Lelio Demichelis
Da sempre il potere vive di fake news e di post-verità, anche se un tempo si chiamavano in altro modo. Scriveva Thomas Hobbes: «vero e falso sono attributi delle parole, non delle cose». Ovvero, ciò che è vero è contenuto all’interno dello stesso discorso linguistico adottato dal potere per definire i fenomeni della realtà, che possono essere modificati, trasformati, aggirati, nascosti, mascherati. Cioè, non è vero ciò che è vero ma ciò che si dice (e si fa credere) essere vero . In questo modo, Hobbes rovescia il principio di Platone – nel mito della caverna – per il quale invece: «Vero è il discorso che dice le cose che sono come sono; quello che le dice come non sono, è falso». Entrambi usano il concetto di discorso. Ma in modi radicalmente opposti. Perché è evidente che quello usato da Hobbes sconfina nella manipolazione, o nell’ideologia e nella religione, certamente nel totalitarismo (forma moderna di stato assoluto), e oggi appunto nelle fake news e nella post-verità, che resta verità (anche se non lo è) fino a quando non si dimostra che è una falsità. Michel Foucault li definiva meccanismi di veridizione, procedimenti discorsivi utili appunto a trasformare in vero anche ciò che in realtà vero non è ma è utile a legittimare un determinato potere, come oggi quello della Silicon Valley (in ciò che è e in ciò che rappresenta – nel senso di mettere in scena se stessa). Anche la pubblicità è una forma di fake truth, utile appunto a legittimare il capitalismo (il potere).
Il problema è quando e come riuscire a dimostrare che una verità è in realtà una post/non-verità o una fake news/fake truth. L’internet-centrismo di oggi (secondo Evgeny Morozov) è un potente macchina di auto-legittimazione e di veridizione oltre che macchina totalizzante e totalitaria. E infatti, trent’anni fa ci dicevamo (ci facevano credere) che stavamo entrando nella società dell’informazione e della conoscenza e nel general intellect marxiano, ma oggi dovremmo avere capito che anche quelle erano post-verità e fake news. Aveva dunque ragione Hans Magnus Enzensberger quando, sul Corriere della sera del 4 giugno 2001 scriveva di scienziati come aspiranti redentori che si sostituiscono ai vecchi utopisti ma anche agli sciamani e ai guaritori del lontano passato – e «antichissime fantasie di onnipotenza hanno così trovato un nuovo rifugio nel sistema delle scienze». Di più: «L’ottimismo endemico, la consapevolezza missionaria e la posizione egemone della superpotenza degli Stati Uniti forniscono, a questo scopo, il background ideologico. La buona vecchia fede nel progresso, di cui fino a poco tempo fa nessuno voleva più sentir parlare, vive così una resurrezione trionfale. (…) La scienza, fusa con l’industria, si presenta come causa di forza maggiore, che dispone del futuro della società». E oggi si replica nella fusione tra scienza e l’industria della Silicon Valley.
L’ultimo caso di scienziato-tecnologo/redentore e conseguentemente creatore di fake news e di post-verità sembra (in realtà la produzione di tecno-entusiasmo è incessante e crescente) quello di Joy Ito, direttore del Mit Media Lab (definito «all’avanguardia della creatività digitale»), intervistato da Alessia Rastelli su La Lettura del Corriere della sera, di domenica 2 aprile. Di Ito esce in questi giorni un libro (scritto con Jeff Howe), dal titolo oltremodo messianico: A spasso col futuro. Come sopravvivere all’imprevedibile accelerazione del mondo (Egea). Libro con molte banalità e due falsità colossali: una, già nel titolo, perché l’accelerazione non è ‘imprevedibile’ ma è strutturale alle macchine e tendenziale nella tecnica; la seconda, quando Ito dice che la tecnica è neutra e neutrale e tutto dipenderebbe da cosa ne vogliamo fare, in realtà non è neutra, semmai autopoietica.
