Disoccupati di tutto il mondo, unitevi

 

FONTE ALFAPIU.  che ringraziamo

Disoccupati di tutto il mondo, unitevi
Pubblicato il 20 aprile 2017 · in alfapiù, libri ·
Autore della recensione G.B. Zorzoli

È un atto di accusa, fondato sul compendio della storia della disoccupazione attraverso i secoli (e i millenni). Domenico De Masi scrive come parla. Affabulatore abile e informato, il virtuosismo della sua narrazione rende la lettura fluida, malgrado l’accavallarsi di dati, citazioni, stringate analisi del pensiero di autori monumentali, come Keynes, o dei socialisti utopistici (Fourier, Owen, Saint-Simon). La descrizione dettagliata dei meccanismi che attualmente provocano la distruzione progressiva di posti di lavoro è inframezzata da sintesi a volte illuminanti – «il profitto va perseguito e corteggiato, mai nominato; così pure non vanno mai nominate le classi (che non esistono più), la lotta di classe (estinta per sempre), la rivoluzione (sconfitta dalle riforme), lo sfruttamento (assorbito dalla crisi generale), i padroni (che sono la buona «parte viva» del Paese”)» -, altre volte inclini a forzature. È indiscutibile che «l’economia prende il sopravvento sulla politica, la finanza prende il sopravvento sull’economia», ma subito dopo affermare che «le agenzie di rating prendono il sopravvento sulla finanza» assomiglia a una triplo salto carpiato concluso da una rovinosa caduta.

Sono 190 pagine per introdurre la parte propositiva, intitolata appunto «Che fare», con un pizzico di civetteria senza punto interrogativo. In un excursus così dettagliato, la fine della golden age, avviata dal New Deal rooseveltiano e consolidatasi nei primi decenni del dopoguerra in tutto l’Occidente con il compromesso keynesiano tra capitalismo e lavoratori, è però spiegata in modo spiccio, ma soprattutto incredibilmente riduttivo. « Il mondo accademico europeo, che quel dogma [il liberismo] aveva formulato e imposto a mezzo mondo, reagì con una virulenza inaudita in difesa del capitalismo, gravemente compromesso nel suo prestigio [dal successo del welfare state]. Ben due scuole di economisti si mobilitarono: quella austriaca, capeggiata da Friedrich von Wieser e Ludwig von Mises, e quella di Friburgo, capeggiata da Wilhelm Röpke e Walter Eucken. Più tardi si svegliò anche la Scuola di Chicago con Frank Knight, Gary S. Becker e Milton Friedman … l’ordine liberale, facendo leva sull’alleanza tra mondo accademico e mondo finanziario, è riuscito a imporsi all’intero pianeta condizionandone, attraverso l’economia, la vita intera». Tutto qui.

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“Lo chiamano amore” Note sulla gratuità del lavoro

fonte SINISTRAINRETE
di Anna Curcio

Da AA.VV, Salari rubati. Economia, politica e conflitto ai tempi del salario gratuito, Ombre Corte, 2017

gratis“Lo chiamano amore, noi lo chiamiamo lavoro non pagato”. Questo l’esergo che Silvia Federici sceglie per un testo fondativo della campagna internazionale Salario al lavoro domestico1. Erano gli anni Settanta e il femminismo marxista era impegnato in un duro confronto critico con Marx, per portare in primo piano la produzione di valore del lavoro riproduttivo. Si intendeva in particolare denunciare la gratuità del lavoro domestico e della cura, svelando le forme intrinseche dello sfruttamento del lavoro delle donne2.

La suggestione di Federici, tutt’altro che datata, ritorna pressoché intatta nel presente, mentre il lavoro gratuito dilaga imponendosi quale nuova frontiera dell’accumulazione capitalistica. Stage, tirocini, esperienze di praticantato, straordinari non pagati, volontariato, le innumerevoli forme di gratuità del lavoro intellettuale e artistico e ogni altra sorta di lavoro non retribuito fino alla lavorizzazione del consumo (si pensi soprattutto alle attività che quotidianamente svolgiamo nel web 2.0) stanno ridisegnando la geografia del lavoro contemporaneo. E il lavoro in quanto tale, sganciato dal rapporto salariale, diventa un atto d’amore. È precisamente un atto d’amore quello che oggi il capitale domanda quando chiede di lavorare senza il compenso di un salario, proprio come ha storicamente chiesto alle donne di svolgere gratuitamente e per amore la cura e il lavoro domestico.

Provando a riflettere in parallelo tra la gratuità della riproduzione (naturalizzata al ruolo femminile) e le più recenti esperienze di de-salarizzazione del lavoro, queste brevi note attingono dall’archivio del femminismo marxista, per leggere le trasformazioni produttive e del lavoro in atto, svelarne il contenuto mistificatorio, immaginare i (possibili) percorsi di lotta e le strategie di resistenze alle forme dell’accumulazione capitalistica nella crisi. Perché se, data l’iniqua redistribuzione del plusvalore, il lavoro è sempre sfruttamento, il lavoro fuori dal rapporto salariale finisce per rassomigliare alla schiavitù (benché il non essere coattivo ne costituisce una importante differenza) che si sa, è un formidabile spazio di accumulazione.

Questo scritto, nel contesto della perdurante crisi del neoliberismo, tratteggia dapprima le forme dell’accumulazione contemporanea considerando i dispositivi di cattura del lavoro (§§ 1 e 2) per riflettere poi sulla disposizione soggettiva e sui possibili spazi di resistenza da aprire e coltivare; ovvero con quali armi combattere il dilagare del lavoro gratuito (§ 3).

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Rajendra Pevekar is a victim of the deadly global asbestos industry.

His father worked in an asbestos company. As a result, both he and his mother now suffer from asbestos-related disease from secondary exposure.

Rajendra will speak out on behalf of the 107,000 people who die annually from asbestos-related disease. In May, the meeting of the Rotterdam Convention will take place in Geneva and Rajendra will face representatives from countries who are blocking asbestos from being added to the list of hazardous chemicals.

For the last ten years chrysotile asbestos has been recommended for listing onto the Rotterdam Convention which adds restrictions to its trade. But it’s been blocked by a few countries who gain directly from its export. This must stop. 

Please take a moment to show that you stand in solidarity with Rajendra in calling for the ban:

http://www.labourstart.org/go/rajendra

And please share this message with your friends, family and fellow union members.

Thank you!

E’ uscito il numero 80 del Settimanale di Punto Rosso-Lavoro21

E’ uscito il numero 80 del Settimanale di Punto Rosso-Lavoro21

Lo potete scaricare qui:
http://www.puntorosso.it/uploads/1/7/0/3/17033228/lav21-sett-n80-s.pdf

In questo numero:

Il Pd di Renzi ricorda Brecht: “Il popolo non è d’accordo, nominiamo un nuovo popolo”
di Pietro Folena

Dati sull’occupazione: continuano a prenderci per il culo
di Enrico Rossi

L’impatto della crisi sulla disuguaglianza salariale in Italia
di Michele Raitano

Sul Venezuela, guardando le cose dal basso
di Gennaro Carotenuto

Presidenziali Ecuador, ha vinto Lenín Moreno
di Gianni Beretta

Buona lettura e diffondete!

***

E’ uscito il numero 2 della RIVISTA di Punto Rosso – Lavoro 21

http://www.puntorosso.it/uploads/1/7/0/3/17033228/lav21-rivista-numero2-s.pdf

Se avete un voucher acquistato possiamo utilizzarlo per il Ministro Madia e per l’on Ichino ?

Fonte CONTROLACRISI.ORG

Innumerevoli restano i motivi per i quali i padroni continuano a piangere sulla eliminazione del voucher con i giornali e le riviste dei poteri economici dominanti a decantare ancora oggi le lodi del buono. Se al voucher subentrerà il contratto a chiamata è previsto un buon 50% di spese aggiuntive per le aziende
Il Voucher, come il lavoro gratuito, sono le vere novità deli ultimi anni, l’economia della promessa ha favorito il diffondersi di forme alienanti di sfruttamento a costo zero, il voucher poi aveva portato a galla una economia le cui attività sono per lo piu’ sommerse. Il voucher non era lo strumento di regolarizzazione del lavoro nero ma il risultato di un compromesso sociale: abbassare ai minimi termini il costo del lavoro e allo stesso tempo vendere una immagine di legalità fittizia per altro perché a gran parte dei buoni corrispondevano ore aggiuntive al nero.

Il voucher, come l’apprendistato e il lavoro gratuito, erano orai parte integrante del sistema aziendale, lo strumento aveva preso la mano del legislatore stesso per cui il buono da uso selettivo era passato a strumento generalizzato con cui sostituire innumerevoli contratti di lavoro Da una parte è innegabile che il voucher abbia aiutato regolarizzare alcuni rapporti saltuari solitamente in nero, ma lo ha fatto solo in minima parte perché un buono da 10 euro serviva in tanti casi a giustificare una giornata lavorativa con gran parte del compenso di quella giornata pagato in nero.

Non sappiamo cosa intenda fare il Ministro Poletti quando parla di nuove forme di regolamentazione del lavoro accessorio e occasionale da costruire con il sindacato, il voucher potrebbe tornare dalla finestra visto che il lavoro a chiamata (o intermittente), un rapporto di lavoro subordinato, ha dei costi per le aziende decisamente piu’ alti che molte aziende hanno già definito insostenibile e puo’ riguardare solo lavoratori giovani laddove invece i beneficiari del voucher erano di tutte le età.

Il Voucher era quindi assai piu’ conveniente, il lavoro a chiamata costa di piu’ e presenta alcuni paletti normativi difficili da aggirare come il limite delle 400 giornate nell’arco di 3 anni solari (tranne per i settori dello spettacolo, del turismo e dei pubblici esercizi), per non parlare poi delle indennità maturate dai lavoratori a chiamata per la loro disponibilità.

Pietro Ichino sul Corriere della Sera del 25 Marzo scrive in favore del voucher, di quel lavoro marginale da non mettere a rischio.
paventando l’ipotesi che senza il buono non saranno piu’ assunti le figure sociali deboli, i disoccupati di lunga durata, gli emarginati, gli ex detenuti impiegati in catering a rotazione .A parte il fatto che bisognerebbe guardare alle retribuzioni del lavoro in carcere che ha come modello gli Usa dove una giornata di 8 ore viene pagata solo pochi dollari, sarebbe bene guardare agli ultimi ogni giorno a partire dalle decisioni assunte in Parlamento che non discute sul reddito sociale.

In ogni caso le cooperative sociali possono fare ricorso al lavoro intermittente per i lavoratori discontinui oltre a dei part time di poche ore che con il contratto nazionale da loro applicato hanno un costo irrisorio.

Avevamo letto di tutto e di piu’ per giustificare il ricorso al voucher, ci mancava solo passare come nemici dell’inserimento sociale e lavorativo degli ex detenuti, quindi respingiamo al mittente le invettive dell’on Ichino il cui scopo era forse quello di scatenare in noi un senso di colpa (facendo leva sulla disinformazione in merito alle tipologie del lavoro purtroppo esistenti) .

Ma parlare di voucher significa anche mettere sotto accusa la pubblica amministrazione che ha utilizzato tanto e male il voucher determinando situazioni di dumping salariale. Un ente locale o una azienda sanitaria non hanno certo bisogno di ricorrere al lavoro occasionale, esistono gli appalti, i global service, i rapporti di lavoro a tempo indeterminato e determinato, le assunzioni con rapporto fiduciario che permettono ai sindaci di stipendiare personale di fiducia a chiamata diretta e senza alcuna selezione.

il costo di un esecutore tecnico o amministrativo negli enti locali è di circa 14 euro lorde all’ora laddove un buono pagato dieci euro rappresentava un vantaggio economico;il valore del voucher coincideva spesso con il pagamento di una ora di lavoro e in questo modo il costo veniva ridotto ai minimi termini, si abbassava ai minimi termini il costo per le aziende e in un colpo solo si annullava ogni riferimento ai contratti nazionali, agli inquadramenti, alla natura della prestazione erogata per stabilire un prezzo unico per qualunque tipologia lavorativa, il costo appunto del voucher

E in questo modo il voucher ha determinato il deprezzamento del costo del lavoro che poi resta il vero motivo per cui nel pubblico e nel privato si è fatto tanto ricorso al buono ma con una evidente forzatura, quella di sostituire al lavoro subordinato una prestazione ben diversa e a costi decisamente irrisori.

Fino a poche settimane fa, da quando si è scoperto che 7 comuni erano tra i principali utilizzatori del voucher, era sfuggito a tutti che il voucher era diventato uno strumento di dumping salariale per tutto il mondo del lavoro, non solo per le prestazioni di basso profilo nel lavoro privato ma alla occorrenza anche nel pubblico impiego e per ruoli cognitivi.

In tutta questa triste vicenda la Ministra Madia non ha aperto bocca nascondendosi dietro alla prossima stabilizzazione dei precari con 3 anni di anzianità nella Pa, sarebbe bene aprire un confronto per allargare le maglie della stabilizzazione andando a capire quanti e quali rapporti di lavoro ci sono nel pubblico.

