Il presente della sinistra è lastricato di tradimenti di Loris Campetti

 

Fonte  Il Manifesto in rete 

“La sinistra italiana che conosciamo è morta. Non lo ammettiamo perché si apre un vuoto che la vita politica quotidiana non ammette. Possiamo sempre consolarci con elezioni parziali o con una manifestazione rumorosa. Ma la sinistra rappresentativa, quercia rotta e margherita secca e ulivo senza tronco, è fuori scena. Non sono una opposizione e una alternativa e neppure una alternanza, per usare questo gergo. Hanno raggiunto un grado di subalternità e soggezione non solo alle politiche della destra ma al suo punto di vista e alla sua mentalità nel quadro internazionale e interno”. Una considerazione amara, un lamento triste, disperato e profetico. Così scriveva vent’anni fa Luigi Pintor sul manifesto. Parole che mi sono balzate alla mente leggendo le accuse e i nomi delle persone coinvolte nell’oscena vicenda che sta scuotendo il Parlamento europeo sui fondi nerissimi provenienti dal Qatar e dal Marocco e finiti, questa almeno è l’accusa, nelle tasche della vicepresidente dell’assemblea di Strasburgo, di assistenti ed ex europarlamentari, tutti, si fa per dire, di sinistra, italiana e greca, forse anche belga. Sacchi di banconote in casa o in un viaggio verso altri lidi interrotto dalla polizia, vacanze di Natale da 100mila euro, intere famiglie coinvolte nella mangiatoia. Prima ancora e aldilà delle rilevanze giudiziarie e dei reati contestati che ora la magistratura dovrà appurare, l’inchiesta di Bruxelles racconta la fine della politica, o meglio della – ora reale ora solo presunta o sbandierata – diversità con cui la sinistra in Italia e nel mondo si presentava all’elettorato, ai movimenti, alla società. Cioè al suo azionista di riferimento.

Del Qatar, recentemente l’Europarlamento aveva discusso a proposito della violazione dei diritti civili – chissà se anche i 6.500 operai morti ammazzati dal caldo, dagli infortuni e dalla fatica durante i lavori di costruzione delle mirabolanti strutture dei mondiali di calcio fanno parte dei diritti civili violati? Contro la risoluzione di condanna si era espresso e aveva chiesto ai suoi colleghi di partito di esprimersi l’europarlamentare del Pd Andrea Cozzolino. Non è reato, certo, ma si può dire che è indecente? Al centro dell’eurocamarilla c’è un ex segretario della Camera del lavoro di Milano, Pier Antonio Panzeri, ex europarlamentare del Pd poi passato ad Articolo 1 di Bersani, Speranza, D’Alema, lobbista per il Nordafrica e i paesi arabi. La moglie di Panzeri, che si lamentava per aver dovuto fare vacanze meno sfarzose delle precedenti costate 100mila euro, e la figlia appena rientrata dal Qatar sono state arrestate. Stesso trattamento è stato riservato al suo ex assistente Francesco Giorgi, compagno della vicepresidente Eva Kaili, socialista greca, e attuale assistente del suddetto Cozzolino amico del Qatar. In casa di Eva Kaili sono stati trovati sacchi pieni di banconote.

Sotto il termine “lobbista” compaiono altri nomi importanti della sinistra italiana. Mi ripeto: certo, non è reato, ma si può dire che non è un bel mestiere per uno di sinistra? Massimo D’Alema, solo per fare un nome, lobbista dalle Americhe all’Asia. Invece l’ex ministro degli interni Minniti, anche lui Pd, quello degli accordi con la Libia e della caccia alle navi umanitarie che salvano i migranti, ora lavora nell’industria bellica con la fondazione della Leonardo Spa, la Med-Or che si occupa di legami e scambi con i paesi del Mediterraneo, il Golfo persico, il Medio e l’Estremo Oriente. E come dimenticare il “Rinascimento” dell’Arabia saudita e la fratellanza di Matteo Renzi con il mandante dell’omicidio Khashoggi, il principe bin Salman?

Dalla lotta contro gli omicidi bianchi sul lavoro si passa impunemente al sostegno ai paesi che su quei crimini fanno la loro fortuna. E poi le vacanze col botto, le carte di credito intestate a un misterioso “gigante”, le ong di comodo con tanto di compartecipazioni di radicali e +Europa, affari e politica che si mescolano fino a diventare un tutt’uno. Affari di famiglia. E la memoria corre ancora ad altre vicende di questi giorni, come quella che ha coinvolto Aboubakar Soumahoro, eroe dei braccianti approdato in Parlamento con Sinistra italiana e Verdi, la cui moglie e la suocera gestivano, per conto della comunità, immigrati che venivano sfruttati, maltrattati e non pagati. Aboubakar ha varcato il tempio della politica italiana indossando stivali infangati per ricordare i braccianti immigrati e sfruttati, proponendosi come un novello Di Vittorio. Il quale, invece, in Parlamento era entrato con il vestito buono e le scarpe pulite, e non solo quelle. Questione di stile e di modestia.

Si potrebbe continuare a lungo con esempi e metafore sul degrado di una sinistra che, smarriti i suoi valori, l’etica, l’orizzonte, il sogno, la diversità, l’alternativa allo stato di cose presente, della destra ha assunto il punto di vista e la mentalità, come scriveva Pintor. Berlusconi ha fatto scuola anche comportamentale. Il presente della sinistra – non solo del Pd – è lastricato di tradimenti, i tradimenti dei sogni e delle speranze e battaglie per il lavoro, per i diritti, per l’eguaglianza, per la dignità delle persone. In tempi non sospetti e anche recenti ho fatto inchieste sul rapporto tra i lavoratori e la sinistra raccontando la fine di ogni legame. Chiedersi ancora oggi perché i lavoratori hanno rottamato la sinistra è come per un americano chiedersi, dopo l’11 settembre del 2001, “perché ci odiano tanto”?

Polonia: il legislatore deve affrontare le accuse per la protesta a favore della scelta

 

Fonte :  HUMAN RIGHT WATCH

(Berlino) – Il governo polacco dovrebbe immediatamente ritirare le accuse contro un membro del parlamento che ha partecipato a una protesta a favore della scelta e smettere di prendere di mira gli attivisti per i diritti riproduttivi, ha affermato oggi Human Rights Watch.

Il 29 novembre 2022, l’ufficio del procuratore di Toruń ha accusato Joanna Scheuring-Wielgus, membro del partito di sinistra (Lewica), di “offesa ai sentimenti religiosi” e “ingerenza dolosa nel culto religioso”. Ogni reato comporta una pena fino a due anni di reclusione. Si è dichiarata non colpevole.

“Incriminare un parlamentare per una protesta pacifica è innegabilmente un’escalation allarmante negli sforzi del governo polacco per criminalizzare non solo l’aborto, ma chiunque sostenga apertamente i diritti riproduttivi”, ha affermato Hillary Margolis , ricercatrice senior sui diritti delle donne presso Human Rights Watch. “Tali sfacciati tentativi di mettere a tacere gli attivisti per i diritti delle donne e calpestare le protezioni per la libertà di parola mostrano quanto siano fragili tutti i diritti in Polonia oggi”.

Il 25 ottobre 2020, insieme a suo marito Piotr Wielgus, Scheuring-Wielgus ha portato uno striscione in una chiesa di Toruń con la scritta “Donna, puoi decidere da sola” per protestare contro una sentenza del Tribunale costituzionale che sostanzialmente ha eliminato l’accesso all’aborto legale in Polonia. Nel dicembre 2020, il procuratore generale Zbigniew Ziobro ha avviato una mozione per privare Scheuring-Wielgus della sua immunità legale parlamentare per la protesta.

Il 4 novembre 2022, il parlamento ha votato a favore della mozione e il pubblico ministero ha intentato causa contro Scheuring-Wielgus anche se il tribunale distrettuale di Toruń nell’ottobre 2021 ha confermato l’ assoluzione del marito per “offesa al credo religioso” in relazione allo stesso incidente.

Nell’ottobre 2020, il Tribunale costituzionale della Polonia, politicamente compromesso , ha stabilito che l’aborto sulla base di “difetto fetale grave e irreversibile o malattia incurabile che minaccia la vita del feto” è incostituzionale, eliminando virtualmente l’accesso all’aborto legale nel paese. In precedenza, oltre il 90% dei circa 1.000 aborti legali praticati ogni anno in Polonia avveniva su questo terreno.

L’aborto è ora consentito solo per salvaguardare la vita o la salute di una donna o se la gravidanza è il risultato di un crimine, come lo stupro o l’incesto. In pratica, molteplici ostacoli rendono quasi impossibile ottenerne uno per coloro che possono beneficiare di un aborto legale. Le prove dimostrano costantemente che le leggi che limitano o criminalizzano l’aborto  non lo eliminano , ma piuttosto  spingono le persone a cercare l’aborto attraverso mezzi che possono mettere a rischio la loro salute mentale e fisica e diminuire la loro autonomia e dignità.

Da quando il partito Legge e giustizia (Prawo i Sprawiedliwość, PiS) è salito al potere nel 2015, il governo polacco ha portato avanti un attacco continuo ai diritti sessuali e riproduttivi, in particolare l’accesso all’aborto , e agli attivisti per i diritti all’aborto. Gli attivisti per l’aborto affermano che il governo sta usando sempre più la legge per prenderli di mira. Justyna Wydrzyńska , di  Abortion Dream Team , è stata accusata di aver assistito qualcuno ad abortire e di aver “commercializzato” illegalmente farmaci senza autorizzazione dopo aver presumibilmente aiutato una donna a ottenere pillole per un aborto farmacologico nel 2020. Wydrzyńska rischia fino a tre anni di carcere.

I dati del governo hanno mostrato un aumento delle accuse di “offesa ai sentimenti religiosi” ai sensi di Legge e Giustizia. Nel 2020, il governo ha utilizzato questa disposizione per perseguire tre attivisti per aver pubblicato immagini di un’icona religiosa con un alone arcobaleno, spesso associata all’attivismo per i diritti delle persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender (LGBT). A gennaio, una corte d’appello ha confermato la loro assoluzione.

Sotto la guida di Ziobro, che è anche ministro della giustizia, il partito di estrema destra Solidarna Polska – che fa  parte della coalizione di governo conservatrice polacca – ha presentato a ottobre una legge che modificherebbe il codice penale per includere l’insulto pubblico o il ridicolo della chiesa come reato punibile fino a due anni di carcere

Il governo polacco dovrebbe ritirare le false accuse contro Scheuring-Wielgus e altri attivisti per i diritti delle donne e LGBT, e invertire la rotta per garantire l’accesso all’aborto sicuro e legale e ad altre cure essenziali per la salute riproduttiva, ha affermato Human Rights Watch.

Scheuring-Wielgus è già stato preso di mira. Il parlamento ha votato ad aprile per rimuovere la sua immunità legale dall’accusa per aver appeso un poster sulla porta della cattedrale di Toruń che diceva “Ricorda le scarpe da bambino. Fermiamo la pedofilia”. Si riferiva a rivelazioni di abusi sessuali da parte di religiosi cattolici in Polonia. A novembre, il capo della polizia nazionale ha chiesto la rimozione dell’immunità di un altro parlamentare del partito di sinistra per aver appeso manifesti a sostegno dello sciopero delle donne sulle porte degli uffici dei politici di diritto e giustizia a Iława nel novembre 2020.

Sotto Legge e giustizia, gli attacchi ai diritti delle donne e delle persone LGBT da parte di alti funzionari governativi , gruppi ultraconservatori e media hanno favorito un ambiente sempre più ostile per attivisti e difensori dei diritti. Gruppi come Abortion Dream Team sono stati oggetto di bombe e minacce di morte.

Nel dicembre 2017 la Commissione europea ha avviato un’azione contro la Polonia ai sensi dell’articolo 7 del trattato dell’Unione europea (UE) – la disposizione in base alla quale è possibile intraprendere un’azione contro gli Stati che mettono a rischio i valori dell’UE – in risposta alle minacce all’indipendenza della magistratura. La Commissione dovrebbe aggiornare e ampliare il suo parere motivato ai sensi dell’articolo 7 per riflettere le minacce alla libertà di parola e il crescente impatto dell’erosione dell’indipendenza giudiziaria sui diritti delle donne e LGBT, ha affermato Human Rights Watch. Gli Stati membri dell’UE dovrebbero adottare raccomandazioni sullo stato di diritto e votare ai sensi dell’articolo 7 per stabilire che esiste un chiaro rischio di una grave violazione dei valori dell’UE in Polonia.

“I leader dell’Unione europea non dovrebbero semplicemente stare a guardare e tollerare uno stato membro che prende di mira i rappresentanti eletti per esercitare la libertà di parola e sostenere pacificamente i diritti umani fondamentali delle donne”, ha affermato Margolis. “Il governo polacco sta solo diventando più audace nei suoi sforzi per minare i diritti delle donne e i difensori dei diritti, e un’azione decisiva per fermarlo non può aspettare”.

I ministri di Meloni: la strampalata combriccola che ci governa

Fonte Strisciarossa.it che ringraziamo

 

Ormai una decina di anni fa, nel corso di una di quelle trasmissioni un po’ populistiche un po’ dissacratorie, bersaglio il sistema politico/partitico, venne trasmesso il reportage di una giovane cronista che, davanti a Montecitorio, fermava vari parlamentari chiedendo l’anno della rivoluzione francese. Se ne sentirono di tutti i colori, non uno che indovinasse quella data, fatidica per il mondo intero, mandata a memoria dai ragazzini delle medie, anche per la facilità della sequenza: 1 e poi 789. L’ignoranza dei nostri massimi rappresentanti non fece scandalo, mosse semplicemente qualche ironico sorriso. Ma l’ignoranza della storia potrebbe apparire poca cosa rispetto all’ignoranza dei codici: almeno una quarantina di parlamentari (una trentina dalla destra) risultano indagati o addirittura condannati per reati vari, per lo più connessi ai privilegi e ai poteri che le cariche possono consentire o prevedere. L’ignoranza di una cosa può ovviamente sommarsi e sovrapporsi all’ignoranza dell’altra e non è certo che cosa sia meglio agli occhi del pubblico: ignoranza o disonestà.

Umili o umiliati?

Non è bello comunque scoprire come un ministro, professore universitario, sicuramente onestissimo, uno che di questi tempi difficili si era fatto conoscere (poco) per un libro intitolato “L’impero romano distrutto dagli immigrati”, pochi giorni fa abbia scritto dal suo nuovo ufficio romano una lettera ai “suoi” studenti “contro il comunismo”, trascurando l’esistenza (anche sul suolo italiano)  del fascismo e come in un pubblico convegno abbia confuso l’umiliazione con l’umiltà: le parole, e spesso i silenzi, sono pietre, dovrebbero pesare pure in un mondo della comunicazione che digerisce e dimentica tutto in un batter di ciglia. Forse i nostri ministri fanno conto su questo, facendosene interpreti: la volatilità delle parole, la disarticolazione del pensiero ridotto a monosillabi. Proviamo a immaginare quanto possa restare della lettura di un tweet. Ad esempio quello di Guido Crosetto: “Le Ong strumento ideologico: sono centri sociali in acqua”. Senza vergogna di fronte ad una tragedia e ai morti.

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Mastodon potrebbe rendere la sfera pubblica meno tossica, ma non per tutti

 

 

Il social network open source ha guadagnato milioni di nuovi utenti in seguito all’acquisizione di Twitter. Mentre alcune delle sue caratteristiche potrebbero migliorare la qualità del discorso pubblico, le comunità svantaggiate potrebbero essere escluse.

Le società di social media hanno un difficile equilibrio. Da un lato, devono mantenere gli utenti attivi sulla loro app o sul loro sito web il più a lungo possibile per mostrare loro annunci pubblicitari. I contenuti divisivi, emotivi o che incitano all’odio funzionano meglio in tal senso. D’altra parte, devono mantenere un certo livello di sicurezza online, almeno per placare i propri inserzionisti. I social network quindi incoraggiano comportamenti aggressivi degli utenti sopprimendo contemporaneamente i contenuti più eclatanti (per timore che gli inserzionisti si lamentino), spesso utilizzando sistemi di rilevamento algoritmico pesanti.

Scelte progettuali

Questi sistemi automatizzati non hanno decisamente migliorato la qualità della sfera pubblica. Sì, gli accademici discutono ancora sul ruolo preciso della tecnologia nell’aumento della sfiducia generalizzata che pervade le società in Europa e negli Stati Uniti: dopotutto, anche i giornali di Rupert Murdoch o Axel Springer hanno alimentato paura e rabbia per vendere pubblicità decenni prima di YouTube e TikTok è stato etichettato come ” grandi radicalizzatori “. È possibile che queste piattaforme ospitino semplicemente persone già radicalizzate; che fanno poco più che rappresentare uno specchio per la società.

Tuttavia, una nuova ricerca pubblicata questo mese sottolinea che la tecnologia gioca un ruolo. Un esperimento controllato ha dimostrato che gli utenti di Facebook e Twitter che vedevano contenuti tossici avevano maggiori probabilità di pubblicare loro stessi contenuti tossici. In altre parole, la tossicità è contagiosa. Attenuare i contenuti estremisti su una piattaforma potrebbe consentire conversazioni più significative.

Un altro esperimento condotto in condizioni di laboratorio ha mostrato che le persone erano molto inclini a scoprire e moderare informazioni false e potenzialmente infiammanti. Secondo alcune misure, questo approccio collaborativo funziona meglio dei filtri algoritmici centralizzati. Mantenere il discorso civile potrebbe essere fatto meglio dando il libero arbitrio agli utenti, piuttosto che implementando algoritmi che censurano i contenuti che mettono a disagio gli inserzionisti.

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Senza Netflix è un gran sacrificio

 

Fonte  GAS SOCIAL  che ringraziamo 

“Netflix vietato in caso di penuria, scoppia la rabbia” titola TIO. Fonte di tanto disagio, le paventate misure di austerity energetica proposte dal Consiglio federale. Una levata di scudi si è avuta dalla società civile ormai schiava delle serie tv e dai soliti politici che cavalcano il disagio e la rabbia popolare. Qualcuno si è fermato a pensare cosa voglia dire? Ne dubito.

È però interessante cercare di capire dove, e in che modo, è possibile risparmiare. Quelle che sembrano misure cretine e raffazzonate, spesso non lo sono, basta cercare di capire invece di correre in giro per il cortile come galline senza testa.

Parliamo della proposta, inserita in un dettagliato elenco di altre misure proposte dal Consiglio federale, di eliminare temporaneamente i servizi di streaming. La misura parte da abbassare la risoluzione a eliminare del tutto e per un certo lasso di tempo il servizio. Oddio, detto poi tra noi, siamo andati avanti secoli senza Netflix e lo streaming non è inserito nella carta internazionale dei diritti dell’uomo.

Comunque vediamo di ragionare un attimo su una misura che a molti sembra inutile e stupida. Il consumo energetico mondiale è composto dall’insieme di industrie, anche pesanti, come quella siderurgica o manifatturiera di tutto il mondo, aggiungiamoci strutture agricole, serre, economie domestiche e tutto quanto.

Bene, il 7% di questa energia viene divorata da internet, mica poco.

Secondo una recente ricerca di GreenPeace, Internet consuma appunto ben il 7% dell’energia elettrica mondiale. In particolar modo risultano essere responsabili ripetitori, data center e strutture a supporto della Rete che generano un consumo elevato.

Altra notizia interessante, l’80% dell’energia consumata da internet, è dovuta allo streaming, dunque alla visione e allo scaricamento di video delle piattaforme preposte a questo utilizzo. A questo punto il risparmio energetico non è più così risibile.

Ma c’è di più, Il consumo dei Faang ((Facebook, Amazon, Apple, Netflix e Google), è passato in tre anni (dal 2018 al 2020) da 16,6 Megawatt/ora a 49,7, dunque più che triplicato. Sempre i Faang, se vogliamo fare i pedanti, hanno prodotto, sempre nello stesso lasso di tempo 98,7 milioni di tonnellate di CO2, più di tutta la Repubblica Ceca (92,1), con un aumento aggregato delle emissioni totali del 17% dal 2018 al 2020.

Il giudizio è lapidario, se Internet fosse una nazione, secondo il Global Carbon Project, sarebbe la quarta più inquinante al mondo, dopo Cina, Stati uniti e India.

Vediamo allora che le misure che verranno forse chieste, non sono così idiote come sembrano e sommate garantiscono l’approvvigionamento a tutta la popolazione con sacrifici minimi. Anche perché misure che a noi sembrano minime, ma moltiplicate per milioni di economie domestiche, fanno la differenza. Come per il voto, magari il mio voto personale non cambia le cose, ma quello di milioni di cittadini come me, se andiamo tutti nella stessa direzione, sì. Se però questi sacrifici preferiamo non farli va bene. Taglieremo l’elettricità per due o tre ore al giorno e continueremo a vederci netflix nelle 21 rimanenti. Meglio così o no?

Cosa significa la reintroduzione dei voucher

Fonte Sbilanciamoci

I voucher, una brutta parola, vengono reintrodotti dal governo Meloni. Unici dettagli conosciuti finora si riferiscono a una estensione dell’applicazione di questa forma di prestazione di lavoro a gettone iper precario, abolita nel 2017 perché la Cgil aveva già raccolto 1 milione di firme per un referendum.

Il governo del presidente del Consiglio Signor Giorgia Meloni è orwelliano, nel senso che introduce più che riforme e provvedimenti ex novo, aggiustamenti peggiorativi di una realtà già triste, stando però molto attento all’uso di parole per egemonizzare culturalmente l’opinione pubblica. “Signor presidente” ne è stato il primo esempio, volto a marginalizzare le battaglie per l’emancipazione femminile che stavano conquistando persino l’Accademia della Crusca, poi “rave” per criminalizzare la movida giovanile e magari introdurre surrettiziamente norme liberticide e intercettazioni generalizzate. Un’altra parola, che sdogana con una connotazione positiva di ritorno all’ordine e alla flessibilità sempre buona e giusta, ora è “voucher”.

La prima legge di bilancio del governo della destra più nera non poteva esimersi da intervenire nel mercato del lavoro toccando uno strumento simbolo come i “buoni lavoro”, inventati dalla Riforma Biagi del 2003 e introdotti per la prima volta nel 2008 dal governo Berlusconi. Quindi aboliti, ma solo formalmente, anzi nominalisticamente, dal governo Gentiloni nel 2017 per evitare il referendum che la Cgil stava per portare a segno. Ma solo per trasformarli, sotto altro nome e con più limiti, in Libretto di Famiglia per colf e badanti e Contratti di prestazione occasionale previsti dal Decreto Dignità per aziende del turismo, agricoltura e persino enti locali.

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I viaggiatori senza visto verso l’UE saranno sottoposti a controlli di “rischio” dal 2023.

FONTE ALGORITHM WATCH CHE RINGRAZIAMO

 

Due agenzie dell’UE, Frontex ed eu-LISA, stanno sviluppando ETIAS, un nuovo sistema che valuta automaticamente il “rischio” rappresentato da alcuni viaggiatori. L’algoritmo di smistamento sarà addestrato in parte con le decisioni passate delle guardie di frontiera.

Per gli Anti-Brexiteers di Twitter, l’imminente fine dell’esenzione dal visto verso l’UE, che introdurrà controlli sui precedenti di “salute e sicurezza” sui viaggiatori del Regno Unito, tra gli altri, è un argomento caldo. “Immagino che Barry di Carlisle, che ha preso a pugni il suo amico al pub nel 1988, sia rimasto a casa”, ha gongolato un account. Un altro ha esclamato che i controlli serviranno a “tenere l’UE al sicuro dagli stronzi” e un terzo ha alzato gli occhi al cielo, “preparandomi per le storie di singhiozzi indignati nel Mail”. 

Paesi come gli Stati Uniti e l’Australia dispongono già di sistemi come ESTA ed ETA per confrontare le domande di viaggio di paesi senza visto con set di dati governativi (potenzialmente imprecisi ). A differenza di loro, ETIAS, o il sistema europeo di informazione e autorizzazione ai viaggi, includerà anche un algoritmo che, affermano i legislatori, può segnalare le persone che rappresentano un “rischio” vagamente definito per “salute pubblica, sicurezza o migrazione irregolare”. Da novembre 2023 in poi, Frontex, l’Agenzia della guardia costiera e di frontiera dell’UE, prevede che circa il 5% dei futuri viaggiatori verrà segnalato e quindi potenzialmente negato l’ingresso.

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Il disincanto degli studenti di Marco Lodoli


Fonte DoppioZero

Per alcuni decenni la scuola è servita anche ad avvicinare le classi sociali: nelle aule convergevano interessi e aspettative, si respirava la stessa cultura, si creavano possibilità per tutti. In fondo al viale si immaginava un mondo senza crudeli differenze, senza meschinità e ingiustizie. La conoscenza era garanzia di crescita intellettuale, e anche sociale ed economica. Chi studiava si sarebbe affermato, o quantomeno avrebbe fatto un passo in avanti rispetto ai padri. Tante volte abbiamo sentito quelle storie un po’ retoriche ma autentiche: il padre tranviere che piangeva e rideva il giorno della laurea in medicina del suo figliolo, la madre che aveva faticato tanto per tirare su quattro figli, che ora sono tutti dottori. Oggi le cose sono cambiate radicalmente.

Chi viaggia in prima classe non permette nemmeno che al treno sia agganciata la seconda o la terza: vuole viaggiare solo con i suoi simili, con i meritevoli, gli eccellenti, i vincenti. «A me professò sto discorso del merito mi fa rodere. La meritocrazia, la meritocrazia… ma che significa? E chi non merita? E noi altri che stamo indietro, noi che non je la famo, noi non contiamo niente?». Questo mi dice Antonia e neanche mi guarda quando parla, guarda fuori, verso i palazzoni di questo quartiere di periferia, verso quei prati dove ancora le pecore pascolano tra gli acquedotti romani e il cemento. Qui  la divina provvidenza del merito non passa, non illumina, non salva quasi nessuno. Guardo la classe: Michela ha confessato che non può fare i disegni di moda perché a casa non ha un tavolo, nemmeno quello da pranzo. Mangia con la madre e la sorella seduta sul letto, con il vassoio sulle ginocchia, in una casa che è letteralmente un buco.

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La guerra come automatismo di de-globalizzazione

di Franco Berardi Bifo

fonte Altraparolarivista.it

 

Il nazionalismo come forma generale della de-globalizzazione

In un libro del 1946 Die Schuldfrage, Karl Jaspers, uno degli ispiratori del movimento esistenzialista, disse che dovremmo distinguere tra il nazismo come evento storico e il nazismo come corrente profonda della cultura europea, che può riemergere.

Le dinamiche sociali e culturali che hanno dato origine al nazismo nel secolo passato hanno qualcosa di simile alle dinamiche sociali contemporanee, ma il contesto storico, psichico, e soprattutto tecnico è molto differente.

Jaspers scrive in quel testo che la caratteristica per eccellenza del nazismo è il tecno-totalitarismo e sostiene che una piena manifestazione della natura del nazismo potrebbe riapparire in futuro.

Ci si può chiedere se quel futuro sia adesso, e la mia risposta è che le condizioni di una riproposizione su scala enormemente allargata del nazismo stanno emergendo dalla proliferazione di movimenti identitari, neo-reazionari, e nazionalisti che prendono forme diverse e anche tra loro conflittuali come nel caso del conflitto tra Russia e Ucraina, in cui due modelli ugualmente nazionalisti si scontrano militarmente.

Anche Timothy Snyder il quale, in Black Earth: The Holocaust as History and Warning, osserva che la l’impotenza e il terrore provocato da situazioni di emergenza di massa, come le catastrofi ecologiche o le prolungate crisi economiche sono le condizioni più inclini alla formazione di regimi totalitari.

Queste condizioni discendono dalla successione di traumi che l’umanità planetaria ha attraversato e sta attraversando: il trauma sanitario della pandemia, il trauma provocato dallo scatenarsi degli elementi nell’ambiente devastato, il trauma bellico che sta producendo effetti destabilizzanti ben al di là del territorio ucraino in cui la guerra si combatte.

Eppure, sebbene alcuni aspetti di quell’esperienza siano effettivamente riaffiorati negli ultimi anni il nazi-fascismo non riapparirà mai nella forma storica che conoscemmo nel ventesimo secolo.

Ripensiamo ai modi della soggettivazione negli anni ’20 del secolo scorso in Germania, dopo l’umiliazione e l’impoverimento imposti al Congresso di Versalles.

Umiliazione e impoverimento crearono le premesse psicologiche di una reazione aggressiva.

L’impoverimento dei lavoratori tedeschi e l’umiliazione della nazione tedesca furono la base psico-sociale su cui qualche anno più tardi Adolf Hitler costruì il consenso che gli permise di vincere elezioni democratiche.

Il senso del suo discorso può ridursi a un’esortazione: “Non pensate a voi stessi come lavoratori sconfitti e impoveriti. Pensate a voi stessi come tedeschi, come guerrieri bianchi, e vincerete”.

Come sappiamo, non vinsero. Ma distrussero l’Europa.

Dalla Russia di Putin all’India di Modi all’Italia di Meloni il potere politico ripete oggi dovunque la stessa esortazione: “Non pensate a voi stessi come lavoratori sconfitti e impoveriti, pensate invece a voi stessi come guerrieri bianchi (o induisti, o islamisti), e vincerete.

Non vinceranno, ma stanno distruggendo il mondo. Per il momento infatti non è chiaro cosa possa fermare la tempesta perfetta che si è scatenata a partire dalla diffusione del virus, ma che andava preparandosi da almeno un decennio, da quando cioè la crisi finanziaria del 2008 scardinò il sistema economico internazionale e la crisi del sistema finanziario venne interamente scaricata sui lavoratori, mettendo in moto un processo di cui oggi cominciamo a vedere gli effetti.

Negli anni ’60 Gunther Anders, ebreo tedesco emigrato e poi rientrato in Germania, osservava che l’arma nucleare costituiva una novità tecno-militare destinata a produrre un effetto di impotenza, terrore e umiliazione i cui effetti possono manifestarsi attraverso l’emergere di quello che lui chiama il Terzo Reich a venire.

Il Nazismo futuro di cui Anders parla nasce dall’impotenza degli umani di fronte all’arma assoluta, che è un prodotto della loro intelligenza ma paralizza l’intelligenza. L’impotenza degli umani di fronte a questa concrezione ostile della loro potenza genererà, dice Anders una reazione aggressiva e gregaria.

Il passaggio finale verso la precipitazione che Anders presagiva potrebbe essere la guerra che la Russia ha scatenato con l’invasione del 24 febbraio, e che gli Stati Uniti avevano lungamente preparato e perfino preannunciato con un’intervista di Hilary Clinton in cui si parla dell’Ucraina come nuova Afghanistan per la potenza russa.

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La Grecia prevede droni automatizzati per individuare le persone che attraversano il confine

Fonte:  Algorithm Watch che ringraziamo 

Il ministero della migrazione greco ha annunciato che utilizzerà droni finanziati dall’UE con “Intelligenza artificiale” per rintracciare le persone che cercano rifugio al confine. Le promesse che miglioreranno anche le operazioni di ricerca e salvataggio suonano vane. 

All’apertura della Fiera internazionale di Salonicco lo scorso settembre, il ministro greco per l’immigrazione Notis Mitarakis – altrimenti noto per aver liquidato le prove in corso dei brutali e illegali respingimenti dei richiedenti asilo da parte delle guardie di frontiera greche come “notizie false” – ha fatto notizia a livello nazionale quando ha presentato la sua Ultimo progetto del ministero: 3,7 milioni di euro di finanziamento per droni con “algoritmi innovativi” in grado di “identificare automaticamente obiettivi di interesse definiti” al confine greco.

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Un lungo corteo in Bolognina per ricordare Alessandra Matteuzzi

Molte centinaia di donne, uomini, ragazze e ragazzi hanno sfilato per le vie della Bolognina per manifestare la volontà di contrastare la violenza contro le donne. Il lungo corteo partito dal Liber Paradisus è giunto in via dell’Arcoveggio di fronte al cortile del condominio ove la settimana scorsa Alessandra Matteuzzi è stata massacrata a martellate dall’ex fidanzato che aveva denunciato per stalking.
Per ricordare Alessandra Matteuzzi sono uscite di casa donne di tutte le età nonne e mamme che tenevano per mano ragazzine e ragazzini, coppie, una manifestazione corale per affermare che non è tollerabile che ogni tre giorni in Italia una donna venga uccisa dal partner o da un famigliare.
I femminicidi nel nostro paese sono diventati un’emergenza: moltissime donne continuano ad essere uccise da ex e da uomini che non accettano il rifiuto o la fine di un rapporto.
Le donne uccise da un partner o da un ex nei primi mesi del 2022. Secondo i dati del Viminale, nei primi 6 mesi dell’anno, dal 1 gennaio al 3 luglio, registrati 144 omicidi, con 61 vittime donne, di cui 53 uccise in ambito familiare/affettivo; di queste, 33 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner (nel 2022 le vittime di omicidio volontario commesso dal partner/ex partner sono tutte di genere femminile). Un interrogativo, un non detto aleggiava nei discorsi di tante/i militanti presenti in questa manifestazione: abbiamo fatto tante lotte, tante iniziative negli anni. Ci sono state grandi conquiste, il movimento delle donne ha ottenuto risultati straordinari in materia di libertà, ma allora perchè non si riesce ad uscire dall’incubo delle culture patriarcali rozze e violente che animano le pulsioni femminicide di maschi che non reggono il confronto con le soggettività libere e indipendenti delle donne ?
Quanto durerà questa mattanza di donne colpevoli solo di volere vivere le loro libere soggettività ? Quanto dovranno cambiare i maschi per essere liberi dalle pulsioni violente di dominio sulle donne ? E’ forse con queste domande difficili che il lungo corteo si è sciolto nella notte nelle vie della Bolognina.

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Nuovi fogli di via agli attivisti di Extinction Rebellion (XR): “Abbiamo perso il lavoro, chi ci ripagherà?”

(Foto di Extinction Rebellion (XR) Torino)

Fonte : Pressenza.com

Notificati nuovi fogli di via da Torino agli attivisti di Extinction Rebellion

“Si tratta di misure totalmente illegittime, emanate dal Questore di Torino sapendo benissimo di non poterlo fare” dicono gli attivisti. “Molti di noi hanno perso il lavoro. Chi ci ripagherà per tutti i danni subiti quando avremo vinto tutti i ricorsi?”

Non si ferma la macchina repressiva nei confronti degli attivisti torinesi di Extinction Rebellion. Negli ultimi giorni, infatti, il Questore di Torino ha emesso nuovi fogli di via dalla città, per un periodo di un anno, nei confronti di altri attivisti del movimento. Le nuove misure si vanno a sommare ai 5 fogli di via già notificati e alle 22 denunce penali che hanno colpito le persone presenti in Piazza Castello il 25 luglio.

Quel giorno, due attiviste del nodo torinese di Extinction Rebellion erano salite con una scala sul balcone del palazzo della Regione Piemonte, per appendere uno striscione con scritto “Benvenuti nella crisi climatica. Siccità: è solo l’inizio”. Un’azione plateale ma radicalmente pacifica, volta a denunciare, ancora una volta, il gravissimo stato di crisi idrica che l’Italia intera sta affrontando ormai da mesi. Tuttavia, quella mattina, tutte le persone presenti in piazza – anche chi stava semplicemente dando dei volantini o facendo delle foto – hanno ricevuto una denuncia penale per Art. 633 e Art. 639 bis (Invasione di edifici o terreni) e Art. 18 TULPS (Manifestazione non preavvisata). “Io quel giorno sono stato tutta la mattina in Piazza Castello a fare foto. Non ho fatto altro” racconta Roberto, una delle persone denunciate. “Nonostante questo, mi hanno notificato una denuncia penale per Invasione della Regione Piemonte”. Come Roberto, altre 21 persone si trovano attualmente nella stessa identica situazione.

