La travolgente vittoria dell’ultra destra in Argentina ci conduce in pieno in un film distopico. Da questo manifesto del collettivo editoriale della rivista Crisis emergono alcuni elementi per una lettura urgente delle elezioni. La resistenza è un enorme campo di apprendimento e nella disperazione si annida il germe di una inedita lucidità
Nell’anniversario dei 40 anni dal ritorno della democrazia, l’estrema destra di Javier Milei vince con il 55,69% le elezioni presidenziali, contro il peronista Sergio Massa, fermo al 44,3%. La nuova vicepresidente, Victoria Villaruel, che si ispira a Giorgia Meloni, è una negazionista dei crimini della dittatura, avvocata dei genocidi della giunta militare condannati per crimini di lesa umanità. Il neo-presidente eletto annuncia una terapia di shock economy enza gradualismi fatta di dollarizzazione, tagli “più duri di quelli richiesti dal FMI”, privatizzazioni delle imprese pubbliche e repressione, con il sostegno nel prossimo governo di Mauricio Macri e Patricia Bullrich, l’istituzione del Ministero del Capitale Umano al posto di ben quattro ministeri, quelli di Lavoro, Istruzione, Salute e Sviluppo Sociale. Tempi durissimi si attendono per un paese in crisi da anni, con l’inflazione che ha raggiunto il 149% e quasi metà della popolazione in condizione di povertà. Il voto di rabbia contro l’impoverimento e la svalutazione senza fine della moneta di un paese indebitato da Macri per cento anni con l’FMI finisce a una estrema destra che raccoglie consensi contro “la casta” promettendo la libertà di impresa, difesa della proprietà privata, liberalizzazione delle armi e lotta contro la “giustizia sociale”. Si apre da oggi una difficile e inedita transizione dal governo attuale al prossimo governo ultra neoliberista e di estrema destra che annuncia una fase durissima di orizzonti oscuri per il paese [Nota della redazione]
La sensazione di essere entrati in un film distopico è travolgente, anche per quelli che negli ultimi anni avevamo compreso la rilevanza epocale di una formazione politica di ultradestra che per la prima volta nella nostra storia si è sintonizzata con il malcontento dei settori popolari ed è riuscita a esprimere il desiderio di cambiamento di una gioventù senza orizzonti. Siamo di fronte a un cambiamento storico dalle conseguenza insospettabili.
La proposta La Russa è preistorica. C’è bisogno di altro: di finanziare le politiche di pace, il servizio civile, i corpi di pace, spese tagliate nel bilancio del governo che invece aumenta di 800 milioni le spese militari. Da il manifesto.
Per Ignazio La Russa la mini naja o la naja deve essere un chiodo fisso, avendo provato a reintrodurla (con qualche successo in parlamento) nel 2008 e nel 2019. Ora ci riprova in piena discussione sulla legge di bilancio, con una evidente sgrammaticatura istituzionale. Non è compito del presidente proporre disegni di legge, anche se per interposta persona (i senatori del suo gruppo politico).
La Russa con questa idea vuole riavvicinare i giovani alle Forze Armate, anche se sarebbe meglio riavvicinarli al lavoro (non precario) e a una istruzione di qualità. In questo fervore militaristico del presidente del Senato, sarebbe importante sapere come La Russa ha svolto il servizio militare a suo tempo, così da fare da esempio ai giovani di oggi. La mini naja non è certo una priorità per i giovani, che hanno ben altri problemi per la testa: è solo una priorità (ideologica) di chi non si riesce a liberare della retorica del passato e di un’idea sbagliata del «dovere» verso la patria. Una nota sentenza della Corte Costituzionale del 1985 ha ricordato che il servizio civile è un modo altrettanto degno di adempiere al dovere di servire la patria, previsto dall’art. 52 della Costituzione. E se passiamo all’articolo seguente della Costituzione, l’art.53 (gli articoli 52 e 53 fanno parte della sezione della Carta, intitolata: “Diritti e doveri del cittadino”), c’è un altro dovere da rispettare (verso la patria): pagare le tasse, auspicabilmente in modo progressivo. Di questo dovere il centrodestra si dimentica, con questa legge di bilancio, favorendo l’evasione fiscale, con la rottamazione delle cartelle, l’uso del contante, la revisione delle disposizioni sul cosiddetto Pos.
In sostanza, con la mini naja, si vorrebbero stanziare dei soldi pubblici per permettere ai giovani di fare 40 giorni di addestramento militare, prendere confidenza con le armi, le caserme, le esercitazioni ai poligoni. Tutto questo, quando la legge di bilancio lascia a secco il servizio civile (decine di migliaia di giovani rischiano di non poter entrare in servizio per carenza di fondi) e riduce dell’8% la spesa per la cooperazione allo sviluppo (siamo allo 0,2% del Pil, mentre per impegni presi a livello internazionale, dovremmo essere allo 0,7%). Ma, soprattutto, quando con la legge di bilancio 2023 aumentano le spese militari di 800 milioni di euro, da 25,7 a 26,5 miliardi di euro. E se per la mini naja si vogliono stanziare soldi con una nuova legge, per i corpi civili di pace, che sono già legge (ragazzi che vanno a rischiare la vita nelle aree di conflitto per portare la pace), non c’è in legge di bilancio nemmeno un euro.
La guerra in Ucraina sta diventando un pretesto per aumentare le spese militari, tagliare le risorse alle politiche di pace e far parlare di nuovo di naja, anche se mini e volontaria. Ma col tempo potrà essere meno mini e meno volontaria. Oggi avremmo bisogno di altro: di finanziare le politiche di pace, il servizio civile, i corpi di pace. Avremmo bisogno di ridurre le spese militari che – anche senza la guerra in Ucraina – sono continuate ad aumentare in Italia, e in tutto il mondo, come ci dice l’ultimo rapporto del Sipri. Il mondo sta diventando meno sicuro – nonostante le armi – e si spende sempre troppo poco per la cooperazione allo sviluppo. La guerra in Ucraina non solo colpisce i nostri rifornimenti energetici, ma soprattutto i rifornimenti di grano (cibo) per i paesi in via di sviluppo.
Ecco perché “Sbilanciamoci” con la controfinanzia del 2023 (che presenteremo il prossimo 21 dicembre alla Camera dei Deputati. Per info: www.sbilanciamoci.info) indica una strada diversa e opposta a quella del presidente del Senato e di questo governo. Proponiamo una riduzione di poco più 5 miliardi di euro alla spesa militare: tagli di 3,5 miliardi sui sistemi d’arma vecchi e nuovi, di 800 milioni sul personale con una progressiva riduzione degli organici, di 750 milioni sulle missioni militari.
La mini naja è una proposta preistorica, da dinosauri della guerra fredda. Quello che invece è incredibilmente moderno e attuale è il ritorno della guerra (e della spesa militare) come strumento geopolitico di dominio e di sopraffazione e come business per faccendieri, imprenditori privi di scrupolo e anche per un po’ di esponenti politici. La mini naja torni in soffitta e opponiamoci sempre di più alla logica della guerra e delle armi.
La testimonianza al comitato del 6 gennaio della Camera dei rappresentanti sull’insurrezione al Campidoglio degli Stati Uniti nel 2021 ci ha permesso di approfondire l’umanità dei sostenitori di Donald Trump.
