 439.000 occorrenze, per la maggior parte legate a un video dell’ottobre scorso presente su YouTube nel quale una voce molto professionale scandisce quello che si presenta come un comunicato della polizia di New York che avrebbe annunciato l’imminente fermo della candidata democratica perché coinvolta in un giro di pedofilia e tratta di esseri umani. Una rete di criminali la cui esistenza sarebbe stata rivelata dalle famose email di Hillary scambiate con i suoi collaboratori usando un indirizzo privato e non quello ufficiale assegnatole dal Dipartimento di Stato.

Naturalmente questa è solo una delle mille storie fantastiche circolate nei mesi precedenti alle elezioni dell’8 novembre, tra cui la bufala che Papa Francesco aveva dato il suo sostegno a Trump (un milione di condivisioni su Facebook) o quella che Obama voleva vietare il giuramento di fedeltà alla bandiera americana (due milioni tra commenti e condivisioni). Da questo a trarre la conclusione che i russi avevano influenzato le elezioni presidenziali americane a vantaggio di Donald Trump non c’era che un passo, allegramente varcato dai grandi media americani ed europei. Scandalo e orrore, seguiti da editoriali a valanga sulla “democrazia inghiottita dalle fake news”.

Il problema di questo storytelling è che assomiglia un po’ troppo a un caso di panico morale, come definito a suo tempo dal sociologo Stanley Cohen, per essere credibile. La caratteristica delle ondate di panico morale, infatti, è un’esagerazione della gravità della questione portata all’attenzione dell’opinione pubblica, come quando nel 1964 i giornali inglesi crearono il mito dei giovani come nemico pubblico sfruttando le risse di poche decine di motociclisti annoiati e turbolenti nelle fredde stazioni balneari del sud dell’Inghilterra.

I rockers e i mods ovviamente non stavano minacciando di dare l’assalto al Parlamento di Westminster, ma Cohen comprese che l’isteria giornalistica era un fenomeno più profondo di quanto non potesse sembrare a prima vista. Il panico morale si scatena quando “una condizione, episodio, persona o gruppo di persone viene definito come una minaccia ai valori e agli interessi della società; la loro natura viene presentata in modo stilizzato e stereotipato dai mass media; il pulpito morale viene affollato da direttori di giornali, vescovi, politici e altri benpensanti; esperti socialmente riconosciuti pronunciano le loro diagnosi e le loro soluzioni; si ricorre a vari modi di affrontare la situazione; la condizione poi scompare, o degenera e diviene più visibile. Talvolta l’oggetto del panico è assai nuovo mentre in altri momenti si tratta di qualcosa che esisteva da tempo, ma improvvisamente sale alla ribalta”.

In altre parole, la percezione della minaccia si trasforma nella scelta di capri espiatori che vengono resi responsabili di problemi ben più grandi di loro, com’è il caso oggi con le bufale in rete, rese responsabili della vittoria di Donald Trump. Che le fake news siano una spiegazione assai comoda lo si capisce leggendo il rapporto ufficiale delle varie agenzie di intelligence americane, dove sostanzialmente si ammette che non c’è stata alcuna interferenza materiale dei russi nelle operazioni elettorali e quindi tutto si riduce alla propaganda anti-Clinton di media e politici legati al Cremlino.

Soprattutto, ciò che il rapporto non spiega (e gli editoriali dei giornali liberal ignorano) è per quale meccanismo la confusione creata dalle menzogne in rete avrebbe danneggiato Clinton più di Trump. Certo, quest’ultimo era a sua volta un produttore instancabile di frottole cosmiche ma allora sarebbe più esatto dire che le false notizie erano propaganda dei repubblicani (spesso ripresa da media “seri” come Fox News e Wall Street Journal) e non complotti di Putin. Com’è ovvio, tutte le presunte notizie legate alle email di Clinton, ai suoi scandali, crimini e misfatti, venivano da siti o individui legati all’area dei suprematisti bianchi, in particolare a quello Steve Bannon che Trump si è affrettato ad assumere prima come direttore della campagna elettorale e ora come consigliere speciale della presidenza.