Il libro elenca nove principi-guida per creare nuovi modi di pensare (ma anche Taylor, cento anni fa, diceva che la sua organizzazione scientifica del lavoro era una rivoluzione mentale e ben sappiamo quanta alienazione e sfruttamento abbia prodotto), principi-guida che i singoli, le imprese e le istituzioni devono (devono, l’imperativo è categorico) adottare. Eccoli, questi principi-guida (o meglio, come si vedrà nelle riflessioni tra parentesi, questi fake principles): affioramento, perché grazie a internet oggi la conoscenza emergerebbe finalmente dal basso, innescando appunto l’intelligenza collettiva (ma era la promessa o la visione messianica/escatologica anche di trent’anni fa e sappiamo com’è andata a finire: con Uber e Foodora e gli algoritmi che decidono per noi e le macchine che imparano da sole, noi diventando conseguentemente sempre meno ‘collettivamente intelligenti’); pull, ovvero le risorse sono attirate in un progetto solo per il tempo necessario (ma è qualcosa di simile al vecchio just in time, oltre che la morte di ogni capacità di previsione che sarebbe tanto più necessaria quanto più le tecnologie sono de-strutturanti e de-socializzanti e vivono nel brevissimo termine, indifferenti al futuro pur sostenendo di essere loro, il futuro); bussole (o meglio: la totale assenza di bussole), perché se il mondo cambia velocemente, scrive Ito, serve usare la creatività ed essere pronti a cambiare direzione e se si incontra un ostacolo lo si aggira e si prosegue (dunque, meglio evitare i problemi, nasconderli sotto il tappeto invece di affrontarli e risolverli; una ‘tecnica’ del tutto de-responsabilizzante e ai limiti della gamification); rischio: meglio diffondere comunque idee e oggetti, accettando il rischio di eventuali fallimenti (addio dunque al vecchio principio di precauzione, troppo limitante e responsabilizzante per l’innovazione); disobbedienza, perché domani, continua Ito, avrà più successo chi si fida del suo istinto e rifiuta di seguire le regole quando sono di intralcio all’innovazione (ovvero, la tecnica come sovrano legibus solutus); pratica: meglio improvvisare e cambiare in corsa, secondo il principio dell’imparare facendo (ancora niente di nuovo, è una tecnica insegnata da anni); diversità: i gruppi compositi e variegati sono quelli più produttivi (anche questa è una vecchia tecnica di organizzazione e di creazione di squadre/team); resilienza, ovvero, resistere al fallimento costa più che cedere e cambiare (dunque: bisogna cambiare senza riflettere sui perché del fallimento); sistema, bisogna considerare l’impatto complessivo di un oggetto sui legami tra persone, comunità e ambienti di vita (principio che però ne contraddice cinque: bussole, rischio, pratica, resilienza e disobbedienza).
Principi-guida che non sono nuovi ma gli stessi raccontati dagli innovatori (sic!) di trent’anni fa. Ma che Ito – teologo/ideologo del regno dei cieli tecnologici, tecnologo-redentore, intellettuale organico alla Silicon Valley (la fabbrica di fake tech) – teorizza come assolutamente necessari. Altrimenti si è fuori dal futuro. In verità, per avere un futuro (e restarci dentro), occorrerebbe uscire dal (disobbedendo al) fake future di Ito. E ragionare, invece, di responsabilità per le generazioni future, di previsione e programmazione, di tecnologie verdi, di decelerazione, di sicurezza individuale e sociale, di democrazia.
All’interno del Cantiere di Alfabeta è aperto un thread: Da che parte stanno le fake news?
Giovedì 25 maggio a Roma, presso il Centro culturale Moby Dick (Garbatella), si terrà su questo tema un seminario a cui prenderanno parte Ida Dominijanni, Mario De Caro, Andrea Grignolio e Fabrizio Tonello.
Un luogo di confronto, una rete di intervento culturale per costruire il futuro. Discutiamo di fake news, di lavoro, di soldi, di scuola. E vi aspettiamo!
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