E nel frattempo non sarebbe male corrispondere non lo stipendio da ministro alla Madia ma pagarla con il voucher tanto per ricordarle

Income inequalities and employment patterns in Europe before and after the Great Recession

Income inequalities and employment patterns in Europe before and after the Great Recession

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fonte Eurofou
This report addresses growing concerns about income inequalities in academic and policy debates by offering a comprehensive study of income inequalities during the years of the Great Recession starting in 2008–2009 (income data relating to 2004–2013). It has the twofold objective of adopting an EU-wide perspective and providing an updated picture of inequalities across different sources of income and in most Member States. The results show that EU-wide income inequality declined notably prior to 2008, driven by a strong process of income convergence between European countries – but the Great Recession broke this trend and pushed inequalities upwards both for the EU as a whole and across most countries. While previous studies have pointed to widening wage differentials as the main driver behind the long-term trend towards growing household disposable income inequalities across many European countries, this report identifies unemployment and its associated decline in labour income as the main reason behind the inequality surges occurring in recent years. Real income levels have declined and the middle classes have been squeezed from the onset of the crisis across most European countries. The role played by the family pooling of income in reducing inequalities and the impact of European welfare policies in cushioning the effect of economic turbulences on the distribution of income are also explored. An executive summary is also available – see Related content.

Authors: Fernández-Macías, EnriqueVacas‑Soriano, Carlos
Number of Pages: 70
Document Type: Report
Reference No: EF1663
Published on: 13 March 2017
ISBN: 978-92-897-1573-7
Catalogue: TJ-02-17-166-EN-N
DOI: 10.2806/370969
Topic: Economic crisisFamiliesIncome inequalityLabour market changeLow income householdsRecessionWelfare State

Piigs: critica dell’economia suina

Autore: Luca Cangianti

Fonte  Carmillaonline

Veder  scorrere una bibliografia di teoria economica nei titoli di coda non è qualcosa di comune, soprattutto se il documentario cui si è assistito aggancia l’attenzione dello spettatore su un tema ritenuto per soli addetti ai lavori: l’austerità europea e i suoi effetti nefasti sulla vita quotidiana di milioni di persone. Dopo cinque anni di studio sui testi, di riprese e di lavoro in post-produzione, Piigs – Ovvero come imparai a preoccuparmi e a combattere l’austerity sarà in sala il prossimo aprile. Realizzato anche grazie a un’azione di crowdfunding, il lungometraggio è diretto da Adriano Cutraro, Federico Greco e Mirko Melchiorre, mentre la voce narrante è quella di Claudio Santamaria.1
Intervistando alcuni noti economisti, saggisti e scrittori di orientamento eterodosso (tra cui Noam Chomsky, Yanis Varoufakis, Warren Mosler ed Erri De Luca) il film decostruisce il pensiero economico dominante e le sue applicazioni incorporate nella struttura istituzionale europea. Il montaggio è incalzante con molte sottolineature ironiche, l’esposizione è fluida e divulgativa anche grazie a grafici, animazioni e a una grande quantità di materiale audiovisivo d’archivio. Piigs si concentra sulla pars destruens, cioè sulla dimostrazione che le regole dei trattati europei sul deficit, sul debito e sull’inflazione sono frutto di casualità, pressapochismo e perfino di cialtroneschi errori di calcolo su file Excel. Ciò nonostante un effetto, e non di poco conto, tali regole finiscono per produrlo: Chomsky sostiene che la struttura dell’Ue sia stata un’arma fenomenale per distruggere lo stato sociale e riaffermare il più rigido comando sul lavoro; Vladimiro Giacché aggiunge che i trattati europei hanno finito per rappresentare una costituzione parallela in contrasto con molti dei diritti sociali sanciti da quella italiana.2 Nel frattempo, a causa delle politiche economiche previste dai trattati, i “paesi maiali”, i Piigs per l’appunto (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna), sono confinati in una condizione semicoloniale nei confronti delle economie centrali guidate dalla Germania, mentre aumentano disoccupazione, povertà e desertificazione industriale.

Tale versante teorico è intersecato dalla storia esemplare della cooperativa sociale Il Pungiglione e della sua combattiva presidente Claudia Bonfini. Questa organizzazione non profit si occupa di erogare servizi sociali impiegando anche persone disabili e in condizioni di disagio, ma a causa dei vincoli imposti dal patto di stabilità ha maturato un credito nei confronti degli enti locali che rischia di condurla alla chiusura. Le vicende della cooperativa, i dialoghi con un’amministrazione pubblica incapace di gestire la catastrofe umana in corso, le voci dei lavoratori rotte dalla commozione durante le assemblee, la musica e i balli di chi riscopre vita e dignità nella protesta, sono enzimi emotivi che accompagnano il ragionamento macroeconomico.
Cutraro, Greco e Melchiorre ci dimostrano che nei palazzi di vetro e acciaio a Bruxelles e a Francoforte c’è qualcuno che ci sta prendendo per i fondelli. Piigs è un dispositivo filmico fatto per scatenare il dibattito: quando in sala si accendono le luci non si torna a casa in silenzio, è impossibile non discutere, non sentirsi chiamati in causa, non arrabbiarsi, magari proprio con quei tre registi che ci sottraggono alle narrazioni consolidate, che sostengono che basterebbe uscire dall’euro e stampare moneta perché tutto andasse per il verso giusto… In verità non è questa la tesi del documentario, anche se alcuni interventi sembrano sostenerla, perché il film non ha una posizione precisa da difendere. Gli intervistati sono europeisti critici, sostenitori della necessità di uscire dall’Eurozona, liberali, keynesiani e marxisti. Sappiamo che ognuno di questi ha la sua pars construens, ma qui si tratta di smontare un dogma tossico, poi verrà il resto. Pur all’interno di quest’approccio principalmente decostruttivo è comunque innegabile che il taglio prevalente sia quello del sottoconsumismo keynesiano: lo si può vedere per esempio nel richiamo a Roosevelt omettendo di segnalare che le sue politiche di stimolo alla domanda aggregata funzionarono solo con la ripresa degli investimenti bellici e dunque con la guerra; oppure nell’affermazione che gli Usa grazie alla sovranità monetaria hanno saputo affrontare meglio la crisi rispetto ai giri di valzer fatti da una banca senza stato come quella europea e da uno stato senza moneta come quello italiano.

Infine va segnalata la scelta d’inserire nelle ultime battute del film una frase malinconica e provocatoria di Erri De Luca. Lo scrittore rivolgendosi a chi sta dietro la telecamera dice: “il problema è che siete pochi, mentre noi negli anni settanta eravamo molti“. Qui, una volta completata l’inchiesta di controinformazione, il documentario diventa autoriflessivo e s’interroga sul perché di fronte alla messa in chiaro della realtà non si scateni una reazione adeguata, non subentri la soggettività sociale e politica. Chissà che dopo realizzato un documentario originale e godibile di teoria economica gli autori di Piigs non vogliano cimentarsi anche con la sociologia della composizione di classe. Ce ne sarebbe altrettanto bisogno.

Viva il populismo di sinistra

Viva il populismo di sinistra
di
Franco Cavalli
Fonte area7.ch
Non ne posso ormai più di vedere quasi tutti i media trattare dispregiativamente di populista Sanders, Mélanchon, Podemos e simili equiparandoli a squallidi personaggi quali Trump, Le Pen o il fascistoide Orbán. Questa evidente confusione concettuale dimostra l’ignoranza abissale di questi commentatori: potremmo quindi lasciar perdere, senonché c’è il grosso pericolo che la si usi contro chiunque voglia rilanciare un vero progetto di sinistra.

Il 15 dicembre ho visto che Thomas Piketty aveva intitolato la sua colonna su Le Monde “Vive le populisme!”. Se lo fa lui, mi sono detto, perché non farlo anche io? Secondo Piketty il populismo non è nient’altro che una risposta confusa ma legittima al sentimento di abbandono delle classi popolari dei paesi sviluppati di fronte alla mondializzazione e alla crescita delle disuguaglianze. Il trionfo degli xenofobi potrà quindi essere evitato solo se gli “internazionalisti” (Sanders, Mélanchon, Iglesias etc.) sapranno trovare delle soluzioni in grado di correggere le cause del fenomeno. Sin qui Piketty. La sua critica riecheggia in fondo quella di chi pensa che il trionfo del nazi-fascismo durante la crisi degli anni 30 del secolo scorso sia stata favorita anche da una sinistra non solo divisa, ma anche poco concreta e non sufficientemente empatica.

È quindi giunto il momento di riprendere a discutere sui vari tipi di populismo, visto anche che c’è tutta una corrente filosofica (Lacau, Mouffe) che di fronte al venir meno di chiare distinzioni di classe ed in una situazione di “società liquida”, dove la contraddizione maggiore sembra sempre più essere quella tra l’élite ed il popolo, da tempo sta ispirando l’azione politica per esempio di Podemos o del movimento bolivariano in America latina. Chiaramente questo movimento non ha niente a che fare con il populismo di destra, che vede come causa di tutti i mali non il sistema capitalista ma bensì “l’inferiore” (ebreo, musulmano, rifugiato etc.) focalizzandosi quindi su un discorso puramente identitario che nella sua totale irrazionalità arriva a negare anche evidenze scientifiche: si veda per esempio cosa dice Trump della crisi climatica o dell’efficacia delle vaccinazioni. Il populismo di sinistra invece, partendo da un’analisi oggettivamente corretta, cerca di semplificarla e radicalizzarla, onde scuotere le coscienze delle persone ormai spesso anestetizzate dalla cagnara mediatica controllata dai grandi poteri economici.

Questo atteggiamento parte da precise indagini sociologiche, che hanno mostrato come di fronte alle post-verità del populismo di destra a ben poco servano le dimostrazioni dettagliate e precise del contrario, il cosiddetto fact checking. Faccio un esempio per farmi capire. Se voglio presentare un’analisi ineccepibile su come risolvere i problemi della LAMal, il mio discorso diventerà presto abbastanza incomprensibile per molte persone. Se invece mi limito a dire “se introduciamo premi proporzionali al reddito, almeno il 60% delle persone si vedranno i premi ridotti alla metà”, tutti mi capiranno. Questa mia affermazione, anche se tendenzialmente giusta, non è esattissima al centesimo. E quindi Cassis ed il Corriere del Ticino potranno accusarmi di essere populista. A quel punto, ne sarei abbastanza fiero.

Pubblicato il
22.02.17 ..
Edizione cartacea
anno XVI, n° 3 – 24 febbraio

Tumori da esposizione in ambiente di lavoro, Bruxelles complice dell’industria.

 

Per aggiornare la  direttiva sulla protezione dei lavoratori contro l’esposizione alle sostanze cancerogene che sono la causa ogni anno di 100.000 decessi, la Commissione ha deciso di fare riferimento ad esperti in maggioranza legati alle industrie multinazionali.

Un’intervista del quotidiano francese le Monde a Laurent Vogel di ETUI e ad altri esperti mette in evidenza la disinvoltura con la quale la Commissione affida nei fatti la redazione degli aggiornamenti della Direttiva su cancerogeni ad esperti che sono espressione delle multinazionali della chimica e del petrolio.
Il testo della Direttiva che costoro stanno preparando è una vergogna affermano diversi esperti: il valore proposto per il cromo esavalente, ad esempio, è venticinque volte superiore a quelli attualmente praticato in Francia.
“Valori limite molto elevati aprono la strada a veri e propri disastri, afferma Laurent Vogel. I lavoratori hanno l’illusione di essere protetti, in pratica questi valori limite si trasformano in una autorizzazione ad uccidere accordata alle imprese”. a
Questo vale anche per il valore limite della silice cristallina che per i sindacati dovrebbe essere, sulla base di studi epidemiologici e d’igiene industriale USA, 0,05 mg/m3 mentre gli esperti della Commissione prevalentemente di parte padronale propongono 0,1 mg/m3.Il valore limite prop osto da ETUC salverebbe in Europa 100.000 vite nei prossimi 50 anni.
Molti di questi esperti sono professionisti che lavorano per le multinazionali che avranno grandi risparmi se dovessero divenire norma le loro proposte.
La Commissione di Monsieur Junker afferma, sempre con amabile disinvoltura, che questi “esperti” non risultano essere in palese conflitto d’interessi rispetto alle proposte che stanno avanzando di “aggiornamento” della Direttiva Cancerogeni.
Se dovessero passare queste proposte dovremo registrare nei prossimi anni un peggioramento delle condizioni di salute di migliaia di lavoratori: per davvero se si vuole salvare l’idea stessa d’Europa occorre allontanare dalle istituzioni europee i burocrati e i politici idioti che hanno costruito il contesto di questo panel di esperti filopadronali che hanno un’unica mission, fare “rispamiare” miliardi di euro alle imprese, esponendo i lavoratori a gravissimi rischi per la salute.

Il degrado culturale, scientifico e politico che emana da questa vicenda ancora una volta alimenterà il sentimento antieuropeo e offrirà ulteriori argomenti ai populisti  : complimenti Mister Junker, un vero capolavoro !  editor

( Una piccola nota: la stampa italiana presa dalle vicende borgatare del PD ha bucato completamente questa notizia che riguarda il patrimonio di salute di qualche milione di lavoratori e lavoratrici. Amen )

L’ARTICOLO LE MONDE 25 FEBBRAIO 2017

Global Inequality, Populism And The Future Of Democracy

fonte SOCIALEUROPE.EU

by on

The election of Donald Trump to the US Presidency as well as the seemingly inexorable ascendency of right-wing populism in Europe has raised troubling questions about the future of democracy. In his new book, Branko Milanovic (BM) discusses the relationship between global inequality and the future of capitalism and democracy, respectively (a related interview has been published here). Whereas BM thinks that inequality and capitalism can co-exist, he is sceptical with respect to democracy. While he characterizes the American form of plutocracy as “maintaining globalization while sacrificing key elements of democracy” (p. 211), he sees European populism as “trying to preserve a simulacrum of democracy while reducing exposure to globalization” (ibid).