I difensori più sofisticati della teoria che le fake news sono una minaccia per la democrazia puntano il dito sulla confusione e sull’impossibilità, per il cittadino, di formarsi un’opinione corretta dei candidati e delle politiche se tutto viene ridotto al livello di pettegolezzi scandalistici. In questa forma la tesi ha una sua plausibilità ma si dimentica che il problema è tutt’altro che nuovo: come scriveva 50 anni fa Hannah Arendt, “nessuno ha mai dubitato del fatto che verità e politica siano in rapporti piuttosto cattivi l’una con l’altra e nessuno, che io sappia, ha mai annoverato la sincerità tra le virtù politiche. Le menzogne sono sempre state considerate dei necessari e legittimi strumenti non solo del mestiere del politico o del demagogo, ma anche di quello dello statista”. E la Arendt continuava speigando che, per sua natura, la facoltà umana del linguaggio consente di comunicare infiniti “stati del mondo” che possono essere o no corrispondere alla realtà (non entriamo qui nell’antico dibattito filosofico su cosa sia la “verità”, discussione che – da Platone a Gianni Vattimo e Richard Rorty – ci porterebbe lontano).

In Gran Bretagna e negli Stati Uniti, le false notizie sui politici e le celebrità difficilmente possono essere considerate un fenomeno del 2016 visto che, per fare un solo esempio, da decenni esistono, e fanno lauti profitti, i cosiddetti supermarket tabloids, che si chiamano così appunto perché vengono venduti alle casse dei supermercati e non nelle edicole. Esiste addirittura un vecchio, esilarante, romanzo di Donald Westlake intitolato Fidati di me (nell’originale Trust me on this) ambientato nella redazione di uno di questi settimanali.

I “giornali seri” hanno sempre fatto finta di ignorarli ma della loro influenza si parla almeno da vent’anni: il famoso caso Lewinsky, che condusse al procedimento di impeachment in cui alla fine Bill Clinton fu assolto nacque da un sito di gossip, il Matt Drudge Report, e poi invase l’intero sistema dei media. Già allora gli stessi grandi giornali avevano scelto di competere sul mercato dei pettegolezzi e la velocità con cui comparivano le notizie on line aveva rimodellato l’ecosistema, unificando di colpo il mercato dell’informazione/intrattenimento e precipitando siti web, quotidiani nazionali, quotidiani locali, settimanali, radio e televisione in un unico calderone informativo. Tutti insieme, in furiosa competizione gli uni con gli altri per rivelare di che colore era il vestito indossato dalla stagista nell’ufficio ovale e se davvero conservava una macchia con materiale biologico dell’imprudente Bill.

Se internet ha cambiato le regole del gioco, questo non è certo avvenuto di colpo: la comunicazione diretta sotto forma di blog e siti improvvisati era in grado di saltare la mediazione dei giornalisti già vent’anni fa. La novità del 2016 è ovviamente il fatto che con Facebook e Twitter tutto è più facile e più rapido. Ma perché le notizie diventano “virali”? Forse converrebbe chiedersi perché molti credano a una notizia come quella dell’imminente arresto di Hillary, invece di precipitarsi a cercare lo zampino di Putin, o degli hacker rumeni.

Un vecchio signore tedesco con la barba che scriveva cose noiosissime nell’Ottocento affermò tra l’altro che “non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”. Si potrebbe obiettare che le conclusioni a cui portava questa impostazione non sempre si sono rivelate corrette, ma limitiamoci al caso americano: i maschi bianchi senza educazione universitaria che vivono nelle zone rurali che hanno votato per Trump sono quelli lasciati indietro dalla ripresa economica negli anni di Obama. Sopravvivono di lavoro precario, o dei magri sussidi della Social Security.

Secondo un recente studio dell’economista Alan Krueger sono oltre 7 milioni gli americani maschi tra i 25 e i 54 anni che non hanno lavoro e non lo cercano perché scoraggiati, quindi non sono contati fra i disoccupati. Il tasso ufficiale di disoccupazione, attorno al 5%, maschera un forte calo del tasso di partecipazione al mercato del lavoro, che nel 2007 era il 66,4% e adesso è il 62,9%, tre punti e mezzo in meno, dieci milioni di persone. C’è da stupirsi che il loro risentimento verso Washington e verso la coppia Clinton che aprì le porte alla globalizzazione sia legato all’insicurezza economica? È il risentimento che apre la porta alle fake news, non le cospirazioni di Putin.

L’antropologa Katharine Cramer, autrice di un lungo lavoro sul campo con la working class del Wisconsin, aveva registrato un forte grado di ostilità verso Hillary Clinton molto prima della campagna elettorale del 2016. Le notizie sui suoi discorsi superpagati a Wall Street, o sulle attività all’estero della fondazione Clinton non hanno fatto che rafforzare l’impressione di una “crooked Hillary”, qualcuno che aveva mille cose da nascondere.