Come rivelano le udienze , il presidente uscente ei suoi sostenitori sembravano essere sulla stessa lunghezza d’onda mentre esitava a fermare la violenza mentre i suoi seguaci erano decisi a eseguire i suoi ordini.
Data la sua influenza, sembra chiaro che Trump sappia cosa fa funzionare i suoi seguaci. Il fascino del populismo di Trump non è un fenomeno isolato, ma qualcosa legato al modo in cui le persone pensano ai loro leader.
Il populismo di Trump ora è diventato più grande dello stesso Trump . Il successo dei tiranni in tutto il mondo suggerisce che dovremmo prenderli più sul serio quando vengono elogiati come intelligenti , almeno quando si tratta di manipolare le nostre menti.
Il nuovo autoritarismo
Sebbene i movimenti populisti siano in circolazione da molto tempo, c’è stato un notevole interesse nello spiegare perché il populismo è diverso ora , perché è accoppiato con l’autoritarismo e si tinge senza scusarsi di nazionalismo e xenofobia.
Le emozioni alla base delle passioni delle masse prive di diritti civili sono radicate oggi nella paura di noi contro loro della scomparsa nazionale – che l’aumento dell’immigrazione, della liberalizzazione e della globalizzazione sono segni schiaccianti che le istituzioni un tempo affidabili non possono più proteggere il nostro benessere collettivo.
In molti paesi in cui l’autoritarismo ha preso piede – Russia, Bielorussia, Ungheria, Turchia e Polonia per citarne alcuni – questo populismo è anche accompagnato da una spinta dei leader a sopprimere la libertà di stampa o diffondere disinformazione dilagante aiutata dai social media.
In un cenno all’intelligenza di tali autocrati, il premio Nobel Maria Ressa descrive l’uso politico di tale disinformazione come “diabolicamente brillante”.
Ressa, giornalista, è stata insignita del Premio Nobel per la Pace per i suoi sforzi per salvaguardare la libertà di espressione.
In una Roma blindata, i potenti della Terra discuteranno la gestione della pandemia e il contrasto al riscaldamento globale, mentre i movimenti sociali, guidati dal fronte ecologista, scenderanno in strada per ribadire la necessità di un cambio di paradigma strutturale
Mentre assistiamo alle devastazioni provocate dall’uragano che si sta abbattendo sul Sud Italia, a Roma si incontrano i leader delle nazioni più ricche del mondo: l’occasione è il G20 a presidenza italiana, che si terrà alla Nuvola di Fuksas.
Nell’agenda del forum, i temi più importanti su cui i potenti della Terra saranno chiamati a discutere rappresentano le due assolute priorità del momento: la gestione della pandemia e il contrasto al riscaldamento globale, in vista dell’imminente Cop26 di Glasgow.
Nel settembre 2018, un mese prima che Jair Bolsonaro divenisse il nuovo, scomodo, inquilino del Planalto, a Rio de Janeiro andò a fuoco il Museo nazionale del Brasile. Tra ciò che venne arso dalle fiamme vi furono la collezione delle lingue indigene, le registrazioni dei canti degli indios e dei quilombolas e la mappa etnico-storico-linguistica originale che localizzava tutti i gruppi etnici. Si trattò di un «tragico annuncio del progetto bolsonarista per il Brasile», ha scritto Claudiléia Lemes Dias nel suo libro Fascismo tropicale. Il Brasile tra estrema destra e Covid-19, che racconta nel dettaglio come la macchina di propaganda del presidente abbia preso possesso militarmente del più grande paese dell’America latina.
La legge sulla «sécurité globale» appena approvata oltralpe punisce chi riprende le violenze poliziesche. Una reazione repressiva delle pratiche dei Gilet gialli e dei giovani delle banlieue che hanno eroso il consenso per le forze dell’ordine
Le piazze francesi tornano a riempirsi mentre si approva il 24 Novembre il progetto di legge sulla «sécurité globale»: un testo fortemente voluto dal governo e dai sindacati di polizia che, tra le altre cose, punisce con una sanzione di 45mila euro e un anno di prigione la diffusione dell’«immagine del viso o di ogni altro elemento di identificazione» di un poliziotto o gendarme in servizio con lo scopo di «attentare alla sua integrità fisica o psichica».
Secondo Gerald Darmanin, Ministro dell’Interno e mandante del progetto di legge, questa limitazione del diritto di informazione è una tutela per le forze dell’ordine, che riceverebbero costantemente minacce e ritorsioni. Al di là del fatto che non esistono prove riconosciute e nemmeno cifre ufficiali in proposito e che da un punto di vista giuridico sono già previste sanzioni in materia, è evidente che il bersaglio del provvedimento è la possibilità per i cittadini di denunciare in tempo reale gli abusi polizieschi, una pratica che si è largamente diffusa prima nei quartieri popolari e poi con il movimento dei Gilet Gialli. L’annuncio del progetto prevedeva la necessità di accreditarsi come giornalisti presso la prefettura per poter coprire le manifestazioni. Gli articoli di legge ormai approvati all’Assemblea Nazionale non vietano espressamente di filmare (un emendamento decorativo garantisce il «diritto di informare»), ma attribuiscono agli agenti la facoltà di mettere in stato di fermo (garde à vue) chi filma, sulla base del sospetto che possa diffonderlo non per esercitare un diritto di informazione bensì per istigare a un delitto contro l’agente in questione. Certo sarà il tribunale a giudicare se questo è il caso o meno, ma intanto il fermo è effettivo e svolge una funzione «dissuasiva».
Abbiamo tratto questo articolo dalla Rivista Terrestres: riteniamo che le riflessioni contenute nell’articolo ci riguardino …..editor ( traduzione automatica google )
Cosa ci sta succedendo politicamente? Soffia un brutto vento e giorni felici non tornano. All’orizzonte, le promesse di autogoverno, di miglioramento della vita quotidiana, di emancipazione dal dominio, di godimento del presente svaniscono nella nebbia. Dopo il tempo dell’indignazione, della rabbia, ecco quello della paura. Ma inevitabilmente tornerà il tempo della rabbia politica.
Tre eventi significativi si sono verificati recentemente in tre paesi dell’Europa orientale. La Polonia ha votato con urgenza una legge che punisce l’occupazione delle università con 3 anni e una multa di 5.000 euro, attaccando duramente le libertà accademiche. Il potere della polizia in Bielorussia reprime ferocemente una rivolta estremamente popolare nel Paese: in quattro mesi, 24 feriti, 5 mani strappate e 2.500 feriti. In Ucraina, un doppio attacco islamista ha scosso profondamente il Paese; lo shock nell’opinione pubblica è stato seguito da un’offensiva senza precedenti dei media e del governo che ha aperto la strada a misure fasciste. In questi tre paesi, tre decenni di neoliberismo hanno amplificato le disuguaglianze e brutalizzato la società.
Dove sta andando questa parte del continente, a forza di approfondimenti autoritari e misure eccezionali? La valanga di leggi liberticide, le coperture date alla polizia e la circolazione accelerata dei discorsi marziali producono una nuova normalità politica. Come qualificare questo stato sociale e questo regime di esistenza che non sappiamo ancora nominare, se non con quello del liberalismo autoritario1 – un termine che a sua volta può sembrare impotente per spiegare la specificità dell’attuale sequenza politica? L’osservatore onesto deve ammettere questa prova: con questo nuovo irrigidimento, questi paesi si stanno allontanando ulteriormente dallo stato di diritto nell’Europa occidentale e stanno senza dubbio sprofondando nelle società pre-fasciste.