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Da Trump a Putin: perché le persone sono attratte dai tiranni?

Fonte TheConversation

 

La testimonianza al comitato del 6 gennaio della Camera dei rappresentanti sull’insurrezione al Campidoglio degli Stati Uniti nel 2021 ci ha permesso di approfondire l’umanità dei sostenitori di Donald Trump.

Come rivelano le udienze , il presidente uscente ei suoi sostenitori sembravano essere sulla stessa lunghezza d’onda mentre esitava a fermare la violenza mentre i suoi seguaci erano decisi a eseguire i suoi ordini.

 

Data la sua influenza, sembra chiaro che Trump sappia cosa fa funzionare i suoi seguaci. Il fascino del populismo di Trump non è un fenomeno isolato, ma qualcosa legato al modo in cui le persone pensano ai loro leader.

Il populismo di Trump ora è diventato più grande dello stesso Trump . Il successo dei tiranni in tutto il mondo suggerisce che dovremmo prenderli più sul serio quando vengono elogiati come intelligenti , almeno quando si tratta di manipolare le nostre menti.

Il nuovo autoritarismo

Sebbene i movimenti populisti siano in circolazione da molto tempo, c’è stato un notevole interesse nello spiegare perché il populismo è diverso ora , perché è accoppiato con l’autoritarismo e si tinge senza scusarsi di nazionalismo e xenofobia.

Le emozioni alla base delle passioni delle masse prive di diritti civili sono radicate oggi nella paura di noi contro loro della scomparsa nazionale – che l’aumento dell’immigrazione, della liberalizzazione e della globalizzazione sono segni schiaccianti che le istituzioni un tempo affidabili non possono più proteggere il nostro benessere collettivo.

In molti paesi in cui l’autoritarismo ha preso piede – Russia, Bielorussia, Ungheria, Turchia e Polonia per citarne alcuni – questo populismo è anche accompagnato da una spinta dei leader a sopprimere la libertà di stampa o diffondere disinformazione dilagante aiutata dai social media.

Una donna con i capelli corti e scuri in una giacca bianca intreccia le mani mentre si trova di fronte a un microfono.
Maria Ressa delle Filippine fa un gesto mentre parla durante la cerimonia del Premio Nobel per la Pace al municipio di Oslo in Norvegia nel dicembre 2021. (AP Photo/Alexander Zemlianichenko)

In un cenno all’intelligenza di tali autocrati, il premio Nobel Maria Ressa descrive l’uso politico di tale disinformazione come “diabolicamente brillante”.

Ressa, giornalista, è stata insignita del Premio Nobel per la Pace per i suoi sforzi per salvaguardare la libertà di espressione.

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Il drone dell’UE è un’altra minaccia per migranti e rifugiati

 

Fonte :  Human Rights Watch

La sorveglianza aerea di Frontex facilita il ritorno agli abusi in Libia

Mappa che mostra le rotte delle barche nel Mar Mediterraneo

Ricostruzione dell’intercettazione del 30 luglio 2021 facilitata dal drone Frontex. Oltre alla traccia del drone Frontex, la mappa mostra la traccia di Seabird (un aereo Sea-Watch) che ha assistito all’intercettazione. Mostra anche la nave della ONG Sea Watch 3 nelle vicinanze. Non ci sono dati di localizzazione della nave per la motovedetta della guardia costiera libica Ras Jadir o per la nave intercettata. Mappa per gentile concessione di Border Forensics.

“Non sapevamo che fossero i libici finché la barca non si è avvicinata abbastanza e abbiamo potuto vedere la bandiera. A quel punto abbiamo iniziato a urlare e piangere. Un uomo ha cercato di buttarsi in mare e abbiamo dovuto fermarlo. Abbiamo lottato il più possibile per non essere ripresi, ma non potevamo farci nulla”, ci ha detto Dawit. Era il 30 luglio 2021 e Dawit, dall’Eritrea, sua moglie e la giovane figlia stavano cercando rifugio in Europa.

Invece, erano tra le oltre 32.450 persone intercettate dalle forze libiche l’anno scorso e riportate a detenzioni arbitrarie e abusi in Libia .

Nonostante le prove schiaccianti della tortura e dello sfruttamento di migranti e rifugiati in Libia – crimini contro l’umanità , secondo le Nazioni Unite – negli ultimi anni l’Unione Europea ha sostenuto gli sforzi delle forze libiche per intercettare le barche. Ha ritirato le proprie navi e installato una rete di risorse aeree gestite da società private. Da maggio 2021, l’agenzia di frontiera dell’UE Frontex ha schierato un drone fuori Malta e i suoi schemi di volo mostrano il ruolo cruciale che svolge nel rilevamento delle barche vicino alle coste libiche. Frontex fornisce le informazioni del drone alle autorità costiere, inclusa la Libia.

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Con il cambiamento del capitalismo internazionale, cambiano anche le risposte dei lavoratori

30 GIUGNO 2022
Del Professore Emerito David Peetz
 traduzione tramite google translator

 

 

Nonostante il declino dei sindacati, ci sono molti segnali di resistenza dei lavoratori. Ciò è correlato alla crescente disuguaglianza, alle incursioni sindacali in occupazioni e industrie apparentemente impenetrabili, allo sviluppo da parte dei sindacati di collegamenti internazionali e strumenti digitali e all’inevitabile pressione per la riforma del lavoro.

I sindacati sono in declino da circa quattro decenni e gran parte di questo può essere attribuito ai cambiamenti nel capitalismo stesso. Aziende e governi hanno perseguito fianco a fianco pratiche e leggi antisindacali. Sotto il controllo finanziario, le società pongono maggiore enfasi sulla riduzione dei costi e i governi hanno incoraggiato le riforme del mercato intensificando tale modello. Le aziende hanno stabilito fabbriche di alimentazione nei paesi in via di sviluppo con governi anti-sindacali e hanno chiuso i luoghi di lavoro sindacalizzati nei paesi sviluppati. Ciò ha coinciso con la creazione di nuove forme di lavoro che frammentano i lavoratori e rendono difficile la sindacalizzazione, e l’espansione esponenziale di occupazioni high-tech senza una storia di sindacalismo. In tutta l’OCSE, l’adesione media ai sindacati è scesa dal 37% della forza lavoro nel 1980 al 16% nel 2019.

Eppure, nel mezzo di tutto questo, abbiamo assistito a un’ondata di organizzazioni sindacali, con i lavoratori di parti di aziende come Apple , Amazon e Starbucks che perseguono la sindacalizzazione. È questo l’ultimo sussulto del movimento sindacale o qualcos’altro?

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Il Partito della Sinistra svedese si oppone all’accordo della NATO per tradire i curdi

 

La Turchia ha accettato di consentire alla Svezia di aderire all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO). Nei negoziati con il presidente Recep Tayyip Erdoğan, il governo svedese ha fatto marcia indietro su punti cruciali. L’accordo con la Turchia riduce la capacità della Svezia di agire come voce per la pace e la giustizia.

***

Nel 2019, un parlamento unito ha deciso di fermare le esportazioni di armi verso la Turchia perché la Turchia stava bombardando i curdi e altre minoranze nel nord-est della Siria. Il partito di sinistra è stato la forza trainante della decisione. Nei negoziati di ieri, il governo ha accettato di abolire tutti gli embarghi sulle armi.

L’obiettivo di Erdoğan è anche quello di mettere a tacere la voce della Svezia per i diritti dei curdi in Turchia, Iraq, Siria e Iran. Ieri il governo ha sacrificato i curdi, ma l’adesione alla NATO può anche significare che più diritti e libertà delle persone vengono negoziati.

 

 

Sappiamo che ci sono migliaia di prigionieri politici nelle carceri turche. Sappiamo che avvocati impotenti delle organizzazioni per i diritti umani vivono clandestinamente in Turchia. Sappiamo che le madri manifestano perché i loro figli sono stati rapiti dalla polizia, bambini che non rivedranno mai più. Innocenti, il loro unico crimine e’ che sono curdi. Così viene trattata la minoranza curda in Turchia.

I negoziati hanno anche portato a una più stretta cooperazione tra i servizi di intelligence delle forze armate svedesi e l’Organizzazione nazionale di intelligence turca. Ciò potrebbe significare che la Svezia dovrà estradare in Turchia i curdi che hanno bisogno di protezione.

Il Partito della Sinistra è contrario all’adesione alla NATO. La Svezia ha una lunga tradizione di non allineamento militare. L’appartenenza alla NATO è associata a grande incertezza. Rischiamo di essere costretti a guerre e conflitti a cui non vogliamo partecipare. L’appartenenza alla NATO rende inoltre più difficile condurre una politica estera indipendente con credibilità. Questo è ciò che stiamo vedendo chiaramente accadere. È un enorme tradimento consentire alla Turchia di avere così tanta influenza sulla politica estera svedese.

Saggio del venerdì: perché i soldati commettono crimini di guerra e cosa possiamo fare al riguardo

Friday essay: why soldiers commit war crimes – and what we can do about it

Mia Martin Hobbs, Deakin University

The following essay contains disturbing images and language.


In 2020, the Inspector-General of the Australian Defence Force released the Afghanistan Inquiry into Australian Defence Force Special Forces atrocities in Afghanistan. The report – commonly known as the Brereton Report – resulted in a flurry of analysis debating how and why Australian soldiers could have committed war crimes.

Some commentators focused on “high operational tempos” that increased soldiers’ dependence on their teams. Others emphasised how operational independence among “elite” forces allowed “charismatic leaders” to influence teams with a “warrior hero” culture. A common thread was that counterinsurgency warfare made it difficult to differentiate allies, civilians and enemies among the local population.

While these factors are important, analyses focusing on unit problems tend to treat culture as a static and internal problem, rather than an ongoing practice influenced by broader society. Similarly, the stress on counterinsurgency warfare negates the fact that similar crimes are also well documented in trench warfare and in occupations in conventional wars.

For policymakers, military leaders and the general public, a deeper understanding of the nature of war crimes is crucial if we want to prevent them from happening again.

War crimes reflect social prejudices. They are shaped around wartime laws and policies, and are facilitated by cultural veneration of the military. Historical comparisons between general infantry forces in Vietnam and special forces in Afghanistan show that atrocities have at least as much to do with broader social, political and cultural fabrics as they do with tempo, leadership and internal culture.

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Dichiarazione di WikiLeaks contro l’estradizione di Julian Assange

 

Fonte  ACRIMED

 

Il ministro dell’Interno  britannico approva l’estradizione dell’editore di WikiLeaks Julian Assange negli Stati Uniti, dove rischia una pena detentiva di 175 anni. Una giornata buia per la libertà di stampa e la democrazia britannica La decisione sarà impugnata  ”: traduciamo il comunicato di WikiLeaks pubblicato ieri . (Acrimato)

È un giorno buio per la libertà di stampa e la democrazia britannica. Chiunque tenga alla libertà di espressione in questo paese dovrebbe vergognarsi profondamente che il ministro dell’Interno abbia approvato l’estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti, il paese che aveva pianificato di assassinarlo.

Giuliano non ha fatto niente di male. Non ha commesso alcun crimine, non è un criminale. Giornalista ed editore, viene punito per aver fatto il suo lavoro.

Priti Pratel aveva il potere di fare bene. Invece, sarà ricordata per sempre come complice degli Stati Uniti nella loro spinta a fare del giornalismo investigativo un’impresa criminale. Le leggi straniere fissano ormai i limiti della libertà di stampa in questo Paese e l’attività giornalistica che ha ricevuto i più prestigiosi riconoscimenti nella professione è stata considerata un reato meritevole di estradizione e di ergastolo.

La strada per la libertà di Julian è lunga e tortuosa. La lotta non si ferma oggi. Questo è solo l’inizio di una nuova battaglia legale. Faremo ricorso secondo la procedura in vigore, il prossimo ricorso sarà presentato all’Alta Corte. Combatteremo più duramente e protesteremo più in alto nelle strade, ci organizzeremo e faremo conoscere a tutti la storia di Julian.

Non commettere errori, questo è stato un affare politico fin dall’inizio. Julian ha pubblicato prove che il paese che cerca di estradarlo ha commesso crimini di guerra e li ha insabbiati; che ha torturato e consegnato prigionieri al di fuori del quadro giuridico; che ha corrotto funzionari stranieri; e indagini legali imperfette sugli illeciti statunitensi. La loro vendetta è cercare di farlo scomparire nei recessi più oscuri del loro sistema carcerario per il resto della sua vita, per dissuadere gli altri dal ritenere i governi responsabili.

Non permetteremo che ciò accada. La libertà di Julian va di pari passo con tutte le nostre libertà. Combatteremo per restituire Julian alla sua famiglia e riguadagnare la libertà di espressione per tutti noi.

Argentina: Milagro Sala, non c’è giustizia con un potere corrotto

Fonte: Pressenza 

Milagro Sala (Foto di Archivio Pressenza)

«Quello che stanno facendo con Milagro Sala è un’eresia» ha detto Papa Francesco quando Taty Almeida, dirigente storica delle Madri di Plaza de Mayo in Argentina, gli ha fatto visita il 27 maggio.

Sono più di sei anni e quattro mesi che Milagro Sala, dirigente sociale della provincia di Jujuy in Argentina, è detenuta a causa di processi legali manipolati, accuse con testimoni pagati, vessazioni a lei e alla sua famiglia; tutto dovuto al fatto di essersi ribellata al potere e di aver organizzato le persone più umili affinché reclamassero i propri diritti.

Papa Francesco non è l’unico a chiedere giustizia. Un gruppo di deputati argentini ha presentato un disegno di legge per intervenire sul potere giudiziario della provincia di Jujuy. L’obiettivo dell’iniziativa è garantire la forma repubblicana del governo, la divisione dei poteri e il sistema democratico. Così il disegno cerca la nomina di un Commissario federale e la dichiarazione di commissione dei membri del Tribunale Superiore di giustizia e del titolare del Pubblico Ministero di Accusa della provincia di Jujuy.

In sostanza, il disegno di legge spiega che da quando Gerardo Morales ha assunto il governo della provincia di Jujuy, ha modificato il potere giudiziario provinciale per controllare e intromettersi nella giustizia. Dice pure che non è garantita la separazione dei poteri. Infatti, tra i cambiamenti del governatore Morales ci sono l’ampliamento del Tribunale Supremo da cinque a nove membri. Questo è avvenuto grazie a una riforma legislativa particolare: due dei deputati che hanno votato la modifica, Pablo Baca e Beatriz Altamirano, sono diventati membri del tribunale. Cioè hanno votato se stessi. Il terzo, Federico Otaola, che è il presidente attuale del tribunale, era stato legislatore e candidato vicegovernatore con il gruppo di Gerardo Morales nel 2011.

Attualmente il governatore Morales continua ad approfondire tale progetto premeditato di cooptazione e assoggettamento sul potere giuridico dello Stato provinciale, configurando una situazione dalla gravità istituzionale intollerabile. In questo senso, ha forzato la dimissione di tre membri del Tribunale Supremo e vuole ottenere quella di altri tre con il chiaro obiettivo di imporre la sua maggioranza.

Al Papa si uniscono voci di prestigio che denunciano questa situazione inammissibile. All’inizio di maggio, l’ex giudice della Corte Suprema della Repubblica argentina, Raúl Zaffaroni, ha denunciato il governatore perché «Jujuy sta vivendo uno scandalo giuridico».

Tra i firmatari del disegno di legge ci sono i deputati Federico Fagioli, Itai Hagman, Natalia Zaracho, Leonardo Grosso, Verónica Caliva, Natalia Souto, Eduardo Toniolli e Juan Carlos Alderete.

«Se chiediamo l’intervento non è per Milagro Sala, ma è per tutti gli strati sociali che non possono uscire a chiedere un pezzo di pane perché hanno fame o a inoltrare un’istanza di femminicidio perché incorrono in contravvenzioni. C’è una forte complicità» tra i poteri di stato a Jujuy, ha denunciato Milagro Sala lunedì in videoconferenza durante una presentazione del disegno di legge.

Da quando Morales è diventato governatore nel dicembre 2015, circa due mila persone di svariate organizzazioni sociali e politiche sono state accusate di numerosi delitti poiché avevano protestato contro il regime autoritario e conservatore della provincia. A Jujuy chiedere cibo, un lavoro dignitoso o un alloggio decente è punibile con il carcere, sentenziato in anticipo da un governatore che controlla le forze repressive e il potere giuridico.

Lo stesso governatore ambisce a diventare presidente del Paese nel prossimo futuro e propone come programma la repressione dei poveri affinché gli altri possano vivere in “pace”. Papa Francesco lo sa – il governo di Jujuy sostiene un sistema sociale, economico e politico che silenzia e violenta gli esclusi, affinché i più potenti continuino a godere delle proprie ricchezze.

Milagro Sala, donna indigena e ribelle, è il simbolo del nemico che il governatore vuole eliminare e quindi è detenuta da sei anni. Viene usata come un esempio per far sì che gli altri tacciono e abbassano la testa. Nonostante tutto, Milagro non si arrende, non nasconde la sua rabbia, non copre il suo viso scuro, non fa tacere il suo grido di battaglia. Anche da detenuta continua a organizzare e a chiedere la costruzione di un mondo giusto e solidale per tutti e tutte, a Jujuy e in qualunque altro posto dove le ingiustizie si accaniscono contro la maggioranza.

La Rete internazionale per la libertà di Milagro Sala, che include cittadini argentini, brasiliani, canadesi, spagnoli, statunitensi, finlandesi, francesi, italiani, britannici, svedesi e svizzeri, sostiene il disegno di legge per promuovere l’intervento federale del potere giuridico della provincia di Jujuy.

Non c’è giustizia con un potere giuridico corrotto e controllato da chi difende gli interessi dei potenti.

Traduzione dallo spagnolo di Mariasole Cailotto. Revisione di Thomas Schmid.

Quel effet de la gestion du président Bolsonaro sur la mortalité due au Covid-19 au Brésil ?

François Roubaud, Institut de recherche pour le développement (IRD) et Mireille Razafindrakoto, Institut de recherche pour le développement (IRD)

Le Brésil fait partie des trois pays, avec les États-Unis et l’Inde, les plus affectés par la pandémie de Covid-19, que ce soit en termes de décès ou de cas confirmés (660 000 et 30 millions respectivement). Les doutes qui subsistent quant à la fiabilité des données officielles (surtout pour les infections, mais également pour les morts) ne sont pas en mesure de remettre en question ce palmarès funeste.

Dans un article publié fin 2021, nous mettions en lumière les facteurs de risque associés à la probabilité d’y être contaminé par et de succomber au virus au cours de la première vague de la pandémie (octobre 2020). À côté des éléments de vulnérabilités socio-économiques communs avec d’autres pays et aujourd’hui bien documentés (pauvreté, informalité, résidence dans les favelas, identité ethnoraciale…), le Brésil se démarquait par le rôle néfaste joué par son président, Jair Bolsonaro, dans la diffusion de la pandémie et que nous avons qualifié d’effet Bolsonaro.

Deux vagues plus loin, qui se sont soldées par 500 000 décès et 20 millions de cas de contamination supplémentaires mais ont vu l’arrivée des vaccins, ces résultats tiennent-ils toujours ? S’il est évident que l’attitude négationniste du président a entravé la mise en place d’une stratégie efficace de lutte contre la pandémie, il est beaucoup plus ardu de montrer quelle a été sa traduction sur le terrain et d’en quantifier les effets. C’est ce que nous tentons de faire une nouvelle étude.

Comment évaluer un éventuel impact de l’action présidentielle

Pour tenter de répondre à cette question, deux approches sont en théorie envisageables, en fonction de l’unité d’analyse retenue : individuelle ou géographique.

Pour mettre en œuvre la première approche, il faudrait pouvoir disposer de données individuelles sur un échantillon représentatif de la population, qui à la fois informent sur le statut de chacun face à la maladie (décédé ou pas, contaminé ou pas), et de descripteurs sociopolitiques. Or d’une part, par définition, les enquêtes socio-économiques ne portent que sur les survivants (les morts ne parlent pas), tandis que les enquêtes et registres épidémiologiques sont en général très pauvres en information sur les caractéristiques individuelles (au mieux le sexe et âge, parfois les facteurs de co-morbidité), et n’incluent en aucun cas les préférences politiques.

La seule alternative possible consiste à mener l’analyse au niveau des localités. Si cette dernière ne permet pas de mesurer les risques individuels d’être affectés par la pandémie, elle présente de nombreux autres avantages.

Outre la possibilité de croiser un très large spectre d’indicateurs issus d’une multiplicité de bases de données indépendantes, cette approche se justifie pour trois autres raisons majeures :

  • Elle permet de couvrir de manière exhaustive l’ensemble du pays,
  • La diffusion du virus dépend largement des interactions sociales,
  • Face au déni du gouvernement Bolsonaro, les politiques ont été conduites à l’échelle locale (États, municipalités). L’analyse porte donc sur les 5 570 municipalités du pays et a mobilisé le traitement de dizaines de millions d’observations.

Le premier résultat clef est la confirmation que le Covid-19 a fait, toutes choses égales par ailleurs, plus de ravages dans les municipalités les plus favorables au président Bolsonaro (telles qu’appréciées à partir de ceux qui ont voté pour lui au premier tour de l’élection présidentielle de 2018, la dernière information disponible à ce niveau de détail).

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Ammazza-ammazza

Enrico Peyretti
fonte fondazione serenoregis

Si ammazzano, si ammazzano. Per un pezzo di terra. Ammazza-ammazza. Per un orgasmo mentale della psicopatia di potenza. Ahimé, sono esseri para-umani, simil-umani, fermi al grado primitivo dell’evoluzione umanizzatrice. Ammazzano. Si ammazzano tra loro. Come tanti altri, tante altre volte, in tanti punti del mondo, anche oggi. Uno ha cominciato, un altro, prontamente, ha continuato. Per difendersi, ammazzano chi ammazza e diventano ammazzatori come lui. Offesi, offendono. Che fantasia microscopica! Tutti usano mezzi omicidi tremendi, scientifici, studiati da scienziati pazzi, freddi omicidi, tecnici della morte, anime di ghiaccio, menti morte. Non gli basta che le armi siano macchine tecnologiche ammazza-uomini: devono anche essere tormentose, bombe a grappolo, e cose simili, che moltiplicano la morte a pezzetti, che arriva in forma di gas, arriva a chi è ammazzato e a chi passa di lì, o vi passerà. Largheggiano, nell’ammazzare: prendono tutto, senza distinzioni. I bambini, i malati? Se sono lì, o passano di lì, negli ospedali, prendono anche loro, perché no? E’ la guerra, è ammazzare.

Si possono fare differenze, sembra all’inizio, poi diventano uguali. La morte da bomba è uguale per tutti. Chi ha tirato la bomba? Non importa. Dove arriva ammazza e abbatte le case, allo stesso modo, le case dove si vive, si ama, si dorme, si passa la vita, da bimbi a vecchi. Non voglio più sapere da chi viene l’ammazzare. Vedo su chi arriva: esseri umani ammazzati, esseri non umani ammazzatori, ammazzabili anche loro. Da tutte la parti ammazzatori. Forse i morti fanno la pace tra loro. Dove si trovano ora non si spara più.

Ci sono solo grandi larghe braccia, accoglienti come Emergency di Gino Strada, l’unico che non fa differenze, e adesso è là anche lui, come un santo, ad accoglierli tutti insieme, spogliati da divise, bandiere, armi e idee di guerra: pulitamente nudi, nelle mani del chirurgo guaritore. Ci sono anche quelli che combattere non volevano, mandati all’insaputa, con inganno, e non hanno avuto il tempo (ingenui, sprovveduti, imbambolati!) di disobbedire ai criminali comandanti. E poi ci sono quelli comandati, senza scelta. Ma, ragazzi, dovevate pensarci prima, quando vi hanno messo in mano un fucile e vi hanno detto che era lo strumento di lavoro per la vostra madre-patria, una maschia di ferro, con mammelle avvelenate, con un grembo di filo spinato, che dice di avervi partorito, ma in realtà le servite o da lavoratori sottopagati, o da morti sulle lapidi e sui monumenti. Stupidi soldati! Ma poveretti, per questo vi hanno istupidito, per usarvi come pedine spara-ammazza.

Va bene, mi dite che uno ha aggredito e l’altro si è difeso. È vero, non confondiamo la sfumatura nella tragedia degli ammazzamenti. Ma quelli che temono il vicino di casa, un  po’ alterato, si preparano solo armi e ne invocano da tutti gli altri vicini. Non sapete inventare altro che guerra alla guerra! E sareste dei politici? Ma la politica è il vivere insieme, buoni e meno buoni: non è la guerra! La guerra, ogni guerra, è la morte della politica. Non avete saputo per tempo inventare altro. Adesso siete nella merda e sangue.

Ci pensino anche gli altri stati: tante armi, più che scuole e vita! Voi vi preparate la fossa. Non avete idee migliori che ammazza-più-ammazza, armi più armi. E vivere, chi se lo ricorda? Non è il divertimento ignorante, nel tornare al mare, alla vita “normale”! Vivere è sentire, ragionare, cercare, è parlare, faticare, è l’arte costruttiva di mettere insieme le parole, le storie, i pensieri, i dolori e le speranze di un popolo e dell’altro, e quindi è potersi riconoscere come esseri uguali nel soffrire, nel godere, nello sperare, nel sapere che moriremo, e sarà meglio non morire come bestie.

Perché non vi siete parlati prima? Perché non avete provato ad ammorbidire la durezza di qualche comandante malato (nessuno ha diritto di comandare!), con proposte di intesa, di accordo, col concedere qualcosa tu e qualcosa lui, che è sempre la formula del vivere senza impazzire?

Ora, mentre vi ammazzate, parlate di vittoria. Ma sapete cosa dite? La vittoria è il premio per chi ammazza di più, e contiene la prossima guerra, la vendetta. Lo capiscono i bambini, lo capisco anche’io, nel mio piccolo, e non lo capite voi? La vera vittoria è del primo che smette di ammazzare e comincia a vivere. Non è facile vivere, ma è vivere! Avete altro oltre la vita, signori ammazzatori, schiavi della morte? Prenderà anche voi, e non ghignerete più sugli schermi, come fate ora, non abbaierete e non ringhierete come cani stupidi sulle frontiere che avete inventato.

Sarete morti, avrete perso una vita vissuta male, perché l’avete odiata e uccisa negli altri, cioè in voi stessi. Mi fate un’immensa pena, come le vostre vittime, nella vostra immensa stoltezza. Non sto con voi, se non nel dirvi queste cose della saggezza antica e di sempre, per aiutarvi (spero possibile, alla fine) a ridiventare umani.  Enrico (uno di quelli che provano a vivere, cioè condannano ogni guerra, senza concedere eccezioni).

“La guerra Usa è fino all’ultimo ucraino”, dialogo tra Noam Chomsky e Bill Fletcher

Una sintesi del dialogo “Una risposta di sinistra all’invasione russa dell’Ucraina” fra l’intellettuale e attivista politico Noam Chomsky e l’attivista e scienziato politico Bill Fletcher jr. trasmessa su Real News Network.

Fletcher. Partiamo da tre assunti. Il primo: la Nato non è un’alleanza difensiva. Il secondo: alla dissoluzione del Patto di Varsavia sarebbe dovuta seguire la dissoluzione della Nato. Infine: l’espansione della Nato, in particolare durante le presidenze di Clinton e Bush jr, è stata un errore e una provocazione.

Chomsky. Penso siano punti di partenza corretti, e vorrei aggiungerne un altro. Qualunque sia la spiegazione dell’invasione russa – che è una questione cruciale – l’invasione in sé è un atto criminale di aggressione, un crimine internazionale di suprema gravità, paragonabile ad altre violazioni della legge internazionale e dei diritti umani come l’invasione statunitense in Iraq o a quella della Polonia da parte di Hitler. Ma c’è un background che risale ai primi anni Novanta, quando l’Urss collassa e il presidente Usa George Bush senior raggiunge un accordo con il presidente dell’Urss Michail Gorbaciov, un accordo ben definito. Gorbaciov acconsente all’unificazione delle due Germanie e all’ingresso del nuovo Stato nella Nato, che considerato il contesto è una concessione notevolissima, a una condizione che viene ufficializzata: che la Nato non si espanda a est nemmeno di un centimetro, Not one inch. Gli americani rispettano il patto fino al 1994, quando Bill Clinton, per ragioni di consenso interno, incoraggia Paesi come Polonia, Ungheria e Slovenia a entrare nell’Alleanza atlantica. Poi, con il pretesto di fermare le atrocità serbe in Kosovo, Clinton bombarda la Serbia senza nemmeno informare i russi che ne escono umiliati. George Bush jr. invita a entrare nella Nato praticamente tutti gli Stati satellite russi, nel 2008 anche l’Ucraina e qui interviene il veto di Francia e Germania, ma la proposta resta sul tavolo a Washington. Un approccio pericoloso e cinico, perché viola le red lines russe. Anche la rivoluzione arancione di Maidan del 2014 è istigata dagli Usa e porta quella che chiamiamo Nato, ovvero gli Stati Uniti, a integrare l’Ucraina sempre di più con l’invio di armi e addestramento. C’è un documento ufficiale firmato da Biden nel settembre 2021, ignorato dai media ma non dall’intelligence russa, in cui si finalizza lo Strategic Defence Framework con l’Ucraina, si parla di forniture militari e dell’Ucraina come Enhanced Opportunities Partner della Nato, cioè apre le porte all’ingresso di Kiev nell’Alleanza.

Fletcher. Ma invece di accusare la Nato, Putin giustifica l’invasione con toni nazionalistici ed espansionistici. Come funziona il suo regime?

Chomsky. Putin ha sempre dichiarato che la decisione di dissolvere l’Urss è stata tragica. Ma anche che chiunque pensi di ricostituire quell’impero è un pazzo. È ovvio che la Russia non ha la minima capacità di farlo: anche se ha un grosso esercito ed è una potenza nucleare, è una cleptocrazia in declino con una economia debole e della grandezza più o meno di quella italiana. Non può conquistare nessuno. L’Ucraina è sempre stato un caso a parte e su questo le richieste russe ufficiali del ministro degli Esteri Lavrov sono sempre state, oltre all’indipendenza del Donbass, la neutralità e la demilitarizzazione, cioè la rimozione delle armi che minacciano la sicurezza russa. Uno status simile a quello del Messico rispetto agli Stati Uniti, che di fatto non può aderire ad accordi militari con la Cina. La proposta Lavrov poteva funzionare? Non lo sapremo mai, perché non è stata presa in considerazione.

Fletcher. Eppure nel 1994 con il memorandum di Budapest, l’Ucraina rinuncia al suo arsenale nucleare in cambio della promessa russa di non aggressione, e non cerca di entrare nella Nato fino al 2014 quando la Russia annette la Crimea e supporta la secessione in Donbass. Sembra che Mosca non voglia garantire la propria sicurezza, ma rendere l’Ucraina uno Stato satellite.

Chomsky. Il Messico è uno Stato satellite degli Usa? Lo erano l’Austria o la Finlandia? No, erano neutrali, con l’obbligo di non aderire a una organizzazione militare ostile guidata dagli Usa che facesse esercitazioni sul loro territorio [come la Nato in Ucraina, ndr]. Una limitazione di sovranità? Sì, ma non limitava la vita di quei Paesi. Uno status che si sarebbe potuto ottenere per l’Ucraina se gli Usa lo avessero voluto.

Fletcher. Ha senso per Austria e Finlandia. Perché Kiev dovrebbe fidarsi di un accordo con la Russia dopo l’annessione della Crimea nel 2014?

Chomsky. L’Ucraina può non credere al fatto che la Russia rispetterebbe un accordo, così come non li rispettano gli Stati Uniti in tanti luoghi del mondo. In Ucraina, la Russia sta commettendo crimini da tribunale di Norimberga, ma gli Stati Uniti violano trattati internazionali con l’abuso della forza. La domanda è: se gli Usa avessero rispettato le red lines russe, come consigliato da esperti, alti consiglieri, diplomatici, anche Francia e Germania, e avessero lavorato per la neutralità dell’Ucraina, la Russia avrebbe invaso? Non lo sappiamo. Per citare uno di quegli esperti, l’ex ambasciatore Usa, Chas Freeman, gli Stati Uniti “hanno scelto di combattere fino all’ultimo ucraino”, ovvero di abbandonare ogni speranza di un accordo. Tutto questo si poteva provare a evitare e si potrebbe ancora. Quando Biden dice che Putin è un criminale di guerra e verrà processato, lo mette al muro: l’unica strada è il suicidio o l’escalation, anche nucleare.

Fletcher. Addossi tutta la responsabilità agli Usa, ma nella Nato ci sono anche Paesi come la Germania e la Francia contrari all’ingresso dell’Ucraina. E i proclami di Putin sulla necessità di denazificare l’Ucraina sono ridicoli. C’è qualcosa che mi sfugge…

Chomsky. Ti sfugge la realtà dei rapporti di potere internazionali, dove gli Stati Uniti hanno un potere spropositato. Lo sappiamo tutti, la Russia lo sa benissimo. Chi capisce qualcosa di politica internazionale sa che gli Stati Uniti sono un violento stato canaglia che fa quello che vuole. Se al Cremlino ci fosse un uomo di stato abile e lungimirante, avrebbe cercato un compromesso con Germania e Francia, avrebbe provato ad aderire a qualche forma di casa comune europea come la immaginava Gorbaciov. Ma Putin e il suo entourage non hanno questa visione e capacità di leadership e hanno preso le armi, come fanno sempre le grandi potenze, inclusi gli Stati Uniti. Ed è una decisione criminale, che danneggia la Russia. Putin ha porto agli Stati Uniti sul piatto d’oro il più grande regalo immaginabile: potenze come Germania e Francia ora sono del tutto assoggettate agli Stati Uniti.

Il neonazismo dell’oligarca ebreo

Fonte: areaonline.ch

In Ucraina le milizie armate di estrema destra, come Azov, sono state create più per scopi economici che ideologici: l’analisi dell’esperto

di
Veronica Galster
La questione dell’ultranazionalismo ucraino è stata strumentalizzata ad arte da Putin per giustificare l’invasione dell’Ucraina, ma un problema legato alla presenza di gruppi armati di estrema destra esiste, anche se non ai livelli dichiarati dal presidente russoPer capirne l’effettiva natura, l’influenza che hanno avuto e hanno nel Paese e l’ampiezza del fenomeno, area ha intervistato Matteo Zola, giornalista, direttore responsabile di East Journal ed esperto di Europa centro-orientale e area post-sovietica.

 

Matteo Zola, come leggere la presenza di gruppi ultranazionalisti di estrema destra in Ucraina senza rischiare di essere tacciati di filorussismo?

La denazificazione dell’Ucraina proclamata da Putin è chiaramente strumentale ed è puramente retorica a fini di propaganda interna. Una cosa che è difficile da capire per chi conosce meno questi Paesi, è che il richiamo alla lotta contro il nazismo è un richiamo molto forte. L’identità russa si è forgiata sulla grande guerra patriottica, cioè sullo sforzo militare della Seconda Guerra mondiale che non era solo per salvare la Russia, ma anche per salvare il mondo dal nazifascismo. Il sentimento nazionale russo è alimentato ed è saldato a questa memoria della lotta al nazifascismo. Quindi, quando Putin parla di “denazificazione” lo fa sapendo che tocca certe leve nel suo popolo, risvegliando antichi ricordi, perché il loro immaginario va immediatamente a quei racconti dei nonni e allo sforzo della liberazione dall’invasione tedesca.