Le conseguenze politiche del risentimento verso le élites sono state amplificate dalle debolezze strutturali del giornalismo americano. La prima è la sua ossessione per le dichiarazioni dei politici, tanto più pubblicizzate, analizzate, commentate, quanto più sono clamorose. “Trump è dannatamente buono per gli indici di ascolto” diceva nel febbraio scorso Leslie Moonves, il presidente della rete televisiva CBS. Da uomo di spettacolo, Trump aveva capito perfettamente che ogni giorno occorreva dare alle televisioni ciò che chiedevano, e rincarava la dose. Quelle che ai giornalisti apparivano proposte insensate (far pagare al Messico il muro da costruire sul confine) erano in realtà abili provocazioni per mantenere alta l’attenzione e catturare anche lo spettatore distratto o marginale.

Internet, da almeno due decenni, ha unificato il mercato giornalistico precipitando prestigiosi quotidiani nazionali e modesti quotidiani locali, storici settimanali e oscuri blog, insieme a radio, televisioni e quant’altro in un unico calderone informativo; tutti insieme, in furiosa competizione gli uni con gli altri, a caccia di clic. Il cosiddetto giornalismo di qualità ha modificato i suoi parametri di riferimento e i suoi criteri di scelta delle notizie cercando di mantenersi a galla e di sopravvivere al calo delle vendite o degli indici di ascolto.

Secondo uno specialista di monitoraggio dei programmi televisivi, Andrew Tyndall, citato da Nicholas Kristof sul New York Times del primo gennaio, nei telegiornali della sera del 2016 il tempo dedicato alla povertà, al cambiamento climatico o alla dipendenza da stupefacenti è stato esattamente di zero minuti. I grandi media sono stati letteralmente ipnotizzati da Trump, dalle sue accuse, dalle sue buffonate, dalle sue minacce; mentre l’approfondimento, o anche il solo discutere di issues, le questioni di fondo, veniva dimenticato.

Il secondo problema è che il modello economico dell’industria editoriale da tempo è in crisi. I media sono imprese private che, in una società capitalistica, esistono in quanto fanno profitti e i giornalisti, prima di essere paladini dell’informazione, sono umili salariati che si occupano di ciò che l’editore e il direttore decidono. Se la proprietà vuole dare credito alle bugie di George W. Bush sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, con conseguenze disastrose per gli Stati Uniti e per il mondo, non saranno né il giovane cronista né il prestigioso editorialista a rovesciare la situazione. Il giornalismo mainstream – in America come in Italia – vive in un rapporto incestuoso con il potere politico per ragioni di efficienza industriale, non per servilismo o cattiveria: semplicemente non si possono fare giornali come Washington Post e New York Times (e nemmeno Repubblica o Corriere) se le fonti governative non collaborano. Lo ha ben capito l’Huffington Post che, dopo aver attaccato Trump per mesi e mesi, dopo la sua elezione ha cambiato bruscamente rotta.

Questa situazione è all’origine della terza debolezza del giornalismo americano: l’impopolarità di giornali e giornalisti. Quando Trump twitta contro i “media disonesti” va a toccare una corda sensibile dell’opinione pubblica, che già vent’anni fa si diceva convinta che i quotidiani “drammatizzano alcune storie solo per vendere di più” (85% degli intervistati) e che “i giornalisti inventano in tutto o in parte ciò che scrivono” (66%). La diffidenza verso la grande stampa ha radici antiche nell’America rurale, quella ignorata dai cronisti, e il successo dei siti alternativi, compresi quelli che sfornano bugie a raffica, è la conseguenza di un risentimento verso i giornalisti, percepiti (non del tutto a torto) come parte dell’establishment.

Ora tutti si chiedono cosa fare, come impedire che le campagne elettorali diventino di nuovo un festival di esagerazioni e menzogne. Purtroppo non ci sono soluzioni semplici, tanto più in una società politicamente divisa e antagonista come quella americana: non saranno i ritocchi agli algoritmi di Facebook o la chiusura di una manciata di account Twitter a risolvere il problema. Chi vuole credere che Obama è nato in Kenya o che Hillary Clinton protegge un’organizzazione di pedofili continuerà a crederci, soprattutto se i rispettabili Fox News e Wall Street Journal di Rupert Murdoch continueranno a lanciare il sasso e nascondere la mano. Forse è la sinistra che dovrebbe smettere di alimentare il panico morale attorno alle fake news e reimparare a comunicare. Una difficoltà che nasce non dalla scarsità di piattaforme ma dalla povertà della sua visione del mondo.

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