In realtà, queste tre situazioni sono concentrate all’interno di un altro Paese, in forma esagonale e con il motto repubblicano libertà-uguaglianza-fraternità. I fatti riportati si sono verificati tutti nel prossimo passato sul nostro suolo repubblicano2 .
Abbiamo saputo da Montesquieu e dalle sue Lettere persiane (1721) che ciò che più fuorvia il nostro giudizio politico è la falsa familiarità con la nostra condizione e l’abitudine che indebolisce tutto. Interpretando un viaggiatore straniero a Parigi per descrivere la società francese nel XVIII secolo, il filosofo offre uno sguardo distante che porta verità politiche. Rendendo l’ordinario esotico, riuscì a un sottile attacco al sistema monarchico denunciando in particolare la concentrazione dei tre poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) nella persona del re.
VIVERE SOTTO IL TRIPLO DOMINIO
Trecento anni dopo, il regime politico è cambiato così come le principali istituzioni. Ma, sotto il nostro cielo repubblicano, le nostre esistenze rimangono poste sotto una triplice dipendenza macro-strutturale: potere della polizia di stato, potere tecnologico-digitale, potere del capitale.
Sapevamo sarebbe accaduto, era prevedibile, Dopo aver incassato l’approvazione della legge che gli ha assegnato pieni poteri, il premier Viktor Orban ha usato le misure ‘antiallarmismo’ per far arrestare gli oppositori e tacitare l’opinione pubblica.
E l’Europa che fa? Cosa dice di fronte a questa spirale autoritaria? Per ora si accontenta dell’annuncio del primo ministro, arrivato in serata, di aspettarsi che il governo “possa restituire al Parlamento i poteri speciali ricevuti a causa della pandemia alla fine del mese di maggio”
Si vedrà, per ora la svolta autoritaria ungherese appare irreversibile nel silenzio colpevole di un’Unione Europea intimorita da Orban.
In queste ore, i fatti confermano i nostri timori. La cosiddetta ‘legge antiallarmismo’ fatta approvare da Orban viene usata per intimidire l’opinione pubblica qualificata, i media, l’opposizione politica e dissuaderli dal criticare l’operato del governo sulla gestione della crisi sanitaria ed economica e più in generale l’azione di Orban tout court. Persino parlamentari vengono arrestati, interrogati con l’evidente scopo di tacitare il dissenso.
Un bavaglio che soffoca ogni vice libera e critica in Ungheria.
Il Coronavirus sta ottundendo le facoltà cerebrali, prima ancora che attaccare i polmoni. Navighiamo in un oceano di follia. Ho scritto più volte che la prima “emergenza” in Italia è la cosiddetta informazione, che è controllata in gran parte da due gruppi finanziari, ed è assolutamente omologata culturalmente, oltre che politicamente a senso unico, e povera, spesso poverissima sul piano della mera capacità giornalistica, non di rado anche nella padronanza della lingua italiana.
Umberto Eco, in un piccolo saggio intitolato Il fascismo eterno, dedicato alla cultura che al fascismo sopravvive sotto “abiti civili” e “spoglie innocenti”, scriveva: “Sarebbe così confortevole, per noi, se qualcuno si affacciasse sulla scena del mondo e dicesse: ‘Voglio riaprire Auschwitz, voglio che le camicie nere sfilino ancora in parata sulle piazze italiane!’. Ahimé, la vita non è così facile”.
Parlare di “ritorno del fascismo”, infatti, resta tuttora un’arma spuntata, un’idea esagerata se col termine “fascismo” ci si limita al regime terminato nel 1943. Ma il fascismo non fu solo un regime storicamente definito. Il fascismo è anche e soprattutto un’ideologia – che evidentemente non è morta – e come tale si è costruita su un certo tipo di cultura. Ultimamente si è parlato spesso di fascismo. La retorica demagogica del populismo, il suo infarcirsi di un’idea di italianità astratta e usata come feticcio contro le “invasioni”, la crescita esponenziale di episodi di razzismo, se non di dichiarato neofascismo, le cene di partito dedicate alla Marcia su Roma con tanto di mascellare Mussolini stampato sul menù, le minacce a Segre perché ebrea: anche agli occhi dei più scettici, senza dover smascherare chissà quale arcano, tutto questo dovrebbe mettere in luce i contorni che la crisi della democrazia rappresentativa sta assumendo in Italia.
Fin dalla nascita dei moderni stati-nazione europei, l’Italia – uno stato nazionale nato tardi e faticosamente, con grandi divisioni interne – ereditò fin da subito un modello di polizia autoritario, volto al mantenimento dell’ordine inteso non tanto come difesa della cittadinanza, ma del sovrano da eventuali moti di ribellione. La prima legge di pubblica sicurezza dello Stato unitario risale al 1865, anno a cui possiamo far risalire anche due aspetti che si rivelarono cruciali nella storia delle nostre forze dell’ordine: da un lato, il largo margine di interpretabilità della nozione di “ordine pubblico” secondo il diritto di polizia; dall’altro, la sua pericolosità alla luce della dipendenza politica dei corpi di polizia, diretti dal ministero dell’Interno. Nonostante la più liberale legge crispina del 1889 puntasse a ridurre questo margine, la nozione di “ordine pubblico” restava poco definita e basata, fin dall’inizio, su norme di decoro e diligenza derivate dalla stessa mentalità borghese su cui il fascismo costruì, qualche decennio dopo, il suo consenso. A richiedere particolare sorveglianza erano figure poco conformi alla “norma” come gli “oziosi”, i “vagabondi”, i “ciceroni”, i “saltimbanchi”, i “ciarlatani”, i “cantanti”, gli “ubriachi” e le “prostitute”, come si legge nel testo di legge sulla polizia a piedi del 1880.
Fu Mussolini a definire per primo, e con estrema precisione, il concetto di “ordine pubblico” in Italia. “L’era delle rappresaglie, delle devastazioni e della violenza è finita”, sbraitava inaugurando il suo principale strumento di repressione. Nel Tulps – il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, del 1931 – la nozione di “ordine pubblico”, prima sporadica e vagamente definita, era ovunque e forniva al Paese, per la prima volta, una dettagliatissima legislazione. È superfluo descrivere a cosa la nozione di “ordine” corrispondesse nel pieno del regime fascista. Si trattava di un concetto interpretato in senso assoluto e “ideale”, alla luce del quale ogni espressione di dissenso poteva esser letta come l’avvisaglia di una guerra civile.
Nonostante la fine del fascismo e nonostante la Liberazione, la riforma della polizia arrivò solo nel 1981. Una pietra d’inciampo molto grossa – forse la più significativa, data l’importanza cruciale del legame tra forze dell’ordine e democrazia – nella transizione italiana dal fascismo alla Repubblica. Soprattutto alla luce della cultura giuridica liberale espressa dalla nostra Costituzione. Una cultura in cui il cittadino è portatore di diritti inviolabili che a lui competono come uomo prima che come cittadino, e che vengono a lui riconosciuti piuttosto che concessi. La Costituzione forniva ampi spunti per una riforma della polizia e di un concetto di “ordine” inteso in senso “materiale” e minimo, unicamente volto all’incolumità e sicurezza dei cittadini. Nonostante questo, però, la legge di polizia restò “fascista” fino al 1981. Benché riformato, il Tulps resta a oggi il nostro testo di legge per la pubblica sicurezza: norme vessatorie introdotte durante il Ventennio sono tutt’oggi in vigore, quella per i numeri identificativi della polizia è una battaglia ancora in corso, e nel 2004 la legge numero 226 inseriva l’aver prestato servizio militare volontario tra i requisiti per l’ingresso in polizia, rimilitarizzando, di fatto, un corpo a ordinamento civile.