However, the Trump election teaches us that plutocracy and populism eventually go well together. With reference to Milanovic’s famous “elephant graph”, it is straightforward to see why this should happen. Three important observations can be inferred from the graph: firstly, very remarkable income gains in emerging economies, in particular China and India, have led to the emergence of a new middle class in the Global South. Second, income for the middle class in advanced Western countries has stagnated. Thirdly, the income of the Top 1 percentile, i.e. the global super rich, has also grown very substantially, while being still underestimated according to BM.

The elephant, Trump and the working class

Two political interpretations of these facts are obvious. A left narrative would draw the central political conflict line in the EU and US between the working population and the rich elite and call for redistribution from the rich to the middle and lower strata of the population. Clearly, such an interpretation constitutes a threat to the privileges of the plutocratic elites.

The populism of Donald Trump should thus be seen as a Gramscian hegemonic strategy based on an alternative reading of the elephant graph. His brand of populism combines two elements. First, by way of exploiting the correct fact that large segments of the US working class have indeed not benefitted from globalization, he is juxtaposing the US middle class against workers in emerging economies by invoking antagonisms such as “We Americans” against “Mexican immigrants” or “our jobs” against “cheap imports from China”. Thus he reframes an economic issue into one of identity and diverts attention away from class antagonisms between rich and poor. Second, upon that basis Trump has promoted a political project of “America First”, which reconstructs an imaginary community of “hard-working” Americans.

The hegemonic project of populism thus combines a narrative of imagined political community along national, ethnic, cultural or religious dividing lines with limited material promises in terms of more jobs for its members. The political culture becomes marked by dramatization of the cult of leadership, strong-handed demonstrations of authority and ruthless use of language coupled with denial of facts and intimidation of opponents.

Trade-off between hyper-globalization and democracy

So then, what is the prospect for an alternative political agenda that wants to advance an egalitarian project, both between and within nation states? Dani Rodrik has introduced the “political trilemma of the world economy” as a heuristic tool to analyse the political options available under globalization. The three elements of the trilemma are (i) national sovereignty, (ii) hyper-globalization, i.e. deep economic integration of the world economy, and (iii) democratic politics. The trilemma posits that only two out of three elements are compatible. Thus, if one thinks that a substantial transfer of powers to the international level with a view to creating some form of democratic global governance is impossible given the continued prevalence of nation states, and if one thinks that a combination of populist/authoritarian national politics in combination with a deepening of hyper-globalization is undesirable, then the basic trade-off any progressive political project has to face is that between hyper-globalization and democracy. For democrats this choice should be straightforward.

Against this background, the current debate on Trump’s populism appears misguided. In reductionist fashion, the liberal press (see e.g. here and here) portrays the economic core of the emerging populist projects as consisting of protectionism. However, by refusing to sign TTP and criticizing NAFTA, while indicating a readiness to negotiate bilateral trade deals in future, Trump has advanced a mercantilist approach that wants to increase the gains from globalization for the US. Consequently, he initialled a de-regulatory agenda for the highly globalized US financial sector and tax reductions for the corporate sector in general, evidently in order to improve its international competitive position. Similarly, the strategy of populist forces in power in the EU (e.g. in Hungary and Poland) is not directed against economic integration, but against political federalism, i.e. the transfer of power to the supra- or international level, while at the same time eroding the institutional division of powers and democratic participation within their countries. Thus, the strategic focus of populism both in the US and the EU is oriented towards establishing an authoritarian combination of nation state and hyper-globalization. While it is restrictive with regard to the mobility of labour and has a more interventionist policy approach, it is arguably not directed against economic globalization per se, but against liberal democracy and global governance.

Liberal calls on the forces opposing populism to focus their efforts on the defence of hyper-globalization could prove potentially disastrous for the political left. While not denying the heightened potential for conflict, a progressive political project should welcome a multi-polar world order and focus on fighting for democracy by reinvigorating its potential for a more egalitarian and solidaristic society. Besides strengthening democratic participation, upholding human rights and expanding social inclusion and equity, this will involve a more stringent regulation of hyper-globalization. In certain areas, a partial de-globalization and re-regionalisation of economic activities, respectively, for instance in the financial sector, in agriculture or with respect to public services seems warranted. In contrast to right-wing populism, such a project would thus be principled with respect to democracy, instrumental with respect to globalization and realistic with respect to the pro tempore prevalence of the nation state.

Ungheria: sindacalisti del settore pubblico licenziati in un attacco senza precedenti

In collaborazione con MASZSZ, la più grande confederazione sindacale in Ungheria che rappresenta i lavoratori del settore privato e pubblico ed è affiliata alla CES e alla CIS.

Il 13 gennaio, durante il ciclo di negoziati salariali, sono stati licenziati 4 sindacalisti dall’amministratore delegato della Fővárosi Közterület-fenntartó Nonprofit – FKFZrt (Società di capitale per la manutenzione del settore pubblico). I rappresentanti sindacali hanno chiesto un aumento di salario equo ed hanno manifestato la loro disponibilità a ricorrere allo sciopero a causa della disaffezione dei lavoratori. Come risposta, István Csontos, amministratore delegato della società per la gestione dei rifiuti, della pulizia e dell’igiene delle aree pubbliche nella capitale Budapest, non solo ha licenziato 4 colleghi, ma li ha anche chiusi fuori dagli uffici del sindacato. András Király, segretario del sindacato aziendale, uno dei sindacalisti licenziati e, inoltre, presidente del Sindacato dei Lavoratori Municipali HVDSZ2000 e membro del presidio del MASZSZ. Il sindacato, con l’aiuto del MASZSZ e delle organizzazioni sindacali affiliate, continua a cercar e un modo per risolvere il conflitto. Questo atto rappresenta una misura che non ha precedenti in una società pubblica del settore pubblico. I sindacalisti ungheresi temono che questo atto stia aprendo una nuova era di condotta antisindacale nel Paese.

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Fare i picchetti? Ecco cosa si rischia

FONTE ILMANIFESTOBOLOGNA.IT

a-picchettodi Francesca Garisto [*]

Negli ultimi 30 anni i termini entro cui si è svolto il conflitto sociale nel secolo scorso sono stati completamente ridefiniti. Da un lato, con la creazione della nuova classe dei lavoratori precari, privata dei temi di lotta tradizionalmente attribuibili alla classe lavoratrice della seconda metà del ‘900, come quelli del diritto al lavoro e della conflittualità di classe; dall’altra, con la progressiva erosione dei diritti dei lavoratori subordinati, che ancora a quei temi di lotta politica potrebbero fare riferimento.

Nell’ambito di un quadro politico che è indiscutibilmente mutato, a causa, tra l’altro, di una politica che con sorprendente perseveranza e con il supporto di massicce campagne mediatiche, ha fatto breccia nella cultura popolare e operaistica, sono state predisposte le condizioni per avviare una stagione di riforme “lacrime e sangue”.

D’altro canto, con l’adozione da parte delle socialdemocrazie europee dei simulacri della flessibilità e della immigrazione, negli ultimi decenni è mutato anche il modo in cui l’opinione pubblica si avvicina al tema delle rivendicazioni e delle lotte dei lavoratori.

Se infatti fino alla metà degli anni 70 ragioni politiche e culturali spingevano la coscienza sociale a indulgere rispetto a forme anche aspre di lotta sindacale, caratterizzate da occupazioni, ostruzionismi e dai cosiddetti “picchettaggi”, negli anni successivi, complici le circostanze di cui sopra, il contesto sociale è cambiato, fino ai giorni nostri, in cui le campagne mediatiche rilanciano la necessità di una “stretta” della legislazione antisciopero.

Il mutato contesto culturale ha infatti prodotto i suoi effetti anche in seno alla magistratura, che sempre più frequentemente iscrive procedimenti penali nei confronti dei lavoratori che partecipano a scioperi e picchettaggi, anche nel settore privato. Gli strumenti giuridici offerti dal codice penale non mancano.

Con particolare riferimento al “picchettaggio”, l’ipotesi di reato che viene astrattamente in rilievo è quella di violenza privata, prevista dall’art. 610 c.p. Occorre appena sottolineare che in tale ipotesi ricorre la necessità di bilanciare la tutela di contrapposti beni giuridici, tutti di rilievo costituzionale: da un lato, il diritto di sciopero sancito dall’art. 40 della Costituzione, esercitabile solo in forma collettiva, dall’altro i diritti individuali: diritto alla vita, all’incolumità personale e alla libertà di iniziativa economica, tutelati in questo caso dall’art. 610 c.p.

Va rilevato che all’aumento del numero dei procedimenti penali iscritti nei confronti di lavoratori scioperanti in casi di picchettaggio, non corrisponde altrettanta inflessibilità da parte della magistratura giudicante. La giurisprudenza giunge infatti a risultati differenti a seconda che si tratti di condotte aggressive dell’incolumità fisica altrui, di condotte di mera propaganda o persuasione, o infine di ostruzione degli ingressi sul luogo di lavoro mediante l’apposizione di oggetti ingombranti o di barriere umane costituite dai corpi degli scioperanti.

A tal proposito, se nella prima ipotesi è pacifica la configurabilità dell’art. 610 c.p. per la presenza di condotte certamente qualificabili come violente, nel caso di condotte di mera propaganda, pur se energiche e persistenti, l’assenza di coazione nei confronti dei dissidenti, non scioperanti, ha indotto certa giurisprudenza a ritenere la condotta “scriminata” dall’art. 51 c.p., che tutela, tra l’altro, l’esercizio del diritto di sciopero previsto dall’art. 40 della Costituzione.

Più problematiche appaiono invece le condotte di ostruzione degli ingressi sul luogo di lavoro attraverso l’apposizione di oggetti o la formazione di barriere umane costituite dai corpi degli scioperanti. Infatti, se alcune pronunce della Corte di Cassazione hanno qualificato le condotte ostruzionistiche come “violenza”, in considerazione del carattere coattivo della condotta, una parte cospicua della giurisprudenza, soprattutto di merito, si è discostata da tale orientamento, invocando ancora una volta la scriminante del diritto di sciopero ai sensi degli artt. 51 c.p. e 40 della Costituzione.

Si può quindi, in conclusione, affermare che la sola ipotesi di picchettaggio senza dubbio riconducibile al reato di violenza privata, è quella che si realizza attraverso condotte aggressive dell’incolumità fisica di coloro intendono recarsi nei luoghi di lavoro nonostante lo sciopero.

Negli altri casi, e soprattutto in presenza di condotte di ostruzione degli ingressi sui luoghi di lavoro mediante il ricorso a barriere umane o costituite da oggetti vari, la giurisprudenza è ancora divisa tra il riconoscimento della sussistenza del reato di violenza privata e l’irrilevanza penale della condotta, sia per mancanza del requisito della “violenza” richiesto dalla norma, sia per carenza di antigiuridicità, trattandosi dell’esercizio del diritto di sciopero, costituzionalmente garantito.

Nonostante pertanto la posizione di buona parte dei media, che quotidianamente assecondano la politica che pretende di intervenire sulle inefficienze del sistema produttivo con una specifica legislazione antisciopero, oltre a un numero sempre crescente di procedimenti penali iscritti nei confronti di lavoratori scioperanti che realizzano condotte di “picchettaggio”, nelle aule di giustizia penali non si è ancora giunti a una soluzione chiarificatrice.

Ciò nondimeno, in previsione dei conflitti che inevitabilmente si moltiplicheranno nei prossimi anni a causa delle politiche economiche restrittive imposte dagli organismi politici (e non) nazionali e sovranazionali, si auspica che la presa di coscienza emersa in occasione della recente tornata referendaria possa estendersi anche ai temi riguardanti il diritto al lavoro, al fine ristabilire l’equilibrio fra le contrapposte forze sociali, nello spirito solidaristico della Costituzione.

[*] Avvocata penalista, consulente della Cgil di Milano, vice-presidente del Centro antiviolenza Casa delle Donne Maltrattate di Milano, da sempre impegnata nella difesa delle donne vittime di violenza, psicologica, fisica ed economica, che si consuma in ambito “domestico” e nella difesa di uomini e donne che subiscono violenza, in tutte le sue espressioni, nei luoghi di lavoro.

Questo testo è stato pubblicato dal FattoQuotidiano.it il 25 gennaio 2017

Chi ha paura dei referendum sul Jobs Act

 

di Luigi Mariucci [*]

Circolano vari tentativi di ridimensionare la portata e il significato dei referendum sul Jobs Act promossi dalla Cgil. In alcuni casi si ipotizzano modifiche della disciplina tali da consentire il superamento del quesito referendario. Così in materia di voucher. In questo caso non sarebbe da escludere la congruenza di una modifica legislativa che riportasse l’uso dei voucher alla fisionomia originaria, intesi come forma di compenso per prestazioni davvero occasionali e limitate a specifiche categorie (pensionati, studenti,disoccupati).

La questione dei licenziamenti invece è più spinosa, perché la liberalizzazione dei licenziamenti ingiustificati è stata il cavallo di battaglia del Jobs Act, in nome della paradossale idea secondo cui facilitare i licenziamenti servirebbe a incrementare l’occupazione. Qui si pone una alternativa secca: o si modifica in radice la disciplina del Jobs Act, fondata sulla (misera) monetizzazione dei licenziamenti ingiustificati, oppure non c’è modo di evitare il referendum.