In secondo luogo, è chiaro che c’è una presenza di movimenti di estrema destra in Ucraina. Ci sono movimenti che esistono da quando l’Ucraina è indipendente, quindi ben prima del 2014. Si tratta di un’estrema destra che definirei “tradizionale” e che si rifà all’ultranazionalismo come lo conosciamo anche in altri Paesi d’Europa. Queste destre estreme fanno sempre riferimento a un passato, nel caso ucraino il riferimento è legato a un’identità ucraina di tipo etnico: un’Ucraina fatta di ucraini e dalla quale quindi tutta la componente russofona è esclusa. Questa visione si concentra principalmente nelle regioni occidentali, soprattutto in Galizia, attorno a Leopoli, dove c’è lo zoccolo duro.

 

Cos’è cambiato dal 2014, dopo la rivoluzione di Maidan?

A partire dal 2014, invece, si sviluppano altri movimenti, il più conosciuto è Pravyi sektor (Settore destro), guidato da Dmytro Jaroš. Inizialmente Pravyi sektor rappresentava solo l’indicazione di dove si trovava questo gruppo all’interno della piazza durante la rivoluzione, non c’era un’ideologia ben definita tra i suoi componenti. Sì, i suoi leader ce l’avevano, ma in quel momento non era importante la politica. Dopo poche settimane invece ha preso una connotazione ideologica molto forte di estrema destra.

Pravy sektor però non è un movimento che ha una grossa influenza politica e alle elezioni parlamentari del 2014 riesce a raccogliere solo l’1,8% dei consensi e il suo leader Dmytro Jaroš, candidato alle presidenziali lo stesso anno, raccoglie solo lo 0,7%.

 

Non ricevono consenso elettorale, questo significa che il popolo in maggioranza non li sostiene, eppure non sono stati proprio marginali…

Grazie al ruolo importante che questo movimento ha avuto nelle proteste in Piazza Maidan, è comunque riuscito a sfruttare le molte crepe di un sistema democratico vacillante, condizionato dal conflitto e plagiato dalla presenza degli oligarchi. La marginalità istituzionale dell’estrema destra non è sinonimo di debolezza, Pravyi sektor è, ad esempio, all’origine del famigerato battaglione Azov. Questa estrema destra militante e militare ha rappresentato una seria minaccia per la vita politica del paese: cercando di imporre la propria agenda estremista, si è infatti resa protagonista di intimidazioni e violenze verso oppositori di sinistra, gruppi femministi, attivisti Lgbt e minoranze etniche, minando il processo di democratizzazione.

 

E allora perché questi gruppi sono stati tollerati, se non promossi, dalle autorità politiche dell’Ucraina?

Non dobbiamo dimenticare la presenza di potenti oligarchi che controllano il Paese e promuovono i politici a seconda delle loro necessità. Uno di questi, molto potente e poco conosciuto, è Ihor Kolomojskyj, il cui nome ritorna spesso: è lui che ha favorito l’ascesa di Julija Tymošenko e di Petro Porošenko, con il quale però è poi entrato in conflitto, mettendogli così di fronte un degno avversario come l’attuale presidente Zelenskyj, favorendone l’elezione. Ed è sempre Kolomojskyj che ha finanziato la creazione dei battaglioni ultranazionalisti Azov, Dnipro e Aidar.

Ora, questo potente signore, vale la pena ricordarlo, è un ebreo con cittadinanza ucraina e israeliana, quindi tutto fuorché un neonazista.

 

Perché allora ha finanziato e armato dei gruppi di stampo neonazista?

Non lo ha certamente fatto per affinità ideologiche, lo scopo era invece quello di creare delle milizie private che, nella grande confusione del 2014-2015, gli servissero per difendere i propri interessi economici e politici nelle regioni orientali, nel momento in cui altre milizie private, orientate più verso gli interessi di Mosca, venivano finanziate da Achmetov e altri oligarchi del Donbass, come il battaglione Vostok. Si capisce quindi l’importanza del ruolo degli oligarchi, più che delle ideologie ultranazionaliste in contrapposizione a quelle filo-russe, nell’apparizione di questi gruppi paramilitari. Inoltre, la presenza di stranieri simpatizzanti dell’estrema destra tra le file di uno e dell’altro schieramento dimostra una volta di più che la chiave di lettura ideologica non regge per spiegare il fenomeno.

L’estrema destra ha sì un’influenza sul paese, ma questa influenza deriva dal fatto che sia collegata al potere oligarchico e risponda quindi anche a interessi che non sono di tipo ideologico-politico, ma piuttosto economico.

 

La guerra cambierà questi equilibri?

È chiaro che la guerra cambia un po’ tutto: il battaglione Azov è diventato necessario ora per lo Stato ucraino, lo stesso Stato che prima aveva cercato di integrare questa estrema destra per sottrarla al controllo degli oligarchi. L’ex-presidente ucraino Porošenko aveva interesse a far entrare questi battaglioni nell’esercito regolare perché questo significava toglierne il controllo agli oligarchi. Si potevano sciogliere questi battaglioni? No, non si poteva perché lo Stato era ancora debole, le istituzioni democratiche erano ancora deboli e il rischio era enorme, quindi si è cercata una via di compromesso integrandoli, anche se questo significava armare Azov come tutti gli altri battaglioni dell’esercito.

Dire che lo Stato ucraino ha protetto e tollerato l’estremismo di destra è sbagliato, ma lo Stato ucraino è tante cose e ci sono rappresentanti dello Stato che sono oligarchi e che quindi fanno i propri interessi. Si tratta di un discorso complesso e che non va “tagliato con l’accetta”, soprattutto se si parla dell’estrema destra del dopo 2014.

Se quando la guerra finirà l’Ucraina esisterà ancora, io credo che si riaccenderà il sentimento nazionalista, anche radicale, è inevitabile, ma non sarà necessariamente un nazionalismo di tipo etnico.

 

….Evaluation of science advice during the COVID-19 pandemic in Sweden…. ovvero la pratica della selezione naturale ….

Questo articolo disvela le negligenze e la “logica darwiniana” delle Autorità svedesi di lasciare fare al Corona virus il compito di fare “la selezione” nella popolazione, ovvero far fuori le persone fragili e/o anziane .
” Nessun lockdown, nessun allarme per non bloccare economia e cittadini. La Svezia negli ultimi due anni ha diviso l’opinione pubblica tra coloro che vedevano nella sua strategia di mitigazione del virus un esempio da seguire e chi invece temeva la poca prudenza. Oggi un primo studio scientifico sistematico, pubblicato su Nature, emette una sentenza: l’approccio laissez-faire del Paese scandinavo si è rivelato “moralmente, eticamente e scientificamente discutibile”, provocando un tasso di mortalità che nel 2020 è stato di 10 volte superiore rispetto a quello della vicina Norvegia. Da modello discusso a fallimento conclamato, dunque…..”

Vedi gli articoli di Nature : Evaluation of science advice during the COVID-19 pandemic in Sweden

e HuffingtonPost ” Gli anziani lasciati morire, i bambini usati per diffondere il virus. Il fallimento del modello svedese sul Covid “

QUANDO L’INTELLETTUALE RINUNCIA ALLA RAGIONE. A PROPOSITO DI FLORES E DI “MICROMEGA”.

FONTE IL BLOG DI ANGELO D’ORSI  CHE RINGRAZIAMO

Il 4 aprile 2022 l’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) ha diffuso il seguente comunicato:
“L’ANPI condanna fermamente il massacro di Bucha, in attesa di una commissione d’inchiesta internazionale guidata dall’ONU e formata da rappresentanti di Paesi neutrali, per appurare cosa davvero è avvenuto, perché è avvenuto, chi sono i responsabili. Questa terribile vicenda conferma l’urgenza di porre fine all’orrore della guerra e al furore bellicistico che cresce ogni giorno di più”.

“Questo comunicato è osceno, e infanga i valori della Resistenza”, è l’incipit del commento di Paolo Flores d’Arcais, direttore di “MicroMega”, mentre a me è parso un comunicato di buon senso, e di civile rigore. In un editoriale sul sito della rivista, invece di sostenere la linea della ricerca della verità, Flores la dà per assodata, e chiede, dopo una profluvie di insulti ai dirigenti ANPI e di volgarità contro i russi, reclama una Norimberga per processarli (e poi? pena di morte?): un editoriale di una rozzezza e di una violenza che può fare invidia ai fogli più osceni del bellicismo italiota.

E meno male che Flores si è sempre presentato come il campione del razionalismo neoilluministico! Ma che cosa chiedeva Romain Rolland nel 1914 quando si scatenò nel mondo della cultura, in tutta Europa, la canea bellicistica? Chiedeva agli intellettualie di stare “al di sopra della mischia”, non al di fuori, ma al di sopra, cercando di non cedere alle passioni nazionali, e di non perdere il lume della ragione critica. E che cosa invocava Antonio Gramsci, negli anni di quella stessa guerra? La necessità della verità: ad ogni costo.

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Traffico di organi tra Marocco e Turchia: banda criminale scovata grazie a annunci sui social network

 

Fonte AfricaExpress che ringraziamo 


7 aprile 2022

La polizia marocchina ha arrestato 4 persone perché sospette di far parte di una rete criminale di traffico di organi e droga, attiva tra Marocco e Turchia.

La direzione generale della Sicurezza nazionale (DGSN) di Rabat ha precisato che l’inchiesta è stata aperta dopo un annuncio pubblicato sui social network. L’inserzione offriva grosse somme di denaro in valuta, in cambio di espianto di reni, effettuate in cliniche private all’estero.

Scoperto traffico di organi tra Marocco e Turchia

Finora gli inquirenti marocchini hanno già identificate due vittime in Turchia e, secondo il quotidiano con base a Casablanca, Al Ahdat Al Maghribiya, le vittime avrebbero percepito 14.000 dollari per la cessione di un rene. Le quattro persone arrestate – 3 donne e un uomo – fungevano da intermediari in questo losco traffico, prestando il loro “aiuto” ai disgraziati, pronti vendere un loro rene per fuggire alla povertà.

La DSGN ha aggiunto che talvolta i criminali sfruttavano le vittime anche per ricezione e trasporto di stupefacenti, sia in Marocco sia in altri Paesi. Tutte queste attività sarebbero da attribuirsi a una rete che non opera direttamente nel regno ed sarebbe composta da cittadini stranieri.

Durante una perquisizione nelle abitazioni dei 4 arrestati, gli inquirenti hanno trovato grosse somme di denaro – sia in dirham marocchini che in valuta estera – ricevute di trasferimento di soldi oltrefrontiera, nonché telefoni cellulari, analisi di gruppi sanguigni di potenziali vittime e cannabis. Ovviamente si sospetta  che il contante trovato sia frutto di atti criminali.

Ora, grazie al coinvolgimento della filiale Interpol di Ankara, le indagini procedono a tutto campo anche in Turchia, per scovare tutti responsabili di questo traffico illecito.

Africa ExPress
@africexp

LETTERA DI 10 EX CORRISPONDENTI DI GUERRA CONTRO LA PROPAGANDA DEI NOSTRI MEDIA

 

“Ecco perché sull’Ucraina il giornalismo sbaglia. E spinge i lettori verso la corsa al riarmo”: lo sfogo degli ex inviati in una lettera aperta. “Basta con buoni e cattivi, in guerra i dubbi sono preziosi”

Undici storici corrispondenti di grandi media lanciano l’allarme sui rischi della narrazione schierata e iper-semplicistica del conflitto: “Viene accreditato soltanto un pensiero dominante e chi non la pensa in quel modo viene bollato come amico di Putin”. L’ex inviato del Corriere Massimo Alberizzi: “Questa non è più informazione, è propaganda. I fatti sono sommersi da un coro di opinioni”. Toni Capuozzo (ex TG5): “Sembra che sollevare dubbi significhi abbandonare gli ucraini al massacro, essere traditori, vigliacchi o disertori. Trattare così il tema vuol dire non conoscere cos’è la guerra”

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Ucraina: socialisti democratici sfidano l’attacco di Zelensky ai lavoratori, ai partiti politici

 

FONTE GREENLEFT

Autore Federico Fuentes 

Usando il pretesto dell’invasione della Russia, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha bandito diversi partiti politici e minato i diritti sindacali e sindacali.

Il gruppo socialista ucraino Sotsyalnyi Rukh (Movimento sociale) ha criticato le azioni come antidemocratiche e ha avvertito che rischiano di minare la resistenza popolare all’invasione.

Zelensky “ha sospeso temporaneamente le attività” di 11 partiti con presunti legami con la Russia il 19 marzo. Sebbene la maggior parte dei partiti sia molto piccola, l’elenco include il secondo partito più grande in parlamento, la Piattaforma di opposizione per la vita, insieme a diverse organizzazioni che hanno le parole “sinistra” o “socialista” nel loro nome.

Giorni prima, il parlamento ha approvato un disegno di legge per deregolamentare i diritti del lavoro, la legge dell’Ucraina “Sull’organizzazione dei rapporti di lavoro nella legge marziale” (7160) , che è stata firmata da Zelensky il 23 marzo.

 

 

Nuovo diritto del lavoro

Socialisti e sindacati affermano che la legge – che limita in modo significativo i diritti dei dipendenti e aumenta il potere dei capi – è incostituzionale e potrebbe rimanere in vigore anche dopo la fine della guerra.

Il leader del movimento sociale Vitaliy Dudin ha spiegato in una  che il nuovo diritto del lavoro, che arriva “in un momento in cui i sindacati ucraini e i lavoratori in generale sono mobilitati nella resistenza popolare e nell’organizzazione del mutuo soccorso” rappresenta “uno schiaffo”. di fronte al loro coraggio e sacrificio”.

“Tali misure trasferiranno il peso della guerra dai più ricchi alla maggioranza operaia”, scrisse Dudin. “Devono essere respinte”.

George Sandul, un avvocato della Ong per i diritti dei lavoratori Labor Initiatives, ha detto a Serhiy Guz di   che i cambiamenti hanno “scioccato i sindacati e gli esperti del settore”.

“Naturalmente, il modo in cui le persone lavorano ha subito enormi cambiamenti durante la guerra provocata dall’invasione russa”, ha affermato Sandul. “Ma quei dipendenti che non hanno perso il lavoro stanno lavorando giorno e notte affinché l’esercito e il popolo ucraino ottengano la vittoria.

“È logico che qualsiasi regolamento legislativo dovrebbe servire a un obiettivo principale: rafforzare la capacità di difesa dell’Ucraina. Questo disegno di legge … chiaramente non serve a questo scopo, invece mette i bastoni tra le ruote”.

Allo stesso modo, Dudin ha scritto: “Le restrizioni imposte a tutela dell’interesse pubblico devono essere proporzionate al raggiungimento dell’obiettivo perseguito. La [legge] è concepita per rafforzare le capacità di difesa, ma stabilisce la possibilità di sfruttamento dei lavoratori nelle imprese di qualsiasi settore in tutta l’Ucraina. In altre parole, le norme emergenziali da esso previste possono essere utilizzate non per svolgere lavori nell’interesse della difesa, ma per aumentare i profitti dei proprietari».

La legge consente: ai datori di lavoro di annullare i contratti collettivi di lavoro e di aumentare la settimana lavorativa da 40 a 60 ore; il licenziamento dei lavoratori in congedo per malattia o ferie, nonché il licenziamento degli iscritti al sindacato senza il consenso del comitato sindacale; le donne da assegnare a lavori fisicamente faticosi e clandestini, attualmente proibiti dalle leggi sul lavoro ucraine; e la sospensione del contratto di lavoro “in connessione con l’aggressione militare contro l’Ucraina”, con responsabilità per il pagamento del salario dei lavoratori a carico dello “Stato che ha commesso l’aggressione militare” (Russia), non del datore di lavoro.

Guz osserva che la legge segue le orme di “proposte altrettanto radicali di modificare il diritto del lavoro a favore dei datori di lavoro e di limitare in modo significativo i diritti dei sindacati” che erano state proposte dalla commissione parlamentare per le politiche sociali e dal ministero dell’Economia mesi prima L’invasione della Russia.

Dudin ritiene che queste restrizioni ai diritti dei lavoratori non siano necessarie e che esistano “modi più equi” per garantire la difesa dell’Ucraina: “È necessario confiscare le proprietà degli oligarchi ucraini per motivi di necessità pubblica. La capitale degli oligarchi ucraini deve lavorare per l’economia.

“L’obiettivo principale della politica in questa fase è unire la società nel contrastare l’aggressione russa e preservare il più possibile i diritti delle persone colpite. L’economia ucraina sarà sicuramente rilanciata [attraverso] il sostegno statale, un’adeguata organizzazione del lavoro e salari dignitosi”.

Divieto di feste

In un  , il Movimento Sociale ha espresso la propria contrarietà al divieto di alcuni partiti: “Abbiamo già visto come il governo abbia cercato di abusare della situazione di guerra per aggredire i diritti del lavoro dei lavoratori ucraini, ora le sue azioni sono volte a limitando le libertà politiche e civili. Non possiamo supportarlo”.

Dudin ha detto a  che il decreto di Zelensky che sospende le attività di questi partiti è “preoccupante”. “Stiamo vivendo tempi molto difficili, ma le restrizioni alla libertà di parola e di associazione sono difendibili solo se rese necessarie da motivi legali impellenti”, ha affermato.

“Anche durante lo stato di emergenza, le misure devono essere proporzionate alle loro finalità. Questo decreto presidenziale, tuttavia, non soddisfa il suo principale obiettivo dichiarato: garantire la sicurezza dell’Ucraina. Perché l’Ucraina vinca questa guerra, saranno necessarie due cose: l’unità popolare e il sostegno internazionale. Questo decreto mal concepito rischia di mettere a repentaglio entrambi”.

Dudin ha aggiunto: “La motivazione alla base di questo decreto è politica, basata su accuse non specificate di anti-Ucraina da parte di questi partiti. È una restrizione irragionevole su uno dei nostri diritti più fondamentali. Questa non è la Russia, questa è l’Ucraina, e la nostra costituzione proclama un sistema pluralista e multipartitico. Non possiamo semplicemente rinunciare a questa componente essenziale della nostra democrazia con il pretesto che siamo in guerra.

“Come persone di sinistra, ovviamente, siamo particolarmente preoccupati per le restrizioni a sinistra e che il decreto creerà la percezione che tutto ciò che è connesso con la sinistra e con il socialismo fa parte di una qualche strategia russa contro l’Ucraina.

“Allo stesso tempo, mentre molti compagni stranieri in questo momento ci chiedono se il pensiero di sinistra è ormai bandito in Ucraina e se questo è l’inizio di una più ampia repressione della sinistra, non credo che sia così categorico. Piuttosto che un attacco alla sinistra in sé , il governo sembra essere stato guidato da idee abbastanza vaghe su ciò che è “filorusso” e “filo-ucraino”.

“Si potrebbe dire: nessun vero esponente di sinistra è stato danneggiato nell’elaborazione di questo decreto. Nessuno dei soggetti presi di mira si batte per la giustizia sociale o per il socialismo democratico…

“In breve, nonostante le restrizioni ora imposte a queste parti, coloro che si battono per la giustizia sociale in Ucraina continueranno a farlo. In questo senso, le cose non sono cambiate in modo così significativo”.

IVAN IL TERRIBILE

 

di Loris Campetti.che ringraziamo 

Chi decide di dichiarare guerra al “nemico”, nel nostro caso la Russia, dovrebbe prima ascoltarlo, per capire meglio chi è e dunque imbracciare l’arma giusta per combatterlo. Anche chi sostiene le ragioni di Putin, convinto che il nemico non è lui ma l’altro, quello che parla una lingua vicina all’inglese e fa guerra per interposta Ucraina, dovrebbe sapere bene chi è colui che difende. Altrimenti si combatte, di qua o di là della barricata, solo perché si ha uno spasmodico bisogno di avere un nemico.

Cosa dice Putin, per contestualizzare la guerra contro l’Ucraina e convincere i suoi cittadini, i suoi soldati e i suoi intellettuali che trattasi di guerra giusta? Dice che la causa di tutti i mali viene da lontano ed è attribuibile a Lenin e ai bolscevichi che scegliendo lo stato federale hanno dato dignità e autonomia a Paesi vassalli della Grande Russia, accreditando per esempio l’Ucraina come stato e gli ucraini come popolo e per di più, hanno generato una Costituzione che consentiva ai suddetti stati-non stati di decidere se restare nell’Unione sovietica o abbandonarla scegliendo l’indipendenza.

Oggi invece, l’interpretazione scelta dai media italiani, europei e anglosassoni per definire Putin è che il tiranno russo non sarebbe altro che un figlio o forse figlioccio di Stalin e dell’Urss. In questo modo si mette in campo la suggestione dell’orso sovietico, nel tentativo di stimolare paure ancestrali e ricordi, immagini antiche della guerra fredda, scomuniche papali ai comunisti, quando i manifesti davanti ai seggi elettorali ammonivano: “Dio ti vede Stalin no”, e che i comunisti mangiavano i bambini mentre ora hanno cambiato menù e si accontentano di ammazzarli con le bombe lanciate contro gli ospedali. La lettura dell’originale del Putin-pensiero andrebbe consigliata anche a chi pensa che in fondo in fondo Vladimir ha ragione e spera in una sua vittoria sul campo contro i nazisti ucraini. Parlo di una minoranza che alberga nelle fila della sinistra, di chi, e ne conosco qualcuno, è incattivito dalla nostalgia per il due blocchi, Usa contro Urss, e rimpiange l’equilibrio del terrore terminato con la fine del socialismo reale. Ma nel tentavo espansionistico di Mosca vede un film sbagliato: Putin non è il capo di uno dei due blocchi che erano anche portatori di modelli sociali, economici e culturali diversi, oggi di blocco ne è rimasto uno solo. Tralascio il fatto che la paura, più che legittima, dell’egemonismo americano non può spingere dalla parte di chi si vorrebbe che fosse ma non è Giuseppe Stalin. Ma questa è una riflessione personale di chi con lo stalinismo ha rotto ogni sia pure solo ereditato rapporto appena è stato in grado, anagraficamente, di intendere e volere. Che cosa può mai avere a che fare con qualsivoglia idea di sinistra uno che solo 4 anni fa ha messo fuori legge il sindacato metalmeccanico, complice di aderire allo stesso sindacato multinazionale di cui fanno parte Fiom, Fim e Uilm e un’altra cinquantina di organizzazioni in giro per il mondo? Il tribunale di San Pietroburgo lo accusa di aver raccolto firme per modificare l’orrenda legislazione russa sul lavoro, e tanto è bastato perché fosse messo a tacere. Putin fa semplicemente quel che da noi Confindustria e parte non secondaria della politica sognano ma non riescono a realizzare.

Putin non è figlio né figlioccio di Stalin, tampoco di Lenin. Semmai è un figliastro, o meglio un nipotastro della cultura imperiale zarista, per liberarsi della quale Lenin e i bolscevichi fecero la rivoluzione cosiddetta d’ottobre. Non c’entra niente, Putin, con l’ottobre rosso perché di rosso ha solo le mani sporche di sangue. Scriveva Ivan IV Vasil’evic detto Ivan il terribile in una lettera ad Andrej Kurbskj, il nobile russo prima amico e poi oppositore: «Tutti i sovrani russi sono autocrati e nessuno ha il diritto di criticarli, il monarca può esercitare la sua volontà sugli schiavi che Dio gli ha dato. Se non obbedite al sovrano quando egli commette un’ingiustizia, non solo vi rendete colpevoli di fellonia, ma dannate la vostra anima, perché Dio stesso vi ordina di obbedire ciecamente al vostro principe». Vi ricorda qualcuno, questo zar di tutte le Russie?

Solo partendo da un principio di realtà, solo con la cultura che dovrebbe averci vaccinato rispetto al veleno delle bugie di guerra, è lecito prendere posizione, a favore, sia pur con tutti i distinguo, o contro la guerra di Putin. Dando a Putin il suo vero nome, Ivan IV Vasil’evic e non Iosif Vissarionovic Dzugasvili, per esempio, si può comunque dire che armare gli ucraini è una follia che alimenta nuova guerra e non allunga la vita di un solo bambino che ha avuto la sfortuna di nascere e crescere sotto le bombe. E sempre chiamando per nome Putin si può, al contrario, sostenere il dovere morale di aiutare con ogni mezzo la resistenza ucraina (possibilmente senza impropri e inaccettabili paragoni con la Resistenza al nazi-fascismo), a prescindere dalle conseguenze per l’Ucraina e l’umanità.

 

Anche le bugie non sono più quelle di una volta, è come se le loro gambe si fossero allungate a dismisura. Le bugie e i non detti, i non visti. Delle stragi di Putin oggi vediamo tutto, i civili ammazzati ci vengono sbattuti in faccia ora dopo ora tra una pubblicità del farmaco contro la prostata e un varietà. I 14 mila russofoni ammazzati nel Donbass negli ultimi otto anni, invece non li abbiamo visti, come non abbiamo commentato i cinquanta morti ammazzati dentro e fuori la sede sindacale di Odessa dai nazisti del battaglione Azov, come ci ricorda il presidente di Pax Christi, il vescovo Giovanni Ricchiuti. Questo vuol dire che i crimini dell’uno pareggiano quelli dell’altro? Al contrario, i crimini dell’uno si sommano a quelli dell’altro in una spirale criminale in cui le responsabilità maggiori sono del più forte, cioè della Russia, senza però assolvere il più debole. Senza dimenticare. Dire che prima delle foibe ci sono stati i crimini dei fascisti italiani contro il popolo jugoslavo non vuol dire che le foibe siano state una risposta giusta, ma è indubbio che siano state una risposta. Così come ricordare le vittime del Donbass non significa che le bombe di Putin sull’Ucraina possano nobilitare a “guerra giusta” la sporca guerra di oggi. I bambini del Donbass valgono come quelli di Kiev e come i bambini di tutto il mondo e di tutte le guerre. Gli uni e gli altri vanno salvati e per farlo, oggi, bisogna fermare una guerra combattuta intorno, e dentro, le centrali nucleari. Anch’esse andrebbero salvate, e poi magari chiuse. Armare la resistenza ucraina contro una potenza che oltre alle centrali ha anche le bombe nucleari, avvicina o allontana la pace in Ucraina e nel mondo?
A chiamare Putin Stalin e bolscevichi i soldati russi si fa un falso storico, così come a chiamare il presidente russo Hitler, per di più banalizzando quel che è stato il peggiore dei crimini del Secolo breve: lo sterminio di ebrei, rom, antifascisti, handicappati, omosessuali. Si può ragionare – noi che il rumore delle bombe lo sentiamo solo in tv, speriamo non solo per ora – e persino litigare a partire da un principio di realtà, evitando di aumentare la quantità di bugie di guerra messe in circolazione da un’informazione embedded, al di qua e al di là del nuovo muro?

Un’ultima considerazione. La prima vittima della guerra è la verità. Ma c’è una verità almeno che andrebbe salvaguardata: la guerra rende chi combatte per la libertà sempre più simile a chi combatte per cancellarla, mina nel profondo la democrazia e le coscienze. I partigiani l’avevano capito benissimo, e per questo vollero fortissimamente l’articolo 11 nei principi fondamentali della Costituzione: l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.

Articolo tratto da: ilmanifestoinrete

 

Chernobyl and Zaporizhzhia power cuts: nervous wait as Ukraine nuclear power plants could start leaking radiation

New Safe Confinement structure at Chernobyl.
OLEG PETRASYUK/EPA-EFE

Lewis Blackburn, University of Sheffield

The catastrophic disaster at the Chernobyl Nuclear Power Plant in 1986 was caused by an explosion at the Reactor 4 Unit. This expelled a sizeable quantity of radioactive material into the surroundings, alongside a partial meltdown of the reactor core. The last few decades have seen substantial international efforts to safely contain and decontaminate the site, including the recent installation of the New Safe Confinement structure.

But Russian forces have now seized the site, along with the Zaporizhzhia nuclear power plant, as part of the ongoing conflict in Ukraine. Moreover, on March 9, Ukrainian authorities reported a power loss at Chernobyl, followed by a partial one at Zaporizhzhia.

Despite reassurances by the International Atomic Energy Agency (IAEA) that there is no imminent safety threat posed by the power isolation, it is important to understand the potential impact going forward.

When nuclear fuel is removed from the core of a reactor, it is redesignated as “spent” nuclear fuel and often treated as a waste product for disposal.

But fuel will continue to dissipate heat due to radioactive decay, even after being removed from the reactor core. It is therefore of foremost importance that the spent fuel material contained at the Chernobyl site is adequately and continuously cooled to prevent a release of radioactivity.

At Chernobyl, as well as other sites, standard procedures to safely handle such material involves placing the fuel into water-filled ponds, which shield the near-field environment from radiation. They also provide a medium for heat transfer from the fuel to the water via continuous circulation of fresh, cool water.

If circulation is compromised, such as the recent power shutdowns, the fuel will continue to emit heat. This can make the surrounding coolant water evaporate – leaving nothing to soak up the radiation from the fuel. It would therefore leak out to the surroundings.

In the case of Chernobyl, the spent fuel material has been out of the reactor for an adequate period of time and does not, therefore, require intensive cooling. However, the surrounding water could nevertheless be evaporated eventually if the power is not reinstated. This could, in turn, heighten the risk for an increased radiation dose uptake by the remaining site workers and beyond.

The remaining risks are mainly posed by the severely damaged Reactor 4 Unit, which contains sizeable quantities of a lava-like material, commonly referred to as “corium” (because it comes form the core). This is highly radioactive and its eventual disposal continues to present a substantial scientific and engineering challenge. It is therefore necessary that the continued operation of radiation monitoring and ventilation systems within the New Safe Confinement structure remain online.

At Zaporizhzhia, two out of six reactors are actually operating. The damaged power connection luckily affects a reactor that is currently shut down. This is undergoing repair – but it is difficult to get spare parts in the middle of the war.

Nervous wait

Despite assurances that there exist on-site reserves of diesel fuel that could feasibly provide back-up power for approximately 48 hours at Chernobyl, we don’t know how long the site will be without power. It should be reiterated, however, that IAEA have said there is no cause for immediate alarm. That’s because there is enough water in the spent fuel pools to avoid an accident. It may be months before the water is completely gone.

This is reassuring, but then the fighting in the region is reportedly already making it difficult to fix the power connection problem.

At Zaporizhzhia, the damaged power connection is undergoing repair – but it is difficult to get spare parts in the middle of a war. The fact that the reactor is shut down means it is not an immediate safety risk. But if power is cut to one of the operating reactors, paired with substantial damage to backup generators, this could result in meltdown in the worst case.

The safe dismantling, decontamination and decommissioning of the Chernobyl site is the collective aim of the global engineering community, yet estimates of completion range into the late 2060s. Clearly, the latest events events pose a serious threat to the ongoing decommissioning efforts in Ukraine.The Conversation

Lewis Blackburn, EPSRC Doctoral Prize Fellow in Materials Science, University of Sheffield

This article is republished from The Conversation under a Creative Commons license. Read the original article.

 


Interruzioni elettriche di Chernobyl e Zaporizhzhia: attesa nervosa perché le centrali nucleari ucraine potrebbero iniziare a perdere radiazioni

traduzione robotizzata dall’inglese con google translator

Il catastrofico disastro alla centrale nucleare di Chernobyl nel 1986 è stato causato da un’esplosione presso l’unità Reactor 4. Ciò ha espulso una notevole quantità di materiale radioattivo nell’ambiente circostante, insieme a una fusione parziale del nocciolo del reattore. Gli ultimi decenni hanno visto sostanziali sforzi internazionali per contenere e decontaminare in sicurezza il sito, inclusa la recente installazione della struttura New Safe Confinement .

Ma le forze russe hanno ora sequestrato il sito, insieme alla centrale nucleare di Zaporizhzhia , come parte del conflitto in corso in Ucraina. Inoltre, il 9 marzo, le autorità ucraine hanno segnalato una perdita di potenza a Chernobyl, seguita da una parziale a Zaporizhzhia .

Nonostante le rassicurazioni dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) secondo cui non vi è alcuna minaccia imminente per la sicurezza rappresentata dall’isolamento dell’alimentazione, è importante comprendere il potenziale impatto in futuro.

Quando il combustibile nucleare viene rimosso dal nocciolo di un reattore, viene rinominato come combustibile nucleare “esaurito” e spesso trattato come un prodotto di scarto per lo smaltimento.

La nostra missione è condividere le conoscenze e prendere decisioni informate.

Ma il carburante continuerà a dissipare calore a causa del decadimento radioattivo, anche dopo essere stato rimosso dal nocciolo del reattore. È quindi della massima importanza che il materiale combustibile esaurito contenuto nel sito di Chernobyl sia adeguatamente e continuamente raffreddato per prevenire il rilascio di radioattività.

A Chernobyl, così come in altri siti, le procedure standard per manipolare in sicurezza tale materiale comportano il posizionamento del carburante in stagni pieni d’acqua, che proteggono l’ambiente del campo vicino dalle radiazioni. Forniscono anche un mezzo per il trasferimento di calore dal carburante all’acqua attraverso la circolazione continua di acqua fresca e fresca.

Se la circolazione è compromessa, come le recenti interruzioni di corrente, il combustibile continuerà a emettere calore. Ciò può far evaporare l’acqua di raffreddamento circostante, senza lasciare nulla per assorbire le radiazioni del carburante. Si diffonderebbe quindi nell’ambiente circostante.

Nel caso di Chernobyl, il materiale combustibile esaurito è rimasto fuori dal reattore per un periodo di tempo adeguato e, pertanto, non necessita di un raffreddamento intensivo. Tuttavia, l’acqua circostante potrebbe comunque evaporare alla fine se l’alimentazione non viene ripristinata. Ciò, a sua volta, potrebbe aumentare il rischio di un aumento dell’assorbimento della dose di radiazioni da parte dei restanti lavoratori del sito e oltre.

I restanti rischi sono principalmente posti dall’Unità Reactor 4, gravemente danneggiata, che contiene notevoli quantità di un materiale lavico , comunemente chiamato “corium” (perché proviene dal nucleo). Questo è altamente radioattivo e il suo eventuale smaltimento continua a rappresentare una sfida scientifica e ingegneristica sostanziale. È quindi necessario che il funzionamento continuato dei sistemi di monitoraggio delle radiazioni e ventilazione all’interno della struttura del Nuovo Confinamento Sicuro rimanga online.

A Zaporizhzhia, due reattori su sei sono effettivamente in funzione. Il collegamento di alimentazione danneggiato fortunatamente colpisce un reattore che è attualmente spento . Questo è in fase di riparazione, ma è difficile ottenere pezzi di ricambio nel mezzo della guerra.

Attesa nervosa

Nonostante le assicurazioni che esistono riserve in loco di carburante diesel che potrebbero fornire in modo fattibile alimentazione di riserva per circa 48 ore a Chernobyl, non sappiamo per quanto tempo il sito rimarrà senza alimentazione. Va ribadito, tuttavia, che l’AIEA ha affermato che non vi è motivo di allarme immediato. Questo perché c’è abbastanza acqua nelle piscine del combustibile esaurito per evitare un incidente. Potrebbero volerci mesi prima che l’acqua sia completamente sparita.

Questo è rassicurante, ma poi, secondo quanto riferito, i combattimenti nella regione stanno già rendendo difficile risolvere il problema della connessione elettrica.

A Zaporizhzhia, il collegamento elettrico danneggiato è in riparazione, ma è difficile ottenere pezzi di ricambio nel mezzo di una guerra. Il fatto che il reattore sia spento significa che non rappresenta un rischio immediato per la sicurezza. Ma se l’alimentazione viene interrotta a uno dei reattori in funzione, insieme a danni sostanziali ai generatori di riserva, ciò potrebbe causare una fusione nel peggiore dei casi.

Lo smantellamento, la decontaminazione e lo smantellamento in sicurezza del sito di Chernobyl è l’obiettivo collettivo della comunità ingegneristica globale, ma si stima che il completamento arrivi alla fine degli anni ’60. Chiaramente, gli eventi più recenti rappresentano una seria minaccia per gli sforzi di smantellamento in corso in Ucraina.