Le conseguenze di tutto ciò sono emerse chiaramente nel 2001 coi fatti del G8. La morte di Giuliani, gli slogan fascisti e nazisti nelle caserme di Bolzaneto, la sistematica violazione della legge da parte dei poliziotti, la violenza indiscriminata e ingiustificata sui manifestanti, per tacere della catena di omertà, falsità, manipolazione e distruzione di prove, e ostracismo alle indagini della magistratura. Una descrizione dettagliata di quello che accadde a Genova, completa di sentenze giudiziarie, è consultabile nel libro di Vittorio Agnoletto e Lorenzo Guadagnucci intitolato L’eclisse della democraziae pubblicato nel 2011. Per capire che in quella occasione si andò oltre basti pensare alle parole del funzionario di polizia che, la sera della Diaz, chiese ai propri vertici un intervento a fronte della sua incapacità di gestire i poliziotti: “Io i miei uomini non li tengo più”.
“Certo bisogna farne di strada / da una ginnastica d’obbedienza / fino ad un gesto molto più umano / che ti dia il senso della violenza”, cantava De Andrè.
Cultura e diritto vanno infatti di pari passo, influenzandosi a vicenda. Decenni di militarizzazione e autoritarismo hanno creato una vera e propria “cultura” nella polizia italiana. Quello della police culture è un aspetto che la ricerca storica e sociologica ha messo a fuoco in diversi Paesi, ed è da qui che bisogna partire per una riforma radicale – e finalmente liberale – della polizia. L’attuale concezione di “ordine” e “sicurezza” resta asfissiante e direttamente mediata da quella stessa mentalità su cui il fascismo costruì il suo consenso, e che sul “disobbediente” costruì un addobbo di stereotipi. Giovane, maschio, comunista, “agitatore sociale”, “mela marcia” da rieducare, il disobbediente è chi devia, per stile di vita o stile di comportamento, da norme di diligenza e decoro che assumono una connotazione morale. È questo che hanno in comune i morti per mano dello Stato degli ultimi vent’anni.
Dopo Carlo Giuliani “lo spaccavetrine”, Federico Aldrovandi “l’invasato violento” che tornava dalla discoteca assuefatto da qualche pasticca, morto sull’asfalto in una pozza di sangue come Giuliani. E poi Riccardo Rasman “il matto”, morto nello stesso identico modo, per finire con la catena di “drogati” che la polizia ha ritenuto giusto educare “a forza di botte”: Aldo Bianzino, arrestato per possesso di cannabis e morto meno di 48 ore dopo in carcere. Giuseppe Uva, che faceva troppo rumore per strada, spingendo i residenti infastiditi – magari anche scandalizzati – a chiamare la polizia. E Stefano Cucchi, naturalmente. Quello che – stando alle parole di Giovanardi prima e Salvini poi – in qualche modo se l’è cercata, perché la droga fa male (peccato che la droga non c’entri nulla con la sua morte). Ma non solo. Una morte all’anno, come mosche, nelle mani delle forze dell’ordine. Ribelli, psichiatrici, deboli, problematici prima che individui portatori di un diritto inalienabile alla vita, mele marce cui raddrizzare la schiena, come voleva Mussolini, che alla pena dava un valore morale, coerentemente con l’idea che il popolo fosse “un minore da educare”, come ha sottolineato lo storico Antonio Gibelli in un saggio del 2005 intitolato Il popolo bambino. Capiamo così tutto il significato dell’epiteto “ragazzo” con cui Giuliani è ricordato, così come i versi del cantautore romano Mannarino dedicati a Cucchi in Scendi giù, canzonepremiata nel 2015 da Amnesty International. Cogliamo, infine, la potente citazione nel film del 2018 di Alessio Cremonini, Sulla mia pelle, dedicato alla storia di Stefano Cucchi, in cui la sua morte è modellata su quella di Ettore in Mamma Roma, il famoso film del 1962 di Pier Paolo Pasolini, forse il critico più lucido del fascismo come “fenomeno culturale” prima ancora che politico, e della sua sopravvivenza nella mentalità borghese.
La sinistra istituzionale, di fronte a tutto ciò, continua a tacere. Quello della “polizia fascista”, a oggi, resta solo uno slogan da “spaccavetrine”, e il clima politico attuale sembra fomentare in ogni modo una cultura securitaria e repressiva. Come scrisse Calvino, bisogna “saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. E forse non si tratta di stare da una parte o dall’altra della barricata, quanto di capire quali siano i valori che ci guidano come società civile. Vale allora la pena concludere con le parole di un poliziotto, raccolte in un volume a cura di Franco Fedeli accompagnato da una prefazione di Leonardo Sciascia, comprendente una serie di lettere scritte da agenti della polizia tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta.
Scriveva Armando Fontana da Imperia nel 1980, ai suoi superiori, a proposito dell’uccisione di un giovane ladro: “Le sembra giusto che queste indiscriminate ed incivili esecuzioni, possano verificarsi continuamente in un Paese che vanta di avere la più democratica delle Costituzioni, di ospitare il Papa e di essere al 90 per cento cattolico, quando le forze politiche mostrano la più assoluta indifferenza e totale cinismo […]? I miei colleghi hanno la pistola facile […], sono convinto che basterebbe che […] i nostri superiori dessero, invece delle solite minchionerie sui capelli troppo lunghi, delle camicie sbottonate, delle scarpe poco lucide e del berretto messo male, qualche nozione sull’uso delle armi, su come e quando devono essere impiegate; che sprecassero qualche parola sull’importanza della vita umana, sulle finalità del nostro compito che è quello di tutelare la vita e l’incolumità dei cittadini e di sottoporre questi, se commettono reati, al giudizio dello Stato”.
#FreeAssange! Questa richiesta dovrebbe essere letta su tutti i giornali, sentita in tutte le radio e vista in tutte le televisioni, ma la maggior parte dei media mainstream non ne parla e se lo fa, di solito lo trasforma in un “denunciante”, negandogli lo status di giornalista.
Qui in Germania o in Europa, quasi nessuno saprebbe nulla di Julian Assange e del suo percorso verso l’isolamento se non fosse per i media indipendenti, che però non hanno la forza di confrontarsi con i media mainstream.
Viviamo in un’epoca di contraddizioni e sconvolgimenti. È sempre più chiaro che la politica e i media ufficiali non svolgono più i compiti loro assegnati. La politica trascura sempre più i cittadini e rappresenta sempre più apertamente gli interessi di pochi.
Il racconto prestabilito
I media mainstream- il “quarto potere” tanto spesso citato – non mettono più in discussione e non controllano più le azioni dei politici. In larga misura sono diventati una macchina di distribuzione di notizie politiche a sé stante, il cui contenuto non è quasi più informativo. Esiste un giornalismo “copia e incolla”, che utilizza sempre più spesso le stesse fonti di informazione e quindi impedisce alle persone di formarsi una loro opinione.