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Contro la disuguaglianza, ripensando il futuro. Luciano Gallino: la responsabilità e la speranza

di Lelio Demichelis*

Un onore, come si dice. Parlare di Luciano Gallino, a quasi un anno dalla sua scomparsa (8 novembre 2015). (…).

Voglio iniziare mettendo in luce alcuni fattori che ritengo fondamentali per definire la figura e il pensiero di Luciano Gallino. (…) Il primo elemento è la sua volontà, il suo impegno – soprattutto negli ultimi vent’anni della sua vita, quelli che mi sono più vicini – di fare pensiero critico: quel tipo di pensiero che oggi è drammaticamente passato di moda. Un tempo, anche in Italia e non solo c’erano gli intellettuali impegnati, per non parlare degli intellettuali organici a certe forme di partito e di cultura.

Luciano Gallino era impegnato anche facendo opera di divulgazione sui media, esponendosi anche politicamente, ma soprattutto era disorganico rispetto alla cultura dominante di oggi, cioè alla sommatoria di neoliberismo e di ordoliberalismo. Il suo era appunto un pensiero critico, l’unica forma possibile e autentica di pensiero – ma dire pensiero critico è quasi una tautologia, il pensiero è critico o non è pensiero -, perché pensare, ragionare, riflettere possono esserlo solo in senso critico, problematico, riflessivo, di approfondimento. Il pensiero critico è l’unica forma di pensiero che Gallino – e io con lui – ammetteva. Dove l’aggettivo appunto rafforza semplicemente il sostantivo. (…).

Critica, dunque, ma non per il gusto – autoreferenziale e improduttivo – di criticare; critica – invece – per andare a scavare sotto la superficie del senso comune e dei luoghi comuni e delle nuove ideologie come appunto il neoliberismo/ordoliberalismo; o per svelare l’apparenza delle ombre della nostra caverna di Platone, ombre (o mondo virtuale) che scambiamo sempre più per realtà. Critica, infine come modalità per smascherare il potere, le ideologie, ma anche il nostro conformismo, l’opportunismo dell’indifferenza, e soprattutto la rassegnazione che ci prende come unica forma di reazione all’azione pedagogica dell’ideologia neoliberale; e quindi, critica contro quella stupidità che Gallino vedeva nelle politiche europee di austerità e di Fiscal compact, nei neoliberisti e negli ordoliberali al potere nell’eurocrazia di Bruxelles e di Francoforte, oltre che di Berlino. Ma al potere soprattutto nella società, perché il neoliberismo vuole creare un uomo nuovo, vuole pervadere l’intera società e trasformarla in mercato e la vita in competizione, si propone come un tutto – io dico, come una religione – e vuole essere soprattutto una biopolitica (come ha sostenuto Michel Foucault) governando la vita intera delle persone e delle società.

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Fermare gli attacchi al sindacato nell’Università di San Paolo

In Brasile, in sintonia con l’ondata di attacchi ai diritti sindacali, Marco Antônio Zago, il presidente della più grande università del Brasile, l’Università di San Paolo )USP), persegue ostinatamente il suo progetto dichiarato di ”eliminare il sindacalismo nel campus”.

In aprile I lavoratori e i loro sostenitori hanno respinto il tentativo di allontanare il sindacato dai suoi uffici.

Ora, durante il periodo di vacanze di dicembre, la presidenza ha ottenuto l’ordine giudiziario di espellere il sindacato dai suoi uffici per mezzo della polizia e dei militari, se necessario.

La direzione, inoltre, ha licenziato dirigenti sindacali e ha avviato numerosi procedimenti legali contro i dirigenti e i militanti di SINTUSP.

Questa è una lotta importante e merita tutto il nostro sostegno.

Per favore, dimostrate il vostro sostegno a questi lavoratori cliccando qui:

https://www.labourstartcampaigns.net/show_campaign.cgi?c=3283

E, per favore, condividete questo messaggio con i vostri amici, parenti e iscritti al sindacato.

Les travailleurs turcs manifestent contre les purges de l’après coup d’État

fonte EQUALTIME.ORG

par Jennifer Hattam

Selma Atabey travaillait comme infirmière depuis 22 ans dans la province de Diyarbakır, dans le sud-est de la Turquie, quand elle a été sommairement renvoyée de son emploi par décret gouvernemental à la fin du mois d’octobre. « J’ai dû vendre ma maison et ma voiture, j’ai perdu mon SGK [sécurité sociale], », déclare-t-elle. « Mon fils prépare son examen d’entrée à l’école secondaire et j’ai peur qu’il n’obtienne pas de bons résultats à cause du stress auquel nous sommes soumis. »

<p>Environ 200 travailleurs licenciés accompagnés de leurs sympathisants de la Confédération des syndicats des employés de la fonction publique (KESK) se sont réunis le 21 décembre à Istanbul afin d'initier une marche de protestation en direction de la capitale turque, Ankara, pour demander « Rendez-nous nos emplois ! » Leur tentative a été contrecarrée par la police antiémeute qui a tiré des gaz lacrymogènes dans la foule.</p>
Environ 200 travailleurs licenciés accompagnés de leurs sympathisants de la Confédération des syndicats des employés de la fonction publique (KESK) se sont réunis le 21 décembre à Istanbul afin d’initier une marche de protestation en direction de la capitale turque, Ankara, pour demander « Rendez-nous nos emplois ! » Leur tentative a été contrecarrée par la police antiémeute qui a tiré des gaz lacrymogènes dans la foule.

(Jennifer Hattam)

Atabey n’est qu’une des dizaines de milliers d’employés du secteur public qui ont été démis de leurs fonctions en Turquie après le coup d’État militaire manqué de juillet ; une série de purges que le gouvernement déclare être nécessaires pour la sécurité nationale.

Un grand nombre de fonctionnaires évincés croient qu’ils ont plutôt été ciblés à cause de leurs activités syndicales.

Environ 200 travailleurs licenciés accompagnés de leurs sympathisants de la Confédération des syndicats des employés de la fonction publique (KESK) se sont réunis le 22 décembre à Istanbul dans le froid mordant, la pluie et le vent afin d’initier une marche de protestation en direction de la capitale turque, Ankara, pour demander « Rendez-nous nos emplois  ! »

La veille, une première tentative de marche de 450 kilomètres, qui visait à attirer l’attention sur les licenciements, avait été contrecarrée par la police antiémeute qui avait tiré des gaz lacrymogènes dans la foule.

Les marcheurs ont à nouveau affronté la police à İzmit où elle a tenté de les empêcher de quitter le bureau syndical. Face à la pression croissante exercée par la police, ils ont finalement décidé de se rendre à Ankara en bus où ils ont organisé une manifestation le samedi 24 décembre.

« Nous nous battons simplement pour nos droits et ils nous accusent d’être des terroristes, » déclare Atabey, qui assure la coprésidence de la filiale de l’Union des travailleurs de la santé et des services sociaux (SES), une affiliée de la KESK, à Diyarbakır. Bien que l’infirmière déclare qu’elle n’a jamais fait l’objet d’une enquête auparavant pour quelque raison que ce soit, les décrets gouvernementaux la révoquent, elle et d’autres personnes issues de la fonction publique, en les identifiant comme « appartenant ou affiliés à une organisation terroriste ou une structure, formation ou un groupe déterminé par le Conseil national de sécurité [de la Turquie] comme agissant contre la sécurité nationale de l’État ».

Ces décrets ont été adoptés dans le cadre de l’état d’urgence décrété en Turquie après la tentative de coup d’État du 15 juillet durant lequel plus de 300 personnes ont été tuées.

Le putsch manqué a été attribué aux partisans du religieux islamique basé aux États-Unis, Fethullah Gülen, auparavant allié rapproché et désormais ennemi juré du Président turc, Recep Tayyip Erdoğan.

Les purges du secteur public visaient des personnes ayant des liens présumés avec Gülen ainsi que celles qui étaient accusées d’entretenir des liens avec le Parti militant des travailleurs du Kurdistan (PKK) et d’autres groupes connexes.

Au cours des 18 derniers mois, près de 500 personnes ont été tuées en Turquie dans des attaques à la bombe attribuées soit au PKK et ses émanations soit à des attaquants liés à Daesh.

« Des mouvements terroristes cherchent à déstabiliser nos démocraties et à saper nos valeurs. Nous ne pouvons pas permettre que des terroristes prennent le contrôle de nos vies », a déclaré le ministre turc des Affaires étrangères, Mehmet Çavuşoğlu, au Conseil de l’Europe en octobre, défendant son pays contre les critiques liées aux récentes mesures de répression.

Après l’assassinat à Ankara de l’ambassadeur russe en Turquie cette semaine par un homme identifié comme un agent de la police turque hors service, le conseiller d’Erdoğan, İlnur Çevik a déclaré que cet assassinat démontrait que les purges « n’étaient tout simplement pas suffisantes ».


Arrestations, licenciements en masse

Depuis la déclaration de l’état d’urgence, environ 125 000 personnes employées par le gouvernement ont été démises de leurs fonctions et près de 40 000 ont été arrêtées.

Ces chiffres comprennent aussi bien des policiers et soldats soupçonnés d’aider ou de soutenir la tentative de coup d’État que des dizaines de milliers d’enseignants, travailleurs de la santé et autres fonctionnaires.

Mustafa Yurtsever, un technicien en anesthésie, et son épouse, une sage-femme, ont tous les deux été démis de leurs fonctions dans un hôpital de l’État dans le sud-est de la province de Batman par le biais d’un décret gouvernemental publié le 22 novembre. « Nous l’avons appris en ligne, comme tout le monde », déclare Yurtsever, président de la filiale de la SES à Batman. « Nous avons trois enfants et notre niveau de vie a chuté de façon spectaculaire depuis que nous avons perdu notre emploi. »

Selon Yurtsever et d’autres travailleurs licenciés, les hôpitaux privés et les autres employeurs en dehors du secteur public (qui paient généralement un salaire inférieur à celui des emplois gouvernementaux) font l’objet de pressions afin qu’ils n’embauchent pas les personnes licenciées par ces décrets gouvernementaux, ce qui revient à une liste noire sur les moyens de subsistance potentiels.

L’envergure de ces purges a été comparée aux conséquences du coup d’État de 1980, le renversement militaire le plus récent de l’histoire de la Turquie.

Quelque 650 000 personnes avaient été arrêtées et 230 000 traduites en justice au cours de cette période. Une série de lois promulguées après le coup, ainsi que la constitution adoptée en 1982, restreignirent sévèrement la syndicalisation et les actions de grève ainsi que d’autres aspects de la société civile.


Les syndicats sous pression

Les syndicats sont moins une cible principale des purges actuelles qu’ils ne l’étaient dans les années 1980, selon Howard Eissenstat, un spécialiste de la Turquie de l’Université St-Lawrence aux États-Unis.

Mais il qualifie les fonctionnaires, y compris les enseignants, et d’autres professionnels visés actuellement comme « les derniers bastions de la résistance à la monopolisation de la sphère publique » par le parti au pouvoir d’Erdoğan, le Parti de la justice et du développement (AKP).

« Qu’ils soient soupçonnés d’être des « gülenistes » ou qu’ils soient simplement critique envers l’État, l’AKP est maintenant déterminé à les briser, » déclare Eissenstat à Equal Times. « L’ironie est que l’AKP avait accédé au pouvoir en promettant d’éliminer les vestiges antidémocratiques du coup d’État de 1980. En lieu et place, ils semblent disposés à les renforcer. »

Les purges actuelles ne constituent pas la première fois que les travailleurs font l’objet de pressions sous l’AKP, qui a fréquemment bloqué des actions de grève et engagé des poursuites à l’encontre de membres de syndicats pour avoir participé à des manifestations non autorisées.

Depuis l’accession au pouvoir de l’AKP en 2002, les taux de syndicalisation en Turquie ont chuté de 25,1 % à à peine 6,3 % en 2013, soit le deuxième taux le plus faible enregistré parmi un pays de l’OCDE.

Canan Çalağan, professeur d’arts visuels à Ankara et ancienne membre du conseil exécutif de la KESK, figurait parmi les dizaines de travailleurs syndiqués arrêtés en 2012 et accusés d’appartenance à l’Union des communautés du Kurdistan (KCK), un organisme faîtier pour le PKK. Elle a été emprisonnée pendant huit mois avant d’être libérée dans l’attente d’un procès.

« Deux ou trois mois après mon arrestation, mon mari, qui est aussi militant syndical, a aussi été arrêté et ma famille et mes amis ont dû prendre soin de notre fils de 12 ans parce qu’il n’y avait personne pour s’occuper de lui. Ils ne veulent pas seulement nous punir, nous, mais aussi toute notre famille  », déclare Çalağan, qui est membre de l’affilié Eğitim Sen, le syndicat des travailleurs de l’éducation et des sciences.

« La raison donnée pour notre arrestation était « appartenance à une organisation illégale », mais la preuve produite pour étayer cette accusation était notre participation à des activités syndicales. »

Mehmet Sıddık Akın, un technicien en soins de santé et membre de la SES à Ankara se trouvait également parmi les militants syndicaux emprisonnés en 2012. Tout comme Çalağan et son mari, il a été congédié de son emploi en vertu d’un décret gouvernemental promulgué le 29 octobre.