Patrick Zaki, l’ennesimo rinvio: udienza rimandata al 6 aprile

 

Fonte Articolo21

Autore : Riccardo Noury 

 

Nel giro di pochi minuti, tanto è durata la quarta udienza del processo che vede Patrick Zaki imputato di “diffusione di notizie false”, il giudice ha reso noto il rinvio al 6 aprile.

La notizia del rinvio inquieta e rattrista. Speravamo tutti, Patrick in primo luogo, che oggi avrebbe riacquistato la sua libertà. Purtroppo, non è stato così.

Non ci sono dettagli particolari sul motivo di questo ennesimo rinvio, se non, immagino, l’intento di prolungare ancora una volta questo limbo giudiziario che dura dal febbraio 2020.

Continueremo a stare accanto a Patrick, augurandoci che il tempo che lo separa dal 6 aprile sia un tempo tranquillo, sereno e di studio e che dopo quella data sia posta fine, nel migliore dei modi, alla sua persecuzione giudiziaria.

RITORNO A REIMS

fonte La Bottega del Barbieri 

 

di Alberto Prunetti (*)

 

Recensendo «Retour à Reims (Fragments)» Alberto Prunetti avverte il rischio che le storie working class vengano neutralizzate. Eppure queste biografie operaie aiutano a liberarsi dalle zavorre che ci portiamo dietro

 

Da un po’ di giorni ricevevo inviti a guardare il documentario francese Retour à Reims (Fragments) di Jean-Gabriel Périot. E sempre mi sottraevo. Ho un rapporto complesso, di attrazione e distanziamento, con l’opera di Didier Eribon a cui il documentario si ispira esplicitamente. Quando la lessi la prima volta mi ritrovai risucchiato in quelle pagine, assediato da flashback della mia infanzia. Quello che mi allontanava però dal memoir di Eribon era la mia traiettoria personale: per me gli studi non erano stati un elemento di mobilità sociale. Dopo la laurea non avevo fatto alcun dottorato, non ero entrato nel mondo della classe media intellettuale ma ero andato a lavorare in pizzerie e ristoranti per dieci anni. Avevo anche pulito merda di cavalli in resort di lusso in Italia. Non ero insomma un transfuga di classe e la classe media si guardava bene dall’accogliermi tra le sue braccia. Anzi, mi sfruttava alacremente.

Certo, me n’ero andato dalla mia città natale, con il suo altoforno che languiva e gli alti tassi di disoccupazione. Ma ero rimasto nella classe lavoratrice, saltando dalla padella alla brace, finendo a pulire cessi a Bristol, senza prendere nessun ascensore sociale. E quando ho provato a raccontare le mie disavventure working class in Gran Bretagna, un giornale conservatore, il Daily Mail, mi ha descritto come un «very sweary, grizzled old Italian Lefty», ossia un «volgare sinistrorso attempato», con il sottinteso che gente come me non dovrebbe scrivere libri ma stare al suo posto, a condire pizze con l’ananas e il prosciutto cotto.

Prima della visione

L’altro elemento che mi preoccupava era la ricezione da parte della classe media di opere culturali prodotte da autori con un background working class. Non è un problema solo delle opere di Eribon o Éduard Louis. Riguarda in forme diverse un po’ tutti. La narrativa working class rischia una paradossale eterogenesi dei fini. I memoir di donne proletarie abusate, che per le autrici hanno un valore terapeutico, alimentano il voyerismo middleclass di chi compatisce le vite dei poveri. Trainspotting di Irvine Welsh ha spedito nel fine settimana tour di studenti universitari ricchi a fare il poverty safari in Scozia per poi tornarsene con l’hangover nelle loro confortevoli case del sud dell’Inghilterra. E una mia inchiesta sulla malattia professionale di mio padre, Amianto, spesso mi garantisce una serie di pacche sulle spalle da persone che mi vogliono vedere come una vittima e non come uno che vorrebbe mettere a fuoco i privilegi di classe.

Stiamo insomma attraversando un periodo interessante per la letteratura working class, ma la strada è tutt’altro che in discesa. Aumenta l’impatto nell’industria culturale mainstream delle storie working class (penso a Maid di Stephanie Land e a Shuggie Bain di Douglas Stuart); si abbassa il livello di testosterone delle storie proletarie e la classe si intreccia sempre di più con altre forme di oppressione, come quelle di genere e di race. Viene meno la narrativa della rissa fuori dal pub e si mette in discussione la mascolinità tossica anche in ambiente operaio. Il rischio però è che queste storie di classe operaia passino attraverso un processo di normalizzazione che le renda accettabili agli occhi dei lettori di classe media, togliendo loro ogni elemento sovversivo. La storia di un ragazzo che soffre perché vede la propria omosessualità stigmatizzata in ambiente operaio e accettata nel passaggio verso la classe media, come accade nei memoir di Eribon e in quello di Eduard Louis, rischia di confortare il lettore middleclass sulla propria superiorità morale, demonizzando la classe operaia e presentando la borghesia come un luogo di emancipazione (Il film Pride in questo senso va nella direzione opposta, perché mostra la possibilità di cercare un’alleanza tra politiche di classe e di identità).

Il punto è che qualsiasi cosa facciamo o scriviamo, rischiamo l’eterogenesi dei fini. E certo questa non può essere una ragione per non scrivere. Ma dobbiamo riflettere sulla possibilità che la middleclass si appropri delle nostre storie e le usi per fini diversi da quelli per cui le abbiamo scritte. Ad esempio, raccontando storie working class, rischiamo di entrare nel paradigma della vittima, o del «bravo ragazzo che ce l’ha fatta» (in cui mi espongo con il mio 108 metri) o del criminale che si mette il passato alle spalle (The Young Team di Graeme Armstrong, altro libro grandissimo di questa stagione di letteratura working class). Insomma, qualsiasi mossa facciamo come autori di classe operaia, ci esponiamo alla possibilità di alimentare il mito del deserving poor vs l’underdeserving poor, del cherry picking, della ciliegia buona nel mazzo delle cattive.

Dobbiamo cominciare a combattere contro questo rischio, cercando di fissare dei paletti per evitare che le nostre opere subiscano un framing middleclass. Non è sempre possibile, ovviamente. Lo fa bene Cash Carraway, quando si rivolge al lettore di classe media del suo memoir Skint Estate accusandolo di voyerismo. Lo fa Éduard Louis riprendendo il filo della sua storia e raccontando quel padre, presentato come un perpetratore dell’ideologia reazionaria e eteronormata, in maniera completamente diversa, più umana, in un’opera successiva a quella del suo esordio: Chi ha ucciso mio padre (Qui a tué mon père). Lo fa spiegando come l’adesione del padre operaio a ideali di suprematismo bianco e di nazionalismo e di omofobia era il risultato di una pressione enorme esercitata sulla classe operaia: il tentativo di cooptare una parte della classe operaia bianca, legandola a quello che più assomigliava ai suoi sfruttatori, ossia il fatto di essere maschi. Depistando la violenza di classe verso il basso. Patriarcato, razzismo e suprematismo bianco sono forze che possono distruggere la solidarietà di classe. Come ci spiega benissimo questo adattamento cinematografico del notevole memoir di Didier Eribon.

Primo movimento

Ma cominciamo con ordine. Tutte queste cose alla prima visione non mi sono venute in mente. Anche perché il film mi ha preso assolutamente in contropiede. Invece di una narrazione solista, mi sono trovato di fronte un racconto corale, polifonico, raccontato col montaggio – suprema arte proletaria, da Eizenstejn fino all’ultimo dei saldatori – di voci di archivio, prelevate da materiale documentaristico e cinematografico francese, sorrette da un frame teorico che risente della lezione di Bourdieu. Voci che risuonano nella mia testa con timbro fin troppo familiare. Scene di famiglia. Endogamia di classe. Gli operai si sposano tra di loro perché la classe media non spreca il capitale familiare accumulato. Gli operai e le operaie si innamorano ai balli popolari. Scene di balli, interviste a giovani donne di classe operaia.

Non posso non pensare alla mia famiglia. Mio padre e mia madre si sono conosciuti proprio in un posto come questo: una sala da ballo popolare. Un’operaia bella dice che vuole sposare un operaio, ma deve essere bello anche lui. Non posso non pensare ancora alle foto di famiglia. Alla bellezza strafottente di mio padre, che a vent’anni sembrava un cowboy del metallo e che alla fine dei suoi giorni in tuta blu diventerà un rottame da cui la sanità pubblica si sbrigherà a togliersi il peso con la diagnosi di un tumore polmonare. Il corpo degli operai ci dice la verità sulle loro vite. La loro bellezza si consuma, raschiata via dalle macchine, troppo presto. Essere di classe operaia non è solo una definizione da salario e indicatori economici: vuol dire essere qualcuno a cui è stata rubata la bellezza dalla vita.

Il film continua ma ormai la mia visione segue le dinamiche di contemplazione di uno sguardo interno. Le immagini sulla pellicola rimbalzano dalla mia retina al cervello e non riesco a permettermi lo sguardo esterno, oggettivo, borghese, di chi può guardare un film del genere a titolo informativo, espositivo o militante. Detta in altro modo, per me ogni fotogramma è una ferita di classe che sanguina e la voce off, femminile, assume una forza ipnotica e fa da contrappunto alla coralità delle voci proletarie dell’archivio.

Adesso – Bourdieu docet – si continua con la riproduzione sociale e l’esclusione dei figli dei proletari dal mondo della cultura. Sono immagini di bambini francesi quelle sullo schermo ma io continuo a pensare a mia madre, ai suoi racconti sulle medie separate, al suo desiderio di studiare che si è arenato nel sapere utilitaristico di una scuola professionale in cui anche la matematica era insegnata, come recitava il titolo di un suo vecchio manuale che ho trovato in un cassetto, «per l’avviamento industriale femminile». Mentre mio padre esce dalla scuola a testa alta, da uomo fatto, per iniziava a lavorare a 14 anni. Ingiustizie, un mondo di ingiustizie. La madre di Eribon commenta un licenziamento e la voce off ci dice: «da allora provo odio per le relazioni gerarchiche e di potere». Quanta empatia c’è in quell’odio di classe.

I fotogrammi scorrono. Arriva il momento più commovente. La situazione delle donne operaie è ancora più oppressiva di quella dei loro mariti. Le donne proletarie si fanno carico del lavoro di cura domestico e non retribuito e mancano di quei momenti fondamentali di socialità operaia che permette ai lavoratori maschi di andare avanti, con qualche sollievo emotivo: il bar, il bistrot, le sigarette con gli amici parlando di calcio e politica. Il sabato pomeriggio degli operai.

Ma la depressione operaia è dietro l’angolo. La voce di un operaio, associato a un’immagine di catena di montaggio, mi fa venire in mente Lulù di La classe operaia va in paradiso. Ma è meno spaccone del personaggio di Gian Maria Volonté. Le sue parole scavano dentro la coscienza ferita: «Sei come una macchina. Le mani mi fanno male. Quando cambio la bambina, non riesco a slacciarle i bottoni. Ci hanno mangiato le mani. Faccio fatica a scrivere, è difficile esprimersi. Quando non parli per 9 ore di seguito, hai così tanto da dire che non riesci a dire nulla. Hai paura. Noi sopravviviamo. In media un operaio vive 59 anni».

59 anni. Mio padre, dopo aver lavorato una vita da saldatore, è morto a 59 anni per un tumore professionale causato dall’amianto. 59 fottuti anni. Un operaio vive in media quindici anni meno di un impiegato, anche di piccola classe media.

A 50 anni mio padre ne dimostrava 70. A 20 anni era bello come un cowboy del metallo. A 50 anni aveva la tavola di Mendeleiev tatuata sui polmoni e sembrava un vecchio devastato, con gli occhi spenti, senza più la luce piena di irriverenza verso i quattrinai degli anni della sua giovinezza.

La classe sta nel corpo, è embodied, sta sotto la pelle, under your skin, come ha scritto la femminista britannica Annette Kuhn. A chi vi dice che le classi sociali non esistono, fate vedere il corpo di un operaio, di un’operaia di sessant’anni. Le ferite di classe incistate nel corpo degli operai che invecchiano. «Il corpo di una donna operaia quando invecchia mostra tutta la verità dell’esistenza delle classi», dice la voce off di Retour a Reims. Mi infilo in una deriva di pensieri, incalzato dalla voce di un adolescente che declama parole meravigliose: penso che una società sarà giusta quando anche gli operai saranno felici. Qui finisce il primo movimento dedicato alla classe operaia, quella classe destinata ad abolire lo stato delle cose presenti nel nome del suo universalismo.

Secondo movimento

E comincia il secondo movimento. Meno emotivo. Più espositivo-argomentativo. Il tema diventa quello della rappresentanza politica del mondo operaio. Del tradimento dei partiti e dei sindacati che, nati nel movimento operaio, hanno virato verso la classe media, sulla base del presupposto che «la classe operaia non esiste più». In realtà in tanti hanno fatto il funerale alla classe operaia – come ci ricorda Richard Hoggart nella sua introduzione all’edizione del 1989 di The Road to Wigan Pier di George Orwell – ma la bara era sempre vuota. Eppure in lustri di neoliberismo si è ripetuto come una litania il mantra tatcheriano per cui le classi non esistono: la società è un sistema omogeneo, da gestire con tecniche di management, senza che ci sia un conflitto di interessi contrapposti tra gruppi sociali distinti. Smantellata la classe e atomizzati i lavoratori, la forza operaia si spegne e si scopre impotente. L’impotenza genera rabbia e frustrazione. La forza di un tempo si rivolgeva contro il padrone e l’oppressore; la rabbia e la frustrazione sono incanalate contro i deboli e gli impotenti. La forza degli operai diventa maschilismo che colpisce le donne operaie, o i deboli della propria classe: i lavoratori immigrati. Così, spinti dalle destre, si finisce per diventare traditori di classe. E quando si cerca una ricomposizione nell’astrazione generale, invece che alla classe si guarda alla nazione. Di qui le tendenze verso il suprematismo bianco di certi settori della classe operaia. La destra in fondo ha fatto il suo gioco: ha colto la disperazione della gente comune e ha provato a deviarla verso i propri obiettivi, a difesa dei ricchi. La sinistra istituzionale, gentrificata, se ne sbatte della disperazione della gente, è diventata un partito di persone istruite che fanno scelte di consumo illuminate. Alimentando sempre di più il rancore degli oppressi.

Cattivi umori attraversano il secondo movimento della pellicola. Mark Fisher parlerebbe di giustizia negativa: che capiti agli altri quel che è capitato a me. Il razzismo, soffiato sulle ceneri del rancore dalla destra, guadagna campo. Non che elementi di conservatorismo – e il film lo spiega bene – non esistessero da sempre nel mondo operaio. Ma erano sussurri che non diventavano la base per campagne di mobilitazione politica, perché i partiti e i sindacati mobilitavano le energie dal basso verso l’alto, contro le imprese e il padronato. Oggi la destra cerca di occupare lo spazio retorico della sinistra per «difendere i lavoratori», dividendo la classe operaia sul fronte della linea del colore, per mobilitarla contro gli stranieri.

Un tempo famosi per la loro generosità e solidarietà, così lontane dall’utilitarismo commerciale e dall’individualismo dei borghesi, oggi gli operai sono raccontati come gretti, ignoranti e meschini. Ma non è così: ci stanno demonizzando. Mi viene in mente una citazione di Dorothy Allison. «Ci chiamano anche ceti bassi, plebaglia, classe operaia, poveri, proletari, pezzenti, rifiuti umani o feccia. Da tutto questo so far nascere storie», scriveva Allison in Due o tre cose che so di sicuro.

Ecco, di sicuro io so che dobbiamo tornare a Reims, alle nostre dannate città operaie, e riprendercele.  Dobbiamo raccontare della classe operaia anche la luce e non solo le ombre e smettere di pensare che la borghesia possa essere un luogo di emancipazione. Dobbiamo pensare a una classe operaia che sia anche intersezionale e queer, che lotti contro il patriarcato e l’eteronormatività. Con l’immaginario, con l’attivismo, con la forza delle nostre storie. Perché siamo il fottuto sale della terra e dobbiamo avere l’ orgoglio di resistere a una sinistra di persone bennate che ci tratta con condiscendenza e a una destra che avvelena i pozzi della solidarietà operaia.

Non so se è uno spin off del film che ho visto io, ma mi immagino che le storie raccontate da Didier Eribon, da Éduard Luis, dalla stessa Annie Ernaux, invece di rassicurare il lettore middleclass sulla presunta superiorità etica della classe media, servano a spronare la classe operaia sulla necessità di liberarsi dalle zavorre del sessismo, dell’eteronormatività, del razzismo, del patriarcato. Che esistono in tutte le classi, non solo in quella operaia. Mi immagino questi autori e queste autrici francesi lottare per una classe operaia nuova che può illuminarsi dalle loro traiettorie biografiche, senza sentirsene schiacciata. Che in queste opere veda la possibilità di ricostruire un nuovo immaginario. Come diceva David Graeber, lui stesso nato in una famiglia della working class statunitense, con l’immaginario le classi popolari si prendono cura di sé stesse. Prendersi cura di sé, fare della working class una caring class, riprendere percorsi di coscienza e di solidarietà di classe, lottando contro il capitalismo, il razzismo, il patriarcato, l’eteronormatività e i ricchi di merda. Ecco due o tre cose che di sicuro dobbiamo fare, con i conflitti sociali e con i romanzi, con gli scioperi e con l’immaginario working class. Coi piedi sempre dentro la classe.

(*) Alberto Prunetti, scrittore e traduttore, è autore di Nel girone dei bestemmiatori (Laterza, 2020), 108 metri. The new working class hero (Laterza, 2018) e Amianto. Una storia operaia (Alegre, 2014). Per Alegre dirige la collana di narrativa Working Class.

https://jacobinitalia.it/ritorno-a-reims/

QUI il film completo, su Arte.tv, con sottotitoli in italiano

Cosa c’è di sbagliato nel capitalismo?

Fonte RedFlag.org.au che ringraziamo

di Hersha Kadkol

Il fondatore di Amazon Jeff Bezos, il fondatore del Virgin Group Richard Branson e il CEO di Tesla Elon Musk illustrano tutto ciò che non va nel capitalismo. Proprio quando pensavi che i tre miliardari non potessero essere più lontani dal contatto con l’umanità, hanno deciso di allontanarsi completamente dal pianeta, spendendo almeno 21,8 miliardi di dollari della loro ricchezza personale in progetti di voli spaziali.

Bezos è volato via per undici minuti su un razzo che, opportunamente, sembrava un cazzo gigante. La rivista Fortune riporta di aver speso almeno 5,5 miliardi di dollari per la sua compagnia spaziale, Blue Origin, che tuttavia è una goccia nell’oceano rispetto alla sua fortuna complessiva di quasi 200 miliardi di dollari.

Branson ha speso almeno 1 miliardo di dollari della sua ricchezza in Virgin Galactic. Ciò è avvenuto dopo che le società Virgin hanno ricevuto centinaia di milioni di fondi di salvataggio dai governi del Regno Unito e dell’Australia per coprire le perdite dovute alla pandemia. E Musk, un eroe di culto dei libertari, ha una partecipazione da 15,3 miliardi di dollari in SpaceX, che mira a lanciare razzi sulla luna e su Marte.

I tre miliardari spaziali hanno un patrimonio netto combinato di circa 400 miliardi di dollari. Il loro consumo cospicuo di nuovo stile arriva in un momento in cui più di 800 milioni di persone in tutto il mondo vanno a letto affamate ogni notte. Per cosa potrebbe essere utilizzata la loro ricchezza collettiva invece dei voli di gioia guidati dall’ego?

Secondo il progetto Ceres2030, una partnership di ricercatori della Cornell University, dell’International Food Policy Research Institute e dell’International Institute for Sustainable Development, i governi devono spendere 33 miliardi di dollari all’anno per sradicare la fame nel mondo entro il 2030. Bezos, Branson e Musk potrebbero farlo esso stesso e rimanere ancora con decine di miliardi di dollari di riserva.

Il costo della vaccinazione nel mondo contro il COVID-19 rappresenta un ostacolo per affrontare la peggiore pandemia che l’umanità abbia vissuto dai tempi dell’influenza spagnola. Eppure il prezzo stimato di 66 miliardi di dollari è poco più del triplo di quanto i tre miliardari hanno speso per i loro progetti hobby.

Se solo la ricchezza di questi tre potesse affrontare tali problemi, potremmo fare molto di più con la ricchezza di tutti i super ricchi del mondo. Secondo la rivista Forbes, la ricchezza complessiva dei 2.755 miliardari del mondo è di ben 13 trilioni di dollari. Aggiungi a ciò la ricchezza dei multimilionari con più soldi di quanto potrebbero ragionevolmente spendere in una vita.

I 73 trilioni di dollari necessari per finanziare una transizione globale alle energie rinnovabili fino al 2050, secondo un rapporto del 2019 pubblicato dalla Stanford University, sono piccole patate rispetto alla ricchezza che l’élite globale accumulerà nei prossimi decenni.

Ma il problema è molto più profondo dei propri fondi accumulati. I miliardari sono innegabilmente avidi, ma questo da solo non può spiegare come siano stati in grado di accumulare così tanta ricchezza individuale.

Bezos, Musk e tutti i super ricchi del mondo sostengono che le loro ricchezze sono una giusta ricompensa per investire saggiamente e innovare. Ma la loro ricchezza non riguarda solo il reddito. Appartengono a un gruppo selezionato nella società che controlla collettivamente la maggior parte delle risorse produttive.

Possiedono i terreni agricoli e rivendicano i minerali estratti dal terreno. Possiedono i veicoli e i porti necessari al trasporto delle merci e i vasti magazzini per immagazzinarle. Possiedono le raffinerie di petrolio e le fornaci di acciaio. Possiedono l’infrastruttura di telecomunicazioni e gli edifici per uffici. Queste risorse economiche sostengono la nostra società. Sono tenuti a produrre cibo ed elettricità, telefoni, frigoriferi e carta.

I ricchi decidono cosa viene prodotto, come vengono prodotte le cose, chi partecipa al processo di produzione e dove vanno i prodotti. Questo gruppo minoritario è la classe capitalista. Sono una classe sociale separata non solo per la ricchezza accumulata, ma anche per questo controllo economico.

Per questo motivo, ridistribuire gran parte della ricchezza monetaria, ad esempio introducendo tasse molto più elevate, sebbene auspicabile, non andrebbe al nocciolo del problema. Se domani prendessi la maggior parte della fortuna personale di Jeff Bezos, lui controllerebbe comunque Amazon e accumulerebbe semplicemente le sue ricchezze nel tempo.

Come fanno a trasformare i loro investimenti in sempre più soldi? Mettendo milioni di persone a lavorare senza lavorare da sole. Nel caso dell’Amazzonia di Bezos, 1,3 milioni di persone in tutto il mondo, per l’esattezza. Quei lavoratori non hanno voce in capitolo sulla direzione dell’azienda o su ciò per cui viene utilizzata la massiccia rete logistica. Al suo ritorno dall’orbita, lo stesso Bezos ha sottolineato che tutti i soldi per il suo volo spaziale provenivano dal lavoro dei lavoratori. “Voglio ringraziare ogni dipendente Amazon e ogni cliente Amazon perché voi ragazzi avete pagato per tutto questo”, ha detto.

Le famigerate condizioni e l’inflessibilità del lavoro di magazzino di Amazon rendono esplicito lo sfruttamento lì. Ma anche i lavoratori che sono pagati molto meglio e con lavori migliori guadagnano più soldi per il loro capo di quanto il capo gli restituisca come salario. Capitalisti e lavoratori non sono uguali nell’economia, perché uno controlla tutte le risorse economiche e l’altro possiede poco più della loro capacità di lavorare.

Questo sfruttamento è al centro del sistema. Sotto il controllo capitalista, le risorse della nostra società sono mobilitate per produrre affinché i mercati generino profitti per i proprietari di imprese, piuttosto che per soddisfare i bisogni umani. In questo quadro, le persone con i maggiori bisogni sono solitamente quelle con il minor accesso ai beni disponibili.

Fame e malnutrizione esistono anche nei paesi ricchi perché, per avere accesso a un bisogno come il cibo, devi essere in grado di pagarlo. L’unico modo in cui le persone possono pagare è che un capitalista offra loro un lavoro. Ma i capitalisti daranno lavoro solo se pensano di poter realizzare un profitto. E anche quando assumono persone, mantengono bassi i salari per generare quei profitti. Quindi, mentre l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura prevede un’elevata produzione di cereali quest’anno, le persone nei paesi più poveri come Yemen, Sudan e Libano stanno perdendo i prezzi di base a causa di rapidi aumenti dei costi e calo dei redditi. Anche negli Stati Uniti, oltre il 10 per cento delle famiglie è considerato “insicuro alimentare” dal Dipartimento dell’Agricoltura.

Prendi un’altra necessità. Nell’attuale pandemia, invece di fermare la diffusione virale rendendo i vaccini disponibili gratuitamente in tutto il mondo, i vaccini COVID-19 delle aziende farmaceutiche sono stati sviluppati e brevettati in modo competitivo in modo che si possa ricavare denaro dalla loro produzione. Invece della società che dirige collettivamente la produzione di massa di vaccini, il lancio è stato ostaggio dei blocchi della catena di approvvigionamento, delle aziende farmaceutiche che si rifiutano di condividere le loro ricette di vaccini e dei paesi più ricchi che acquistano più del necessario.

Quindi abbiamo lo spettacolo grottesco di Albert Boula, CEO di Pfizer, che ha guadagnato 21 milioni di dollari l’anno scorso, un aumento del 17%, mentre milioni di persone ora muoiono perché non possono accedere al vaccino.

E poiché l’investimento capitalista è calcolato solo per realizzare profitti, spesso produce spreco e distruzione. Non c’è esempio migliore dei combustibili fossili. Questi sono incorporati nell’attuale configurazione economica. Le terribili previsioni degli scienziati del clima e dell’ambiente sono sempre più riconosciute, ma non è stato permesso di informare una transizione verso un’economia verde perché costerebbe a troppi capitalisti i loro investimenti esistenti.

Per risolvere il problema del cambiamento climatico, la classe capitalista dovrebbe mettere da parte il desiderio di fare profitto, e invece spendere trilioni per rimodellare l’economia nell’interesse della società umana. È come chiedere a un branco di leoni di diventare vegetariani. Quale membro della classe capitalista comincerebbe questo processo di transizione? Farlo significherebbe rinunciare al proprio status sociale. Forse uno o due potrebbero. Ma la loro posizione sarebbe stata presa da qualcun altro.

La classe capitalista è quindi all’altezza dell’inquinamento da gas serra. La società di auto elettriche di Musk, Tesla, non fa eccezione: nel primo trimestre del 2021, la vendita di crediti di carbonio per un valore di 518 milioni di dollari a società sporche è stata l’unica ragione per cui l’impresa ha realizzato un profitto. E non importa che Bezos descriva la Terra come preziosa e degna di essere salvata mentre è in bilico sopra di essa: qui a terra, la sua classe è responsabile del degrado del pianeta.

Il capitalismo non causa solo problemi economici. Un sistema di sfruttamento di classe crea e perpetua anche l’oppressione sociale per sostenersi. Quando così pochi possiedono e controllano così tante ricchezze, mentre così tanti lottano con così poche risorse, chi sta al vertice deve tenere diviso il resto della popolazione, combattendo tra di noi. E usano un’enorme quantità di violenza per mantenere sottomessi i gruppi oppressi. Oggi, i capitalisti di tutto il mondo guadagnano denaro extra pagando a diverse sezioni della forza lavoro tariffe diverse e convincendo un gruppo che l’altro è responsabile della povertà. Le divisioni sociali lungo le linee di nazionalità, razza, genere e sessualità, imposte dall’oppressione, rompono la solidarietà degli sfruttati contro i padroni che ci governano.

Bezos, Branson e Musk sono solo la punta dell’iceberg: ad ogni angolo, il controllo delle risorse mondiali da parte di una piccola minoranza di persone è l’ostacolo principale alla creazione di una società gestita nell’interesse di tutte le persone del pianeta. Ogni anno che passa, la spinta competitiva al profitto produce effetti sempre più disastrosi. Intere fasce della popolazione mondiale sono condannate alla povertà, mentre ovunque gli oppressi subiscono discriminazioni e sofferenze. Ecco cosa c’è di sbagliato nel capitalismo.

 

I partigiani del nulla

Fonte Articolo21   che ringraziamo

Autore :Domenico Gallo

Sabato 8 gennaio si è svolta a Torino una singolare manifestazione di protesta contro le misure nazionali anticovid, promossa dalla Commissione DuPre (Dubbio e precauzione), fondata a dicembre da Ugo Mattei con Carlo Freccero, Massimo Cacciari e Giorgio Agamben. Sul palco è salito Ugo Mattei, professore di diritto civile, noto a sinistra per aver promosso con altri il referendum per l’acqua pubblica e per essere stato vicepresidente della Commissione Rodotà incaricata della riforma delle norme del codice civile sui beni comuni. Evidentemente la salute pubblica per Mattei ed i suoi seguaci non rientra più nei beni comuni, ma non ci interessa il percorso tortuoso che ha portato il professore torinese a divenire idolo e ideologo del movimento dei no vax, quello che ha suscitato scalpore è il tenore esasperato della comunicazione pubblica. Dopo la sfilata a Novara dei no vax, travestiti da deportati nei campi di sterminio, il prof. Mattei, contestando il green pass per gli autobus, aveva invocato la protesta dei negri americani contro le pratiche di apartheid  e richiamato il gesto di Rosa Parks a Montgomery in Alabama. Sabato scorso, nella prima manifestazione contro l’obbligo vaccinale per gli over 50 e il lasciapassare verde, dal palco di Piazza Castello Mattei ha annunciato la rinascita del “Comitato di liberazione nazionale”. Ha proclamato che il “CLN” vuole emulare i movimenti e i partiti che diressero e coordinarono la Resistenza contro gli occupanti tedeschi nell’ultima fase della seconda guerra mondiale. E si è paragonato proprio a quegli insegnanti che non giurarono fedeltà al regime fascista. “Probabilmente non rivedrò mai più i miei studenti perché non ho intenzione di giurare al draghismo. Quindi sarò sospeso dall’insegnamento. Farò quello che fecero i dodici professori che nel 1931 rifiutarono il giuramento imposto dal regime. Sono maestri che non piegarono la schiena. A loro dedico la rinascita del Comitato di Liberazione Nazionale”.

Contro questa sceneggiata è insorta la Federazione Italiana delle Associazioni partigiane del Piemonte con un duro comunicato in cui osserva che la pretesa dei no vax di costituire un nuovo CLN offende la storia del movimento partigiano: “Il Comitato di Liberazione Nazionale è una storia di grandezze e eroismi, di scelte coraggiose da cui è nata l’Italia democratica, ponendo fine alla ventennale dittatura fascista e attraversando una sciagurata guerra voluta dal regime mussoliniano. Per tali ragioni – prosegue il comunicato – non dimenticando anche lo scellerato parallelo affermato da persone aderenti a questi movimenti irresponsabili no vax tra la condizione di chi irragionevolmente rifiuta il vaccino, esponendo se stesso e gli altri al propagarsi del contagio e di eventi letali e intasando le strutture sanitarie  sotto stress e gli internati nei lager nazisti,  è intollerabile e inaccettabile l’utilizzo indecente che si  ritiene di poter fare di una storia così importante per il nostro Paese quale fu la Resistenza”.

E’ più che comprensibile l’indignazione dei partigiani veri contro quest’uso cialtronesco della storia, ma il problema politico è un altro. Il malessere diffuso, generato dai guasti economico sociali provocati dalla pandemia e la perdita di fiducia nel futuro hanno provocato un’onda di irrazionalità che risale dal profondo della società. Se, come ha rilevato il CENSIS nell’ultimo rapporto, il 31,4% degli italiani oggi si dice convinto che il vaccino è un farmaco sperimentale e che quindi le persone che si vaccinano fanno da cavie, se il 10,9% sostiene che il vaccino è inutile e inefficace, mentre per il 5,9% (cioè circa 3 milioni di persone) il Covid-19 semplicemente non esiste, se il 5,8% sostiene che la Terra è piatta, è evidente che un forte vento di irrazionalità ha infiltrato il tessuto sociale, sia a livello individuale, sia a livello dei movimenti collettivi di protesta.  Quando si costruisce un movimento politico sulle paranoie e sulla fuga dalla realtà, si intraprende una lotta contro i mulini a vento che si può trasformare in una formidabile arma di distrazione di massa. Così mentre, per un verso, alcuni combattono eroicamente per la libertà di non vaccinarsi e di fare ciascuno come gli pare, altri, per altro verso, più scaltramente, attribuiscono ai no vax la responsabilità dei fallimenti della politica. Invece è necessario e urgente mettere al centro del dibattito politico e della partecipazione popolare i problemi reali che riguardano le scelte che incidono sulla nostra condizione umana e pregiudicano il futuro. Se gli ospedali sono intasati, se, come ci avverte la Società italiana di chirurgia, negli ospedali sono rinviati otto interventi su dieci e la situazione delle liste d’attesa è terrificante, la responsabilità non è solo dei no vax che intasano le strutture sanitarie, ma al fondo ci sono le scelte di non rafforzare la sanità pubblica, che è rimasta la cenerentola del PNRR. Se l’occupazione cresce solo per la crescita del lavoro precario, la responsabilità è delle non scelte della politica in materia di governo del mercato del lavoro. Contestualmente al non incremento della spesa sanitaria, Governo e Parlamento hanno deciso, sotto dickat della NATO, l’incremento della spesa militare, che toccherà quest’anno il record di 26 miliardi euro, con un incremento di quasi 5 miliardi rispetto al periodo pre-pandemico, mentre le basi di Aviano e Ghedi si apprestano ad ospitare le nuove bombe nucleari americane B61-11. Ci sono molti e validi motivi per dolersi dello stato di cose e pretendere un cambiamento di rotta. L’ultima cosa da fare è inventarsi una nuova resistenza e diventare partigiani del nulla, mentre tutt’intorno la casa brucia.

Piattaforme che opprimono la ricerca di interesse pubblico: la Commissione europea risponde alla domanda dell’eurodeputato Breyer su AlgorithmWatch

Fonte AlgoritmWatch

 

 

 

Dopo che Facebook ha costretto AlgorithmWatch a chiudere il nostro progetto di monitoraggio di Instagram, l’eurodeputato Patrick Breyer ha presentato una domanda scritta alla Commissione europea chiedendo come proteggere la ricerca di interesse pubblico dall’essere oppressa dalle grandi piattaforme tecnologiche. Ora la Commissione ha risposto.

Nell’ottobre 2021, dopo che Facebook ha costretto AlgorithmWatch a chiudere il nostro progetto di donazione di dati sull’algoritmo di Instagram, l’eurodeputato Patrick Breyer ha presentato una domanda scritta alla Commissione europea sulle piattaforme che opprimono la ricerca di interesse pubblico, l’accesso ai dati e l’articolo 31 della proposta di legge sui servizi digitali ( DSA).

Tra le questioni sollevate dall’onorevole Breyer c’era la domanda sulle soluzioni proposte dalla Commissione per le organizzazioni della società civile ei giornalisti che desiderano accedere ai dati della piattaforma. L’articolo 31, paragrafo 4, del progetto di DSA prevede tale accesso solo per i “ricercatori controllati” con affiliazioni accademiche, quindi il signor Breyer ha chiesto specificamente se questo articolo debba essere modificato per estendere l’accesso ai dati per i ricercatori controllati al di fuori del mondo accademico.