In generale, i media indipendenti sono indicati come “media alternativi”, ma questo termine può essere fuorviante, perché può suggerire ad alcune persone che sarebbero una sorta di controparte dei media consolidati o dominanti. Ma a mio parere non è così, perché la rete in teoria dà a tutti la possibilità di fare giornalismo, quindi anche a chi segue la narrazione predeterminata.
Liberi da vincoli, con diversi punti di vista
In generale vedo più i “media alternativi” come media indipendenti. Non appartengono a un particolare gruppo mediatico di proprietà di una famiglia o di una società. Non si finanziano con la pubblicità, né sono soggetti ai vincoli delle aziende, dove il tempo e i modi di pensare prestabiliti sono le direttive principali.
Non che essi agiscano come “guardiani della verità”. Viviamo in un mondo estremamente complesso e sfaccettato. Ciò che la maggior parte di loro fa è descrivere le cose da prospettive diverse, mostrare punti di vista diversi. Si sforzano di portare alla luce gli elementi lasciati nell’oscurità dagli altri. La pretesa della maggior parte di loro è quella di essere il più oggettivi e credibili possibile.
Posso e voglio spiegare perché attribuisco tanta importanza ai media liberi e indipendenti solo dal mio punto di vista personale. È il risultato del fatto che ogni persona ha la propria percezione del mondo.
“Noi siamo i buoni!”
Come ho detto all’inizio, la maggior parte dei media mainstream segue una certa narrazione politica. A mio parere, questo rende quasi impossibile all’individuo avere una migliore visione d’insieme. È quindi condannato a pensare e a giudicare in base a percorsi obbligati e questo ha molto poco a che fare con la maturità e l’indipendenza.
“Noi siamo i buoni” è un detto quasi inflazionato nel cabaret politico dei paesi di lingua tedesca, ma è il risultato di un giornalismo che per decenni, giorno dopo giorno, ha cercato di convincere la gente di essere l’unico giusto. Il risultato è un modo di pensare uniforme che fa ormai parte del subconscio e non riflette in alcun modo ciò che il mondo è realmente e le condizioni in esso prevalenti. Questo vale per tutti i settori della vita.
Cosa bisogna fare?
Il problema con i media indipendenti è che ognuno lavora per conto suo e raggiunge un pubblico limitato. In questo modo non si arriva alle masse, ma si vive in una nicchia. Parecchi di loro hanno certamente molte aspirazioni, ma alla fine conducono un’esistenza di nicchia.
Ciò di cui hanno urgente bisogno sono diverse cose: il sostegno dei loro lettori, ascoltatori e spettatori e soprattutto la capacità e la disponibilità a collaborare e a mettere in secondo piano le sensibilità personali e politiche. Non per raggiungere l’uniformità, no, ma per diffondere una notizia, un evento, in modo più efficace di prima, per farne un argomento di ampio dibattito, per metterlo sulla bocca di tutti e quindi per generare pressione.
Una pressione di cui Julian Assange, ad esempio, ha un disperato bisogno, per non finire a consumarsi e magari a morire nell’indegno isolamento dei “buoni”.
Piena solidarietà a Julian Assange e ai media indipendenti!
Di scuola si parla poco, pochissimo. Non lo si è fatto in campagna elettorale e non lo si sta facendo neppure in questo primo scorcio di legislatura. La cosiddetta “buona scuola” di Renzi, se non altro, ha avuto il merito di riaccendere l’attenzione sul nostro sistema formativo, pieno di falle e di problemi di lungo periodo.
Ma a colmare questo vuoto nel dibattito pubblico ci pensano, come sempre, i social, con la loro veemente e amplificata semplificazione, che in un attimo sa trasformarsi in falsificazione, alla faccia dei nostri dibattiti sul web. Questa volta a pagarne le conseguenze è una insegnante di un istituto tecnico palermitano.
Tutto parte alla fine di gennaio, quando sul profilo di un attivista di estrema destra, vicino a siti come “Vox” e “Primato nazionale”, compare un tweet in cui è taggato il ministro all’Istruzione Bussetti: «Salvini-Conte-Di Maio? Come il reich di Hitler, peggio dei nazisti. Succede all’Iti Vittorio Emanuele III di Palermo, dove una prof per la Giornata della memoria ha obbligato dei quattordicenni a dire che Salvini è come Hitler perché stermina i migranti. Al Miur hanno qualcosa da dire?» [corsivo nostro]. Il giorno dopo si accoda la senatrice leghista Lucia Borgonzoni, questa volta su Facebook: «Se è accaduto realmente andrebbe cacciato con ignominia un prof del genere e interdetto a vita dall’insegnamento. Già avvisato chi di dovere» [corsivo sempre nostro]. (Si noti che l’onorevole Bergonzoni, già candidata sindaca a Bologna e ancora oggi consigliera comunale, è sottosegretaria ai Beni culturali.) Subito scatta l’ispezione da parte dell’Ufficio scolastico provinciale (il cui direttore, si dà il caso, è in corsa per coprire la carica di dirigente regionale), che decreta per l’insegnante una sospensione per 15 giorni con conseguente dimezzamento dello stipendio.
I fatti risalgono al 27 gennaio scorso, quando, in occasione della Giornata della memoria, la professoressa chiede ai propri alunni di preparare un lavoro sulle leggi razziali, che sotto forma di slide verrà poi proiettato nell’aula magna dell’Istituto. In una di queste slide gli autori del power point accostano la prima pagina del “Corriere della Sera” del 1938 al selfie con cui l’attuale ministro dell’Interno mostra sorridente un cartello salutando l’approvazione del cd. «Decreto Sicurezza».
Tutto questo, sollevato come detto dagli immancabili tweet e post, fa scattare la solerte e accurata ispezione ministeriale: pure la Digos arriva a scuola. Oltre alla colpevole (nessun garantismo in questo caso da parte del potere leghista: la signora è una semplice docente di scuola superiore, mica un sottosegretario o un sindaco) vengono interrogati i ragazzi, il preside, gli insegnanti. Insomma, una roba in grande. Non è dato sapere se ci fossero anche i cani e i blindati parcheggiati fuori. Però ai diligentissimi vigilanti si pone subito un problema: il reato d’opinione non esiste. Che fare dunque? Bisogna trovarne un altro, di reato, pur di punire quell’insegnante. Così la professoressa viene sospesa per “omessa vigilanza” (delle opinioni, evidentemente).
Tutto questo per cosa? Lo ha spiegato bene (sempre su Twitter, ci perdonerete) Ermanno Ferretti. L’intento della Lega pare quello di lanciare un duplice avvertimento: il primo è «occhio, ragazzi, perché se pensate delle cose che non ci piacciono vi mandiamo la Digos in classe»; il secondo (non sono in quest’ordine, i due avvertimenti partono in contemporanea), «occhio, prof., perché se i vostri studenti pensano cose negative sul governo ce la prendiamo con voi».