« J’ai deux enfants scolarisés, une fille souffrant d’une affection cardiaque et un fils qui étudie pour son examen d’entrée. Ma femme a commencé à prendre des antidépresseurs à cause de notre situation, » déclare Akın. « Nous recevons un peu d’aide financière de la part du syndicat et de nos amis, mais tous sont des travailleurs gagnant peu, comme nous, et ils ne pourront pas maintenir cette solidarité éternellement. »

Pourtant, déclare Akın, « je ne perds pas l’espoir. Je sais que nous n’avons rien fait de mal et notre seule option est de continuer à lutter. »

 

LA TRAGEDIA MECNAVI SI RIPETE NEL PORTO DI MESSINA: TRE LAVORATORI MORTI IN UNA CISTERNA DEL TRAGHETTO SANSOVINO



LA NOTIZIA

Gravissimo incidente sul lavoro su una nave della Caronte & Tourist, ex Siremar, nel porto di Messina. Tre marinai sono morti e un altro è rimasto gravemente intossicato durante i lavori di manutenzione di una cisterna del traghetto Sansovino, mentre era attraccato al molo San Raineri. Uno dei marinai è morto sulla banchina, gli altri due all’ospedale Papardo e al Policlinico. Il quarto marittimo è stato ricoverato in condizioni disperate. Le tre vittime sono Gaetano D’Ambra, secondo ufficiale di coperta di Lipari, Christian Micalizzi, primo ufficiale di Messina; Santo Parisi, operaio di Terrasini. Il marittimo ricoverato in gravi condizioni si chiama Ferdinando Puccio. fonte repubblica.it

Una prima riflessione

Molti anni fa il 13 marzo 1987  13 lavoratori morirono nella stiva della motonave Elisabetta Montanari nel Porto di Ravenna. Lavoro irregolare allora , senza una gestione della sicurezza per il lavoro in ambienti confinati.
Ancora una volta la tragedia si ripete oggi  nel porto di Messina. Il lavoro in ambienti confinati richiede precise metodologie di gestione dei rischi, in particolare per le esalazioni da sostanze chimiche. 
Si può dire sin d’ora che qualcosa non ha funzionato nella valutazione preventiva e gestione dei rischi specifici di quella lavorazione svolta in ambiente confinato.Le conoscenze tecnico operative e i DPI appropriati  attuali a disposizione di qualsiasi azienda consentono, se forniti e applicati correttamente, di lavorare in sicurezza in qualsiasi tipologia di lavoro in ambiente confinato. Altro non vogliamo dire, in attesa delle indagini delle autorità preposte . Oltre al cordoglio e alle condoglianze per le famiglie delle vittime una profonda amarezza: trent’anni dalla tragedia Mecnavi e siamo ancora di nuovo al grado zero nella valutazione e gestione dei rischi negli ambienti di lavoro confinati?

Gino Rubini, editor di diario prevenzione

 

Robot e macchine intelligenti al posto di lavoratori e operai

fonte Area7.ch

Il futuro è vicino, si trova a Lodrino. Una ditta piemontese poco tempo fa ha ottenuto una licenza di costruzione per uno stabilimento dove si produrrà rubinetteria. Nei 10.000 metri cubi del capannone lavoreranno sei persone: tre amministrativi e tre operai che controlleranno le 16 linee robotizzate. Ma la vera novità è che le nuove tecnologie rimpiazzano non solo il lavoro manuale, ma anche quello intellettuale. Che ne sarà delle persone, del lavoro, dello Stato sociale come oggi lo conosciamo? Sono interrogativi urgenti che affrontiamo in questo articolo.

A Lodrino il gruppo Nobili investirà 1,8 milioni di franchi per costruire uno stabilimento lungo 70 metri per 25, per un totale di 10.000 metri cubi distribuiti su due livelli. I nuovi posti di lavoro creati saranno sei, di cui tre operai e tre amministrativi. La produzione la faranno 16 macchine robotizzate. 100.00 i franchi di imposte annuali previsti. Elevata automazione dunque, dove la presenza umana è notevolmente ridotta. Il Gruppo Nobili vanta una lunga storia in quest’ottica. Nel suo stabilimento principale a Suno (Novara), 252 dipendenti producono ogni anno 2,6 milioni di pezzi finiti, un volume che mediamente richiede il lavoro di 500/600 addetti. Il doppio. «Ora abbiamo un centinaio di robot antropomorfi che svolgono il lavoro di venti persone ciascuno» ha spiegato al quotidiano Il Sole 24 Ore il titolare Alberto Nobili. Si potrebbe pensare che alla fabbrica novarese l’entrata dei robot abbia ridotto il personale umano. Invece no. La ditta si vanta di non aver licenziato negli anni più difficili, come la crisi globale del 2008. Fonti sindacali italiane interpellate da area, lo confermano. Alla crisi il Gruppo Nobili ha risposto con investimenti nell’automazione.
Questo è un piccolo esempio. C’è chi lo fa su larga scala. La provincia di Guangdong, epicentro manifatturiero cinese, ha stanziato finanziamenti per 152 miliardi di dollari in 2.000 fabbriche. L’obiettivo è avere otto fabbriche su 10 totalmente automatizzate entro 2020.
Il futuro è tracciato. Per comprimere i costi della forza lavoro, delocalizzare o importare la manodopera sottopagata è roba superata. Oggi si punta all’automazione di ultima generazione.
Il risultato sarà un mondo del lavoro radicalmente trasformato in tempi brevi. Lo attestano tutti gli studi sulla materia. Limitiamoci a citarne due. Nell’ultima edizione, il World Economic Forum ha presentato l’analisi “Future Jobs”. I risultati dicono che da qui al 2020 nel mondo si perderanno 7,1 milioni di posti di lavoro, a cui farà da contrappeso la nascita di altri 2,1 milioni di posti di lavoro più specializzati. 5 i milioni di impieghi persi in quattro anni.

Secondo studio: «Il futuro della forza lavoro» finanziato da Ubs. Esso prevede che entro il 2025 (meno di nove anni dunque) il 47% delle professioni odierne – quasi un lavoro su due – scomparirà a causa del progresso tecnologico. La metà dei lavoratori rimanenti diventeranno quasi tutti dei freelance,
lavoratori indipendenti o pseudo tali. Se freelance potrebbe suonare carino, val la pena ricordare che anche i proprietari di auto e pseudo tassisti Uber li considera indipendenti per pagarli una cicca mentre loro incassano miliardi senza sborsare un soldo per coperture sociali.
È indubbio che l’impatto della rivoluzione tecnologica sarà devastante.

Non solo per le persone, le modalità di lavoro e le sue condizioni, ma per l’intera società. Lo Stato si fonda sul lavoro. Le pensioni, l’assicurazione invalidità e la disoccupazione si finanziano con i prelievi sui salari versati da dipendenti e aziende. Se il lavoro dipendente calasse vertiginosamente perché sostituito dall’intelligenza artificiale e da un’esplosione di freelance, lo Stato sociale come lo conosciamo oggi in Svizzera sparirebbe. Basti dire che la legge attuale impedisce a un lavoratore indipendente di versare i contributi dell’assicurazione disoccupazione, e dunque di averne diritto nel caso di necessità.
Il problema è reale. In Europa il numero di freelance è cresciuto tra il 2004 e il 2013 del 45%, passando da 6 a 9 milioni. Buona parte di questi lavoratori indipendenti sopravvivono con molteplici lavoretti precari e malpagati che li occupano tutto il tempo. Senza contare che non hanno alcuna copertura in caso di ferie, malattia, invalidità e difficilmente riusciranno a garantirsi una pensione.
Non si tratta di fare del catastrofismo, ma di guardare in faccia la realtà prima che questa ci investa come un treno in corsa.

Nessuna professione si salva: avvocati, medici, bancari, giornalisti, autisti, analisti finanziari

A rubarci il lavoro non sarà la delocalizzazione o l’importazione di forza lavoro immigrata a basso costo. Sarà l’intelligenza artificiale. Quest’ultima non va confusa con l’automazione, cioè la semplice ripetizione meccanica di un gesto, tipico dei robot da catena di montaggio per intenderci. Intelligenza artificiale intesa come computer in grado di acquisire un’enormità di dati e, grazie a un algoritmo, ragionare autonomamente producendo una soluzione. Sono dei computer che imparano, anche dagli errori, e migliorano col tempo diventando sempre più affidabili.
La quarta rivoluzione tecnologica non farà prigionieri. Dai lavori più semplici a quelli elaborati, non si salva nessuno. I pony express saranno sostituti da droni per le consegne. Già oggi la Posta svizzera li sta testando per le consegne domenicali o nelle zone periferiche. La stessa Posta sta testando in Vallese da qualche anno gli autopostali senza conducente. Nel medesimo campo, la Daimler ha ottenuto lo scorso anno la prima licenza per circolare sulle autostrade del Nevada di un camion guidato da un software, il Freightliner Inspiration. Nell’ultimo censimento degli Stati Uniti, l’autista di Truck era la professione più alta in 29 stati su 50. Ben si capisce il timore causato da questa novità.
Gli operatori dei call center lasceranno invece il posto ad Amelia, il software talmente sofisticato da interagire con gli umani senza che questi si accorgano di parlare con un computer. Negli ospedali americani, Tug, un robot, porta i pasti, le lenzuola e le medicine. El Camino Hospital di Mountain View, la stessa città sede di Google, possiede 19 Tug. Il risparmio netto dell’ospedale è di 350.000 dollari di spesa iniziale contro un milione di personale umano l’anno.
Ma la vera novità è che le nuove tecnologie rimpiazzano non solo il lavoro manuale, ma anche quello intellettuale. E la rivoluzione tecnologica viaggia talmente veloce che i posti di lavoro soppressi saranno notevolmente di più dei nuovi creati. Disoccupazione tecnologica, l’aveva definita con largo anticipo l’economista John Maynard Keynes negli anni ’30. Non è fantascienza. Prendiamo l’esempio della professione di chi qui scrive. La rivista Forbes è famosa per le sue classifiche dei più ricchi al mondo. Tutte le sue notizie online trimestrali sulle principali aziende americane le scrive il software Narrative Science. Anche il Los Angeles Times ha un software che confeziona articoli su terremoti, incendi e omicidi attingendo a fonti certe. Pure le cronache sportive minori sono scritte da computer. Il software non fa inchieste o approfondimenti, ma Narrative Science può persino calibrare la prosa, attingendo a articoli di grandi giornalisti di un tempo. Il lettore sarà estasiato, senza accorgersi che è stata scritta da una macchina.
Anche le professioni mediche possono essere in parte sostituite. Enlitic è un software che legge meglio dei radiologi le radiografie. È stato dimostrato che le analisi umane delle colonscopie erano sbagliate nel 6% dei casi rispetto a quelle di Enlitic. La malattia c’era, contrariamente a quanto diagnosticato dal radiologo umano. Enlitic legge meglio, più in fretta e costa meno, molto meno, di un radiologo. Sedasys invece è un computer utilizzato in quattro ospedali statunitensi che ha preso il posto dell’anestesista nel sedare i pazienti per analisi invasive. Economicamente un bel risparmio, vista la tariffa oraria di un anestesista. C’è perfino il dottor Watson, un computer dell’Ibm in grado di fagocitare in pochi minuti i resoconti medici del mondo intero su una malattia specifica che circolano nel web, elaborare una diagnosi, prescrivere medicine e preparare la farmacia per il paziente. Per ora solo un test, ma presto sarà una realtà. Gli avvocati non pensino di essere al sicuro. Il software capace di elaborare pareri giuridici sulla scorta della giurisprudenza e dottrina in tempo reale già esiste. Alcuni studi legali americani già li utilizzano.
Anche gli analisti finanziari hanno poco da sorridere. Il programma Warren già oggi sta sostituendo gli analisti junior, cioè quelli all’inizio della loro esperienza. D’altronde, buona parte dei giochi in borsa sono determinati da algoritmi. «Le tecnologie finanziarie provocheranno una riduzione del personale delle banche» ha dichiarato Sergio Ermotti, amministratore delegato di UBS, al Salone internazionale dei servizi finanziari di Ginevra lo scorso mese, concludendo: «Senza intelligenza artificiale sarà impossibile stare al passo».
Economicamente, non c’è storia nel conflitto uomini contro software. Lavorano 24 ore su 24, non vanno in vacanza, non si ammalano, non rivendicano aumenti di paga né migliori condizioni di lavoro. Il capitalismo, che per sua natura ha l’obiettivo del massimo margine di profitto, non può che rimanere affascinato. Ma senza reddito da lavoro, i consumi crolleranno. E questo è un altro nodo importante da sciogliere.

FONTE AREA7.CH

Pubblicato il 

23.11.16 ..

Claudio Sabattini alla Fiat nel 1977. Una intervista a Luciano Pregnolato

Redazione | 24 novembre 2016 | Comments (0)

FONTE INCHIESTAONLINE.INFO

Testimonianze del Settantasette operaio di Torino (nella foto manifestazione alla Fiat nel 1977)

Intervista a Luciano Pregnolato, 5° Lega Flm, a cura di Simone Vecchi Torino 24 aprile 2007

 

D. Claudio Sabattini arriva a Torino all’inizio del 1977. Dopo la stagione 1969-‘73, e prima dell’arrivo di Sabattini, che contesto abbiamo, e al suo interno come si muove il sindacato a Torino, alla Fiat? Siamo in una fase in cui alla Fiat si susseguono innovazioni di carattere tecnologico e organizzativo. Fino a che punto le innovazioni di quegli anni vengono contrattate o inserite unilateralmente dalla Fiat?

 

Per capire il 1977 alla Fiat occorre ricordare che esistono due grandi spartiacque, il primo è il biennio 1968-‘69, e poi il 1980. Il 1968-‘69 per i lavoratori Fiat è stata la prima esperienza di conflitto a partire dalle condizioni di lavoro per nuove conquiste sindacali, e nel 1980 la Fiat determinò la sconfitta di quelle che furono le conquiste degli anni Settanta e del potere contrattuale acquisito dal 1968-‘69 sino alla seconda metà degli anni Settanta.