Ora, il commissario UE Thierry Breton ha scritto una risposta a nome della Commissione . Quando si tratta di disinformazione, affermano che le piattaforme dovrebbero garantire un “livello sufficiente di accesso ai dati” alle parti interessate come le organizzazioni della società civile e i giornalisti investigativi. Ma quando si parla di art. 31(4), la Commissione ribadisce il linguaggio del progetto di DSA affermando che i “ricercatori controllati” che cercano di accedere ai dati della piattaforma devono avere affiliazioni accademiche.

AlgorithmWatch crede fermamente che tale definizione di “ricercatori controllati” sia troppo limitata e che la modifica dell’articolo 31 sia fondamentale per garantire una maggiore trasparenza e responsabilità per le grandi piattaforme tecnologiche. Questa convinzione è stata ripresa da dozzine di organizzazioni e ricercatori della società civile, nonché da oltre 6.000 persone che hanno firmato le nostre lettere aperte ai legislatori europei chiedendo che il DSA autorizzi la ricerca controllata di interesse pubblico a regnare sui rischi della piattaforma per la sfera pubblica.

Abbiamo già compiuto importanti passi avanti su questo fronte, poiché le nostre richieste si sono riflesse nel testo finale del DSA approvato dalla commissione per il mercato interno e la protezione dei consumatori (IMCO) del Parlamento europeo. A metà gennaio, la plenaria del Parlamento voterà su questo testo, auspicabilmente confermando la sua posizione sull’accesso ai dati. In linea con i progressi compiuti dall’IMCO, esortiamo vivamente la Commissione europea ad accogliere le nostre richieste nei negoziati a tre che ci attendono e ad ampliare la definizione di “ricercatori controllati” nel DSA per includere la società civile.

Per valutare in che modo le piattaforme influenzano la nostra sfera pubblica, dobbiamo proteggere e potenziare la ricerca di interesse pubblico. Solo allora possiamo avere un dibattito basato sull’evidenza sulla questione e solo allora possiamo tenere conto delle piattaforme.

E no, professor Mattei Cnl, Resistenza e Costituzione proprio non c’entrano con i no vax

Fonte Striscia Rossa che ringraziamo

 

Mi sono perso settimane fa la sfilata dei no vax di Novara, rivestiti rigorosamente in camiciotti che nelle forme e nei colori citavano le divise dei deportati nei campi di sterminio nazisti. Marciavano liberi, ben nutriti, ciarlieri, ma si sentivano ormai destinati ai vagoni bestiame in corsa verso Auschwitz. Formidabili sconnessioni da una realtà, che pure quelle signore e quei signori avrebbero dovuto, se pure in modo sommario, conoscere. In fondo se ne parla da tempo…

Mi sono perso altri cortei, guidati da capi e capetti di Forza nuova o di Casa Pound, orgogliosi delle loro lugubri bandiere e dei loro slogan minacciosi quanto idioti. Quando ad esempio, a Roma, diedero l’assalto alla sede della Cgil, il sindacato che rappresenta milioni di lavoratori.

Il comizio del professor Mattei

Mi sono perso anche il comizio dell’altro giorno in una piazza di Torino del professor Mattei, uno che insegna diritto civile all’università, che ha scritto una infinità di libri, che collabora (o collaborava) al “Fatto quotidiano”. Me ne dispiaccio perché avrei voluto registrare con precisione le sue parole, le sue espressioni, i suoi gesti. E’ vero che il professor Mattei trascorre i suoi giorni e le sue notti in televisione a divulgare il suo credo no vax e no pass. Non si capisce peraltro a che titolo… Ma un comizio all’aria aperta è una occasione d’oro, tra informazione e spettacolo: il professore alla tribuna che sprona per un’ora la folla a difendere il diritto a far quello che le pare.

Chissà se il professore crede davvero a quello che dice o se lo dice solo in ragione della notorietà che certe sciocchezze (si potrebbe definirle infamie, ma siamo sempre cauti e gentili) gli procurano nella schiera dei suoi fans, schiera non sappiamo quanto esigua. In piazza si può contare: mancava Cacciari, mancava Freccero, nessun bagno di folla, solo qualche centinaia di persone, alcune delle quali avrebbero persino manifestato qualche segno di dissenso quando sono volate dal microfono espressioni critiche (sudditanza nei confronti del governo) alla destra meloniana.

Così mi devo rifare a quanto ascoltato o letto. Ad esempio ho sentito (la fonte è Radio Popolare) che il professore si sarebbe paragonato a Giovanni Pesce, combattente in Spagna, perseguitato dal fascismo, condannato al confino a Ventotene, gappista a Torino e a Milano, medaglia d’oro al valor militare… Autore di una straordinaria testimonianza, che si può leggere nel celebre “Senza tregua”. Giustamente la figlia di Giovanni Pesce si è indignata: “Ma il professore si studi la storia”. La storia, che come raccontava Marx, si ripeterebbe sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa… Le guerre, il confino, la persecuzione, la lotta di liberazione e, da questa parte, il professor Mattei… In questo caso Marx sarebbe costretto a riconoscere che siamo molto al di sotto della farsa.

Il “regime draghista”

Ho letto Marco Imarisio sul Corriere. Citazioni. Un florilegio: “Il regime fascista era molto simile al regime draghista”, “Dedico questa piazza ai dodici professori universitari, nove dei quali piemontesi, che nel 1931 rifiutarono l’affiliazione al partito fascista. Anche io a breve non sarò più accettato in Ateneo, perché non ho intenzione di cedere al ricatto vaccinale. E come dissero quei docenti che dissero no al regime di Mussolini, non ho intenzione di mentire ai miei allievi”, “Rivendichiamo il paragone fra governo draghista e regime fascista. Serve un gruppo di persone, un cervello politico, un comitato costituente che si metta subito al lavoro e che sia pronto a creare una alternativa. E’ vero, oggi non c’è la guerra, ma la maggior parte della gente dorme e noi siamo la Resistenza”. Lui, un uomo che non teme i confronti, lontano da qualsiasi percezione del ridicolo, naturalmente sarà la guida del novello comitato di liberazione nazionale: a proposito di sottofarsa, sottofarsa dell’eversione.

No green pass Milano
Proteste anti green pass a Milano, ottobre 2021

Non basta. Secondo il resoconto di Marco Imarisio, il professor Mattei, non accontentandosi di una sola medaglia d’oro, inesausto, non avrebbe esitato a rivendicare il suo gemellaggio con Duccio Galimberti, avvocato di Cuneo, assassinato dai fascisti, medaglia d’oro al valore militare, medaglia d’oro della Resistenza.

Naturalmente grazie al regime draghista il professor Mattei si è potuto esprimere a Torino, città medaglia d’oro della Resistenza, senza che nessuno si sognasse di tappargli la bocca e di spedirlo a Porto Azzurro, come sarebbe successo durante il regime fascista. Solo una signora passando avrebbe gridato: “Ma che cazzo stai dicendo…”. Il Corriere censura e ci concede solo una “c.”. Però qualche volta la parola serve per intero. In compenso, con gran senso della democrazia e della libertà, il professor Mattei se l’è presa con i giornalisti e, nella fattispecie, con i giornalisti della Stampa. Conosciuta modalità di confronto, questa sì fascistissima, come si è potuto apprezzare fin dai primi cortei no vax: intimidazioni, minacce, violenze, insulti, contro qualsiasi collega si trovasse nei paraggi.

Francamente non me la sento di giudicare il professor Mattei e i suoi accoliti, per la semplice ragione che non li capisco. Non li capivo prima, figuriamoci se li capisco oggi, figuriamoci se posso capire adesso, al terzo anno di covid, i loro argomenti, la loro ostilità al vaccino (come milioni di connazionali, sono alla terza dose e avevo cominciato a sei o sette anni con il Sabin, la miracolosa “antipolio”), la loro negazione della scienza, i loro sospetti, il loro complottismo, la loro irresponsabilità nei confronti di una comunità di cui fanno parte e che non li abbandona, le loro rivendicazioni di presunti diritti, quando tirano in ballo la Costituzione, che non riconosce però ad alcuno la facoltà di andare dove vuole, neppure in tema di salute: c’è sempre di mezzo l’interesse della collettività e il professore dovrebbe saperlo. Non capisco il loro pervicace intento di contribuire al degrado di una società già ferita, di avversare ogni scelta possibile davanti a una pandemia che si è rivelata inattesa e ha sorpreso tutti. E’ dalla “spagnola” di inizio secolo che non capitava di assistere ad un evento del genere.

Il Corriere, nella stessa pagina, pubblicava un’intervista ad una attrice, granitica no vax. Dice l’attrice, Monica Trettel: “Non mi vaccinerò mai, piuttosto mangio l’erba del prato e le bacche del bosco”. Come convincerla a cambiare idea? Che dire? Lasciamola fare. Si dovrebbe forse allestire un pool di antropologi, psicologi, sociologi per cercare di definire tanta caparbietà.

Rinuncio proprio a capirli e non voglio ridurmi agli insulti. Però non rinuncio a difendere Giovanni Pesce, Duccio Galimberti, i professori che dissero “no”, il Comitato di Liberazione Nazionale, la Costituzione, le vittime di Auschwitz, da questi farneticanti, miserabili tentativi di approfittarsene.

ARGENTINA: REPRESSIONE E GRILLETTO FACILE

Tra il 17 e il 21 novembre 2021 la polizia ha ucciso due giovani, vittime di razzismo e pregiudizio. Il mapuche Elías Garay lottava per il diritto alla terra della sua comunità. Lucas González era un ragazzo delle periferie che sognava di fare il calciatore.

di David Lifodi (*)

In Argentina non si placa la polemica sulle forze di sicurezza dal grilletto facile. Tra il 17 e il 21 novembre scorsi, a 1.700 chilometri di distanza, la polizia ha ucciso due giovani, il mapuche Elías Garay e Lucas González.Entrambi sono rimasti vittime del gatillo facil, una pratica che in Argentina non è mai terminata e mette di nuovo al centro dell’accusa le forze dell’ordine, troppo propense ad utilizzare le armi in loro dotazione anche quando non ce ne sarebbe motivo. Vittime dell’odio e del pregiudizio, Elías Garay e Lucas González rappresentano solo gli ultimi di una serie infinita di casi in cui a prevalere, nella gran parte dei casi, è l’impunità degli agenti coinvolti, che si tratti della Federal o della Bonaerense, che spesso agiscono sull’onda delle dichiarazioni della politica all’insegna del cosiddetto manodurismo.

Elías Garay era un militante mapuche di ventinove anni che si batteva per il diritto alla terra della comunità Quemquemtrew, zona di Cuesta del Ternero ( Rio Negro). Ferito a morte dalle pallottole sparate dalla polizia, il giovane ha pagato la violenta campagna antimapuche promossa dal governo di Arabela Carrera e sostenuta dai grandi mezzi di comunicazione, tutti schierati a favore dell’oligarchia terrateniente. L’omicidio di Elías Garay, che lottava pacificamente per il diritto alla terra ancestrale, rappresenta l’ennesimo episodio di criminalizzazione ai danni dei movimenti sociali, dei popoli originari e dei giovani delle periferie urbane.

L’uccisione di Garay, provocata da due uomini armati vestiti in borghese entrati nella comunità mapuche Quemquemtrew, dove si trova un asentamiento destinato a recuperare un territorio ancestrale, è stato condannato dalla Liga Argentina por los Derechos Humanos, mentre il governo di Arabela Carrera il Cuerpo de Operaciones Especial de Rescate non avrebbe ricevuto alcun ordine di entrare in territorio mapuche, né era stata programmata un’operazione di questo tipo.

A smentire il governo sono state però le testimonianze di coloro che hanno denunciato l’isolamento e l’accerchiamento del territorio ad opera della polizia rionegrina, come riportato da Página/12. “La polizia pretende di entrare in territorio mapuche e questo provoca problemi di ordine pubblico, mentre il governo rifiuta qualsiasi forma di dialogo e continua ad uccidere chi si batte per rivendicare il diritto alla terra”, ha ribadito la comunità Quemquemtrew.

Dalla Casa Rosada, finora, non ci sono stati interventi significativi per risolvere il conflitto che vede opposto lo stato ai mapuche. Al dialogo i governi locali preferiscono rispondere con l’utilizzo della violenza, all’insegna dello slogan “los indios son todos terroristas”, come accadde nel 2017 quando a morire fu il militante mapuche Rafael Nahuel, raggiunto da un proiettile mentre fuggiva di fronte all’arrivo della polizia.

A Barracas (Buenos Aires), invece, è rimasto ucciso Lucas González, la cui auto è stata colpita dai proiettili sparati dalla polizia. Il ragazzo aveva terminato di allenarsi e si trovava all’interno della propria vettura insieme ad alcuni amici quando fu raggiunto dagli spari dell’ispettore Gabriel Isassi, dell’ufficiale maggiore Fabián López e dell’ufficiale José Nievas. Gli imputati, per discolparsi, avevano sostenuto di essersi identificati, con i loro giubbotti distintivi e la sirena, per effettuare un controllo sull’auto dei giovani.

I tre agenti sono indagati con accuse pesanti: omicidio aggravato, abuso delle loro funzioni, falso ideologico e privazione illegale della libertà. L’intervento era stato giustificato dai poliziotti nell’ambito di un’operazione antidroga.

Il filo rosso che lega l’omicidio del militante mapuche a quello del ragazzo che si allenava con il sogno di scendere in campo nella massima serie calcistica argentina sono il frutto di una società dove prevale la manipolazione dell’informazione e si giustificano violenza e razzismo.

Il paradosso dell’uccisione di Garay è che il fatto è avvenuto vicino ad una scuola intitolata a Lucinda Quintupuray, una donna uccisa a colpi di pistola perché aveva rifiutato di vendere la sua proprietà e su un terreno che era stato asseganto ai mapuche dall’Instituto Nacional de Asuntos Indígenas.
L’omicidio di Elías Garay e Lucas González è frutto del pregiudizio, quello dei “mapuche terroristi” e quello dei giovani delle periferie considerati loro malgrado dei “delinquenti” a prescindere. “Mi cara, mi ropa y mi barrio no son un delito” e la frase che è risuonata nei cortei di protesta per queste due morti assurde, insieme ad una domanda ormai fin troppo ricorrente: “chi ci protegge dalle forze di sicurezza?”

Nel solo 2020 la Coordinadora contra la Represión Policial e Institucional ha registrato oltre 400 morti provocate dalle forze dell’ordine. Per questo, a distanza di mesi, la società argentina si interroga e continua ad essere scossa dai troppi casi di gatillo facil.

All’interno dell’app “selfie” casalinga della Polonia

Fonte algorithmwatch.org

 

L’app obbligatoria del governo polacco “Home Quarantine” avrebbe dovuto sostituire le visite della polizia a domicilio. Gli utenti dicono che è uno scherzo.

 

Su un treno per la città di Breslavia durante le prime settimane caotiche in cui la Polonia era sotto blocco nell’aprile 2020, Sławomir Gadek ha scritto il suo numero di telefono su un modulo. Poco dopo, ha ricevuto una telefonata che gli diceva di mettersi in quarantena e ha prontamente scaricato la nuovissima app “Home Quarantine” del governo polacco, che era stata appena resa obbligatoria per chiunque fosse potenzialmente infetto dal coronavirus.  

Qui, Gadek avrebbe 20 minuti per fare un selfie per l’app dopo aver ricevuto un messaggio di testo. Il sistema di localizzazione utilizzerà quindi i dati sulla posizione GPS del suo smartphone per connettersi a un database nazionale per le persone in quarantena per verificare che si trovasse all’indirizzo che aveva fornito alle autorità sanitarie. Se l’app non riconosceva il suo volto o la sua posizione in tempo, avviserebbe automaticamente la polizia di andare a casa sua per controllarlo.

Quando il governo polacco ha introdotto la sua app “Home Quarantine” (la prima del suo genere in Europa) nel marzo 2020, il Ministero degli Affari Digitali si è vantato che la Polonia è stata un pioniere nello sviluppo di nuove tecnologie nella lotta contro il Covid-19. Ma da allora, l’app è diventata uno scherzo: le persone hanno condiviso suggerimenti su come ingannare l’app manipolando le impostazioni di posizione sui loro telefoni e hanno creato meme di se stessi che scattano selfie all’aperto mentre tengono ritagli di cartone delle loro stanze.

Al suo arrivo a casa nell’aprile 2020, Gadek ha utilizzato l’app per una settimana. Gli era stato promosso come, nelle sue parole, “un modo più conveniente per confermare alle autorità che sono davvero in quarantena ed evitare le visite della polizia”. Ma questa era una promessa vuota. 

Riceveva tre notifiche al giorno e ogni volta rispondeva prontamente con un selfie e i dettagli della sua posizione. Ma due agenti di polizia venivano comunque nel suo appartamento una volta al giorno. Lo chiamavano ogni volta utilizzando un numero di cellulare diverso e gli chiedevano di uscire sul balcone e salutarli. “Non so perché usano sempre numeri diversi”, ha detto Gadek. (Come membro del partito di opposizione di sinistra Razem, ha spesso contatti con gli agenti di polizia, l’ultimo quando ha contribuito a organizzare una protesta nella città occidentale di Lubin, dopo che un uomo è stato ucciso in custodia di polizia lo scorso agosto.) 

“Certo, questi erano i primi giorni”, dice Gadek.

Avanti veloce di venti mesi e gli utenti continuano a segnalare gli stessi problemi con l’app “Home Quarantine”. Gli utenti di GooglePlay e AppStore affermano ancora che l’app non funziona correttamente: delle oltre 20.000 recensioni, la stragrande maggioranza era negativa. Un utente, Pawel Fuchs, ha scritto: “È una specie di fallimento, i primi due giorni ha funzionato e poi non ha più funzionato e la polizia mi dà fastidio perché presumibilmente non svolgo i miei compiti. Non lo faccio, perché Non li capisco”.

Preoccupazioni relative alla privacy

Mentre alcuni utenti fanno meme sull’evasione dell’app, altri si lamentano con l’Ufficio polacco per la protezione dei dati personali.

“La maggior parte dei denuncianti ha espresso preoccupazione per la sicurezza dei dati elaborati nell’app, l’obbligo di installare l’app al ritorno dall’estero o le questioni relative alla fornitura del consenso per il trattamento dei dati personali”, afferma Adam Sanocki, portavoce Ufficio per la protezione dei dati personali. 

Al contrario, Sanocki ha affermato che il suo ufficio ha ricevuto solo due reclami per indicare che l’app non funzionava correttamente. Uno di loro non è stato in grado di registrarsi nell’applicazione e un altro ha ricevuto messaggi di testo che ricordavano loro di installarlo anche se la quarantena non si applicava.  

La mia esperienza di “quarantena domestica”.

Posso testimoniare io stesso i problemi dell’app: nell’aprile 2021, un anno dopo che l’app è diventata obbligatoria in Polonia, ho dovuto mettere in quarantena mentre aspettavo i risultati di un test Covid. Ho ricevuto un messaggio di testo: “Sei in quarantena. Hai l’obbligo legale di utilizzare l’app Home Quarantine” e ho scaricato l’app. Mi ha chiesto il mio numero di telefono, ha richiesto l’accesso alla fotocamera e alla posizione del mio telefono e mi ha chiesto di caricare un selfie. 

L’app mi ha informato che, durante i prossimi 10 giorni di quarantena, a qualsiasi ora del giorno e della notte, potevo aspettarmi istruzioni per fare un selfie entro 20 minuti per confermare che mi trovavo nello stesso posto. Il mancato completamento del compito, mi è stato detto, avrebbe portato una pattuglia di polizia a verificare che stessi seguendo le regole di quarantena. A differenza di Sławomir Gadek, l’app non mi ha inviato alcuna notifica durante la mia quarantena. Inoltre non ho ricevuto telefonate o visite da parte della polizia. 

I termini di servizio dell’app affermano inoltre che le foto degli utenti e le foto scattate dagli utenti e i loro dati vengono archiviati ed elaborati solo su server governativi solo mentre rimangono in quarantena.  

Tuttavia, alcuni mesi dopo la mia quarantena, quando ho reinstallato l’app per fare ricerche per questo articolo, sono stato turbato nello scoprire che potevo ancora accedervi. Ha anche mostrato la data sbagliata del mio rilascio dalla quarantena. Ai sensi dell’articolo 15 del GDPR, ho chiesto ripetutamente al responsabile della protezione dei dati del Dipartimento per gli affari digitali che tipo di dati sono ancora archiviati sulla mia quarantena. Non ho ricevuto risposta. 

Con così tanta intrusione nella privacy dei cittadini, l’app è anche efficace? Secondo i dati forniti dalla polizia, dall’inizio della pandemia la polizia ha visitato le persone in quarantena più di 82,5 milioni di volte.

Teatro della sicurezza

Quando Gadek ha scaricato l’app “Home Quarantine” nell’aprile 2020, alcuni dei suoi conoscenti erano diffidenti nei confronti del “tracciamento non necessario tramite app governative sui loro telefoni”, afferma. All’epoca, Gadek afferma: “Non mi aspettavo che il nostro governo fosse così avanzato nell’utilizzo degli strumenti di sorveglianza per rintracciare i cittadini immediatamente all’inizio della pandemia”. 

Venti mesi dopo, afferma: “Non è un’app avanzata. La mia ipotesi è che questo sia principalmente teatro, come una ricerca eccessiva all’aeroporto. Le persone sentono di essere osservate, quindi si comportano bene”. A questo punto della nostra conversazione su Skype, ha catturato lo sguardo della sua ragazza fuori campo e ha riso: “No, non avevo intenzione di dire “panopticon”.” 

Sorveglianza tramite Intelligenza Artificiale sulle prestazioni di welfare sotto processo nei Paesi Bassi

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I tribunali hanno tenuto udienze su una causa di un certo numero di gruppi interessati al sistema draconiano olandese alla fine di ottobre, con una decisione attesa a gennaio.

I Paesi Bassi sono  costantemente classificati  come una delle democrazie più forti del mondo. Potresti essere sorpreso di apprendere che ospita anche uno dei sistemi di sorveglianza più invadenti che automatizza il tracciamento e la profilazione dei poveri.

Il 29 ottobre il tribunale distrettuale dell’Aia ha  tenuto udienze  sulla legalità del  Systeem Risico Indicatie  (SyRI), il sistema automatizzato del governo olandese per rilevare le frodi assistenziali. La causa, intentata da una coalizione di gruppi e attivisti della società civile,  sostiene  che il sistema viola le leggi sulla protezione dei dati e gli standard sui diritti umani.

SyRI è un  modello di calcolo del rischio  sviluppato dal Ministero degli Affari Sociali e dell’Occupazione per prevedere la probabilità di un individuo di impegnarsi in benefici, frode fiscale e violazioni delle leggi sul lavoro. I calcoli di SyRI attingono  a  vasti pool di dati personali e sensibili raccolti da varie agenzie governative, dai registri del lavoro alle informazioni sui sussidi, dai rapporti sui debiti personali all’istruzione e alla storia abitativa.

Quando il sistema profila un individuo come un rischio di frode, lo notifica all’agenzia governativa competente, che ha  fino a due anni  per aprire un’indagine.

Il lancio selettivo del SyRI nei quartieri prevalentemente a basso reddito ha creato un regime di sorveglianza che prende di mira in modo sproporzionato i cittadini più poveri per un controllo più invadente. Finora, il ministero ha collaborato con le autorità municipali per  implementare  SyRI a Rotterdam, la seconda città più grande dei Paesi Bassi, che ha il  più alto tasso di povertà  del paese, così come Eindhoven e Haarlem. Durante l’audizione, il governo ha  ammesso  che il SyRI è stato preso di mira nei quartieri con un numero maggiore di residenti in assistenza sociale, nonostante la mancanza di prove che questi quartieri siano responsabili di tassi più elevati di frode sui benefici.

Ma SyRI non ha solo effetti discriminatori sulla privacy dei beneficiari del welfare. Potrebbe anche facilitare le violazioni del loro diritto alla sicurezza sociale. Poiché SyRI è avvolto dal segreto, i beneficiari del welfare non hanno modo significativo di sapere quando o come i calcoli del sistema vengono presi in considerazione nelle decisioni per tagliarli fuori dai benefici salvavita.

Il governo ha rifiutato di rivelare come funziona SyRI, per paura che spiegare i suoi algoritmi di calcolo del rischio consentirà ai truffatori di ingannare il sistema. Ma ha rivelato che il sistema  genera “falsi positivi”  – casi in cui il sistema segnala erroneamente le persone come rischio di frode.

Senza spiegazioni più trasparenti, è impossibile sapere se tali errori abbiano portato ad indagini improprie nei confronti dei beneficiari di welfare o all’ingiusta sospensione dei loro benefici.

Il governo afferma di utilizzare questi “falsi positivi” per correggere i difetti nel suo modello di calcolo del rischio, ma non c’è nemmeno modo di testare questa affermazione. In effetti, nessuno può indovinare se il sistema mantenga un tasso di accuratezza sufficientemente alto da giustificare valutazioni del rischio che tengono le persone sospette per un massimo di due anni.

SyRI fa parte di una  più ampia tendenza globale volta  a integrare l’Intelligenza Artificiale e altre tecnologie basate sui dati nell’amministrazione di prestazioni sociali e altri servizi essenziali. Ma queste tecnologie sono spesso implementate  senza una consultazione significativa  con i beneficiari del welfare o il pubblico in generale.

Nel caso di SyRI, il sistema è stato autorizzato dal Parlamento nell’ambito di un pacchetto di riforme del  welfare  varato nel 2014. Tuttavia, il governo ha  sperimentato  iniziative di rilevamento delle frodi ad alta tecnologia per quasi un decennio prima di cedere al controllo legislativo. I gruppi locali si sono  anche lamentati  dell’inadeguatezza dell’iter legislativo. Secondo la  causa , il Parlamento non ha affrontato in modo significativo le preoccupazioni sulla privacy e sulla protezione dei dati sollevate dal proprio consiglio consultivo legislativo e dall’organismo di controllo della protezione dei dati del governo.

Il tribunale emetterà la sua decisione a gennaio. Staremo a guardare per vedere se protegge i diritti delle persone più povere e vulnerabili dai capricci dell’automazione.

Agnoletto: in Lombardia la salute è stata trasformata in merce

Fonte Pressenza.com

Vittorio Agnoletto è stato inserito dalla rivistaSanità Informazione fra i 10 professionisti della scienza che nel 2021 hanno avuto un impatto nellalotta alla pandemia; è il portavoce italiano della campagna europea No profit on Pandemic; facciamo con lui il punto della situazione.

Come sta andando la campagna e quali sono le prospettive?

La campagna nessun profitto sulla pandemia diritto alla cura si sta ampliando continuamente ed è sostenuta dalla società civile di tutta Europa. E’ evidente che oggi ha acquisito ancora maggiore importanza che nel passato; la vicenda della variante Omicron dimostra che lì dove non arrivano i vaccini è più facile che si sviluppi una variante maggiormente aggressiva che poi circola in tutto il mondo e noi non sappiamo quanto i vaccini che stiamo utilizzando saranno in grado di bloccare quella variante. Per esempio, oggi stiamo sperimentando che i vaccini disponibili sono efficaci in misura ridotta contro Omicron; sono migliaia e migliaia le persone vaccinate che comunque si sono infettate, anche se sembra fortunatamente che Omicron sia meno aggressivo della variante Delta. Ma questa situazione ci manda un segnale per il futuro: se arriveranno altre varianti maggiormente aggressive non è detto che i vaccini riusciranno a fermarle.

L’obiettivo che noi abbiamo adesso come campagna europea è lo stesso che hanno i movimenti di tutto il mondo: chiedere che l’Organizzazione Mondiale del Commercio si riunisca; la riunione prevista per il 30 novembre è stata rinviata a causa dell’impossibilità delle delegazioni di raggiungere Ginevra per via delle limitazioni sui voli a causa di Omicron; noi siamo sicuri che la decisione di sospensione momentanea dei brevetti possa essere assunta anche in una riunione online nella quale venga accolta la proposta di India e Sudafrica per una moratoria di tre anni. Nel frattempo, bisogna fare il possibile per modificare la posizione della Commissione Europea che è tale perché è sostenuta da diversi governi europei tra i quali Germania, Francia e Italia. Quindi il nostro governo ha un’enorme responsabilità e questo è il motivo anche dell’appello che, l’ultimo dell’anno, ho rivolto al Presidente del Consiglio Draghi chiedendogli un atto formale del Governo Italiano di appoggio alla proposta di moratoria, votato in Parlamento, approvato in Consiglio dei Ministri e formalizzato all’interno delle istituzioni europee.

A proposito del governo: un tuo commento sugli ultimi provvedimenti e sulla sua strategia generale.

Spesso sembra che le decisioni assunte dal governo rispondano a meccanismi di compatibilità politica dei partiti che formano il governo e alle pressioni di Confindustria ed altri settori economici.

Per esempio, la decisione di cancellare la quarantena per chi è venuto in contatto stretto con un positivo e ha fatto tre dosi di vaccino o greenpass rafforzato da meno di 4 mesi risponde a valutazioni politiche del governo ed è comprensibile che incontri il plauso di molte persone attualmente rinchiuse in casa. Ma dal punto di vista scientifico non ha alcuna giustificazione: gli oltre 126 mila positivi identificati qualche giorno fa, in sole 24h, non sono certamente stati tutti contagiati da non vaccinati e inoltre, a differenza di quanto avviene per i ricoverati in terapia intensiva e per i deceduti, per i positivi non vengano fornite le percentuali tra vaccinati e non vaccinati.

Ad infettarsi con la variante Omicron sono anche moltissime persone vaccinate tre volte, le quali, se è vero che raramente evolvono verso le fasi avanzate della malattia è altrettanto vero che diventano potenziali involontari propagatori dell’infezione. Con Omicron il massimo dell’infettività si ha nei 2-3 giorni precedenti alla comparsa dei sintomi e nei 2-3 giorni successivi; dal punto di vista scientifico avrebbe avuto quindi più senso ridurre il tempo di isolamento per chi è risultato positivo ma asintomatico e ridurre, senza azzerarla, la quarantena per i contatti. Ma a prevalere non sono state le considerazioni sanitarie ma le ragioni dell’economia o meglio dei padroni dell’economia e il rischio di veder crescere ulteriormente positivi e di conseguenza i ricoverati e i deceduti è concreto.

Il comitato tecnico-scientifico conosce queste evidenze e avrebbe dovuto considerarle; chi governa deve compiere delle scelte e assumersene le responsabilità senza però piegare la scienza ai suoi obiettivi.

Ma soprattutto è sbagliato pensare una strategia centrata solo sui vaccini: i vaccini svolgono un ruolo fondamentalema per bloccare o limitare la diffusione del virus da soli non sono sufficienti. E’ necessario insistere sul distanziamento, sull’uso delle mascherine che avevano raggiunto prezzi esorbitanti (prima che il governo finalmente stabilisse un prezzo fisso), rendere gratuiti i tamponi (il cui costo reale è di pochi euro) in modo tale che le persone possano sapere subito se sono infette. Sono misure di sanità pubblica fondamentali. Se invece i tamponi non si trovano e bisogna andare dai privati e pagarli 100-170€ e fare sei ore di coda in piedi al freddo, è evidente che meno persone andranno a fare il tampone e quindi rischieranno di infettare altri.

Ci sono anche altre misure di sanità pubblica che avrebbero dovuto essere praticate; hanno avuto un tempo lunghissimo per aumentare il numero dei mezzi di trasporto urbani e interurbani, ma nulla è stato fatto; avrebbero dovuto: potenziare il servizio di medicina del lavoro per andare almeno a verificare l’uso dei dispositivi di protezione individuale e il rispetto del distanziamento; incentivare lo smart working anziché criminalizzarlo; sdoppiare le classi pollaio, cercare altre aule, modificare gli orari. Nulla di tutto questo.

Per non parlare del fatto che ormai da oltre un mese si è totalmente rinunciato al contact tracing, cioè si è rinunciato a inseguire il virus. Tutta l’attività di medicina territoriale è stata ridotta ai minimi termini, i medici di famiglia sono stati totalmente abbandonati a se stessi.

Si punta solo e unicamente sul vaccino, ma il vaccino moltiplicherebbe la sua utilità se fosse inserito in una complessiva strategia di sanità pubblica.

La pandemia ha messo in evidenza tutte le decadenze di un sistema sanitario privatizzato: dove chiediamo di intervenire con forza per evitare futuri disastri?

Il disastro che una regione come la Lombardia ha sperimentato nella prima fase della pandemia, ma che sta sperimentando anche adesso, non è un fatto isolato: la Lombardia è semplicemente una delle regioni in Europa dove maggiormente il liberismo è penetrato all’interno della sanità e dove la salute è stata trasformata in merce. Fino a prima della pandemia era il modello a cui guardavano alcune forze politiche non solo di destra, ma anche che si collocano nel centro-sinistra.

Perché c’è stato il fallimento del modello lombardo e si sono evidenziati enormi limiti anche a livello nazionale nelle strategie di contrasto alla pandemia? I motivi sono tanti.

Primo: la forte penetrazione delle strutture private all’interno del servizio sanitario pubblico attraverso i meccanismi di accreditamento; il privato quando interviene in sanità, come in qualunque altro settore, ha l’obiettivo di costruire i profitti e questi in sanità si costruiscono sui malati e sulle malattie non sulle persone sane e sulla salute. Ha quindi un obiettivo diverso da quello del servizio sanitario pubblico in cui più si riesce a prevenire, più si riduce il numero dei malati e delle malattie, più lo Stato, cioè noi, risparmiamo. La conseguenza di questa forte presenza del privato nel servizio sanitario pubblico è che quest’ultimo si è andato modellando sempre più a somiglianza del modello privato, scegliendo di abbandonare a se stessi i servizi di prevenzione e la medicina territoriale, ignorando l’epidemiologia, non aggiornando il piano pandemico e lasciando unicamente sulla carta, ma non nella realtà, un piano di allertche fosse in grado di attivare immediatamente le necessarie indagini sanitarie ogni volta che giungesse dai medici del territorio la segnalazione della comparsa di una nuova patologia o il moltiplicarsi, senza un’apparente ragione, di alcuni quadri clinici.

Secondo: noi abbiamo un servizio sanitario concentrato quasi unicamente sulla cura e con un approccio totalmente individualizzato; la prevenzione quasi non esiste. La medicina negli ultimi 30-40anni ha avuto come obiettivi fondamentali aumentare l’attesa di vita e il numero di giorni trascorsi senza malattia degli ultrasessantacinquenni. Si è cercato di realizzare questi obiettivi unicamente attraverso interventi personalizzati puntando sullo sviluppo della chirurgia e di nuovi farmaci. Oggi, di fronte a una pandemia si riduce il numero dei morti se si interviene il prima possibile per evitare che l’agente infettivo si diffonda, limitandone la diffusione; per fare questo è necessario un rapporto stretto tra il servizio sanitario e la popolazione, tra i professionisti della salute e le strutture sociali intermedie, perché se si devono modificare dei comportamenti dei cittadini è fondamentale un rapporto stretto con le strutture organizzate nella società. Questo riguarda la pandemia, ma anche l’impatto delle tematiche ambientali sulla salute, dei tumori ecc. E’ necessario cambiare il paradigma della medicina.

Oggi bisogna potenziare la medicina di comunità che è fondata sull’individuazione dei bisogni sanitari di ogni popolazione, l’elaborazione di un progetto sanitario, l’individuazione degli obiettivi prioritari con la conseguente capacità di andare a verificare se questi obiettivi sono raggiunti o meno. Riprendere per capirci alcune delle intuizioni di “Nemesi Medica di Ivan Illich.

Se tutto questo non ci sarà, e così sembra da come vengono individuate le priorità sanitarie con i fondi del PNRR, rischieremo, nel caso di una nuova pandemia, di trovarci una situazione molto simile a quella attuale.

E’ risultato molto controverso il tema della vaccinazione a adolescenti e bambini. Quale la tua opinione a riguardo?