Ora, non sempre è utile stare sul web. Anzi, spesso si perde un sacco di tempo. Ma in questo caso conviene perdere tre minuti e andare ad ascoltare le parole dell’insegnante colpita. Converrebbe soprattutto a chi ricopre incarichi di governo dovendosi occupare di cultura. Così facendo, si accorgerebbe che la signora, visibilmente provata dalla vicenda dopo una vita per la scuola, ha molto da insegnare non solo ai suoi ragazzi, come ha sempre fatto, ma anche e forse soprattutto a chi dalla scuola è uscito da un pezzo e ora se ne sta a palazzo a postare, twittare e sollecitare l’intervento della Digos, ogni qual volta l’opinione altrui si discosta troppo dalla “linea”. Lo dice con pacatezza ma in maniera straordinariamente chiara e didattica, l’insegnante. Insegnare significa abituare i propri allievi a ragionare, a formarsi delle opinioni fondate su più fonti. Abituarli a leggere, soprattutto (udite udite) libri e giornali, preferibilmente di orientamento diverso. Per questo, spiega sempre la prof, il lavoro per la Giornata della memoria era stato preparato in classe con incontri e discussioni, durante le quali tra i ragazzi sono emersi (evviva) anche orientamenti molto diversi. Questo deve fare chi ha in mano la formazione “dei giovani italiani e delle giovani italiane”, per dirla in un modo che possa piacere alla linea e ci eviti la censura.
Non dovremmo nemmeno essere qui a discuterne: un insegnante deve essere responsabile delle opinioni dei propri alunni? Dovremmo piuttosto essere felici, tremendamente felici, che nelle scuole italiane ci siano studenti che hanno opinioni che si sono formate grazie al lavoro e alle letture, grazie allo studio e alle discussioni, magari accese, dentro alle loro classi. Anche se le loro opinioni non ci piacciono.
Se dimentichiamo questo, se una vicenda come questa andrà a spegnersi come tutte le altre, allora vorrà dire che siamo andati davvero troppo oltre.
Questa vicenda fa rabbrividire. La caccia ossessiva e la repressione di qualsiasi forma di divergenza dal minuscolo Salvini pensiero è ora pratica quotidiana. Dai vigili del fuoco che con le scale esterne vengono mandati a staccare striscioni che non danno il benvenuto al ministro a tempo perso, alla penalizzazione di una docente per un video prodotto da ragazzini quattordicenni. Questo video, le eventuali affermazioni esagerate potevano essere oggetto di discussione pacata e occasione per un libero confronto educativo. Sarebbe stata una occasione di crescita per tutti. Anche per la zelante ispettrice ministeriale e per l’ossequente Ufficio Provinciale… Per quanto attiene alle dichiarazioni della sottosegretaria alla cultura , la bolognese Borgonzoni, una signora che , si dice, non ami la lettura dei classici, no comment… Un augurio di cuore che questa vicenda si ridimensioni e venga revocata questa sanzione borbonica che ci rammenta tempi bui.
Rosa Maria Dell’Aria è stata sospesa per due settimane perché non avrebbe vigilato sul lavoro dei suoi studenti 14enni che in un video hanno paragonato le leggi razziali al decreto sicurezza
Un’insegnante d’italiano, Rosa Maria Dell’Aria, docente nell’istituto industriale Vittorio Emanuele a Palermo è stata sospesa, da sabato scorso, per due settimane dall’ufficio scolastico provinciale perché non avrebbe vigilato sul lavoro dei suoi studenti 14enni che nella giornata della memoria avevano presentato una videoproiezione nella quale si accostava la promulgazione delle leggi razziali del 1938 al decreto sicurezza del ministro dell’Interno Matteo Salvini.
La sospensione – scrive Repubblica Palermo – con stipendio dimezzato, è stata attuata al termine di una ispezione ministeriale cominciata dopo una serie di post sui social. Tutto sarebbe nato dopo che un attivista di Destra aveva lanciato un tweet indirizzato al ministro all’Istruzione Marco Bussetti: “Salvini-Conte-Di Maio? Come il reich di Hitler, peggio dei nazisti. Succede all’Iti Vittorio Emanuele III di Palermo, dove una prof per la Giornata della memoria ha obbligato dei quattordicenni a dire che Salvini è come Hitler perché stermina i migranti. Al Miur hanno qualcosa da dire?”.
Il giorno dopo la sottosegretaria leghista ai Beni culturali Lucia Borgonzoni è intervenuta su Facebook: “Se è accaduto realmente – ha scritto – andrebbe cacciato con ignominia un prof del genere e interdetto a vita dall’insegnamento. Già avvisato chi di dovere”.
La cosa più disarmante di tutta la vicenda della nave Diciotti è stato il quotidiano tentativo di rassicurare tutti sulle condizioni dei migranti costretti a restare a bordo. “Stanno tutti bene” ci hanno ripetuto ogni giorno, come in un ossessivo bollettino medico che pretendeva di mostrare l’umanità di chi impediva a quelle persone di scendere dalla nave. “Stanno tutti bene” ci hanno detto ogni giorno, fino all’ultimo giorno, anche dopo che lo sbarco, finalmente, è stato ultimato. Ce lo hanno detto imbarazzati parlamentari cinque stelle, ce lo ha ripetuto il ministro della paura, lo hanno recitato come un mantra i seguaci della linea “pugnodiferro” del ministro papà.
A vicenda conclusa, il Presidente del Consiglio ha scritto, tra l’altro, che: “abbiamo prestato loro continua assistenza sanitaria e fornito tutto il vitto necessario”. Ma a che serve questa nuova, paradossale versione di “buonismo” che dichiara di voler preservare il benessere di quegli uomini, donne e bambini seppure usati come ostaggi e lasciati per giorni sul ponte della nave della Guardia Costiera?
Le parole hanno sempre un senso. I messaggi che le parole rimandano contengono la sintesi di una progettualità politica, la stessa che il ministro della paura poco tempo fa chiamava “la retorica della tortura” e in un filmato, autoprodotto senza alcuna mediazione giornalistica, mostrava il modello “innocuo” di un centro di detenzione in Libia. La stessa logica che ha spinto il ministro della paura a chiamare “illegali” quei naufraghi a bordo del pattugliatore Diciotti, che, ad onor del vero, se gli fosse stato consentito chiedere asilo, avremmo scoperto che ne avevano formalmente diritto. Non esiste un migrante “illegale”, neanche se entra in modo irregolare in Italia può essere definito “illegale”. E in questo specifico caso, ovvero eritrei e somali, sono rifugiati, in fuga da una dittatura sanguinaria, dalla guerra, rifugiati altro che “illegali”.
“Stanno tutti bene”, ma quale tortura, ma quale sequestro, quale ricatto. Si ripete come un mantra quel messaggio rassicurante per negare l’evidenza, ed è maledettamente simile nel significato a quelle rassicuranti fotografie di altri sequestri quelle con il quotidiano del giorno che mostrava l’esistenza in vita del sequestrato e ribadiva la necessità di pagare il riscatto, ottenere il risultato. Un ricatto, certo, un ricatto all’Europa. È stato scritto con grande evidenza in questi giorni, un ricatto perpetrato dalle istituzioni che hanno dimenticato di aver giurato sulla costituzione.
Le parole hanno sempre un senso. Il vicepremier Di Maio dice che quelle del ministro della paura sono scelte politiche condivise da tutto il governo e non sono in contraddizione con il “contratto di governo”. La politica viene prima del diritto, dunque, prima della costituzione? Dice in tv Giulia Bongiorno, ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione: “se c’è una limitazione della libertà che in astratto può sembrare un sequestro, se viene posta in essere per adempiere un dovere, è come si scriminasse il reato. Il ministro Salvini in questo momento sta adempiendo al suo dovere di Ministro, e lo sta esercitando con delle scelte politiche, che possono non essere condivise, ma sono scelte di un ministro”.