Claudio arrivò a Torino, come responsabile di Segreteria per il settore auto – e quindi per la Fiat – nel gennaio del 1977, in contemporanea al passaggio fra Bruno Trentin e Pio Galli, ed è la prima volta che non è il segretario generale della Fiom a seguire direttamente il settore auto e la Fiat.

Fino al febbraio del 1971 io avevo lavorato in Fiat-Aeritalia, poi la Fiom provinciale mi chiese di fare l’esperienza sindacale alla 1° Lega di B. S. Paolo a Torino, nel 1972 andai alla Lega Fiom di Mirafiori a seguire le Fonderie, e dal 1975 le Carrozzerie con la responsabilità della 5° Lega Fiom, poi alla fine del 1979 andai in Cgil regionale. La mia esperienza con la Fiat Mirafiori, quindi, nasce con la 5° Lega, è il periodo dell’unità sindacale, della Flm, è il periodo dei Consigli di fabbrica. A quel tempo a Mirafiori c’erano 60.000 dipendenti.

Occorre quindi ricordare com’è nato nel 1968 il grande conflitto all’interno della fabbrica: gli operai che dal Sud venivano a lavorare a Torino si son trovati in un ambiente di lavoro, di linea, di catena di montaggio (basta immaginare la Saldatura, la Lastroferratura) dove c’erano piccole stazioni, con mansioni scomposte, mansioni semplici. Era un ambiente saturo di polvere e di fumo, di puzza, e pieno di schegge prodotte dai dischi che levigavano le scocche. Si lavorava in mezzo alla nebbia. In più c’erano i capi, che determinavano tutto. E gli operai piemontesi, i vecchi che avevano subìto tutte le precedenti fasi – dal Dopoguerra agli anni Sessanta, con le repressione subìte – da una parte erano vigili, militanti e avanguardie, dall’altra però una parte di loro diceva: «Giovani, attenti a come vi muovete, non esponetevi». Questo era il clima all’interno della fabbrica. Una condizione di lavoro dura, inaccettabile, dove se la produzione non veniva eseguita secondo i tempi che la Fiat assegnava, il capo pretendeva che gli operai la recuperassero e se non riuscivano a farlo, tagliava il salario nel rapporto col rendimento, col cottimo. Le pause non c’erano, se dovevi andare in bagno dovevi correre, per mangiare dovevi correre. L’ambiente era considerato un inferno.

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Tiziano Rinaldini: Costituzione, democrazia, sindacato

fonte : inchiestaonline.it

Diffondiamo dal numero da poco uscito a stampa di “Alternative per il socialismo”

Nello scontro aperto sul voto referendario è forte il rischio di ricondurlo e ridurlo ad una dimensione di interesse politico contingente con  un consenso ricercato a prescindere dal significato più profondo dell’operazione istituzionale  che si cerca di attuare e del suo rapporto con le vicende sociali in corso. Si può perdere così l’occasione di valutare questo passaggio dal punto di vista e nel quadro della  più generale questione della crisi della democrazia  e della politica e coglierne così l’importanza e la pericolosità ben oltre gli stessi singoli punti di modifica costituzionale.

È questo che consente di motivare nel profondo la ragione per cui è importante che prevalga il NO.

L’effetto di una sconfitta, come vedremo, sarebbe accanto all’indebolimento strutturale del valore della carta costituzionale, l’indebolimento della  possibilità e capacità di contrasto ad ulteriori inquietanti sviluppi della crisi democratica in corso e l’aumento della difficoltà da superare per  tentare risalite. Per questo questa mia nota non si sofferma tanto sulle particolari e specifiche modifiche di articoli della Costituzione, su cui sono note e diffuse fondate obiezioni a partire dalla supposta semplificazione e riduzione dei costi ( che comunque non sono di per sé valori costituzionali).

Mi limito soltanto a citare il fatto che si chiede un SI o un NO  su titoli che rinviano a pagine e pagine di riscrittura di articoli della Costituzione che nessuno dei votanti avrà modo di leggere e capire davvero, e la cui interpretazione comunque richiederebbe competenze specialistiche.

È tra l’altro sin da ora evidente che si apriranno infiniti contenziosi. Ciò su cui intendo qui concentrarmi è la ragione centrale più che sufficiente per motivare la necessità di respingere la proposta del governo. A questo scopo elenco in sequenza alcuni punti (di innegabile riscontro di realtà) che introducono la ragione centrale.

1. Parto dalla constatazione che siamo chiamati ad approvare 46 cambiamenti di articoli della Costituzione con un risultato di modifica costituzionale la cui rilevanza è da tutti riconosciuta pur nei  diversi gradi di  valutazione. In particolare appare indiscutibile la curvatura nel senso del rafforzamento dei poteri esecutivi e deliberativi del governo rispetto alla dimensione partecipativa.

Queste modifiche sono state predisposte da un governo composto e sostenuto da una maggioranza con dentro vari trasformismi ed eletto da un parlamento che a sua volta è stato eletto con una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale. Si porrebbe quindi prioritariamente l’esigenza di una legge elettorale rispettosa dell’attuale costituzione su cui fare nuove elezioni che rendano possibile una legittimazione costituzionale  democratica del parlamento e del  governo.

Il percorso che ha portato alla proposta di revisione costituzionale (per molti una vera e propria controriforma) non ha mai coinvolto e reso protagonista l’insieme del mondo politico, sociale e culturale, al di fuori di uno schema di maggioranza e minoranza parlamentare.

La proposta di cambiamento non solo si configura come partorita nell’ambito delle attuali rappresentanze partitiche istituzionali (di cui conosciamo la crisi di rappresentanza reale) ma anche come di una parte contro l’altra.

2. Il paese viene chiamato ad un referendum imposto nella profonda divisione e spaccatura nei (e dentro) i partiti, nelle associazioni e nel mondo culturale. La proposta di cambiamento vede il paese profondamente diviso a tutti i livelli.

Infine tutto ciò inerisce non una legge ordinaria o un decreto governativo, ma la legge per eccellenza, cioè il testo a cui dovrebbero sottostare tutte le leggi, i decreti e gli atti nella vita della repubblica.

La Costituzione quindi non può essere frutto della contingenza elettorale  e del governo e del parlamento derivante. La sua formulazione richiede la ricerca di un generale consenso e  adesione   come condizione di base.

L’attuale  nostra Costituzione (fondante la democrazia nel nostro paese)è con particolare chiarezza figlia di questa consapevolezza. Il percorso originario portò alla promozione ed elezione di una Assemblea costituente su basi proporzionali distinta da parlamento e maggioranza governativa, ampiamente rappresentativa sul piano sociale e culturale, che per un anno con il supporto del lavoro di svariate commissioni costruì il testo della Costituzione poi approvata.

3.Mi pare difficile, o meglio impossibile, negare che stiamo assistendo ad un tentativo di cambiamento della Costituzione con un percorso opposto rispetto al percorso che fu attuato per deliberare le basi della nostra Repubblica.Da questo punto di vista, anche al di là dei singoli punti che si vogliono cambiare, si può parlare di controriforma. Viene infatti legittimata un’idea della Costituzione come strumento modificabile in relazione all’opinione e all’interesse contingente del parlamento e della sua maggioranza di volta in volta.

4.Il quadro si aggrava ulteriormente in relazione alla proposta di una legge elettorale che più che alla necessità di premiare la rappresentanza cerca di superare le obiezioni sul premio di maggioranza (che hanno portato la corte  costituzionale a considerare incostituzionale l’attuale legge) con una sostanziale riconferma del peso del premio di maggioranza..

Comunque proprio in relazione al ragionamento sin qui svolto, non vedo come il giudizio possa cambiare in cambio di mediazioni sulla legge elettorale, il cui unico scopo sarebbe la riconferma del cambiamento costituzionale con il metodo prima denunciato. La ragione centrale del NO è nella ferita democratica qui delineata che si sta determinando sul valore e sul senso della Costituzione. Considero significativo che questa ragione venga ignorata o oscurata dai sostenitori del SI. Nel contempo a me pare anche troppo spesso trascurata da parte di chi si oppone, lasciando che prevalga la polemica sui singoli punti, apparentemente più adatti all’efficacia del contrasto oppositivo. Non basta sostegno o polemica sulla necessità di modifiche importanti se questo non viene di partenza subordinato ad un percorso coerente con il percorso delle origini.

Non è certo un caso che tra le più significative e ferme forze che si oppongono alla proposta di Renzi vi sia l’ANPI.

Se poi l’obiezione che viene sollevata a questo argomento è che ci si aggrappa al metodo e alla forma per sfuggire al merito e alla sostanza. viene ancor più confermata la validità di quanto qui sostenuto. Con un vecchio trucco (sotto il quale nella storia si sono spesso nascoste le peggiori intenzioni) il metodo viene contrapposto e separato dal merito mentre in questo caso considerata la particolare qualità democratica della nostra Costituzione, il metodo e la forma sono il principale merito e sostanza su cui costruire il giudizio.

5. A me pare così evidente che fatico a capire come si siano adeguati a questa deriva illustri e rispettabili democratici (tra i quali non colloco Napolitano che considero ispiratore di quanto sta accadendo) sostenitori del si .

Come di sovente accade nel nostro Paese, confermando una della ragioni della crisi della politica, i cittadini (considerati più plebe che cittadini) vengono chiamati a decidere senza dichiarare chiaramente e apertamente il significato e la scelta che si intende compiere e ciò su cui sono chiamati a consentire. Si nasconde la richiesta ad una svolta costituzionale non dichiarandola, ma occultandola come se si trattasse di manutenzione e valorizzazione della costituzione originaria, mentre, come abbiamo visto, a partire dalla forma e dal metodo ben altro è il segno dell’operazione in corso. Sotto definizioni in sé neutrali e di buon senso come semplificazione, velocizzazione e praticabilità decisionali, costi, operatività delle scelte dell’esecutivo, non si dichiara la evidente scelta di curvatura autoritaria della nostra democrazia ben diversa dallo spirito costituzionale originario.

Non nego che vi siano aspetti della Costituzione che andrebbero aggiornati e modificati, ma con un ben altro percorso che risponda semmai ad una domanda di attuazione della attuale Costituzione e di difesa e rafforzamento dei vincoli di equilibrio e di relazione tra gli aspetti deliberativi e gli aspetti partecipativi della nostra vita democratica. È esattamente l’opposto di ciò su cui siamo chiamati ad acconsentire, ritenendo che ciò possa essere permesso  dalla fase politica, sociale e culturale che stiamo attraversando. La tendenza a far prevalere una dimensione autoritaria della democrazia è infatti molto favorita e indotta da una ormai lunga fase che attraversa certamente non solo il nostro paese ma l’insieme delle democrazie europee e quel il modello sociale costruito,  dal secondo dopoguerra ad oggi nei paesi europei, pur nelle diverse traduzioni e percorsi. È la tendenza di reazione prevalente al crescente distacco tra la sfera partecipativa e quella deliberativa, e alla crescente crisi di rappresentanza della politica (non solo dei partiti) con conseguente crisi dei  particolari equilibri costituzionali europei del secondo dopoguerra.

Questo processo è stato oggetto in questi anni di opere di analisi, descrizione e denuncia in relazione agli effetti della finanziarizzazione e globalizzazione dell’economia, e del  crollo dell’alternativa sovietica.

È il caso della recente pubblicazione in Italia con ritardo di 3 anni dell’ultimo libro dello scomparso studioso di scienze politiche Peter Mair dal significativo titolo “Governare il vuoto” (ed. Rubbettino), presentato con un utile saggio critico di Alessandro Somma pubblicato sul numero 193  della rivista “Inchiesta” e diffuso in rete.

5. Renzi e il PD adeguano la nostra Costituzione a questa tendenza come auspicato e richiesto con precisione tre anni fa nel rapporto della banca d’affari J.P.Morgan, autorevole e potente interprete delle ragioni del mondo finanziarizzato, a guida statunitense.

“I sistemi  politici dei paesi del Sud e in particolare le loro Costituzioni adottate in seguito alla caduta del fascismo presentano una seria di caratteristiche inadatte alla integrazione dell’area europea……, hanno di solito le seguenti caratteristiche:leadership  debole, stati centrali deboli rispetto alle regioni, la tutela costituzionale dei lavoratori….. il diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi……”.

La vicenda referendaria diviene così un passaggio di rilevante sviluppo interno alla crisi della democrazia e della politica, e anche una occasione per recuperare più consapevolezza su come si configura su questo il futuro, se ci sarà, di una reazione democratica e di sinistra.

Il problema della crisi della democrazia e della politica resterà comunque aperto al di là dell’esito del  referendum che pure  influirà sulle condizioni successive su cui dovremo continuare a misurarci

Nell’ultima parte di questa mia nota cercherò di approfondire come in relazione alla crisi della democrazia e della politica la questione del referendum costituzionale può essere vissuta nel mondo del lavoro e nel sindacato (le difficoltà esistenti, l’interesse e l’attenzione da parte dei lavoratori, le diverse scelte delle organizzazioni).