Nell’ultimo mese è stata fatta una campagna a tamburo battente perché venissero vaccinati i bambini dai 5 agli 11 anni; a fronte di una posizione assolutamente decisa in questa direzione della Società Italiana di Pediatria altre società pediatriche come quelle francese, tedesca, norvegese e varie realtà scientifiche europee hanno assunto posizioni molto diverse. Qual è il punto? Di fronte ad ogni provvedimento si devono valutare i rischi e i benefici per ogni specifica popolazione: i bambini ad oggi certamente si infettano, ma è rarissimo che sviluppino dei sintomi ed è ancora più raro che possono evolvere verso malattia grave; dall’inizio della pandemia i bambini tra i 5 e gli 11 anni deceduti per Covid sono 9 e nella quasi totalità erano bambini con altre gravi precedenti patologie. L’infezione da Coronavirus-19 nei bambini si presenta in genere in modo completamente asintomatico e sono rarissime e comunque clinicamente trattabili, altre patologie infiammatorie che si potrebbero sviluppare nei bambini a causa del Covid.

D’altra parte, la sperimentazione presentata dalla Pfizer ha coinvolto un numero estremamente limitato di bambini, poco più di 2,000, ed è durato pochi mesi; infatti la stessa Pfizer in un suo documento afferma “Il numero di partecipanti all’attuale programma di sviluppo clinico è troppo piccolo per rilevare eventuali rischi potenziali di miocardite associati alla vaccinazione. La sicurezza a lungo termine del vaccino COVID-19 nei partecipanti da 5-12 anni di età sarà studiato in 5 studi sulla sicurezza dopo l’autorizzazione, compreso uno studio di follow-up di 5 anni per valutare a lungo termine sequele di miocardite/pericardite post-vaccinazione” ; queste frasi sono presenti nel documento che l’azienda farmaceutica ha consegnato a EMA e a FDA (gli enti che in Europa e negli USA approvano l’immissione sul mercato di farmaci e vaccini). Stiamo parlando di una popolazione, i bambini, il cui organismo è in una fase di grande crescita e sviluppo, con caratteristiche differenti dal corpo di un adulto; il principio di precauzione non può essere ignorato.

Non mi pare quindi che per la popolazione tra i 5 e gli 11 anni vi siano forti evidenze che i benefici superino i rischi.

Vari colleghi, pur condividendo queste mie perplessità, obiettano che si debbano vaccinare i bambini per evitare che costoro poi infettino gli adulti; ma in questo caso l’obiettivo prioritario dovrebbe essere quello di raggiungere i milioni di adulti che non si sono vaccinati e di convincerli.

La logica di vaccinare i bambini per evitare che trasmettano l’infezione ad un adulto, al di là delle possibili valutazioni etiche, perde gran parte delle sue ragioni, di fronte ai i dati di questi giorni, con migliaia di persone vaccinate che si sono infettate. Il vaccino è invece estremamente utile nel bloccare la progressione della malattia nelle persone positive; per questo l’obiettivo prioritario deve restare quello di vaccinare tutti coloro che potenzialmente potrebbero evolvere verso le fasi avanzate della malattia e come abbiamo detto, i bambini sono quelli che rischiano molto meno di tutti gli altri.

Questo non significa rifiutare a priori la vaccinazione dei bambini, ma aspettare che siano pubblicati i risultati di ricerche più vaste e più approfondite.

Ad oggi si potrebbe proporre la vaccinazione a tutti i bambini che hanno delle fragilità o delle altre gravi patologie, per i quali il Covid potrebbe rappresentare un rischio significativo.

Resto perplesso quando vedo gran parte del mondo scientifico italiano invocare, senza porsi nessun interrogativo scientifico e senza valutare i pro e i contro, la vaccinazione dei bambini come una delle soluzioni alla situazione attuale, mentre mi pare evidente che le priorità per contrastare il virus, oggi dovrebbero essere altre.

Ultima questione. Sono fermamente convinto che tutte le società scientifiche che sono chiamate a pronunciarsi, a fornire indicazioni, ad elaborare linee guida sulle terapie non dovrebbero ricevere fondi da aziende farmaceutiche che producono farmaci relativi alle patologie delle quali loro si occupano. Sarebbe un importante contributo per un dibattito più trasparente al riparo da qualunque conflitto d’interesse.

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Tagliare le spese militari, finanziare le politiche di pace

Fonte : Fondazione Regis che ringraziamo

Autore Mao Valpiana


L’appello dei Nobel, le parole del Papa, le Campagne per il disarmo: Tagliare le spese militari, finanziare le politiche di pace

Tagliare le spese militari

L’appello di 50 premi Nobel e accademici “Una semplice concreta proposta per l’umanità”, ha un grande merito: quello di aver posto al centro dell’agenda politica globale la necessità della riduzione delle spese militari. L’obiettivo è ragionevole e possibile. Un negoziato comune tra tutti gli Stati membri dell’ONU per ridurre del 2% ogni anno, per 5 anni, le spese belliche di ciascun paese; liberando così un “dividendo di pace” di 1000 miliardi di dollari entro il 2030.

Questa proposta si va ad aggiungere e rafforza altre proposte avanzate negli anni nella stessa direzione. Papa Francesco ha scritto nell’Enciclica Fratelli tutti:

“E con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri”.

E in occasione della Giornata mondiale della Pace del 1° gennaio 2022, Papa Francesco ribadisce:

“È dunque opportuno e urgente che quanti hanno responsabilità di governo elaborino politiche economiche che prevedano un’inversione del rapporto tra gli investimenti pubblici nell’educazione e i fondi destinati agli armamenti. D’altronde, il perseguimento di un reale processo di disarmo internazionale non può che arrecare grandi benefici allo sviluppo di popoli e nazioni; liberando risorse finanziarie da impiegare in maniera più appropriata per la salute, la scuola, le infrastrutture, la cura del territorio”.

La Campagna mondiale GCOMS (Global Campaign on Military Spending – campagna internazionale sulla spesa militare), promossa dall’International Peace Bureau (IPB, Premio Nobel per la Pace 1910) si pone come finalità principale  la richiesta urgente di uno spostamento di fondi (almeno il 10% annuo) dai bilanci militari verso la lotta contro la pandemia da Covid-19 e il rimedio alle crisi sociali e ambientali che colpiscono vaste aree del mondo.

Dunque, la direzione da intraprendere è condivisa, ma qual è la strategia efficace per raggiungere l’obiettivo? I premi Nobel propongono un approccio multilaterale, negoziati razionali per una riduzione comune e concomitante che mantenga l’equilibrio e la deterrenza; il beneficio di questa cooperazione deriva da un fondo globale utilizzato per affrontare i problemi comuni (riscaldamento climatico, pandemia, povertà); e da una parte di risorse lasciate a disposizione dei singoli governi per reindirizzare la ricerca militare verso applicazioni pacifiche.

È una strada realistica? C’è davvero la volontà politica di tutte le nazioni di scegliere il disarmo controllato e bilanciato? La storia degli accordi bilaterali di disarmo INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty) e START (Strategic arms reduction treaty) tra USA e URSS, negli anni ‘80, per il ritiro delle armi nucleari strategiche, dimostra che la strada del disarmo è possibile, praticabile e può dare risultati.

Dopo le delusioni per i continui rinvii e fallimenti degli accordi SALT (Strategic Arms Limitation Talks) degli anni ‘70, il rapporto cambiò per la disponibilità al dialogo tra Reagan e Gorbaciov, ma furono i passi unilaterali di Gorbaciov ad imporre un clima  di fiducia e dunque la fine della guerra fredda: Gorbaciov annunciò una moratoria unilaterale sui test di armi nucleari ed il 1° gennaio 1986 avanzò una proposta per la messa al bando di tutte le armi nucleari entro il 2000; nel dicembre 1988 fu ancora Gorbaciov ad annunciare alle Nazioni Unite un ritiro unilaterale di 50.000 soldati dall’Europa orientale e la smobilitazione di 500.000 truppe sovietiche. Nel 1990 Gorbaciov ricevette il premio Nobel per la Pace “per il suo ruolo di primo piano nel processo di pace”. Ci vuole sempre chi inizia facendo il primo passo.

Gandhi diceva che la dottrina della nonviolenza resta valida anche tra Stati e Stati: “prima del disarmo generale qualche nazione dovrà iniziare a disarmarsi; il grado della nonviolenza in quella nazione si sarà elevato così in alto da ispirare il rispetto di tutte le altre”.

Proprio per rafforzare e iniziare a praticare l’appello dei Nobel, del Papa, e delle Campagne disarmiste sostenute dall’opinione pubblica, ci vuole chi fa un primo passo. Passo che sarà seguito da passi altrui. L’Italia può dare un esempio virtuoso, senza mettere in discussione la sua politica di difesa e sicurezza garantita dall’articolo 52 della Costituzione; ma ottemperando al dettame di ripudio della guerra dell’articolo 11. Applicare una “moratoria” sulle spese aggiuntive dei programmi per nuovi sistemi d’arma; un taglio di 5/6 miliardi da spostare subito su capitoli di spesa per politiche di pace e cooperazione.

È quello che chiedono Rete Pace e Disarmo con Sbilanciamoci!, e che da anni sostiene la Campagna “Un’altra difesa è possibile” per il riconoscimento della Difesa civile non armata e nonviolenta (protezione civile, servizio civile, corpi civili di pace) da finanziare con fondi sottratti alle armi. Una proposta di Legge che istituisce il Dipartimento della Difesa civile non armata e nonviolenta è depositata in Parlamento; la sua discussione e approvazione in questa legislatura rappresenterebbe, insieme all’attuazione della moratoria per le spese di nuovi sistemi d’arma, quel “primo passo” nella giusta direzione della nostra nazione; che così potrebbe presentarsi al tavolo dell’Onu per sostenere con autorevolezza la “semplice concreta proposta per l’umanità” presentata dai premi Nobel.

Non c’è tempo da perdere. Bisogna fare presto a disarmare la guerra e finanziare la pace.

Podcast di Diario Prevenzione 9 dicembre 2021.Puntata n° 92

 

 

a cura di Gino Rubini

In questa puntata parliamo di

– Il DL 146/21 per la parte che tratta salute e sicurezza nel lavoro sarà convertito in legge nei prossimi giorni. Come abbiamo scritto su Diario P., come hanno testimoniato molti operatori e personalità autorevoli sottoscrivendo l’appello per modificare il DL, questo intervento normativo rischia di produrre più problemi di quelli che si propone di risolvere. Il tentativo di ridurre, in nome di una presunta efficienza, la complessità dell’intervento di prevenzione ad una semplificata vigilanza antinfortunistica rischia di occultare l’enorme problema delle vecchie e nuove patologie derivanti dalle caratteristiche delle attuali modalità organizzative del lavoro.
– Individuazione dei punti deboli che hanno consentito il successo di questa operazione di regressione culturale e scientifica rispetto alle sfide  dei rischi emergenti dalle attuali modalità di organizzazione del lavoro.
– Diario Prevenzione sarà parte diligente nell’analisi del nuovo dispositivo di legge e svolgerà un ruolo di monitoraggio nelle fasi di attuazione della norma.

ASCOLTA IL PODCAST CLICCA QUI 

Appello alle Autorità, ai Cittadini … e in particolare alle Cittadine e ai Cittadini che non intendono accedere alla vaccinazione anti-Covid

AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA

AL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI

AL PARLAMENTO ITALIANO

AI GRUPPI PARLAMENTARI

AI PARTITI POLITICI

AI MEZZI DI COMUNICAZIONE

ALLE CITTADINE E AI CITTADINI

Davanti al crescere e propagarsi in Italia e in Europa dei livelli di infezioni e ricoveri ospedalieri da Coronavirus ci sentiamo in dovere di appellarci alle Autorità dello Stato e, nel medesimo tempo, alle Cittadine e ai Cittadini che non intendono accedere alla vaccinazione anti-Covid richiamando alcuni dati di realtà che, vistosamente incalzanti, potrebbero riportare il nostro Paese nel pieno delle tragiche e note conseguenze socio-sanitarie.

Queste le osservazioni:

– le vaccinazioni coprono ormai oltre l’80% della popolazione italiana;

– il vaccino esenta dall’ammalarsi gravemente in misura di circa il 90% e del 98% dal ricovero in Reparti di terapia intensiva, dall’intubazione e dall’exitus;

– ad oggi il vaccino costituisce l’unica misura efficace contro infezione e malattia da Covid, insieme a distanziamenti personali, uso di mascherine certificate e di soluzioni alcoliche per le mani;

– il vaccino non è scevro da rischi, e questo vale per tutti i farmaci e le azioni diagnostico-terapeutiche, i quali sono infinitamente bassi rispetto ai gravi rischi che l’infezione virale comporta;

– il vaccino riduce gradualmente la propria efficacia dopo 6-7 mesi dalla sua completa inoculazione;

– la guarigione dall’infezione conferisce un’immunità, per efficacia e durata, simile a quella raggiunta dalla vaccinazione;

– gli oltre 7 milioni di Cittadini di non vaccinati in Italia favoriscono la diffusione del virus, la crescita di varianti e l’affollamento di Ospedali, rallentando i percorsi diagnostico-terapeutici per urgenze e malattie cronico-degenerative e neoplastiche;

– la mobilità fra Paesi europei favorisce la diffusione virale;

– la nostra Costituzione fonda il suo baricentro sul Bene comune pur prevedendo il dissenso e la libertà personale di rifiutare azioni diagnostico-terapeutiche;

– la vaccinazione rappresenta oggi l’attuazione del Bene comune, in assenza di una legge che la imponga.

Queste le proposte:

– fornire da subito a tutta la cittadinanza informazioni chiare e puntuali su rischi e vantaggi della vaccinazione;

– fornire da subito a tutta la cittadinanza informazioni chiare e puntuali sulla situazione pandemica con dati analitici su tassi d’infezione, ricoveri ospedalieri, mortalità e guarigioni in vaccinati e non vaccinati e per classi d’età;

– semplificare e accelerare a grandi passi su acquisizioni e somministrazioni delle terze dosi di vaccino;

– rilanciare le regole prudenziali di distanziamento personale, uso di mascherine certificate, anche all’aperto in luoghi di transito e affollati, disinfezione delle mani;

– controllare con meticolosità coloro che giungono sul suolo italiano;

– escludere i non vaccinati dall’ingresso in luoghi e mezzi di trasporto pubblici e privati, che costituiscano forme di aggregazione civile, e organizzare efficaci controlli in questo senso.

Grazie per l’attenzione e cordiali saluti

O.d.V.:      “SCIENZA MEDICINA ISTITUZIONI POLITICA SOCIETA’ “

sito: www.smips.org  e-mail: smips1@libero.it

Le prime firme :

Francesco Domenico Capizzi, presidente SMIPS, Bologna; Adriano Prosperi, Scuola Normale di Pisa; Vincenzo Balzani, Università di Bologna; Francesco Corcione, Università di Napoli; Giancarla Codrignani, docente, politica e giornalista, Bologna; Daniele Menozzi, Scuola Normale di Pisa; Marzia Faietti, già  direttrice degli Uffizi, ricercatrice Kunsthistorisches Institut, Firenze; Gabriella Galletti, segretaria SMIPS, Bologna; Giancarlo Gaeta, Università di Firenze; Francesca Isola, vice-presidente SMIPS, Bologna; Giuseppe Giliberti, Università di Urbino; Gianpaolo Bragagni, dirigente medico, Bologna; Marina Marini, Università di Bologna; Bruna Bocchini Camaiani, Università di Firenze; Francesco Di Matteo, giurista, Bologna; Giuseppe Cucchiara, chirurgo, Roma; Elda Guerra, storica, Bologna; Franco Favretti, chirurgo, Vicenza; Claudia Rizzi, dirigente medico, Bologna; Lucia Migliore, Università di Pisa; Adriana Destro, Università di Bologna; Gino Rubini, esperto di sicurezza sul lavoro, Bologna; Ugo Mazza, politico, Bologna; Giovanna Facilla, dirigente scolastica, Bologna; Renzo Tosi, Università di Bologna; Carlo Hanau, presidente del Tribunale della salute OdV, Bologna; Ildo Tumscitz, psicoterapeuta, Bologna; Mauro Pesce, Università di Bologna; Monica Bini, docente, Bologna; Marilia Sabatino, dirigente scolastica, Bologna; Maria Teresa Cacciari, docente,  Bologna; Davide Peretti Poggi, pittore, Bologna; Giuseppe Bartolotta, medico, Rimini; Luciano Fogli, dirigente medico, Bologna; Anne Drerup, docente, Bologna; Michele Del Gaudio, magistrato, Torre Annunziata; Graziella Di Cicca, orafa, Rimini; Amedeo Alonzo, chirurgo, Novara; Sergio Boschi, dirigente medico, Bologna; Giorgio Dragoni, Università di Bologna; Alessandra Ferretti, docente, Bologna; Daniele Capizzi, dirigente medico, Bologna; Paolo Rebaudengo, presidente di Olivettiana APS, Bologna; Vincenzo Frusci, dirigente medico, Melfi; Domenico B. Poddie, medico vaccinatore volontario, Ravenna; Enzo Lucisano, Università di Bologna; Margherita Venturi, Università di Bologna; Silvia Lolli, docente, Bologna;

Per aderire all’Appello inviate l’adesione a smips1@libero.it

Il decreto-legge 146 su salute e sicurezza sul lavoro è un passo falso.Sono necessarie modifiche al decreto. È necessario un intervento organico in materia

Lettera aperta al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Ministro della Salute, al Ministro del Lavoro, al Presidente della Conferenza delle Regioni.

 

Il decreto-legge 146 su salute e sicurezza sul lavoro è un passo falso.

Sono necessarie modifiche al decreto. È necessario un intervento organico in materia

 

Con il decreto-legge 21 ottobre 2021, n. 146 il Governo intende portare alcune significative modifiche del Decreto Legislativo n. 81/2008, cosiddetto testo unico sulla sicurezza del lavoro. Un decreto emesso sulla spinta di ‘fare qualcosa’ con urgenza – spinta ben comprensibile e condivisibile – per il quale è stato verosimilmente utilizzato il ‘materiale’ sul quale gli uffici del Ministero del Lavoro stavano da tempo lavorando (1) e che a nostro avviso non convince. Non si comprende il motivo per cui il Governo abbia deciso di duplicare i soggetti che intervengono nella vigilanza anziché realizzare condizioni per permettere ai servizi di prevenzione collettiva delle aziende sanitarie di essere maggiormente operativi in termini di personale e di presenza sul territorio nazionale. La duplicazione dei soggetti che intervengono non si traduce in migliori e maggiori interventi di vigilanza, anzi, è possibile ipotizzare conflitti di competenze e/o interventi duplicati.

 

LO STATO DELLE COSE

Colpisce particolarmente che i tipi di incidenti mortali sono ancora quelle ‘antichi’, da anni 50 del secolo scorso. La stragrande maggioranza di questi incidenti erano e sono evitabili con una corretta organizzazione del lavoro, con pratiche concrete di valutazione e gestione dei rischi, con una formazione professionale mirata ai rischi specifici connessi alla mansione. La vigilanza da parte dello Stato nelle sue articolazioni è importante, ma non potrà mai sostituire il compito delle imprese nella gestione dei rischi, con il contributo di controllo e partecipazione dei lavoratori. Non vi saranno mai abbastanza ispettori per vigilare che vi sia una corretta gestione della sicurezza a livello aziendale nella miriade d’imprese e microimprese. I determinanti che spesso hanno causato l’incidente riguardano la precarietà del rapporto di lavoro, la mancata e/o inadeguata formazione alla sicurezza dei lavoratori, la debolezza contrattuale dell’impresa che fornisce prestazioni in regime di subappalto verso la stazione appaltante, l’’informalità maligna’ che regola l’organizzazione approssimativa del lavoro nelle reti dei subappalti, la sostanziale impreparazione tecnica e professionale di talune imprese pur iscritte alla Camera di Commercio.

 

Lavori instabili e scarsa regolazione nell’occupazione sono più la regola che l’eccezione. La diffusione del cosiddetto subappalto ha esploso il ventaglio delle condizioni di lavoro rendendo sovente complicata la stessa rappresentazione della condizione lavorativa. La giungla dei contratti collettivi nazionali di lavoro esistenti in Italia – ben 985 registrati a giugno dal Cnel, l’80% in più nell’arco di un decennio – riflettono un mercato del lavoro frammentato e dove proliferano accordi pirata firmati da sindacati o associazioni di impresa sconosciuti.

 

A fronte di questa ‘realtà effettuale’ il decreto-legge 146/2021 rischia di essere un passo falso perché crea una condizione di non chiarezza sul ‘chi fa che cosa’ circa l’attività di vigilanza sul rispetto delle misure di sicurezza svolte dalle istituzioni di controllo, tende a disgiungere la stessa vigilanza dalla prevenzione. Appare sostanzialmente orientato alla mera repressione ed opera uno strappo nell’ordinamento giuridico vigente. Per la prima volta dall’entrata in vigore della riforma sanitaria (legge 833/1978) si mette in crisi quella che è stata una delle innovazioni più importanti della riforma stessa, che consisteva nell’assegnare le competenze relative alla salute dei lavoratori al Servizio sanitario nazionale come una delle funzioni comprese nella promozione della salute del cittadino. La riforma sanitaria produsse in questo settore effetti positivi legati al fatto che le misure di prevenzione utili alla tutela della salute dei lavoratori potevano essere non solo individuate dai servizi pubblici, ma successivamente anche imposte con poteri dispositivi e prescrittivi (2), realizzando quindi una continuità tra prevenzione, vigilanza e repressione (vi è infatti un forte legame tra legge 833/78 che stabilisce i principi e decreto legislativo 81/2008 e D.L.vo 758/94 che forniscono gli strumenti per applicare tali principi). Certi caratteri del provvedimento DL 146 nell’attuale stesura sembrano in contrasto anche con recenti dichiarazioni del Ministro del Lavoro (3).

 

Per quanto riguarda la vigilanza, ciò che occorreva ‘con urgenza’ – insieme al certamente necessario incremento del personale dell’Ispettorato finalizzato al controllo del lavoro nero e rapporti di lavoro irregolari – era, piuttosto, porre rimedio alla situazione di abbandono nella quale i governi e le regioni hanno tenuto gli organi delle aziende sanitarie incaricati della prevenzione e della vigilanza, lasciando che gli addetti in dieci anni diminuissero del 50%, senza provvedere alle necessarie nuove assunzioni. Depauperamento che ha inciso sulla qualità delle prestazioni dei servizi territoriali di prevenzioni, con la difficoltà ad affrontare la complessità delle condizioni di lavoro e temi come quelli della salute, del disagio psicosociale, dello stress correlato al lavoro, delle malattie da lavoro. Si avverte un rischio di scivolamento burocratico verso un ruolo pressoché esclusivo di «ispettore» e non anche di «tecnico della produzione di salute», con un’attenzione orientata più alla verifica del rispetto del dettato normativo e non anche alla ricerca condivisa di soluzioni ai problemi di salute e sicurezza. Ben sappiamo che l’efficacia della prevenzione non è completamente corrispondente a quella di “numero di unità locali controllate”. Le attività di igiene ambientale (misurazione diretta degli inquinanti) sono pressoché scomparse. I tagli alle iniziative di formazione e la carenza di figure specialistiche (chimici, ingegneri, biologi, psicologi del lavoro, …) caratterizza pressoché tutte le regioni. In alcune regioni, come la Toscana, si sono intraprese anche iniziative di riorganizzazione che prevedono una separazione gestionale e programmatica (non solo dell’opportuna valorizzazione della specificità professionale) delle diverse categorie di operatori della prevenzione, invece di garantire una piena integrazione interprofessionale.

 

Nell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) non esistono oggi le competenze specifiche per esercitare le nuove funzioni che richiedono elevata e specifica professionalità, requisiti presenti negli operatori dei servizi delle ASL (Tecnici della Prevenzione, Medici del lavoro, Ingegneri, Assistenti sanitari, Chimici, Biologi, Psicologi del Lavoro,…) acquisiti attraverso specifica formazione universitaria. Nei Servizi delle ASL, inoltre, permane comunque un patrimonio scientifico e di esperienze gestionali, arricchitosi nel corso di decenni di attività, volto alla soluzione dei problemi e non solo alla ricerca dei reati. Si è adottato un provvedimento ‘con urgenza’ i cui effetti non si vedranno, ad essere ottimisti, che tra qualche anno: giusto il tempo per bandire e concludere i concorsi per le assunzioni del personale all’ispettorato (oggi drammaticamente insufficiente anche solo per i controlli sul lavoro nero o sulle violazioni del rapporto di lavoro), avviare i neoassunti alla necessaria formazione in materia di vigilanza e far acquisire loro quel minimo bagaglio di esperienza che garantisca qualche risultato sul fronte della sicurezza per i lavoratori.

 

Il ‘doppio binario’ della vigilanza crea confusione. Con l’individuazione di due organi, entrambi deputati alla vigilanza su salute e sicurezza sulla totalità dei comparti, si è anche disattesa una delle indicazioni del Senior Labour Inspectors Committee (SLIC), rappresentate nel Report on The Evaluation of The Italian Labour Inspection System (4). In un recente contributo sulla necessità di incremento numerico delle ispezioni, ma effettuate in modo più mirato, si discute, anche con confronti internazionali, l’affermazione che “è tempo di ripensare all’idea di un unico Ispettorato nazionale del lavoro, il cui fallimento era stato preannunciato” (5).

 

LE COSE NECESSARIE

La necessità di avere un coordinamento e un indirizzo nazionale del tema salute e sicurezza sul lavoro, di un controllo della coerenza tra principi e modelli organizzativi regionali, obiettivamente da molto tempo carente in sanità pubblica (6), è indubbia (ad es., risulta che dal 2018 non viene prodotta una relazione organica sull’attività svolta da questi servizi nelle diverse regioni, che, pure, hanno operato dando un contributo importante anche nel fronteggiare la pandemia).

È chiaro, inoltre, che per incidere sul fenomeno degli incidenti mortali occorre una iniziativa su diversi piani, dalla regolarità del lavoro, alle regole sugli appalti, ecc. La vigilanza in materia di sicurezza degli Enti preposti è solo uno degli strumenti, importante, ma non sufficiente.

 

Di seguito avanziamo alcune indicazioni, che potrebbero essere attivate anche a legislazione corrente, frutto di tante esperienze e ricerche, ma che finora non hanno trovato corrispondenza in decisioni politico programmatiche.

 

  • Posto che è quanto mai opportuno rafforzare il numero degli ispettori dell’INL (come effettivamente propone il decreto 146) per rafforzare la vigilanza sui rapporti di lavoro, la cui irregolarità è concausa degli infortuni e delle malattie professionali, è indispensabile rafforzare gli organici dei Servizi di Prevenzione Collettiva delle ASL stanziando apposite risorse nella Manovra di bilancio attualmente in discussione in Parlamento, controllandone (da parte del Ministero della Salute) l’effettivo utilizzo da parte delle Regioni e delle ASL (gli addetti ai Servizi di Prevenzione delle ASL sono passati da 5.060 operatori nel 2008 a 3.246 nel 2018). Necessario, inoltre, definire degli standard di personale per i Servizi delle ASL in modo da garantire omogeneità delle strutture territoriali e assicurare loro la formazione necessaria, alla luce delle importanti modifiche del tessuto produttivo.
  • È indispensabile rafforzare il ruolo del Comitato ex art. 5 D.Lgs. 81/08 dotandolo di poteri decisionali e di adeguate risorse. Nella nota una proposta di modifica dello stesso articolo (7). Il Comitato deve relazionare periodicamente e pubblicamente l’efficienza e l’efficacia dei programmi di prevenzione attuati in relazione al Piano Nazionale della Prevenzione (PNP) e ai Livelli essenziali di assistenza (LEA). Raccolta e diffusione linee guida, buone prassi e iniziative di prevenzione meritevoli di estensione ed incremento degli interventi di prevenzione nelle piccole imprese, cooperative, lavoratori autonomi, sviluppando attività di assistenza. Dare nuovo impulso (in attuazione del Piano Naz Prevenzione) alla prevenzione delle malattie da lavoro, in particolar modo per quelle di tipo cronico-degenerative, con interventi di igiene industriale mirati alla riduzione dell’esposizione ad agenti chimici, cancerogeni e mutageni. A questo stesso livello si deve effettivamente attuare un efficace coordinamento delle strategie e attività tra INL e Regioni/ASL. Analoghe considerazioni possono essere fatte per il livello regionale e provinciale, assicurando la collaborazione delle forze sociali.
  • all’interno del Ministero della Salute devono essere rafforzate/costituite le funzioni relative al governo della prevenzione nei luoghi di lavoro, con compiti di indirizzo e verifica delle attività svolte dalle varie strutture e delle risorse impegnate.
  • un sistema di registrazione nazionale di infortuni, malattie da lavoro e rischi indipendente da finalità assicurative, che costituisca strumento per l’analisi del fenomeno e la programmazione e fonte ufficiale di comunicazione periodica dei dati da parte del Ministero della Salute e degli Assessorati Regionali (anche questo punto è effettivamente trattato anche nel DL 146).
  • Rafforzamento della rete degli RLS

 

Queste proposte ed altri suggerimenti erano già stati indicati nella nota della Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione inviata il 27 maggio 2021 al Presidente del Consiglio, ai Ministri della Salute e del Lavoro e al Presidente della Conferenza delle Regioni.

 

Un intervento legislativo più consistente e organico di aggiornamento del d.lgs. n. 81/2008 (mancano anche circa 20 provvedimenti di attuazione del DLgs 81!) è comunque necessario. Riportiamo alcuni punti che reiteriamo fondamentali:

  • adozione di un sistema di qualificazione delle imprese (andando oltre il mero modello della patente a punti, non applicabile a tutti i settori come per l’edilizia e che interviene a posteriori dopo infortunio e/o sanzione), considerato l’aumento esponenziale del lavoro in appalto e del numero rilevante di infortuni che si verificano nello svolgimento delle mansioni svolte nell’ambito di tali contratti.
  • riforma della formazione. Non esaurendosi solo sulla revisione dei programmi (almeno riferiti alla figura dell’RSPP/ASPP, ruolo di necessaria trasformazione) e sul sistema di accreditamento degli enti erogatori sul territorio, ma in particolare sull’introduzione dell’obbligo nei riguardi dei datori di lavoro e nei programmi scolastici, fin dai primi anni dell’istruzione
  • un rafforzamento e qualificazione delle figure del Responsabile Sevizio di Prevenzione e Protezione (RSPP) e del medico competente, nella loro autonomia professionale e nel loro rapporto con le strutture pubbliche.
  • un potenziamento delle funzioni svolte dell’ex Istituto Superiore di Prevenzione e Sicurezza nei Luoghi di Lavoro (ISPESL), attualmente accorpate all’INAIL, con l’ipotesi di un loro inserimento nell’Istituto Superiore di Sanità (ISS).

 

MODIFICARE IL 146

Parallelamente a queste indicazioni di fondo, la fase di conversione in legge del 146 offre la possibilità di poter intervenire sul testo. A questo riguardo concordiamo sostanzialmente con le osservazioni espresse dal Coordinamento Tecnico delle Regioni – Area Prevenzione e Sanità Pubblica (Parere sullo schema di disegno di legge di conversione del decreto-legge 21 ottobre 2021, n.146. Proposta di emendamenti). In particolare, riteniamo corretta e utile la proposta di abrogazione della duplicazione della competenza ispettiva. L’ottimizzazione dell’azione di vigilanza si può realizzare con il rispetto delle competenze concorrenti di cui all’articolo 117 della Costituzione, nonché di quanto disposto dalla legge 833/78. Nella stessa nota del Coordinamento tecnico delle Regioni, infatti si osserva che “L’azione di vigilanza avrebbe potuto ricevere ulteriore (e facile) impulso rafforzando le ASL e non già affiancando l’INL, Ente che, considerati i profili professionali del personale che lo sostanzia (legali, amministrativi), possiede abilità per i soli controlli formali (e non sostanziali) che si tradurranno in un mero intervento repressivo a danno (anche economico) alle imprese, peraltro in una fase in cui – superata auspicabilmente l’emergenza pandemica – l’impegno del Paese è supportare la ripresa”. E, ancora: “la presenza di un secondo organo di vigilanza costituisce essenzialmente elemento di forte criticità dell’azione di coordinamento che il nuovo art. 13 comma 4 DLgs 81/08, per il solo livello provinciale, pone in capo sia alle ASL che all’Ispettorato (“A livello provinciale, nell’ambito della programmazione regionale realizzata ai sensi dell’articolo 7, le Aziende Sanitarie Locali e l’Ispettorato nazionale del lavoro promuove e coordina sul piano operativo l’attività di vigilanza esercitata da tutti gli organi di cui al presente articolo. …” ).

 

CONCLUSIONI

Il proposto DL 146 manca di una più approfondita valutazione della causalità sociali del fenomeno delle malattie da lavoro e degli infortuni. Risulta non considerare adeguatamente alcuni elementi strategici, di ordine culturale e politico, della legislazione fondamentale in materia, nonché di recenti raccomandazioni di derivazione europea. Nella NADEF (Nota di aggiornamento al doc di economia e finanza 2021) sono previsti una serie di impegni e riforme specifiche tra le quali quello di un ‘DDL per l’aggiornamento e il riordino della disciplina in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro’. Per le considerazioni svolte in questa nota lo stesso decreto non può certo assolvere questo impegno.

 

Sul tema salute e sicurezza del lavoro si giocano i caratteri fondanti della dignità delle persone che lavorano e, più in generale, del grado di incivilimento di un paese. I soggetti collettivi devono riaprire una discussione, un confronto con i lavoratori, i servizi pubblici, le istituzioni, per definire una nuova politica, un complesso ‘organico’ di provvedimenti, per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro. Alla base ci deve essere piena consapevolezza dalla ‘realtà effettuale’ dell’Italia, caratterizzata così fortemente dalla prevalenza della microimpresa, dalla massiccia estensione del subappalto e del lavoro precario e nero, che rendono più impegnativa la costruzione di veri sistemi aziendali di gestione del rischio. Questo rende particolarmente forte il bisogno di ‘assistenza’ e ‘formazione’ e la necessità di un rinnovato controllo delle insopportabili inappropriatezze mercatiste delle consulenze private in questo campo, insieme, naturalmente, alla irrinunciabile deterrenza della vigilanza e repressione dei reati. I provvedimenti parziali e contingenti dovrebbero essere coerenti con questa visione.

