C’è un minimo comune denominatore, una assonanza nemmeno tanto recondita, un sottile filo nero che tiene insieme le reazioni di Giorgia Meloni alle parole di Bolognesi sulle connessioni storiche tra l’estremismo neofascista e l’attuale destra di governo e le dichiarazioni di Federico Mollicone relative all’esistenza di un teorema giudiziario secondo cui “nel dopoguerra gli Usa, con la loggia P2 e perfino il MSI avrebbero, con la strategia della tensione e le stragi, condizionato la storia repubblicana”. Teorema che giustificherebbe un’interrogazione al Ministro della Giustizia volta a far accertare il rispetto, nell’ambito dei processi per la strage del 2 agosto 1980, delle garanzie di accusa e difesa.
Un sottile filo nero che travalica il collaudato tentativo di estirpare la violenza dal fascismo, alla ricerca di una sorta di “fascismo buono” al quale saldare le radici profonde della fiamma tricolore; un sottile filo nero in grado di andare oltre l’altrettanto collaudata tendenza a descrivere gli esponenti della destra italiana, financo nelle sur articolazioni ordinoviste, come il bersaglio di una persecuzione giudiziaria che rinnega le responsabilità accertate tra Bologna e Piazza Fontana, passando per Piazza della Loggia e l’Italicus; un sottile filo nero destinato a non esaurirsi nella capacità dell’underdog di proporsi sempre e comunque come la potenziale vittima del livore di quanti faticano a metabolizzare il responso delle urne.
Underdog ma senza limiti
No, questo filo nero va oltre: si insinua nel pensiero più profondo degli epigoni di Almirante e del maestro Rauti, portando ad emersione la concezione di democrazia che in definitiva ispira le strategie del melonismo. Su cosa si basa questa concezione? In quale democrazia credono, i fratelli dell’underdog?
In un’idea di democrazia non ispirata al limite imposto ad un potere dalla presenza di un altro potere: un’idea di democrazia per certi versi caratterizzata dal libero imperversare di quei “poteri selvaggi” a cui faceva riferimento Luigi Ferrajoli in un suo saggio di qualche anno fa. Un’idea di democrazia, in altri termini, basata sulla artificiosa sovrapposizione tra fisiologica aspirazione al governo e pericolosa vocazione al comando. Se il governo costituisce infatti l’oggetto di una funzione – come tale, da esercitarsi nel rispetto dei limiti imposti ai depositari del potere politico contingente dalla presenza delle istituzioni di garanzia, della magistratura, dell’opinione pubblica – il comando, per sua natura, rappresenta la negazione del limite: chi comanda non tollera limiti; chi comanda rimuove i limiti. Della magistratura, dell’opinione pubblica, financo della stessa Storia.
Ecco, la vocazione al comando: il filo nero, tra le parole di Meloni e quelle di Mollicone.
E’ la vocazione al comando che legittima il più forte a riscrivere la Storia a suo appannaggio esclusivo, superando verità cristallizzate in sentenze ormai rivestite dello scudo del giudicato; è la vocazione al comando che teorizza un pubblico ministero sottoposto alla voluntas del potere politico, inevitabile portato della separazione delle carriere di gelliana memoria; è la vocazione al comando che consente di individuare nel Guardasigilli (e dunque nel Governo) il soggetto preposto a riscrivere le sentenze al di fuori di ogni meccanismo processuale, rilevando a suo imperscrutabile giudizio le eventuali violazioni delle garanzie di accusa e difesa.
Sì, esiste un filo nero tra le parole di Meloni e quelle di Mollicone. Un minimo comune denominatore, una assonanza nemmeno tanto recondita. È l’idea di una democrazia come potere senza limiti, basata sull’arbitraria sovrapposizione tra governare e comandare.