Parto dalla considerazione che in questi ultimi decenni, in sostanziale continuità tra i vari governi (con sempre maggiore evidenza e celerità) leggi ordinarie e decreti (preceduti o seguiti da processi contrattuali imposti con ragioni unilaterali) hanno destrutturato e anche cancellato diritti dei lavoratori e poteri di contrattazione conquistati in un lungo percorso dal secondo dopoguerra (quando nasce questa Costituzione) agli anni ’70 del secolo scorso. Sono state rimesse ampiamente in discussione le stesse conquiste sul piano dello stato sociale.

Abbiamo quindi assistito ad un processo in cui si è imposto sempre più chiaramente il dominio dell’economia con la riduzione del lavoro a un fattore da adeguare per realizzarne il successo dell’economia capitalistica.

In questo senso è evidente il rovesciamento dello spirito costituzionale delle origini.

6. Per la verità anche la fase precedente vedeva la Costituzione ampiamente disattesa, ma restava comunque riconosciuto come impianto programmatico a cui rifarsi per reagire alla repressione e a tentativi antidemocratici, e per avanzare sui diritti e le condizioni del mondo del lavoro. Questo rapporto tra le lotte dei lavoratori, la difesa e lo sviluppo della democrazia e il richiamo alla Costituzione ha a lungo funzionato nella stessa convinzione dei lavoratori.

Ancora recentemente per la verità è il richiamo alla Costituzione che, ad esempio, ha permesso di costringere la Fiat a una salvaguardia minima delle libertà sindacali.

Dalla fine degli anni ’70 si è avviato un percorso opposto che ha reso sempre più debole la consapevolezza  di questo rapporto sino ad indurre sempre più gli stessi lavoratori ad ignorare che la Costituzione possa essere riferimento fondamentale a cui commisurare i propri diritti e la pratica democratica nei luoghi di lavoro.

Per stare ad alcuni dei passaggi più recenti citiamo l’attacco all’art.18 e allo Statuto dei lavoratori; l’art.8 con cui sono stati resi derogabili i vincoli contrattuali e persino legislativi; i vari passaggi della controriforma previdenziale; la deregolazione delle forme di rapporto di lavoro fino ai voucher; l’utilizzo delle variazioni fiscali e contributive finalizzate a influire su forme e merito della contrattazione; le leggi sugli appalti e sulla possibilità di esternalizzazione o affidamento ad altre imprese di parti del ciclo produttivo.

Il tutto è avvenuto in presenza  di un continuo processo ristrutturativo e riorganizzativo che ha coinvolto e coinvolge  la forma dell’impresa e le condizioni del lavoro, le stesse forme del rapporto di lavoro all’interno di una crisi profonda dell’occupazione con forti problemi salariali e crescita della disuguaglianza.  È  un quadro già noto e denunciato.

 

7. Vengono richiamati dalla Stato stesso ad adeguarsi alle esigenze prioritarie dell’economia, dell’impresa e del mercato. Per realizzare questo obiettivo sono stati attuati vari  interventi e passaggi (prima citati) con leggi, decreti e regolazioni contrattuali conseguenti. Molti di questi interventi sul piano del fisco, dei contributi e dei diritti sono peraltro di dubbia costituzionalità.

C’è stata anche una significativa e pesante modifica costituzionale con l’introduzione dell’obbligo del pareggio di bilancio (fiscal compact) come richiesto dall’Europa con il consenso generale, anche di gran parte del sindacato. Tutto ciò è avvenuto in vari tempi e in modo  crescente con gli ultimi governi, con novità quotidiane, come tessere di un mosaico a cui hanno concorso varie mani, di fatto in sintonia fra di loro.

8. Il contrasto politico e anche sindacale (pur con importanti eccezioni)  è stato debole o per lo più  di carattere  emendativo. Sopratutto, anche nella cultura di sinistra è parsa prevalere  nell’opporsi la sottovalutazione e la incomprensione delle operazioni di quadro su cui veniva disegnato il futuro rispetto alla possibilità per i lavoratori di risalire la china senza dover delegare  questa possibilità alla “politica”. Antichi limiti non hanno, a mio parere, aiutato a capire che nel processo descritto stava e sta il carattere strategico centrale della inquietante deriva democratica e della crisi della politica.

La cosiddetta aziendalizzazione  a cui sindacato e lavoratori debbono ridurre l’orizzonte della loro azione e ruolo (quando e se ammesso) ci può aiutare a capire concretamente ciò che sta accadendo  (in parte è  già accaduto). In sostanza i vari aspetti della condizione sociale e lavorativa vengono spinti a cercare risposte a livello aziendale in alternativa al crescente svuotamento (se non cancellazione) dei contratti nazionali e al progressivo indebolimento di quel po’ di stato sociale conquistato in ritardo nel passato  nel nostro paese. Ovviamente questo spazio è dato solo in relazione al successo e alla compatibilità stabilita dall’impresa.

Con l’intervento sul piano fiscale e sui contributi per quanto riguarda il salario e salario sotto forma di servizi sociali, viene precostituita la convenienza a ricercare aziendalisticamente risposte aziendalistiche  (premiate) rispetto alla ricerca di risposte generali (punite).

A fronte di una crescente disuguaglianza e alle  difficoltà generali sulle questioni sociali (in presenza di crisi occupazionale, di precarietà e frantumazione dei lavori), viene drasticamente indebolita tra gli stessi lavoratori la credibilità di linee di risposta ispirate alla solidarietà e alla giustizia sociale. Sarebbe sorprendente se dal quadro descritto non derivasse una fondata difficoltà per il lavoratore a ricostruire un rapporto tra la vicenda costituzionale in corso e ciò che è avvenuto e avviene  sulla sua condizione  e sulla possibilità di reagire efficacemente a fare valere un proprio autonomo punto di vista.

È arduo recuperare dal punto di vista del lavoratore una credibilità della questione democratica e partecipativa in funzione dell’affermazione nella sua condizione di valori generali di solidarietà, democrazia e giustizia sociale . È una relazione che gli viene quotidianamente negata.

Questa ovvia difficoltà espone il mondo del lavoro al rischio di sentirsi estraneo all’attuale vicenda costituzionale (oppure a parteciparvi passivamente). Nelle mie esperienze di questo periodo nel rapporto con i lavoratori trovo conferma di questa oggettiva difficoltà a contrastare in modo convincente ed efficace  questo rischio. A ben vedere è una conferma della profondità della crisi della democrazie e della politica.

La dimensione sindacale è senz’altro uno dei pochi luoghi della politica (dove tra l’altro non esiste più una rappresentanza politico partitica del lavoro) in cui la difficoltà prima descritta per i lavoratori non può essere elusa e viene vissuta direttamente giorno per giorno, senza possibilità di affrontarla delegando e rimettendosi ad un improbabile futuro da affidare a  dinamiche politico istituzionali oggi  inesistenti. Per questa ragione è in questa fase nella dimensione sindacale che si danno le maggiori possibilità di fare scelte e costruire iniziative che tentino credibilmente di  recuperare tra i lavoratori il senso del contrasto alla controriforma costituzionale in relazione all’affermazione di valori di giustizia sociale, solidarietà e democrazia nel mondo del lavoro. Questa possibilità non è affatto detto che venga praticata. Tra l’altro un impegno in questo senso chiama in causa responsabilità e limiti dello stesso sindacato nel misurarsi con i processi denunciati.

A fronte della situazione descritta è forte quidi la tentazione e la tendenza a rinunciare  ad  esporsi in un esplicito contrasto al quadro dominante, che esporrebbe a rischi di pericolosa destabilizzazione lo stesso sindacato. Può apparire preferibile accomodarsi all’interno di questo quadro contando sull’interesse delle forze nazionali e internazionali dominanti ad utilizzare la dimensione sindacale per un ruolo subalterno alla stabilizzazione di volta in volta di scelte sempre più autoritarie.

Questa tendenza è visibile in tanti aspetti presenti da tempo e confermati anche  in questa fase  su vicende in corso come quella  previdenziale, il consenso sulle misure fiscali, molti accordi sul welfare e sul salario. È poi chiaramente verificabile nella assenza o distratta partecipazione alla vicenda costituzionale di parti rilevanti del sindacato con anche aree di esplicita copertura della campagna per il SI.

Ricorrono antichi luoghi comuni nel rapporto con i lavoratori come: “è un problema politico e quindi non sindacale”.

9. Questa tendenza nella dimensione sindacale non poteva non essere contraddetta da una tendenza opposta in cui prevale la necessità di non rassegnarsi e di reagire.

La CGIL, pur con notevoli resistenze interne, ha messo in campo alcune scelte non solo per respingere la revisione costituzionale, ma anche per cancellare per via referendaria alcune delle maggiori lesioni di questi anni ai diritti e alle condizioni del lavoro.

La CGIL ha accompagnato il suo ufficiale invito a votare NO alla revisione costituzionale con la raccolta di massa di firme che porteranno ai tre referendum, chiamando in causa direttamente la società civile per il ripristino di fatto dell’art.18, per l’abrogazione dei Voucher e per severi vincoli all’utilizzo degli appalti.

Si tratta del contributo più importante di questo periodo (che non poteva che venire dal sindacato) per riallacciare un rapporto tra la questione democratica e la possibilità che venga vissuta dai lavoratori in relazione alla necessità di rilanciare i propri diritti, non aziendalizzabili e non dissolubili. Infatti le questioni poste con i tre referendum sono questioni che appartengono al campo dei valori generali di solidarietà e giustizia sociale, di attuazione della Costituzione.

10. Concludo infine con una notazione, che meriterebbe uno sviluppo a parte, sul fatto che le ragioni e la caratteristica della scelta referendaria di una parte del sindacato pone l’esigenza di una più adeguata attenzione alla dimensione sindacale da parte delle forze e culture di opposizione che troppo spesso paiono continuare  a considerarla  di importanza (collaterale) solo in funzione dell’utilità per questa o quella contingente vicenda politica esterna.

Il medico attivista Giorgos Vichas: “Farmaci e latte in polvere, in Grecia c’è bisogno di tutto”

di Thomas Giourgas, traduzione di Haris Lamprou

A parlare è Giorgos Vichas, medico, attivista e cofondatore dell’Ambulatorio sociale metropolitano di Ellinikò (Mkie), ad Atene.

Come è la situazione all’Ellinikò e come possiamo sostenere concretamente questo importantissimo lavoro di solidarietà?

La situazione è la stessa come quella degli ultimi anni. Persino dopo la legge che hanno votato per le persone prive di assicurazione sanitaria che continuano a venire al ambulatorio perché non hanno altra scelta. Sto parlando sia degli assicurati che dei non assicurati.

Ci sono delle malattie che sono in aumento?

Recentemente ci sono le malattie psichiche in aumento. In una sola giornata abbiamo avuto tre casi di persone provenienti dall’ospedale di Dromokaition he sono venuti per prendere le loro farmaci. A un paziente che protestava e faceva ‘casino’ hanno detto che stavano sistemando la farmacia per evitare di dirgli che non avevano i farmaci. In generale, sono aumentati i casi di depressione e il consumo di psicofarmaci. Da semplici tranquillanti sino a pesanti antidepressivi.

Questo aumento è legato alla crisi economica?

È sicuramente legato alla crisi. Il rapporto di Elstat per l’anno 2015 è stato pubblicato. La mortalità infantile è salita al 4%. Era 2,6% nel 2012, passata al 3,65% nel 2013, si stabilizza al 3,75% nel 2014 – dovuto forse questo all’espansione degli ambulatori sociali e al loro ruolo determinante – e poi vediamo una crescita al 4%. Adesso persino le strutture di solidarietà non possono contenere le conseguenze della politica dell’austerità, questo è molto inquietante. Facciamo un appello ai cittadini a portare farmaci di qualsiasi tipo che non sono scaduti o non vicino alla scadenza, e anche latte in polvere per bambini.

Nel settore della salute, vedi delle differenze sostanziali tra il periodo di Pollakis-Ksanthos (Syriza, i ministri attuali) è quella di Georgiadis (ministro precedente durante il governo di Nea Democratia)?

La politica è rimasta uguale. I ministri attuali seguono e gestiscono lo stesso memorandum che seguivano anche i precedenti. I diktat esterni sono determinati in tutti i settori della salute. L’unica differenza è che gli attuali hanno una urgenza che i precedenti non avevano. Salvare qualcosa dal loro ipotetico profilo di sinistra.

Lei ha un’idea di cosa succede nel settore di salute in Europa?

Negli ultimi giorni mi sono trovato a Bruxelles dopo l’invito di sindacati e collettività autogestite in Belgio per discutere del tema della salute in Grecia. Alla fine, abbiamo discusso più dalla situazione belga, la quale comincia a assomigliare a quella in Grecia. Entrano in una fase simile con la nostra. E sono abbastanza preoccupati dalla situazione nel loro Paese. In tutta l’Europa, nei movimenti l’impressione che è la Grecia funzioni come una cavia. Che è là che si producono delle politiche che dopo andranno anche da loro. Dunque la situazione interessa tutti. È inoltre condivisa l’impressione che Syriza ha svenduto la lotta. La parola «tradimento» torna spesso nelle parole della gente dei movimenti europei. Syriza ha creato un grande danno alla sinistra non solo in Grecia, ma anche in tutta l’Europa.

La svolta di Syriza verso i diktat del memorandum avrà degli effetti ai movimenti di solidarietà?

Senza dubbio, e questo lo sto osservando nei ambulatori sociali. Delle persone, dei volontari che sono ancora in Syriza o che hanno una posizione favorevole nei confronti del governo, hanno fatto dei passi indietro sul campo delle richieste e delle lotte.

Qual è la differenza tra carità e solidarietà?