 

Susanna Cantoni, già direttore Dipartimento Prevenzione ATS Città Metropolitana Milano

Beniamino Deidda, già Procuratore Generale Firenze, componente comitato direttivo Scuola Superiore della Magistratura

Mauro Valiani, già direttore Dipartimento Prevenzione ASL Empoli

Massimo Bartalini, Tecnico della Prevenzione Siena

Stefano Fusi, Tecnico della Prevenzione Firenze

Giuseppe Petrioli, già direttore Dipartimento Prevenzione ASL Firenze e componente Commissione Interpelli

Gino Rubini, editor blog Diario della Prevenzione, già sindacalista CGIL

Carla Poli, Tecnico della Prevenzione ASL Toscanacentro

Stefano Silvestri, igienista del lavoro, collaboratore Università del Piemonte orientale

Fulvio Cavariani, già direttore Centro Regionale Amianto Regione Lazio

Eugenio Ariano, già Direttore Dipartimento Prevenzione ASL Lodi

Lalla Bodini, medico del lavoro Milano

Ettore Brunelli, medico del lavoro Brescia

Daniele Gamberale, già direttore Dipartimento Prevenzione ASL Roma 1

Bruno Pesenti, già Direttore Dipartimento Prevenzione ATS Bergamo

Giuliano Tagliavento, già Direttore Direzione Tecnica Prevenzione Collettiva ASUR Marche

Dusca Bartoli, medico del lavoro Empoli

Giuliano Angotzi, già Direttore Dipartimento Prevenzione ASL Viareggio

Teresa Vetrugno Medico del lavoro ex RSPP in Azienda Sanitaria

Rodolfo Amati Medico del Lavoro già Responsabile Spisll Ausl 9 Grosseto

Danilo Zuccherelli già Direttore del Dipartimento di Prevenzione USL 6 Livorno

Francesco Loi già Responsabile Dipartimento di Prevenzione ex Azienda USL 7 Siena

Andrea Innocenti già Responsabile PISSL USL Toscana centro (Pistoia)

Lucia Bramanti Responsabile Servizio di prevenzione igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro AUSL Toscana nord-ovest zona Versilia

Raffaele Faillace già Responsabile per la regione Toscana dei servizi di prevenzione e direttore generale di varie ASL

Augusto Quercia Direttore Dipartimento di prevenzione ASL VT e Direttore UOC PRESAL ASL VT

Sandro Celli Dirigente Professioni Sanitarie della Prevenzione

Tiziana Vai medico del lavoro UOC PSAL ATS Milano città Metropolitana

Donatella Talini medico del lavoro presso Azienda USL Toscana Nordovest

Giovanni Pianosi medico del lavoro

Stefania Villarini Responsabile U.O.S. PRESAL Distretto A AUSL Dott.ssa Stefania

Leopoldo Magelli , medico del lavoro, già responsabile SPSAL di Bologna e primo presidente SNOP

Fulvio Ferri medico del Lavoro Reggio Emilia

Graziano Maranelli Trento

 

 

Scarica il documento integrale da cui è tratto l’articolo:

“ Il decreto-legge 146 su salute e sicurezza sul lavoro è un passo falso”, lettera aperta al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Ministro della Salute, al Ministro del Lavoro, al Presidente della Conferenza delle Regioni (formato PDF, 235 kB).

 

Scarica la normativa di riferimento:

Decreto-Legge 21 ottobre 2021, n. 146 – Misure urgenti in materia economica e fiscale, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili.

 

Loris Campetti: La salute nel sindacato

 

Fonte: Inchiestaonline.it

Diffondiamo da il manifesto in rete del 29 ottobre

Serve ancora il sindacato, nel secondo decennio del terzo millennio dopo Cristo? Seconda domanda: chi rappresenta il sindacato nella stagione della globalizzazione neoliberista, quali figure sociali tutela e quali sono invece abbandonate allo strapotere del turbocapitalismo? Terza domanda: cosa è diventato il sindacato? Sono tre domande difficili, le risposte non possono essere semplici né individuali. Quel che posso tentare di fare è di inquadrarle nel contesto dato, qui e ora ma con un occhio al futuro analizzando le linee di tendenza.

 

La miseria della politica

La prima cosa che mi viene da dire è che non è mai stato così difficile come oggi fare sindacato e, al tempo stesso, non è mai stato così necessario. Indispensabile, aggiungerei. La ragione prima della difficoltà rimanda alla politica, alla sua mutazione nella chiave dell’autoreferenzialità, allo sfilacciamento e allo snaturamento della democrazia e allo svuotamento della partecipazione. Non solo in Italia, certo, ma sulle dinamiche in atto nostro paese val la pena soffermarsi. Bastava dare un’occhiata alla grande manifestazione di Firenze organizzata dal collettivo e dalle Rsu Fiom della Gkn per rendersi conto dell’abisso che separa la lotta operaia, le condizioni materiali dei lavoratori, dalla Grande Politica. Nelle interviste realizzate per un libro-inchiesta – Ma come fanno gli operai – mi aveva colpito il racconto di un giovane delegato di una fabbrica aerospaziale del Varesotto: “Vedi, lì dai tempi dei tempi è appesa una gigantografia di Enrico Berlinguer. Per i vecchi operai la sinistra incarnata dal segretario del Pci rappresentava un riferimento forte, identitario. Per i giovani operai, invece, gli eredi principali del Pci sono quelli che più scientificamente hanno abbattuto i diritti dei lavoratori, a partire dall’attacco allo Statuto dei lavoratori”. La rabbia può addirittura spingere gli operai convintamente di sinistra a votare per dispetto un partito con cui non si ha nulla a che fare pur di punire chi è accusato di essere passato dall’altra parte, dalla parte dei padroni. Un operaio della Fiat diceva parole condivise da tanti suoi compagni in tuta blu: “Ho votato per Appendino sindaca di Torino anche se non mi aspetto nulla dai grillini, perché il Pd ripresentava Piero Fassino, quello che nello scontro tra la Fiom e Marchionne si era schierato con Marchionne. Non ho votato come sarebbe stato normale per Giorgio Airaudo, ottimo compagno, perché il modo più sicuro per far perdere Fassino era votare per il M5S”. I lavoratori sono ormai privi di una rappresentanza politica forte, per essere più precisi non hanno sponde nella politica (so bene che a sinistra del Pd ci sono forze come il Prc che si battono al fianco dei lavoratori, ma se vuoi trovarle devi andare nelle manifestazioni di lotta, non in Parlamento e nelle istituzioni. Ma ciò richiederebbe una riflessione a parte che esula da questo articolo). E’ stupido e ipocrita meravigliarsi a ogni elezione per la fuga fuori dalla sinistra del voto operaio. I lavoratori sono soli, il centrosinistra cerca consensi e voti nei ceti alti, nei centri storici e nei quartieri bene delle città, nei cda delle banche più che tra i bancari, in quella che una volta si chiamava borghesia. Fare sindacato senza avere sponde nella politica e nelle istituzioni, con il Pd che è il più convinto sostenitore della dittatura del mercato, è davvero dura.

 

C’era una volta l’internazionalismo

Di un altro elemento di difficoltà a fare sindacato scrivo solo il titolo, è il passaggio dall’internazionalismo proletario all’individualismo proprietario: la fine del bipolarismo con l’inevitabile e tardiva implosione del socialismo reale ha “semplificato” lo scenario mondiale e abbattuto icone e riferimenti. Ciò ha contribuito, in assenza di un progetto politico alternativo, cioè di un’altra idea di sinistra e del mondo, ad accelerare lo scatenarsi della guerra tra poveri, tra lavoratori del nord e quelli del sud e dell’est, tra uno stabilimento e l’altro. Insomma, la crisi della solidarietà è cresciuta di pari passo con le diseguaglianze. Consiglio a tutti una gita a Monfalcone, davanti ai cancelli della Fincantieri, per farsene un’idea. Il sindacato, nato con l’idea che i proletari di tutto il mondo dovessero unirsi, oggi più che in passato avrebbe bisogno come il pane di un’ottica internazionale, globale se preferite, che invece manca da tempo. Senza una strategia e un coordinamento globali si può far poco per ridimensionare la prepotenza delle multinazionali, si può salvare per un po’ una fabbrica magari a discapito di un’altra collocata in un’altra città o in un altro continente. Ma così non si fa molta strada.

A parità di prestazione parità di trattamento

Privati di ogni rappresentanza (e sponda) politica, i lavoratori rischiano di trovarsi soli di fronte all’arroganza del potere. Là dove non esiste neppure una rappresentanza sindacale, il passo è breve per arrivare alla cancellazione dell’insegnamento di Giuseppe Di Vittorio: mai più con il cappello in mano davanti al padrone. Allo svaporarsi della centralità del lavoro in sede politica e, ahimè, nell’immaginario collettivo, si accompagna la massiccia rivoluzione portata dal capitalismo nell’organizzazione del lavoro, nelle relazioni sociali, nella composizione della classe lavoratrice. La crescita esponenziale della logistica agevolata dalla pandemia, inoltre, sta scardinando il bagaglio dei diritti conquistati nel secolo breve, personalizzando il rapporto padrone-dipendente, e a occuparsi della mediazione non è certo il sindacato bensì il caporale. E non solo nella logistica ma anche nell’agricoltura, nell’edilizia, fino al cuore della produzione industriale dove le scelte politiche e dunque la legislazione hanno accompagnato e favorito la frammentazione del ciclo moltiplicando le diseguaglianze e scatenando il dumping sociale. Il vecchio adagio ‘a parità di prestazione parità di salario, orario, diritti’ è stato travolto dal sistema di appalti e subappalti e dalla possibilità concessa alle imprese di scegliere la forma contrattuale più conveniente grazie a un menù disponibile di decine di forme diverse. Spesso il sindacato è in grado di rappresentare e tutelare solo la parte alta del lavoro nella piramide in cui esso è stratificato. Ma fino a quando riuscirà a rappresentare, facciamo un esempio, i dipendenti diretti della Fincantieri? Cioè, fino a quando i lavoratori della Fincantieri riusciranno a difendere i propri diritti, sotto la grandine del dumping prodotto dal sistema degli appalti? Credo che non ci sia futuro, persino per un sindacato di classe come è ancora la Fiom, senza la capacità di andare a mettere mani e cuore nelle fasce più deboli del mondo lavoro, riconquistando proprio quell’idea che a parità di prestazione deve corrispondere parità di trattamento.

La solitudine del nuovo proletariato

La pandemia ha ulteriormente spinto verso un superamento dei corpi intermedi, detto in parole povere sta ulteriormente indebolendo il sindacato. Essendo mutato nel profondo l’impianto della produzione, della distribuzione e dei consumi anche il sistema legislativo andrebbe riscritto, e persino lo Statuto dei lavoratori – quel che ne resta dopo i colpi d’accetta degli ultimi anni – andrebbe aggiornato per includere e tutelare le nuove figure sociali, il nuovo proletariato. I sindacati confederali sono in grave ritardo nella conoscenza dei nuovi lavori; soltanto negli ultimi mesi la Cgil, che ha impiegato un paio d’anni per capire che quello dei rider è un lavoro a tutti gli effetti dipendente, ha messo a fuoco i ciclofattorini che solo grazie alla loro soggettività e le loro battaglie in bicicletta condotte in solitaria sono riusciti a imporsi all’attenzione di tutti. Nella logistica le prime lotte sono state portate avanti con il fragile appoggio dei sindacati di base e i confederali a fatica stanno cercando di mettere qualche radice tra i lavoratori. Quando un camionista travolse un facchino ai cancelli durante uno sciopero si scoprì che i camionisti sono (debolmente) rappresentati dalla Cgil e i facchini (debolmente) dai sindacati di base. Se si perde di vista il nemico vero si finisce in una guerra dei penultimi contro gli ultimi.

 

Il covid al lavoro

Tra le conseguenze più pesanti del covid sul lavoro c’è il suo uso ricattatorio da parte del sistema delle imprese: con la perdita di centinaia di migliaia di posti, tentano di imporre il peggioramento delle condizioni lavorative con annessa riduzione di salario, diritti, sicurezza e dunque dignità. Se vuoi lavorare, è la parola d’ordine, accetta le mie condizioni perché la ripresa in una competizione internazionale senza esclusione di colpi impone i suoi diktat e c’è la fila di persone disposte a prendere il tuo posto. Del milione e duecentomila posti cancellati nel primo anno di pandemia se ne sono recuperati cinquecentomila nel primo semestre del 2021, ma per la quasi totalità si tratta di lavori variamente precari, a termine e in somministrazione cioè in affitto. E parlano con altrettanta chiarezza i numeri dei morti sul lavoro che continuano a crescere paurosamente (più di mille nei primi 8 mesi dell’anno a cui si aggiungono quasi 200 tra medici e infermieri vittime del covid).

 

L’inadeguatezza del sindacato

Questo è il contesto, reso più aspro dalla debacle del sistema dei partiti che hanno commissariato a un banchiere un’Italia già cloroformizzata dal coronavirus. I sindacati sono usciti indeboliti dalla pandemia, dopo più di un anno di riunioni e assemblee da remoto: il distanziamento è un ostacolo al rapporto tra organizzazioni sindacali e lavoratori, cioè alla pratica dei valori fondanti dell’azione collettiva e della stessa democrazia. Sic stantibus rebus, non basta dire che il sindacato è fondamentale, che è uno dei pochi strumenti di autodifesa dei lavoratori. Bisogna chiedersi se il sindacato dato è all’altezza della sfida che ha di fronte. Detto che più che di sindacato bisogna parlare di sindacati, è difficile negare l’inadeguatezza delle organizzazioni dei lavoratori. Per tutte le ragioni oggettive sin qui enunciate o solo accennate (per prima la mancanza di una dimensione internazionale), ma anche per cause soggettive. Nel tempo i sindacati sono diventati una costola dello stato e, nei casi peggiori, dei governi. L’autonomia sindacale si è indebolita ed è cresciuta la burocratizzazione, quasi un’abitudine a vivere di rendita, trasformandosi da organizzazioni di lotta in strutture di servizio, caf e via dicendo. Era proprio obbligatorio tenere chiuse per un anno e mezzo le Camere del lavoro? Anche dentro la Cgil – taccio su Cisl e Uil, ma anche sul cosiddetto sindacato europeo, la Ces, per evitare querele – il corpaccione dei funzionari vede ogni cambiamento come un attentato allo status – e allo stipendio – acquisito. Anche così si spiegano le difficoltà incontrate da Maurizio Landini nel suo tentativo di rigenerazione o rifondazione che dir si voglia dell’organizzazione, riportandola in strada (il sindacato di strada è un buon esempio laddove viene sperimentato) e dentro i luoghi di lavoro. Ha sostanzialmente retto, invece, la struttura dei delegati, le Rsu che hanno, spesso in solitudine, tenuto vivo e costante il rapporto con i lavoratori.

La resistenza e il cambiamento

Che il sindacato serva lo dimostra l’esempio della Gkn: la Fiom ha lasciato liberi i suoi quadri di costituire un collettivo che insieme alle Rsu sta gestendo una difficile vertenza e ha intentato causa all’azienda per antisindacalità, vincendola. Certo, per vizi di forma, il modo (del licenziamento via mail) ancor m’offende. Ha consentito ai lavoratori di tirare una boccata d’ossigeno ma nella sostanza il problema resta immutato per l’acquiescenza della politica alle imprese e alla pratica delle multinazionali di chiudere stabilimenti per delocalizzare la produzione là dove di diritti ce ne sono ancora meno. Almeno, la Fiom si conferma un sindacato di resistenza, ne fa fede l’esperienza straordinaria degli operai napoletani della Whirlpool; non che non abbia un progetto sociale in testa, ma questo si impantana nelle stanze della politica e fatica ad avviare un percorso unitario con le altre categorie della sua stessa confederazione. Il nobile tentativo di costruire una coalizione con movimenti e forze sociali avviato qualche anno fa dall’unico sindacato che già a inizio secolo aveva scelto di stare con il movimento cosiddetto no-global, si è presto arenato, un po’ per la debolezza e la frammentazione degli interlocutori, un po’ per la diffidenza della Cgil e un po’ perché non basta mettere insieme le teste pensanti, i leader, per trascinare con sé tutto il resto. Le alleanze non possono che costruirsi dal basso. Come ai tempi della Flm e dei delegati di gruppo omogeneo, verrebbe da dire.

E forse proprio dal basso bisognerà ripartire per costruire un sindacato adeguato alle nuove sfide.

Loris Campetti è nato a Macerata nel 1948. Laureato in chimica, già nella seconda metà degli anni Settanta è passato al giornalismo. Al “manifesto” fino al 2012 ha ricoperto tutti i ruoli e si è occupato prevalentemente di lavoro e lotte operaie. Ha scritto molti libri di inchiesta e nel 2020 è stato pubblicato da Manni il suo primo romanzo, “L’arsenale di Svolte di Fiungo”.

Qatar, 12 mesi ai Mondiali di calcio. Ultimo anno senza progressi sui diritti dei lavoratori migranti

(Foto di Thameur Belghith, Wikimedia Commons)

 

Fonte : Pressenza.com 

 

Manca un anno all’inizio dei Mondiali di calcio: il tempo perché il Qatar mantenga gli impegni di abolire il sistema denominato “kafala” e di aumentare la protezione dei diritti dei lavoratori migranti sta scadendo.

Lo ha dichiarato oggi Amnesty International nel suo “Reality check 2021”, una nuova analisi della condizione del sistema del lavoro in Qatar. Dalla ricerca emerge come nell’ultimo anno non vi siano stati progressi e alcune vecchie prassi siano tornate in auge, con la riemersione di alcuni dei peggiori aspetti del sistema del “kafala” e la neutralizzazione delle recenti riforme.

Nonostante le riforme legislative adottate dal 2017, la realtà quotidiana per molti lavoratori migranti resta drammatica. Mentre, con l’approssimarsi dell’inizio dei Mondiali la situazione dei diritti umani in Qatar attira sempre maggiore attenzione, Amnesty International chiede alle autorità locali di prendere misure urgenti per ridare vita alle riforme prima che sia troppo tardi.

“Le lancette dell’orologio continuano ad andare avanti, ma non è ancora troppo tardi per tradurre le promesse in azioni concrete. Le autorità del Qatar devono attuare interamente il loro programma di riforme. Se non lo faranno, ogni progresso fatto finora sarà stato vano”, ha dichiarato Mark Dummett, direttore del programma Temi globali di Amnesty International. “L’atteggiamento compiacente delle autorità del Qatar sta lasciando migliaia di lavoratori migranti alla mercé dello sfruttamento da parte dei loro datori di lavoro: molti non sono in grado di cambiare impiego e rischiano di essere privati del salario. Hanno scarse possibilità di ottenere rimedi, risarcimenti e giustizia. E dopo i Mondiali, il futuro di chi resterà in Qatar sarà ancora più incerto”, ha aggiunto Dummett.

Nell’agosto 2020, il Qatar aveva adottato due leggi per porre termine ai limiti posti ai lavoratori migranti di lasciare il paese e cambiare impiego senza il permesso del datore di lavoro. La loro completa applicazione avrebbe colpito al cuore il sistema del “kafala”, che invece continua a vincolare i lavoratori ai datori di lavoro.

Pur non prevedendo ancora il diritto dei lavoratori di aderire a sindacati, il processo di riforme era iniziato già nel 2017, attraverso limitazioni all’orario di servizio per il lavoro domestico, la costituzione di tribunali del lavoro per favorire l’accesso alla giustizia, l’istituzione di un fondo per risarcire i salari non pagati, l’introduzione del salario minimo e la ratifica di due importanti trattati internazionali. La mancata attuazione delle riforme ha fatto sì che lo sfruttamento continuasse.

Sebbene il Qatar sulla carta abbia cancellato l’obbligo, per la maggior parte dei lavoratori migranti, di chiedere e ottenere il permesso di uscire dal paese e di cambiare lavoro attraverso un certificato di nulla-osta da parte dei datori di lavoro, questi ultimi riescono ancora a bloccare i trasferimenti dei lavoratori e a tenerli sotto controllo, chiedendo ad esempio somme esorbitanti – in alcuni casi, cinque volte superiori al salario mensile – per concedere il nulla-osta, che dunque di fatto, pur essendo stato abolito per legge, rimane in vigore.

Le organizzazioni che difendono i diritti dei lavoratori migranti e le ambasciate degli Stati d’origine in Qatar hanno rilevato che se non si è in possesso di qualche documento scritto da parte del datore di lavoro, le possibilità di cambiare lavoro diminuiscono. Questa situazione ha dato luogo a una sorta di commercio dei nulla-osta assai lucrativo per i datori di lavoro privi di scrupoli.

Tra le altre pratiche illegali che rendono difficile cambiare impiego si segnalano il trattenimento dei salari e dei bonus, l’annullamento del permesso di soggiorno e le denunce di “latitanza”. Nella sua analisi, Amnesty International ha anche rilevato che i ritardati o mancati pagamenti dei salari e dei bonus contrattuali rimangono una delle principali forme di sfruttamento subite dai lavoratori migranti in Qatar. A questa si aggiungono le difficoltà di accedere alla giustizia e il divieto di organizzarsi in sindacato per difendere i propri diritti.

Nell’agosto 2021 Amnesty International aveva denunciato la mancanza di indagini da parte delle autorità del Qatar sulle decine di migliaia di morti di lavoratori migranti, nonostante fossero emerse prove della relazione tra questi decessi e la mancanza di sicurezza sul lavoro. Nonostante l’introduzione di alcune misure di protezione, restano ancora grandi situazioni di rischio: ad esempio, non è previsto un periodo di riposo obbligatorio proporzionale alle condizioni climatiche o al tipo di lavoro.

“Il Qatar è uno degli stati più ricchi al mondo, ma la sua economia dipende da due milioni di lavoratori migranti. Ognuno di loro ha il diritto di essere trattato equamente e di ottenere giustizia e risarcimenti”, ha commentato Dummett. “Il Qatar potrebbe farci assistere a un torneo che tutti potremmo ricordare, se inviasse segnali chiari contro lo sfruttamento, se punisse i datori di lavoro che violano le leggi e se proteggesse i diritti dei lavoratori. Ma così ancora non è”, ha concluso Dummett.

Amnesty International si è rivolta anche alla Fifa, organizzatrice dei Mondiali di calcio del 2022, affinché adempia alle sue responsabilità di identificare, prevenire, mitigare e porre rimedio a rischi per i diritti umani collegati all’evento sportivo. Tra questi rischi vi sono quelli per i lavoratori dei settori dell’ospitalità e dei trasporti, in forte espansione in vista dell’inizio dei Mondiali. La Fifa deve chiedere in forma privata e pubblica al governo del Qatar di attuare il suo programma di riforme nel sistema del lavoro prima del calcio d’inizio dei Mondiali.

 

L’UNIVERSITÀ: UNA COMUNITÀ APERTA, CRITICA, ANTIFASCISTA

 

 

di Tomaso Montanari

Testo integrale della prolusione del Magnifico Rettore dell’Università per Stranieri di Pisa Prof. Tomaso Montanari [Fonte: Volerelaluna.it)

Autorità, colleghe e colleghi docenti e non docenti, studentesse e studenti, amiche e amici che oggi siete con noi, e caro Magnifico Rettore, caro professor Cataldi – caro Pietro. La prima cosa che voglio dire prima di varcare la soglia che oggi mi porta a continuare il tuo lavoro; la prima cosa che voglio dire, parlando a nome della nostra collettività, è: grazie, Pietro! Grazie per la misura, la grazia, l’equilibrio, la dedizione, la determinazione, e vorrei dire l’amore con cui ti sei preso cura di questa comunità, nella buona e nella cattiva sorte. Grazie per la prosperità, la crescita, l’autorevolezza che hai saputo garantire alla Stranieri. Grazie per la guida sicura nel buio della pandemia. Grazie soprattutto per una cosa, che mi colpì fin dal primo momento che ci conoscemmo: grazie perché non ti sei mai vergognato della tua umanità. Ricordo che pensai che se un rettore di una università italiana era ancora visibilmente un essere umano, allora forse c’era qualche speranza. Da allora ho imparato a conoscerti, e negli ultimi mesi sei stato per me non solo un mentore incredibilmente paziente e uno straordinario didatta, ma anche un amico vero. E, lo sai, da domani ti troverai ad avere ancora più pazienza. E questo grazie, pubblico e solenne, è anche per tutto quello che ancora ti chiederò. Hai chiuso il tuo discorso ricordandoci che «il nostro lavoro è tenere insieme lo spazio definito di questa città tanto identitaria e le quinte sconfinate del mondo, il nostro lavoro – hai detto – è la fatica e la felicità dell’attraversamento». Il nostro lavoro. Fermiamoci su queste due cose: noi, la nostra comunità accademica; e il lavoro che facciamo. Il mio impegno per i prossimi sei anni è che continuiamo ad essere, e diventiamo ancor più, un noi. «Salvarsi da soli è avarizia, salvarsi insieme è politica», diceva don Lorenzo Milani (e lo ripeterà tra poco il ministro Roberto Speranza, che ringrazio per aver voluto essere, virtualmente, con noi): e la nostra politica è quella di pensare non come una somma di egoismi, ma come una comunità. Ho provato a spiegare, nel programma di mandato, cosa questo vuol dire, in concreto e a partire dal ruolo del rettore. Primo. Un governo plurale e paritario, di prorettrici e prorettori, delegate e delegati. Perché l’unico modo di far sì che il potere diventi servizio, non solo nella retorica, è suddividerlo, assumerlo insieme, renderlo largo, trasparente, responsabile. Secondo. Una comunità di eguali fondata sulle diversità. Il che vuol dire: comportarsi ogni volta che sia possibile, e tendenzialmente sempre, come se esistesse un ruolo unico della docenza (e lottare perché esista presto), e abolire ogni odioso segno di gerarchia tra docenti, non docenti e studenti. Siamo persone: rimaniamo persone! E vuol dire anche abbandonare, progressivamente e sostenibilmente, ogni forma di precarietà, cioè di sfruttamento. Tra i docenti, tra i non docenti, tra le persone che assicurano ogni giorno la pulizia e l’accessibilità degli edifici in cui si svolge la nostra vita. E riconoscere, valorizzare, celebrare (in parole e opere) le diversità: quelle dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, quelle delle lingue e delle culture, quelle delle età e dei talenti. Perché «siamo differenti, inteso “differenza” nel senso di diversità delle identità personali» e perché «siamo disuguali, inteso “disuguaglianza” nel senso di diversità nelle condizioni di vita materiali». E l’eguaglianza – questo il punto centrale – si deve realizzare «a tutela delle differenze e in opposizione alle disuguaglianze». Siamo una comunità dalla parte dei più deboli. Delle donne, di chi è o si sente diverso, di chi è povero culturalmente e materialmente, di chi è marginale e periferico. Siamo una comunità antifascista. Ha un prezzo questo? Sì, lo ha. Nelle scorse settimane, per aver espresso un punto di vista culturale, per aver ammonito sulle conseguenze della manipolazione politica della storia, per aver denunciato la strumentalizzazione politica delle vittime delle Foibe, ho dovuto subire un accanito linciaggio mediatico. E voi con me: e ve ne domando scusa. Penso, tuttavia, che ne valga la pena. Nel programma di mandato mi sono impegnato a dedicare dodici aule ai soli dodici professori universitari che non giurarono fedeltà al fascismo, nel 1931: ho capito a mie spese quanto quell’idea fosse attuale. Se guardiamo a quella generazione, la resistenza che ci è richiesta, è ben poca cosa: non farla – per convenienza, viltà, malinteso amore di pace – sarebbe una vergogna imperdonabile. Del resto, da storico dell’arte credo profondamente nella forza dei luoghi, nelle storie e nei destini che nei nomi dei luoghi sono iscritti. Ebbene, la vita della nostra piccola università si muove tra due poli principali: “Rosselli” (questo plesso) e “Amendola” (il rettorato). Il nostro “noi” è piantato nel cuore della toponomastica antifascista: quelle vite, quegli ideali, quelle voci ci accolgono e vegliano su di noi. Carlo Rosselli, a cui è intitolato il piazzale che tutti abbiamo appena attraversato arrivando qua, è una figura altissima di professore, di intellettuale, di antifascista – di martire dell’antifascismo, ucciso insieme a suo fratello Nello in Francia nel 1937, per ordine di Mussolini. Tra le tante pagine che, negli articoli di Carlo Rosselli, sembrano scritte per noi ce n’è una (del 1934) che spiega a fondo cosa significhi essere antifascisti oggi (nel 2021), e cosa significhi esserlo da umanisti, e in una università per Stranieri: «Siamo antifascisti non tanto e non solo perché siamo contro quel complesso di fenomeni che chiamiamo fascismo; ma perché siamo per qualche cosa che il fascismo nega ed offende, e violentemente impedisce di conseguire. Siamo antifascisti perché in questa epoca di feroce oppressione di classe e di oscuramento dei valori umani, ci ostiniamo a volere una società libera e giusta, una società umana che distrugga le divisioni di classe e di razza e metta la ricchezza, accentrata nelle mani di pochi, al servizio di tutti. Siamo antifascisti perché nell’uomo riconosciamo il valore supremo, la ragione e la misura di tutte le cose, e non tolleriamo che lo si umilii a strumento di Stati, di Chiese, di Sette, fosse pure allo scopo di farlo un giorno più ricco e felice. Siamo antifascisti perché la nostra patria non si misura a frontiere e cannoni, ma coincide col nostro mondo morale e con la patria di tutti gli uomini liberi». La nostra patria è il mondo, e la nostra piccola comunità si autodetermina declinando questi valori altissimi nella gioia e nella fatica del lavoro di ogni giorno. Nel Senato accademico (che si riunirà, nella sua nuova composizione, già il prossimo 19), nel Consiglio di Amministrazione, nel Consiglio di Dipartimento decideremo insieme come attuare tutte queste cose, esposte in dettaglio nel Programma di mandato e nel discorso con cui, l’8 giugno scorso, ho chiesto la vostra fiducia. Ma, in questo giorno fausto, abbiamo qua molti ospiti e amici, e dunque nei prossimi minuti non vorrei parlare ancora di noi, bensì del nostro lavoro, continuando a riflettere sulle ultime parole del discorso di Pietro. Qual è, dunque, questo nostro lavoro? È lo stesso della scuola: perché l’università, non 3 mi stancherò di ripeterlo, è parte della scuola – è scuola. E quel lavoro è formare cittadini, e prima ancora persone: persone umane. Tutta l’università esiste per formare umani, anche Legge o Ingegneria non sfornano solo avvocati o ingegneri, ma formano o non formano esseri umani. Noi, poi, come umanisti siamo capaci solo di fare quello: se non lo facciamo più, siamo come il sale quando perde il suo sapore. Ma non possiamo farlo, questo lavoro, se non siamo umani noi stessi. Un singolare paradosso – confessiamocelo. Se passiamo la vita a studiare humanities, e non riusciamo a diventare un poco umani, a cosa davvero abbiamo dedicato la vita? Per questo non si può separare ricerca e didattica, studio e insegnamento, biblioteca e aula: perché se ci separiamo dalla sorgente, siamo fontane aride. E per questo il governo dell’università, la sua organizzazione, non può mai diventare impersonale, spersonalizzata, astratta, burocratica. Non è un’azienda, non si ciba di numeri. Siamo una comunità di persone, in cui le persone vengono prima di ogni altra cosa. Siamo come l’orco della favola a cui Marc Bloch paragona lo storico: «Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda». Solo che non vogliamo mangiarla, la nostra preda: la vogliamo far vivere più intensamente. Più umanamente. La prima cosa che dunque abita le nostre aule è il dubbio, il pensiero critico, la contestazione di ogni dogma, di ogni autorità – a partire dalla nostra. A partire da quella del rettore. La nostra deve essere un’università ribollente di letture tendenziose. È il titolo delle «parole dette [da Franco Antonicelli] per l’inaugurazione della Biblioteca dei portuali di Livorno», il 15 ottobre del 1967. Già, perché gli scaricatori di porto avevano voluto una loro biblioteca: strumento di riscatto e di liberazione. E Antonicelli, questo intellettuale singolarissimo e libero, quel giorno memorabile consigliò loro ciò che oggi vorrei consigliare alle studentesse e agli studenti della Stranieri: «Cercate sempre i libri che vi tormentano, cioè che vi conducono avanti, i libri che vi gettano lo scrupolo di coscienza: questi sono i libri, i libri non di fede accertata, ma di fede incerta. Questi sono i libri che un cittadino, un portuale che diventa, che è, che vuol essere più cittadino deve leggere». Dobbiamo costantemente ricordare che la nostra ispirazione è questa fede incerta, piena di dubbi. Consapevole che abbiamo scelto questa vita e questa via, non perché pensiamo di sapere molto. Al contrario, l’abbiamo scelta perché sappiamo di non sapere. Ha detto la poetessa polacca Wislawa Szymborska, nel discorso di accettazione del Premio Nobel, nel 1996: Ispirazione non è un privilegio esclusivo dei poeti o degli artisti in genere. C’è, c’è stato e sempre ci sarà un gruppo di individui visitati dall’ispirazione. Sono tutti quelli che coscientemente si scelgono un lavoro e lo svolgono con passione e fantasia. Ci sono medici siffatti, ci sono pedagoghi siffatti, ci sono giardinieri siffatti e ancora un centinaio di altre professioni. Il loro lavoro può costituire un’incessante avventura, se solo sanno scorgere in esso sfide sempre nuove. Malgrado le difficoltà e le sconfitte, la loro curiosità non viene meno. Da ogni nuovo problema risolto scaturisce per loro un profluvio di nuovi interrogativi. L’ispirazione, qualunque cosa sia, nasce da un incessante “non so” … A questo punto possono sorgere dei dubbi in chi mi ascolta. Allora anche carnefici, dittatori, fanatici, demagoghi in lotta per il potere con l’aiuto di qualche slogan, purché gridato forte, amano il proprio lavoro e lo svolgono altresì con zelante inventiva. D’accordo, loro “sanno”. Sanno, e ciò che sanno gli basta una volta per tutte. Non provano curiosità per nient’altro, perché ciò potrebbe indebolire la forza dei loro argomenti. E ogni sapere da cui non scaturiscono nuove domande, diventa in breve morto, perde la temperatura che favorisce la vita. Nei casi più estremi, come ben ci insegna la storia antica e contemporanea, può addirittura essere un pericolo mortale per la società. Per questo apprezzo tanto due piccole paroline: “non so”. Piccole, ma alate. Parole che estendono la nostra vita in territori che si trovano in noi stessi e in territori in cui è sospesa la nostra minuta Terra. Se Isaak Newton non si fosse detto “non so”, le mele nel giardino sarebbero potute cadere davanti ai suoi occhi come grandine e lui, nel migliore dei casi, si sarebbe chinato a raccoglierle, mangiandole con gusto. Se la mia connazionale Maria Sklodowska Curie non si fosse detta “non so”, sarebbe sicuramente diventata insegnante di chimica per un convitto di signorine di buona famiglia, e avrebbe trascorso la vita svolgendo questa attività, peraltro onesta. Ma si ripeteva “non so” e proprio queste parole la condussero, e per due volte, a Stoccolma, dove vengono insignite del premio Nobel le persone di animo inquieto ed eternamente alla ricerca. È per proclamare questo «non so», è per questa fede incerta, vedete, che ho preferito non indossare la toga: e chiedo scusa se questo gesto può aver offeso qualcuno. Perché tra quei libri di fede incerta ne ho letti due (i Pensieri di Blaise Pascal e le Tre Ghinee di Virginia Woolf) che mettono in guardia dal rischio di trovare troppo certezze nelle vesti liturgiche dei poteri maschili. Il primo ha scritto che se «i magistrati possedessero la vera giustizia non saprebbero che farsene di quelle loro toghe rosse, dei loro ermellini, di cui s’ammantano come gatti villosi […] se i medici sapessero la vera arte per guarire, non avrebbero palandrane e pantofole, e berrette a quattro pizzi». E Virginia suggeriva che le coloratissime toghe delle università inglesi servissero a suscitare «competitività e invidia». Un recente, luminoso discorso delle allieve e degli allievi della Scuola Normale Superiore di Pisa, mia amata alma mater, ci ha di recente ricordato quanto questi sentimenti siano attivi, e distruttivi, nell’università prigioniera del mito dell’eccellenza. Dunque, non rifugiamoci nelle insegne che proclamano al mondo che siamo quelli che sanno. Preferiamo l’umiltà – cioè l’amorevole, francescana vicinanza alla terra – di chi sceglie come sua insegna il «non so». Agli abiti, ai gesti, ai riti, ai pensieri che disegnano l’università come un clero separato dal mondo, preferiamo tutto ciò che ci restituisce al mondo, e al nostro lavoro per cambiarlo. Per questo accogliamo con gioia e gratitudine le bandiere delle diciassette contrade, il gonfalone della Regione Toscana e quello della Provincia: perché l’università si sente parte di una comunità civile, della sua storia, 4 del suo desiderio di futuro. Siamo profondamente legati all’amatissima città di Siena, e alle sue istituzioni: qua oggi tra noi rappresentate dalla Balzana, il gonfalone civico che salutiamo con deferenza e con affetto. E desidero inviare il saluto più rispettoso e amichevole al Sindaco di Siena, che ha scelto di non essere presente tra noi. Abitare il mondo significa – ce lo insegnano le nostre studentesse e i nostri studenti – aver voglia di cambiarlo dalle fondamenta. E la lezione inaugurale, che tra poco ascolteremo, serve a non lasciare dubbi sulla direzione in cui vogliamo cambiarlo, il mondo. Pietro ed io abbiamo chiesto a Cecilia Strada di aprire questo anno accademico, perché ci pare che Resq, «la nave degli italiani» che solca il Mediterraneo per salvare «esseri umani, leggi e diritti», della quale Cecilia è portavoce, sia tra le luci accese nell’eterna notte della Repubblica. Italiani che accolgono stranieri: e che per accoglierli li strappano al mare, perché non siano riconsegnati alle carceri libiche – a torture pagate con i soldi delle nostre tasse. Resq salva la nostra stessa identità: «Profugo … povero, ignoto, io vago fra i luoghi deserti di Libia / dall’Europa … respinto»1 : sono parole del primo canto dell’Eneide, a parlare è Enea. «Profugo … povero, ignoto, io vago fra i luoghi deserti di Libia / dall’Europa … respinto»: se questo è il mito fondativo di Roma, come potremmo essere più fedeli alla traditio, al passaggio di mano della cultura, se non con la presenza, la testimonianza, la parola di Cecilia Strada? Siamo stranieri in Italia: da sempre meticci, fusi, diversi, sangue misto, bastardi. Questa la nostra storia: questo il nostro progetto per il futuro. Questo, in una università in cui si impara a diventare stranieri, è davvero il nostro lavoro di ogni giorno. La nave Resq dice di sé, lo abbiamo sentito, che salva non solo i corpi, ma anche le leggi. Già, le leggi. Oggi vorrei ricordare che costruendo le basi culturali per aprirci agli stranieri, la nostra università è dalla parte della legge, dell’ordine. È bene ricordarlo, in un’Italia in cui legge e ordine sembrano essere diventate bandiere di chi i migranti li sequestra sulle navi, o li vorrebbe affondare sui barconi. Nadia Fusini – che oggi ci onora della sua presenza – mi ha regalato l’ancora inedita traduzione di un brano del Thomas More, questo dramma scritto nell’Inghilterra del primo Seicento da un collettivo di autori, uno dei quali fu nientemeno che William Shakespeare. E proprio in uno dei brani così evidentemente suoi, leggiamo parole che sembrano scritte per oggi. Tomaso Moro, cancelliere del regno, è chiamato a sedare il tumulto del popolo che vorrebbe cacciare gli stranieri che rubano il lavoro agli inglesi. Così si rivolge loro: Diciamo che sono espulsi, e diciamo che questa vostra protesta.