Il professore ordinario di diritto costituzionale Roberto Bin le risponde che questo pensiero è fascismo: “Lo avrebbe potuto esprimere qualche tirapiedi di Mussolini, non già un ministro della Repubblica italiana, che ha giurato fedeltà alla Costituzione nelle mani del Presidente della Repubblica. Perché la Costituzione è stata scritta proprio per questo, per mettere un argine al potere politico, imbrigliarlo in regole, procedure e limiti che servono a proteggere i nostri diritti e le nostre libertà. Il ministro che compie le sue scelte lo può e lo deve fare nell’ambito della Costituzione e delle leggi dello Stato. “In astratto può sembrare un sequestro di persona”: è un’affermazione gravissima, tanto più in bocca a un ministro e tanto più se il ministro è una donna di legge che, si deve ritenere, non parla a vanvera.”
Inserito da Redazione SI on 25 giugno 2018 – 10:20
Autore : Gavino Maciocco
La vera emergenza sta nel fatto che ai migranti “forzati” è impedito di esercitare il loro sacrosanto diritto a muoversi attraverso canali legali e sicuri, e a causa di ciò dover subire ogni genere di vessazione, fino alla morte, nel tentativo di fuggire da condizioni insostenibili. La vera emergenza è che milioni di persone debbano abbandonare le loro case, e spesso anche il loro paese, per un insieme ben note di cause: guerre, regimi dittatoriali, neo-colonialismo, sfruttamento delle risorse naturali, cambiamenti climatici.
La natura razzista e xenofoba della Lega (già Lega Nord) si è manifestata in innumerevoli occasioni nelle parole e negli atti (talora criminali) dei suoi rappresentanti, anche nel campo della salute, con l’alimentare, ad esempio, la psicosi dell’accoppiata “malattie-immigrazione” (vedi Malattie infettive e immigrazione: facciamo chiarezza).
La natura razzista e xenofoba della Lega Nord si manifestò in tutta la sua evidenza quando nel 2009, dalla posizione di governo in cui si trovava – primo ministro Berlusconi – propose e riuscì a far approvare al Senato una modifica della legge sull’immigrazione: nel mirino della Lega Nord il divieto per i medici di segnalare all’autorità un paziente straniero irregolare. Divieto che andava abrogato per facilitare l’identificazione degli stranieri irregolare e/o per impedire che questi si rivolgessero al Servizio sanitario nazionale (vedi Il diritto alla salute non ha bisogno di documenti).
La mobilitazione contro questa proposta fu immediata. Si mosse la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici chesi appellò al Parlamento per le “superiori esigenze di tutela sella salute e imprescindibili principi di solidarietà” definiti come “patrimonio storico della nostra nazione”. La Federazione dei Medici affermò una preventiva vicinanza ai colleghi che fossero incorsi in sanzioni per non avere rispettato una legge in aperta opposizione con il codice deontologico della professione medica basato sull’assenza di discriminazione nel trattamento. In ultimo la Federazione dei medici lanciò un appello affinché la Camera dei Deputati non approvasse l’emendamento e chiedeva “un’audizione urgente” nelle sedi istituzionali. (Vedi Noi non segnaliamo: la posizione ufficiale dei medici).
Il 17 marzo 2009 fu lanciata la campagna “Noi non segnaliamo”, i cui contenuti sono rappresentati nel volantino qui sotto
La campagna ebbe un grande impatto sull’opinione pubblica, tutti i media ne parlarono e alla fine l’emendamento leghista fu ritirato.
Ma la cosa non finì lì. Infatti la nuova legge sulla sicurezza, approvata pochi mesi dopo introdusse il reato di clandestinità e ciò comportava di nuovo per i medici, e gli altri operatori sanitari, l’obbligo di segnalazione alle autorità di un paziente irregolare, in quanto a fronte di un reato perseguibile d’ufficio come è quello introdotto, l’operatore (medico, infermiere, amministrativo,…) in qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, è tenuto alla denuncia (vedi Immigrati la nuova legge sulla sicurezza è dannosa, ingiusta e pericolosa).
Si venne a creare così una situazione paradossale di due norme in palese conflitto tra di loro: da una parte il Comma 5, art. 35 del Dgl 286 del 1998, divieto di segnalazione, e dall’altra gli articoli 361 e 362 codice penale, obbligo di segnalazione. Sulla questione si sviluppò un acceso dibattito giuridico che si concluse con una soluzione di buon senso da parte dell’allora Ministro degli interni, il leghista Roberto Maroni, che emise una circolare in cui si affermava che la nuova legge sulla sicurezza non ha abrogato l’art. 35 e di conseguenza continua a trovare applicazione, per i medici e per il personale che opera presso le strutture sanitarie, il divieto di segnalare alle autorità lo straniero irregolare che richieda prestazioni sanitarie (vedi Noi non segnaliamo. La vittoria degli anticorpi (della ragione e della democrazia).
Si era nel 2009 e nella società italiana circolavano gli anticorpi sufficienti non solo per bloccare un’iniziativa razzista e xenofoba, ma convincere anche un ministro degli interni leghista ad adottare una soluzione di buon senso a favore dei diritti degli immigrati irregolari. Ma oggi?
Abbiamo un Ministro che ha sacrificato alla propaganda, con amabile crudeltà, centinaia di persone , lasciandole in mare in balia delle onde per giorni, fino a quando la nave Aquarius non è stata accolta nel porto di Valencia. Con la stessa indifferenza alle sofferenze di uomini, donne e minori ora il Ministro lascia in mezzo al mare, sulla nave Lifeline, oltre 200 migranti e altri ancora su di una nave portacontainer. L’immagine di una Italia crudele e disumana si va diffondendo a livello internazionale e questo lo pagheremo con l’isolamento diplomatico, con danni che si ripercuoteranno in campi diversi, nel tempo. Le picconate ai sistemi di relazioni con diversi paesi europei porteranno Germania Francia e Spagna a giocare nuove alleanze versus l’Italia che al massimo potrà “allearsi” con l’Ungheria di Orban o i paesi del Gruppo di Visegràd. Come ci si può fidare, come persona, di un Ministro che gioca sulla pelle di umani con totale cinismo, come se queste centinaia di persone fossero le biglie da sacrificare in questa escalation di violenza e di disumanizzazione ? Nei suoi comportamenti il Ministro appare come una persona disturbata che fa tanta più paura in ragione dell’incarico di responsabilità che si trova ricoprire . Se leggiamo le dichiarazioni in merito ai salvataggi di oggi: “…Sono stati soccorsi dalla Guardia costiera libica i circa mille migranti che erano oggi alla deriva su sette gommoni al largo della Libia. Lo rende noto il ministro dell’Interno, Matteo Salvini. “Ringrazio di cuore, da ministro e da papà, le autorità e la Guardia Costiera Libica che oggi hanno salvato e riportato in Libia 820 immigrati, rendendo vano il ‘lavoro’ degli scafisti ed evitando interventi scorretti delle navi delle Ong” (Ansa.it) , ha detto il vicepremier. Una dichiarazione agghiacciante e meschina: nessuno ignora che questi naufraghi verranno riportati nei lager dove sono stati imprigionati e poi fatti partire. Quali autorità libiche ringrazia Salvini, quelle di Tripoli ? O gli scafisti convertiti in carcerieri ? Il gioco terribile di spingere in mare con la violenza i migranti su gommoni di carta velina che naufragano dopo poche miglia e il relativo “salvataggio”, quando viene fatto, da parte della Guardia Costiera libica, pare essere il set di una tragica sceneggiatura che verrà poi fatturata all’Italia con richieste di enormi risorse… Turchia Docet . Nel frattempo il personaggio in questione propone censimenti etnici per i rom e interviene a sproposito sui vaccini … Questo personaggio è stato eletto con il 17,7% dei voti e ora ha un peso spropositato nel governo anche per la dabbennaggine dei 5 stelle che lo lasciano fare… Questo propagandista di destra, pronto a giocare sulla pelle di uomini donne e bambini inermi per mostrare il pugno forte di uno sgangherato nazionalismo isolazionista è ora l’inquietante inquilino del Viminale: non c’è da essere tranquilli.