Giunga a ledere la maestosa dignità dell’Inghilterra. Immaginate di vedere gli stranieri disgraziati, Coi bambini sulle spalle, i loro miseri bagagli, Arrancare verso i porti e le coste per imbarcarsi, E voi assisi in trono, padroni ora dei vostri desideri, L’autorità soffocata dalle vostre risse, Voi, agghindati delle vostre opinioni, Che avrete ottenuto? Ve lo dico io: avrete insegnato A far prevalere l’insolenza e il pugno forte, E come si annienta l’ordine. Ma secondo questo schema Nessuno di voi arriverà alla vecchiaia: Ché altri furfanti, in balìa delle loro fantasie, Con quello stesso pugno, con le stesse ragioni, e lo stesso diritto, Come squali vi attaccheranno, e gli uomini, pesci famelici, Si ciberanno gli uni degli altri. […] Volete calpestare gli stranieri, Ucciderli, sgozzarli, impadronirvi delle loro case, Mettere il guinzaglio alla maestà della legge Per aizzarla poi come un cagnaccio. Ahimè! Diciamo che il Re, Clemente col traditore pentito, rispondesse In modo non commisurato alla vostra grande colpa, Mettendovi al bando: dove ve ne andrete? Quale paese, vista la natura del vostro errore, Vi darà asilo? Che andiate in Francia o Nelle Fiandre, in qualsiasi provincia germanica, In Spagna o in Portogallo, In qualunque luogo che non sia amico dell’Inghilterra: Ebbene, lì sareste per forza stranieri. Vi piacerebbe forse Trovare una nazione di temperamento così barbaro Che scatenandosi con violenza inaudita, Vi negasse rifugio sulla terra, anzi Affilasse detestabili coltelli per le vostre gole, Scacciandovi come cani, come se non fosse Dio 1 «Ipse ignotus, egens, Libyae deserta peragro, / Europa atque Asia pulsus (VIRGILIO, Eneide, I, 385-86). 5 Che v’ha fatto e creato, come se gli elementi naturali Non servissero anche ai vostri bisogni Ma dovessero essere riservati a loro? Cosa pensereste Di un simile trattamento? Questo è il caso degli stranieri, Questa la vostra montagnosa disumanità. Chi caccia lo straniero, chi lo perseguita, chi lo insulta distrugge la legge e l’unico ordine possibile, quello umano. Le parole di Shakespeare sono ancora più vere nell’Italia di oggi, retta da una legge fondamentale, la Costituzione del 1948, che fa del nostro comune essere persone umane il fondamento stesso di ogni legge. E, come vedete, dallo studio della storia e delle lingue, dalla filologia, dalla traduzione estraiamo continuamente, come da un tesoro, cose nuove e cose antiche. Ecco, dunque, il nostro lavoro: tenere in tensione queste cose. L’antico e il nuovo, il passato e il presente: quella tradizione umanistica che ancora può renderci umani. «La nostra patria – ci ha ricordato Carlo Rosselli – non si misura a frontiere e cannoni, ma coincide col nostro mondo morale e con la patria di tutti gli uomini liberi». È un forte, fortissimo invito alla presenza. Ad essere presenti, contro ogni forma di indifferentismo. Oggi siamo felici anche perché finalmente possiamo essere qua in presenza – pur conservando, come è doveroso, distanziamenti, mascherine, porte aperte e prudenza. Il nostro impegno è che questa presenza fisica sia segno e annuncio di una presenza morale, culturale, umana dell’Università per Stranieri: nella città di Siena, in Italia e in un mondo che, anche per noi, coincide con la patria di tutte le donne e di tutti gli uomini liberi. Buon lavoro a tutte, e a tutti! .  Buona festa di tutti i Santi e di tutte le Sante del cielo e della terra, sperando di non smarrire mai la dimensione senza confini della «santità» che non è collo storto e mani giunte in un misticismo di maniera, ma vivere con la consapevolezza di essere non «più stranieri né ospiti, ma concittadini [syn-polîtai] dei santi e familiari di Dio» (Ef 2,19). Essi proprio perché hanno lo sguardo volto al cielo, hanno la loro «pòlis» nel mondo intero, come insegna lo scritto anonimo del I-II sec. a noi giunto come «Lettera a Diogneto»: «I cristiani … abitano nella propria patria, ma come pellegrini; partecipano alla vita pubblica come cittadini, ma da tutto sono staccati come stranieri … Obbediscono alle leggi vigenti, ma con la loro vita superano le leggi … Così eccelso è il posto loro assegnato da Dio, e non è lecito disertarlo!»2 Essere santi e sante è molto facile: basta imitare il Signore Gesù. Il resto è superfluo.

Mario Agostinelli: La necessaria transizione energetica e come realizzarla. Incontro con Mimmo Perrotta e Marino Ruzzenenti

Fonte: Inchiestaonline 

 

Energia e vita

Per cominciare, è necessario spiegare perché di questi tempi è così importante riflettere sull’energia. L’energia è una proprietà che consente a un corpo o a un sistema che la possiede di fare lavoro o di dar luogo a trasformazioni energetiche a spese delle sue caratteristiche di partenza. Quando si dispone di maggiori potenze, il lavoro o la trasformazione avvengono a maggiori rapidità. È questa una delle ragioni per cui si è concentrata sulla potenza l’applicazione prevalente e sempre più devastante dell’energia alla trasformazione della natura inerte e soltanto da poco più di un secolo la scienza tratta con sempre maggior preoccupazione del rapporto tra energia e vita, tenendo conto che i cicli naturali si riproducono raggiungendo condizioni di stabilità ed equilibrio con la minore dispersione di energia. Più ancora che di un oggetto di difficile definizione, si tratta di una lente formidabile attraverso cui si può leggere il mondo – dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande – e capire come tutto sia interconnesso in forma di scambi, di relazioni, che ordinano il vivente mentre “disordinano” l’ambiente in cui sopravvive.

Dalla rivoluzione scientifica del 1600 avevamo tratto la capacità di mettere in relazione quantitativa le grandezze fisiche presenti nel nostro universo, stabilendo leggi matematiche che ritenevamo immutabili e che trasformavano la materia a velocità sempre più elevata, nella presunzione che le risorse cui si applicava il lavoro e l’energia che ottenevamo con la combustione del carbone fossero illimitate. Si profilava e attuava un mondo artificiale sempre più complesso, che circondava le città, le fabbriche, delimitava le campagne e inquinava i fiumi, concentrando sulla produzione e il commercio di manufatti la crescita e la ricchezza delle economie e delle nazioni. È il mondo che Engels scopre nella sua valle di Wuppertal, ormai costipata di manifatture avvolte da nuvole pestifere. Ma è proprio dalla seconda metà dell’800 che nascono i primi studi sistematici e i nuovi modelli per interpretare la vita come fenomeno e valore distinto, irripetibile e fragile, che andava trattato come un insieme e non semplicemente come un “ente” scomponibile o smontabile in parti complementari, giacché il tutto era superiore alla pura somma dei costituenti. L’entrata in campo della vita e delle sue relazioni indissolubili con la natura finì col togliere alle leggi fisiche newtoniane, deterministe, indipendenti dal tempo e dal contesto in cui si applicavano, il primato nel disegnare il nostro futuro e addirittura di stabilire la gerarchia che presiedeva alla politica, consegnando a un approccio interdisciplinare e non più solo specialistico la preoccupazione per la cura, per il benessere, per una giusta sopravvivenza dell’intera biosfera.

Credo che la lettura più straordinaria che sia stata data negli ultimi anni sul rapporto tra energia e vivente sia quella articolata con suggestioni penetranti nella enciclica Laudato Si’. Con essa Francesco ha prodotto una cesura con la concezione meccanicistica e determinista dell’energia ed ha contribuito a spostare il centro della discussione dall’antropocentrismo e dalla geopolitica alla cura della Terra come complesso coerentemente inscindibile. Per la prima volta un religioso – non soltanto cattolico, ma, probabilmente, unico nelle religioni – fa marciare insieme la scienza più avanzata e la religione e non le mette in rapporto gerarchico e nemmeno dialettico tra di loro. Si tratta di una lettura della realtà che ci circonda, che io non mi sarei aspettato, soprattutto da un’esegesi religiosa, anche perché interiorizza un’idea di un tempo che va immancabilmente e colpevolmente a finire, in cui il disordine provocato dall’ultima specie comparsa sul Pianeta può diventare talmente insopprimibile da mettere in discussione la riproduzione della vita. Molta ecologia già percorreva una strada parallela, ma la diffusione del negazionismo climatico non aveva ancora incontrato un pensiero che – come afferma Peter Kammerer – “ha preso le ali”.

Un altro aspetto da prendere in considerazione nella relazione tra energia e vita è quello della giustizia sociale. Sembrerebbero nozioni assai distanti, ma basta per collegarli dare una definizione all’ordine e al disordine che si crea intorno alla vita: “entropia”. Essa è la misura del grado di ordine e di informazione che si può trarre da un corpo; in natura, fatta di tanti corpi isolati nel loroambiente, l’entropia di [vivente + ambiente] tende irreversibilmente a crescere. Poiché gli esseri viventi sono dotati di un “progetto interno” che mantiene il loro ordine il più elevato possibile, prelevano energia dall’ambiente, creando in tal modo una quantità di scarti, sprechi, rifiuti che fanno crescere il degrado e il disordine complessivo. “Ogni vivente – dice Bertand Russell – è a suo modo un imperialista che cerca di appropriarsi dell’ambiente circostante”. A meno che prevalga una cooperazione, che nel mondo animale e vegetale è assai presente e che la specie umana affronta o rifiuta dandosi regole politiche e sociali. Consumare troppa energia o troppi alimenti o troppi oggetti, e lasciarne privi altri esseri, corrisponde a ridurre potenzialità di vita in base a scelte che prevedono ingiustizia sociale, come accade nel sistema capitalista, che, oltrepassando i limiti naturali, è all’origine anche dell’ingiustizia climatica.

Da solo poco più di cinquanta anni abbiamo consapevolezza di un rapporto tra energia e vita così inquietante quando se ne infrangono i limiti, per due ragioni importanti, che purtroppo non vengono ancora insegnate nelle scuole (non le hanno insegnate neanche a me, che sono un chimico-fisico): la prima riguarda le eccessive potenze (velocità trasformative) con cui si è messa al lavoro da secoli l’energia fossile; la seconda corrisponde alla sottovalutazione dell’innalzamento della temperatura della Terra, che è indice di una crescita della sua energia interna oltre l’equilibrio.

La prima consapevolezza emerge solo negli anni ’60: prima di allora, si pensava all’energia come un magazzino infinito da cui potessimo trarre infinite risorse, impiegate nella trasformazione della natura in mondo artificiale. Solo dopo la metà del Novecento i primi attenti osservatori si accorgono che la natura si consuma e che alcune materie non sono recuperabili in cicli utili, ma vanno scartate e non c’è energia conveniente per rinnovarle. Nel 1972, il Club di Roma individuò nell’uso esasperato di materie prime la possibile fine della presenza umana sulla terra. E quindi spinse per un atteggiamento sobrio rispetto in particolare ai consumi di materia. L’energia fossile con i suoi effetti climalteranti era presa in considerazione solo per la sua esauribilità.

La seconda consapevolezza si è fatta strada quando si è estesa la convinzione che la finestra energetica in cui avvengono processi di vita “salubri” è entro i limiti di due-tre gradi al massimo. E la climatologia cominciò ad avvertire, con milioni di dati alla mano raccolti giorno dopo giorno e ad ogni latitudine e longitudine, che se la temperatura media dovesse aumentare oltre 2°C, le catastrofi sarebbero superiori alle disponibilità di prevenirle e l’estinzione della specie avrebbe un orizzonte temporale di poche generazioni. Non era possibile fino ai primi decenni del Novecento, con la relatività e la quantistica ormai affermate, individuare i meccanismi microscopici che spiegano gli scambi di energia tra raggi solari e Terra, per cui si comprende che l’esistenza della vita dipende da un fatto eccezionale: che questo pianeta è circondato da un insieme minuto e differenziato di particelle che vengono colpite dalla radiazione, che con un meccanismo quantistico ne spezza le molecole oppure, nel caso della CO2 o del metano, induce vibrazioni che trasmettono movimento alle altre molecole che stanno attorno e quindi producono calore. E si comprende, infine, che se questi meccanismi microscopici producono disordine irrecuperabile la vita stessa potrebbe estinguersi. Ad esempio, basta un eccesso di CO2 perché le piante non respirino come prima. Si è cominciato quindi a parlare di bilancio di flussi energetici in atmosfera, di assorbimenti negli oceani, di permeabilità dei suoli, di assorbimento delle foreste. Da questo punto di vista è stato decisivo l’osservatorio di Mauna Loa, alle Hawaii, che dalla fine degli anni ’50 misura costantemente la CO2 nell’atmosfera e la temperatura sulla terra.

Queste due consapevolezze sono molto recenti, storicamente datate e fortemente negate dagli interessi del mondo dell’impresa e delle grandi multinazionali, assecondate da gran parte dei governanti.

 

La transizione ineludibile

Oggi a livello globale tra le fonti di energia prevale ancora nettamente la quota di fossile: ancora molto carbone e, relativamente in crescita rispetto al carbone, petrolio in forma di benzina e diesel per la mobilità e gas per le forniture elettriche. Il futuro è però sicuramente un futuro di azzeramento delle quote fossili, anche se questa prospettiva sarà frutto di aspri conflitti e di resistenza alle pressioni lobbistiche delle multinazionali attivissime in tutte le sedi internazionali (come l’attività di Eni e Snam a Bruxelles e all’interno del governo italiano denunciate da Re:Common). Sono necessari una serie di accordi internazionali, dopo quello insufficiente di Parigi 2015, con il rispetto dei quali il mix energetico si deve drasticamente spostare dal carbonio per provenire esclusivamente da fonte solare in costante equilibrio con il pianeta terra. Questa è la indicazione “da scolpire sulla pietra” assieme ad una riduzione dei consumi energetici pro capite, allineata in ogni regione del globo.

Le fonti fossili sono il lavoro fatto per milioni di anni dal sole e conservato all’interno della crosta terrestre o dei mari in forma altamente condensata, quindi con densità energetica (potere calorifico) rilevante. I giacimenti fossili sono il frutto del sequestro sottoterra o nelle rocce o nei mari – e comunque non in atmosfera – di notevoli quantità di anidride carbonica che, senza processi di equilibrio tra aria, rocce, mari e vegetazione, avrebbero reso la vita impossibile. Man mano che questi stati di carbonio in forma di complessi, cioè carbone, gas, petrolio, sono stati sequestrati e sottratti all’atmosfera attraverso processi geologici, è diminuita la quantità di CO2 che sopravviveva in parti per milione nell’aria, fino a raggiungere un equilibrio attorno a 300 parti per milione, che ha consentito la transizione decisiva verso l’evoluzione, in quanto permetteva all’assorbimento di CO2 da parte delle piante l’emissione di ossigeno e, di conseguenza, l’alimentazione della vita attraverso la respirazione. La presenza di una concentrazione di CO2 sostanzialmente costante ha dato origine all’effetto serra, dovuto a una riflessione in atmosfera della radiazione infrarossa, che ha consentito che la temperatura media del pianeta raggiungesse 15°C, da -18°C in assenza di effetto serra. Ora, però, man mano che emettiamo CO2 in eccesso – siamo nel 2021 a oltre 415 parti per milione – rischiamo di far crescere a tal punto l’effetto serra da avere una temperatura media sul pianeta che non è più completamente compatibile con la riproduzione della vita, a cominciare dai tropici e dai poli.

Si capisce perché occorra tenere sotto terra due terzi di tutto il materiale denso di energia che proviene dal carbonio fossile, sotterrato geologicamente in una successione di miliardi di anni e che la combustione potrebbe invece liberare all’istante. Per questo è indispensabile lo spostamento verso fonti di energia come acqua, vento, sole e in misura meno rilevante geotermia, che non liberano anidride carbonica. L’attenzione così si sposta dal modello di consumo al modello di produzione: non più consumo rapido di energia – non più combustione! un evento che in natura esiste solo come incidente – ma equilibri naturali e ciclo solare secondo tempi biologici di smaltimento delle scorie.

Un secondo fattore che indica l’ineluttabilità dell’abbandono dei fossili sono i costi, che aumentano costantemente rispetto a quelli delle fonti rinnovabili, che oggi sono più convenienti anche considerate nell’intero ciclo di vita. Certo, dal punto di vista dei costi le fonti fossili hanno – ma potremmo dire avevano – un vantaggio rispetto alle rinnovabili: possono essere trasportate e bruciate anche per un intero anno, mentre le rinnovabili sono intermittenti: dipendono dall’esposizione al sole (quindi solo durante le ore del giorno) o al vento (che tira bene per tre quarti dell’anno nel Baltico, per metà dell’anno nel Mediterraneo…). Questo fino a cinque anni fa faceva pendere la bilancia dei costi verso i fossili. Oggi c’è una novità, che è vista come una soluzione decisiva anche in prospettiva: la possibilità che, attraverso l’idrolisi, l’energia elettrica prodotta in eccesso e non consumata (quando magari c’è vento troppo forte o c’è un sole troppo battente o magari di notte quando l’idroelettrico viene usato come pompaggio) venga invece trasformata in idrogeno, che può essere trasportato o di nuovo riconvertito in energia elettrica. Potremmo dire che una soluzione alla sostituzione definitiva dei fossili è già alla portata anche economica: rinnovabili, in particolare eolico, e accanto a esse un sistema di approvvigionamento che possa essere poi ridistribuito e utilizzato nei momenti in cui non c’è dispacciamento diretto di energia elettrica (idrogeno, pompaggi, batterie).

L’UE in questo Next Generation Plan ha puntato quasi tutto in una direzione di questo tipo.

 

Energia e democrazia

Dal punto di vista delle politiche energetiche, questo spostamento verso le fonti rinnovabili è il colpo più duro che potesse subire la geopolitica mondiale, almeno per come l’abbiamo ereditata dalle due guerre mondiali. Mentre le fonti fossili sono ad alta densità e concentrate anche localmente, le energie rinnovabili sono dappertutto: in un deserto c’è molto sole ma non c’è l’acqua, in un fondovalle c’è molto vento e c’è poco sole, in cima ad un ghiacciaio c’è sia sole che vento che acqua condensata. Insomma, le fonti rinnovabili sono largamente disponibili, sebbene in misure e proporzioni diverse, in quasi tutte le parti del pianeta. Questo è il colpo più duro che potessero subire le corporation minerarie e le multinazionali energetiche che avevano dislocato in spazi territoriali circoscritti le loro licenze e proprietà di derivazione sostanzialmente coloniale, visto che ormai il petrolio o il gas si andavano a cercare con strutture e impianti imponenti perfino tra i ghiacci o in fondo al mare, con costi crescenti e sistemi di trasporto smisurati.

A fronte del loro declino, oggi è in corso una duplice forma di guerra. La prima è di sapore antico, militare: per procurarsi il petrolio e il gas, gli eserciti sono in continua crescita e si contendono i territori con forme di occupazione ad alto dispendio di automazione e controllo a distanza. Si noti che il terzo produttore di CO2 al mondo, se lo considerassimo come uno stato, è il settore delle armi: droni, portaerei, cacciabombardieri, missili puntati, ordigni nucleari sempre allerta su mezzi mobili. Questa enorme mole di energia degradata ora dopo ora, sprecata e irrecuperabile contraddice profondamente la possibilità invece di convivere con un’energia rinnovabile, cioè rigenerabile nei tempi della vita umana o nel susseguirsi di generazioni in tempi storici. Le armi, evidentemente, contraddicono qualsiasi principio di rinnovabilità: in un tempo il più breve possibile scaricano il massimo di energia distruttiva. Non è un caso se questo papa è andato in Iraq, dove c’è una guerra per il petrolio, per l’acqua, per l’accaparramento degli elementi naturali.

Il secondo tipo di guerra lo stanno conducendo le grandi multinazionali dei fossili, che hanno capito che dal punto di vista economico in un tempo di venti o trent’anni bisogna passare a un mix dove le fonti naturali saranno nettamente superiori rispetto ai fossili e non hanno alcuna intenzione di lasciare il campo senza combattere. Già nel 2019 e nel 2020 nel mondo si sono fatti più investimenti in rinnovabili che in tutti gli altri settori, compreso il nucleare. L’economia sembra prendere un corso diverso: in tal caso le multinazionali provano a ritardarne quanto possibile la trasformazione anche a spese di salute e clima, per poter reindirizzare tutte le riserve finanziarie del mondo fossile, che sono tutt’ora enormi, verso sistemi ancora centralizzati, proprietari, a dimensione non territoriale.

Il sistema delle rinnovabili, al contrario, è territoriale, decentrato, democratico, cooperativo, senza sprechi. Con le fonti idriche, solari ed eoliche si potrebbe organizzare la produzione di energia in autentiche comunità, che siano in comunicazione tra loro attraverso sistemi informatici e usare il criterio della sufficienza – e ce n’è, perché abbiamo una quantità di sole infinitamente superiore a quella che serve per dare vita alla terra e a tutte le forme che la popolano – mentre il resto dell’energia prodotta potrebbe essere distribuita per eliminare la povertà energetica.

Purtroppo, nell’attuale fase di transizione le grandi corporation elettriche o fossili puntano a costruire ancora grandi impianti, di potenza non distribuita, stoccata eventualmente in grandi bacini di gas, idrogeno e acqua di loro proprietà.

A Civitavecchia è in corso uno scontro chiarissimo e con i connotati sopra riportati. La sostituzione della centrale a carbone dell’Enel – a dispetto della cittadinanza e delle sue rappresentanze territoriali – viene prevista con la combustione di gas metano e un tracollo dell’occupazione anche in prospettiva, con un silenzio tombale finora di Governo e Regione. A questa soluzione, deprecata e contrastata anche dai piani di raggiungimento della neutralità climatica approvati dal Parlamento europeo, i movimenti ambientalisti e la mobilitazione dei lavoratori e della popolazione stanno contrapponendo un modello territoriale concretamente perseguibile, con vantaggi tangibili sul piano della salute, dell’occupazione, della cura del territorio. Un sistema eolico galleggiante a distanza nel mare e una rete alimentata da fotovoltaico sull’area del carbonile attuale, assistiti da stoccaggio con idrogeno, alimenterebbero la città e il territorio circostante, estendendo anche alla mobilità e al calore i benefici di un sistema pulito. A Civitavecchia si è palesato uno straordinario esempo di protagonismo del mondo del lavoro, che si è schierato per la transizione energetica: i dipendenti della centrale, appoggiati dalla Uil, dalla Camera del Lavoro, dall’Usb e dai due maggiori comitati contro i fossili della città, hanno già indetto più ore di sciopero contro il progetto sbandierato con una dose di arroganza da altri tempi dalla direzione Enel attraverso la pagina locale del Messaggero.

 

La difficile transizione nei grandi stabilimenti produttivi e il rischio del nucleare

La svolta in corso adesso non ha i tempi che i governanti vorrebbero imporre. Una parte larga della società, compresi gli studenti, si rende conto che può vivere utilizzando di fatto le fonti solari, sebbene nei luoghi di lavoro questa consapevolezza non sia ancora giunta a piena maturazione.

Certo, non c’è ancora oggi una ricerca avanzata e una tecnologia non solo sperimentale per alimentare con sistemi a fonti rinnovabili alcuni processi produttivi complessi, ad alta temperatura e che richiedono energia molto condensata: acciaierie, cementifici, certi processi chimici. Il caso tipico riguarda le acciaierie di Taranto (io sono di quelli che pensano che l’Ilva andrebbe chiusa al più presto, perché non c’è soluzione per un sistema che non dispone di investimenti e progetti in ricerca di alternative, poiché non si sono prese per tempo le precauzioni per affrontare la transizione). I modelli alternativi per un impianto di quella portata e in condizioni di crisi così impellente non sono ancora all’altezza della sfida. L’idrogeno dovrebbe svolgere un ruolo chiave nella futura decarbonizzazione dell’industria siderurgica e di altre industrie pesanti. Può essere utilizzato come materia prima, combustibile o vettore energetico e stoccaggio e ha molte possibili applicazioni. Di recente la Germania ha adottato il documento “Steel Action Concept” per la decarbonizzazione dell’industria siderurgica tedesca attraverso un aumento dell’utilizzo di energie rinnovabili e l’introduzione dell’idrogeno verde nei processi industriali. Le acciaierie di Lienz in Austria funzionano totalmente a idrogeno, con quattro idrolizzatori; è uno stabilimento davvero notevole e fa un acciaio specialissimo, tuttavia produce solo un quarantesimo di quello dell’Ilva.

Penso che, se consumi e trasporti si convertono a energie rinnovabili e, cosa altrettanto importante, l’agricoltura viene convertita ad agricoltura di vicinanza, senza ricorso ai concimi chimici, allora anche il problema delle grandi produzioni verrà affrontato con uno sforzo maggiore di ricerca e con lo straordinario apporto che può offrire la nuova generazione.

Temo che in questa fase torni una spinta al nucleare, per i grandi impianti. Il nucleare è non solo peggio dei fossili, ma è ben più devastante e irrimediabile in tempi storici. Basti pensare che il tempo di dimezzamento del plutonio è di 121.400 anni e noi ancora non sappiamo dove mettere le scorie in depositi sicuri. E, ancora, che a Fukushima si continua a versare bario e stronzio radioattivo nel Pacifico per tenere a bada la fusione dei tre reattori avvenuta 10 anni fa. Così come ritengo pericolosa l’affermazione avventata del nuovo ministro per la transizione Cingolani sulla disponibilità a dieci anni della fusione nucleare: un diversivo – temo – per non giocare a fondo il passaggio a multipli di potenza rinnovabile già nei prossimi tre anni.

Non ci sono soluzioni meramente tecnologiche, se le tecnologie cercano di risolvere i problemi lasciandone inalterata la causa.

 

Le prospettive dell’Italia

L’Italia tra le nazioni europee ha una particolare caratteristica: possiede una quota di carbone nel suo mix energetico inferiore in genere alla gran parte degli altri paesi, ma non tende a innescare, come accade ad esempio in Germania e Spagna, un processo di crescita di eolico e solare equivalente agli obiettivi a cui tende l’Europa. Eppure, la sua posizione geografica glielo consentirebbe. Negli ultimi anni vi è stato uno stallo: se nel 2007 avevamo il 24,2% di energia elettrica prodotta con fonti rinnovabili (compreso l’idroelettrico, su cui l’Italia vanta una eredità importante, grazie ai grandi impianti alpini e appenninici), nel 2014 siamo arrivati al 38,6%, ma nel 2019 la quota era scesa al 35,9%. Una vera e propria flessione, con una responsabilità politica. Dal 2011 al 2019 abbiamo mantenuto statica la quantità di energia fornita da vento, sole e acqua, mentre abbiamo aumentato la quota di gas, soprattutto in funzione di stoccaggio nel caso di black-out, lasciando del tutto inattivi i bacini di pompaggio pronti all’occorrenza. La crescita di generazione

fotovoltaica in Italia dal 2017 al 2019 è stata un quinto di quella della Germania. Inoltre, soffriamo di un forte disavanzo commerciale riguardo alle “tecnologie verdi”, perché i pannelli fotovoltaici prima prodotti, oggi sono completamente importati.

Nel nostro piano energetico nazionale (PNIEC), per raggiungere l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura media al di sotto di 1,5 gradi, noi dovremmo ridurre anno dopo anno della metà le emissioni di CO2, installando almeno 17 GW di rinnovabili, cosa del tutto improbabile se non si sblocca il meccanismo delle autorizzazioni e se il PNIEC rinuncia all’obbiettivo UE del 55% rimanendo fermo al 48%. Un problema tuttora molto acuto è quello dei trasporti: impieghiamo più energia nei trasporti che nell’industria, abbiamo il carico di auto per famiglia più alto in Europa e un parco macchine che mediamente supera i 135 grammi di CO2 di emissione per km.

Naturalmente una transizione come quella in discussione è fitta di conflitti, ma anche di imbrogli. Il più imbarazzante lo sta gestendo Eni a Ravenna, con il progetto di produrre idrogeno da una centrale a metano con sequestro della CO2 da pompare sottoterra. È un progetto non solo ambientalmente dannoso, data la pericolosità di un giacimento di anidride carbonica, ma anche assurdo, perché l’idrogeno verrebbe a caricarsi dei costi della cattura e della compressione del gas climalterante nelle falde sotterranee. Senza mettere in conto le perdite inevitabili di metano nelle condutture dell’impianto, sotto osservazione per il suo pesante effetto sull’innalzamento della temperatura terrestre.

Rispetto al governo Draghi e al nuovo ministero per la transizione ecologica non sono ottimista. Lo sarei se le associazioni ambientaliste e le rappresentanze locali avessero voce e potessero partecipare alla formulazione dei PNRR (Piani nazionali di ripresa e resilienza). Ma il fatto che la validazione avvenga attraverso McKinsey significa affidarsi a una cultura che punta esclusivamente all’efficienza in termini di come la valuta l’impresa. E qui non siamo di fronte a una contabilità aziendale e nemmeno a progetti che vengano semplicemente delegati agli accordi che Eni, Enel e Cassa Depositi e Prestiti raggiungono a livello ministeriale, nel silenzio dei cittadini e dei lavoratori.

Io non credo che il ministro Cingolani possa presumere di avere da solo la cultura sufficiente per affrontare questo passaggio. Occorre svolgere un dibattito pubblico, accessibile e informato, ma di ciò finora non si ha notizia alcuna. Nemmeno a Civitavecchia, dove la transizione energetica è all’ordine del giorno. Penso che, per quanto riguarda l’ecologia integrale, la tecnologia, che spesso diventa tecnocrazia, prenda il problema per la coda anziché per la testa: è il nostro modo di produrre e consumare che va radicalmente cambiato. A Cingolani proporrei di partire da una attenta considerazione della  Laudato Si’.

«Le vostre soluzioni sono il problema»

In una Roma blindata, i potenti della Terra discuteranno la gestione della pandemia e il contrasto al riscaldamento globale, mentre i movimenti sociali, guidati dal fronte ecologista, scenderanno in strada per ribadire la necessità di un cambio di paradigma strutturale

Mentre assistiamo alle devastazioni provocate dall’uragano che si sta abbattendo sul Sud Italia, a Roma si incontrano i leader delle nazioni più ricche del mondo: l’occasione è il G20 a presidenza italiana, che si terrà alla Nuvola di Fuksas.

Nell’agenda del forum, i temi più importanti su cui i potenti della Terra saranno chiamati a discutere rappresentano le due assolute priorità del momento: la gestione della pandemia e il contrasto al riscaldamento globale, in vista dell’imminente Cop26 di Glasgow.

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Curdi in Italia in solidarietà con Mimmo Lucano

FONTE ANFDEUTCH

La comunità curda in Italia mostra solidarietà a Mimmo Lucano. L’ex sindaco di Riace è stato condannato a oltre 13 anni di carcere per aver fornito case abbandonate ai migranti.

La comunità curda in Italia esprime vicinanza e solidarietà all’ex sindaco di Riace. Mimmo Lucano è un simbolo della cultura dell’accoglienza, della solidarietà e dell’integrazione sociale, secondo una dichiarazione pubblicata sabato dal centro di informazione curdo sulla condanna del politico. Lucano, vincitore del Premio per la pace di Dresda del 2017, è stato condannato giovedì a 13 anni e due mesi di reclusione per abuso d’ufficio, formazione di organizzazione criminale e favoreggiamento all’immigrazione clandestina, nonché per truffa, concussione e falso di documenti. Con il loro verdetto, i giudici sono andati ben oltre la richiesta dell’accusa, che aveva chiesto quasi otto anni di carcere.

Lucano è stato sindaco del piccolo comune della costa meridionale calabrese dal 2004 al 2018 e aveva fornito case abbandonate di residenti emigrati a centinaia di migranti nel remoto quartiere di Riace Borgo nell’entroterra collinare. Il Kurdish Information Center in Italia riporta: “Lucano nasce nel 1998 con un gruppo di 200 curdi che fuggivano dalla guerra dello stato turco contro il popolo curdo e dalla dura repressione del regime di Ankara sulla costa erano sbarcati. Ha aperto le case abbandonate nella città di Riace e accolto profughi curdi a cui erano stati negati i diritti e le libertà più elementari per ripristinare la loro dignità umana e avviare così la rinascita di un’area segnata dalla povertà.

È sempre stato vicino al popolo curdo e non ha mai esitato a schierarsi contro il regime autoritario della Turchia e per la libertà del nostro popolo, come è avvenuto di recente con l’attacco al modello del confederalismo democratico in Rojava. Esprimiamo la nostra solidarietà a Mimmo e siamo certi che il suo caso si risolverà positivamente e verrà riconosciuto il valore del suo progetto di integrazione e solidarietà tra i popoli».

Lucano e la sua squadra di difesa hanno parlato di un “incidente inaudito” dopo l’annuncio del verdetto e hanno annunciato che avrebbero presentato ricorso. I legali di Lucano avevano sostenuto che l’ex sindaco era “ontologicamente incapace” di arricchirsi a scapito di altri, se non altro per il proprio vantaggio politico.