“Evidentemente alzare garbatamente la voce paga, cosa che l’Italia e il governo italiano non faceva da tempo immemore, da diversi anni”. Così Matteo Salvini, ministro dell’Interno e segretario della Lega al termine del consiglio federale del partito in via Bellerio a Milano, commenta l’evoluzione del ‘caso Aquarius’, la nave con oltre 600 migranti che ora sarà accolta dalla Spagna. Salvini, parlando di un “primo segnale” per un’Italia che sul fronte dell’accoglienza “non può fare da sola”, esprime “grande soddisfazione da vice premier, come ministro e come papà per come si va risolvendo” la questione dei migranti presenti su Aquarius, “questo ennesimo barcone, ennesimi soldi che escono dalle nostre tasche”.
FONTE YAHOO NOTIZIE
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Commento
Questo personaggio rozzo e ignorante pensa di fare l’interesse dell’Italia “alzando la voce”. Non ha la più pallida idea dei feedback negativi che il suo comportamento da gradasso produrrà nella politica internazionale. L’isolamento che subirà l’Italia sarà molto più costoso dell’accoglienza dei 600 migranti. La disumanità, l’immagine di un paese imbarbarito e plebeo le pagheremo in molti campi, da quello diplomatico a quello turistico commerciale. Il danno d’immagine dell’Italia dopo i fatti di oggi sono enormi, ma il ministro degli interni che si comporta come un bullo di periferia non ne ha la minima percezione. Queste sono le mani in cui siamo. Si sveglieranno gli elettori che hanno votato per protesta il M5S ?
Prison Break Project, Costruire evasioni. Sguardi e saperi contro il diritto penale del nemico, Edizioni Bepress, 2017, pp. 277.
A volte si incontrano dei libri necessari. Costruire evasioni. Sguardi e saperi contro il diritto penale del nemico, è sicuramente uno di questi. E’ un libro necessario perché finalmente qualcuno – un collettivo di ricercatori precari – si è assunto l’onere di fare il punto, in una prospettiva sia storica che attuale, sull’insieme dei dispositivi repressivi elaborati negli anni dai poteri costituiti contro i movimenti conflittuali. E’ un libro necessario perché indaga la repressione nella sua complessità: non solo come strumento giudiziario e poliziesco, ma come frutto di ‘una deliberata scelta politica che coinvolge governanti, politici, magistrati, funzionari di polizia, giornalisti e cittadini democratici’.
Uno scontro che non utilizza solo gli armigeri, ma si gioca anche sul terreno dell’immaginario attraverso una narrazione della realtà che rende l’azione poliziesca e giudiziaria accettabile, auspicabile, desiderabile da parte di un’opinione pubblica appositamente costruita.
Questo appello esce in contemporanea su Euronomade.
A Torino, pochi giorni fa, la polizia ha pesantemente caricato con gli idranti una manifestazione antifascista. Alcune riprese video hanno inquadrato un’insegnante che gridava davanti alle forze dell’ordine: la sua immagine, accortamente selezionata e decontestualizzata, è stata catapultata nello spazio virtuale, fatta oggetto di insulti, incitamento alla gogna e strumentalizzazioni politico-elettoralistiche, nonché di sanzioni disciplinari e forse penali in via di definizione.
L’obiettivo politico, alle soglie di una vigilia elettorale esasperata e imbarbarita, è fin troppo semplice: provare a neutralizzare quell’ampio spazio di mobilitazioni democratiche che, lontane dall’ostruzionismo governativo nei confronti del corteo di Macerata e dalle retoriche false e liturgiche che l’hanno seguito, hanno dato nuova vitalità all’antifascismo non istituzionale come pratica concreta dell’antirazzismo e dell’antisessismo grazie in primo luogo al nuovo protagonismo delle soggettività dei migranti e delle donne.
La campagna di linciaggio massmediatico dell’insegnante e le successive puntuali dichiarazioni di diversi esponenti politici sono perfettamente connesse con le recenti politiche basate sull’ossessione per la sicurezza e il decoro, di cui è espressione emblematica il Decreto Minniti: che ha puntellato le città di dispositivi normativi funzionali al controllo e alla repressione delle condizioni di vita più disagiate e dei comportamenti sociali giudicati non conformi, lasciando spazio alle più sfacciate espressioni dell’estremismo di centro-destra (con tutta evidenza indisponibile ad “abbassare i toni” di odio ringhioso nei confronti dei capri espiatori da sacrificare alla crescente sofferenza sociale prodotta da una crisi economica e finanziaria senza credibili vie d’uscita).
Così, il marginale episodio di intemperanza verbale contro il dispositivo di polizia schierato a difesa dell’assembramento di un piccolo gruppo di nazifascisti (peraltro, vietato dalla – disapplicata – legge penale 645/1952 e dalla Costituzione) è stato immediatamente amplificato e interpretato all’interno di una logica e di una retorica sessiste che tendono a promuovere un’idea docile e normalizzata delle donne nello spazio pubblico. E a propugnare il disciplinamento della professione di insegnante con l’intento non tanto sottaciuto di conformare il ruolo della cultura e della scuola pubblica ai nefasti principi totalitari dello “stato etico”, restituendo un’immagine tutta ideologica del corpo insegnante da assoggettare a controllo “morale” anche fuori dal suo contesto professionale e lavorativo, in quanto suddito della legalità vigente e di uno Stato che lo vuole svincolato da ogni definizione contrattuale del suo lavoro. Il compito delle e degli insegnanti dovrebbe avere perciò sempre meno a che fare con la formazione culturale e la costruzione di una cittadinanza attiva e ridursi al dovere di vigilanza sulla riproduzione della futura forza-lavoro, da addomesticare alla precarietà e al ricatto dettati dalla gestione neoliberale della crisi economica.
Perciò siamo convinti che in questo momento sia necessario denunciare con forza le retoriche e le politiche che stanno producendo indagini penali e sanzioni disciplinari, e lanciamo questo appello di solidarietà per Lavinia Flavia Cassaro con la convinzione che il suo caso sia paradigmatico di un attacco alla libertà di tutte e tutti e alla democrazia. Chiediamo pertanto, alle istituzione scolastiche che stanno procedendo contro Lavinia, di sospendere tali iniziative in quanto lesive della sua dignità e dei suoi diritti, riconoscendo che il ruolo di insegnanti non può essere ridotto a quello di chierici moralizzatori, né venire sottoposto alle necessità della propaganda elettorale, del controllo politico e degli inconfessabili interessi cui accetta di assoggettarsi il sistema dei media.