Dentro la solidarietà esiste un rapporto orizzontale. La persona che offre e la persona che riceve solidarietà si trovano in una situazione omologa. Perché questi due ruoli sono frequentemente intercambiabili. È una situazione dinamica. Oggi ho la capacità di offrire, domani mi posso trovare nella posizione in cui ho bisogno di solidarietà. Esiste una relazione reciproca di uguaglianza. Oppure si può facilmente avere questi due ruoli in contemporanea. Mentre nella carità c’è un rapporto unilaterale, statico e autoritario. Quando una persona è caduta per terra, devi aiutarla alzarsi con una mano e con l’altra puntare verso chi l’ha buttata giù. Se non lo fai, hai compiuto un mezzo lavoro perché cadrà di nuovo.

Questo articolo è stato pubblicato dal giornale Dromos tis Aristeras (Strada di sinistra) l’8 novembre 2016

fonte ILMANIFESTOBOLOGNA

Brasil vive ‘processo de violência contra a democracia’, diz Lula

fonte Redebrasilatual.com-br  che ringraziamo

Ex-presidente é entrevistado pelo cineasta Oliver Stone e relata as “combinações perfeitas” que levaram ao golpe contra Dilma Rousseff e a criminalização do PT
por Fernando Morais publicado 12/11/2016 14:55
NocauteTV / reprodução

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Lula, entrevistado por Oliver Stone e Nocaute: ‘terão que ir pra rua disputar comigo’

Nocaute – Em visita ao Brasil para o lançamento de seu filme “Snowden”, o cineasta norte-americano Oliver Stone, ganhador de três Oscar, visitou o ex-presidente Lula, com quem almoçou e a quem entrevistou com exclusividade para o Nocaute.

O próprio Lula inicia a conversa, lembrando a Oliver de um encontro anterior que teve com o cineasta, na Venezuela, quando então a América Latina tinha em Lula, Néstor Kirchner e Hugo Chávez o “o trio que tentava organizar” o continente e que seria desfeito em pouco tempo à frente, especialmente após a morte dos líderes da Argentina e Venezuela, respectivamente.

Na primeira parte da entrevista, Stone ouve de Lula sobre o momento político brasileiro, como se construiu a deposição de Dilma Rousseff e a campanha de criminalização do PT, visando sobretudo a inviabilização de sua candidatura em 2018.

Leia trechos:

Lula: Quando nós dois nos encontramos em Caracas, não, em Maracaibo, era um momento de muito otimismo na América Latina. Nós acreditávamos que estávamos construindo uma estrutura política mais prolongada. Mas aí veio a morte do Chávez, a morte do Kirchner, a minha saída da Presidência. E aí o trio que tentava organizar a América do Sul não existia mais. Foi uma pena. Uma pena. E eu sei que você tinha muita esperança, muita expectativa, mas precisamos começar tudo outra vez. Eu queria lhe dar os parabéns pelo novo filme, espero que tenha muito sucesso, como os outros. Bem vindo ao Brasil.

Obrigado. (…) Eu gostaria muito de ver o senhor ser presidente novamente.

Olha, temos uma guerra aqui no Brasil. No Brasil aconteceu um processo de violência contra a democracia. Há todo um trabalho de construção de uma teoria mentirosa para justificar o afastamento da Dilma e a criminalização do PT.

Eu fico pensando: não teria sentido eles darem o golpe parlamentar que deram e dois anos depois me devolverem a Presidência!

Eu acho que, neste momento, eles trabalham com a ideia de tentar evitar que eu tenha qualquer possibilidade de participar das eleições de 2018. E como eles não podem evitar a decisão do povo, eles estão tentando via Poder Judiciário.

Há uma quantidade enorme de mentiras, as coisas mais absurdas, quem nem uma criança de parque infantil admitiria. E há uma combinação perfeita da imprensa, da Policia Federal e do Ministério Público que constroem, cada um a seu tempo, as mentiras. Só para você ter ideia, de março a agosto o principal canal de televisão aqui do Brasil, no seu principal jornal, teve 14 horas de matéria negativa contra mim. Em cinco meses.

A Rede Globo?

E eu não sei como é que vai terminar, porque eu tenho desafiado eles a provar que algum empresário tenha me dado dinheiro. Eu vou até pedir ajuda pra CIA, para ver se conseguem descobrir uma conta minha no exterior (risos).

Agora, por falta de prova, eles dizem o seguinte: não peçam provas, porque o Lula criou um partido, esse partido é uma organização criminosa, o Lula indicou os ministros para roubar, portanto Lula é o chefe. Eu não tenho provas, eles dizem. Nós não temos provas, mas temos convicção.

Então o que deixa eles preocupados é que quando eles fazem pesquisa de opinião pública eu apareço em primeiro lugar para 2018. Então eu não sei como é que vai ficar. Por enquanto, paciência.

O senhor tem grandes parceiros com quem pode contar, que lhe deem apoio?

Nós entramos com um processo nas Nações Unidas, em Genebra, temos um movimento sindical internacional fazendo campanhas de denúncias, e vamos trabalhar agora os processos juridicamente.

Assista a segunda parte: “Se quiserem me derrotar vão ter que ir pra rua disputar comigo”:

Participaram da entrevista Maximilien Arvelaiz e Gala Dahlet

Democratiche e democratici di Modena: perché diciamo no alla riforma costituzionale

Siamo democratiche e democratici, iscritti ed elettori del Pd, collocati nel vasto campo delle diverse culture politiche della sinistra, del centrosinistra e della cittadinanza attiva da cui lo stesso Pd è nato, decisi a prendere le distanze dalla Riforma Costituzionale oggetto del Referendum del 4 dicembre prossimo.

Non ci convince una riforma che si poteva e doveva fare meglio. Si poteva semplificare senza ridurre la rappresentanza e rendere più efficiente il potere esecutivo senza depauperare le autonomie regionali e locali. Lo diciamo dall’Emilia-Romagna, culla dell’”autonomismo solidale”: una regione che si è sviluppata ed è progredita grazie alle capacità di generare in continuazione progetti e innovazione, resi possibili dalla capacità delle Istituzioni locali, dai Comuni alla Regione, di accrescere e valorizzare le peculiarità e le potenzialità economiche, civili, sociali e culturali dei nostri territori, facendo sistema e senza mai dimenticare i principi della democrazia, del rapporto con i cittadini e con i corpi intermedi di rappresentanza.

Non si tratta di ragionare sulla bontà del superamento del bicameralismo paritario, su cui in pochi hanno avanzato dubbi. Si tratta, piuttosto, di riaffermare, da un lato, equilibri e garanzie istituzionali proprie di un sistema parlamentare più democratico, e dall’altro, prerogative e capacità decisionali della Regione, nella chiarezza e nel rispetto dei compiti propri tra lo Stato e le autonomie locali. Il nostro è quindi un No al disegno centralistico che figura nella riforma; un disegno che, depotenziando il potere dei territori e dei cittadini, si traduce in una regressione della qualità della democrazia rispetto a quello attuale.

Il nostro NO è perché vogliamo una riforma davvero efficace e incisiva. Se fosse vero che è “meglio cambiare comunque piuttosto che stare fermi”, non avremmo dovuto votare negativamente al referendum costituzionale del 2006. E invece, dicemmo No sulla base di una valutazione di merito, perché il cambiamento non è un valore in sé. È un valore se aiuta a risolvere i problemi alla base della crisi economica, sociale e democratica che viviamo oramai da troppi anni.

Votiamo NO perché non ci convince un Senato come quello delineato nella Riforma, che non è un Senato delle autonomie perché non ha abbastanza potere su materie fondamentali per le autonomie, come le aree vaste, il coordinamento della finanza pubblica e dei tributi fra livelli di governo, i costi e i fabbisogni standard.

Votiamo NO perché non vi è garanzia che, con la Riforma, i senatori saranno legati a un rapporto diretto, di fiducia, con i cittadini dei loro territori e non rappresenteranno piuttosto i partiti da cui saranno nominati.

Votiamo NO perché questa riforma genererà ulteriore caos nelle Istituzioni. L’assenza di un meccanismo di conciliazione per i casi in cui Camera e Senato non trovino un accordo sulle importanti materie su cui resta il bicameralismo paritario – trattati europei, riforma costituzionale, ordinamento dei comuni, ecc. – può generare situazioni molto pericolose di stallo istituzionale.

Non ci convince la vulgata che spiega la riforma alla luce della riduzione dei costi della politica, che si sarebbe potuta ottenere con una semplice riduzione dei parlamentari, perché si traduce in un approccio populista e demagogico, che non aiuta un corretto confronto democratico e che favorisce chi sulla demagogia e sulla anti-politica ha costruito le sue fortune elettorali.

Votiamo NO perché la nuova legge elettorale (il cosiddetto Italicum) che, al netto di “aperture”, in questi molti mesi non si è voluto realmente cambiare, combinata con la Riforma Costituzionale, comporterà un vero e proprio stravolgimento della forma di democrazia parlamentare, concentrando il potere nelle mani del governo e di chi lo guida, attribuendo ad un unico partito (che potrebbe essere espressione di una ristretta minoranza di elettori) sia il potere esecutivo che il potere legislativo, per di più con l’iniziativa legislativa che passa dal Parlamento al Governo.

Votiamo NO perché c’è un serio problema di metodo e merito politico: la grave violazione dell’articolo 3 del Manifesto dei Valori del Pd che recita: “La sicurezza dei diritti e delle libertà di ognuno risiede nella stabilità della Costituzione, nella certezza, che essa non è alla mercé della maggioranza del momento, e resta la fonte di legittimazione e di limitazione di tutti i poteri. Il Partito Democratico si impegna perciò a ristabilire la supremazia della Costituzione e a difenderne la stabilità, a metter fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza”, Noi abbiamo fondato o abbiamo aderito a quel Pd e non abbiamo cambiato idea!

Per queste ragioni ci impegneremo nella campagna referendaria per il NO in autonomia e in collaborazione con i Comitati esistenti e creando occasioni per approfondire il merito della questione.

Il nostro è un NO a viso aperto che non gioca su ambiguità politiche e retropensieri, che entra nel merito della sfida referendaria, separandola con nettezza dalle questioni che riguardano l’attuale governo.

Siamo convinti che la nostra scelta, compiuta in coerenza con i nostri ideali e con lo spirito della Costituzione, dia linfa al Pd, al suo costitutivo pluralismo e alla sua nativa connotazione di centrosinistra. Del resto, sulla Costituzione ciascuno di noi è chiamato, come dice lo Statuto del Pd, a decidere nello spirito costituente, prima di tutto da cittadino e da cittadina.

Primo elenco di firmatari< – strong>
Maria Cecilia Guerra, Senatrice Pd
Luciano Guerzoni, Vice Presidente Nazionale ANPI-Ex Senatore
Paolo Trande, Consigliere Comunale Modena-Direzione Regionale Pd
Riccardo Orlandi, Direzione provinciale Pd
Ivan Alboresi, Consigliere Comunale Pd Formigine
Carmelo Belardo, Segretario di Circolo Pd (Modena) – Presidente Quartiere 2
Lorenzo Campana, Consigliere Comunale Pd Nonantola
Renzo Catucci, Consigliere Comunale Pd Sassuolo
Sandra Mattioli, Pd “San Faustino” – Assemblea regionale
Michele Stortini, Segretario di Circolo Pd (Modena)
Michele Andreana, Ex Consigliere Comunale di Modena
Claudio Andreoli, Ex iscritto – Ex Volontario Feste
Sergio Ansaloni, Pd “San Faustino” Modena
Simone Barbieri, Assicuratore – Elettore Pd Modena
Danilo Barbieri, Pd “Buon Pastore” – Militante
Greta Barbolini, Dirigente associativo
Rita Bellei, Consigliera Comunale Nonantola – Vice-Segretaria Circolo
Gianluca Bellentani, Pd Formigine
Gabriele Bettelli, Iscritto al Circolo Pd “Buon Pastore”. Osservatorio APS
Valeria Biancolini, Iscritta Pd “san Lazzaro-Modena Est”
Massimo Bigarelli, Medico – Modena
Gerardo Bisaccia, Dirigente Associativo
Annamaria Borghi, ex iscritta – Volontaria Feste
Roberto Bonfatti, Pd “San Faustino”
Maurizio Borsari, Ex Assessore Modena – Dirigente cooperazione in pensione
Pier Paolo Borsari, Pd Nonantola – Ex Sindaco di Nonantola
Vanna Borsari, Pd Formigine
Paolo Bosi, Docente UNIMORE
Vanis Bruni
Rolando Bussi, Pd “Centro Storico”
Sonia Canadè, Consigliera Comunale Nonantola
Raffaele Caterino, Dott. in scienze della Cultura – Studioso della storia della sinistra
Fausto Cigni, Pd “San Lazzaro-Modena Est” – Assemblea Cittadina Pd, Modena
Salvatore Colucci, Comitati di Circolo Formigine
Renato Cocchi
Giorgio Cozza, Ex iscritto Pd – Pensionato
Ivan Debbi, Pd “San Faustino” Modena
Enrico Gallo, Capogruppo in Quartiere 4 – Assemblea Provinciale Pd
Giorgio Gasparini, Pd Bastiglia – Ex vice-sindaco di Bastiglia
Roberto Gasparini, Consigliere Comunale-Capogruppo – Vice-Segretario Pd, Bastiglia
Ruben Gasparini, Direttivo Circolo Pd “Crocetta”
Ettore Ghidoni, Pensionato, ex dirigente cooperativo, volontario CGIL
Gigi Giordani, Direttivo Pd Pavullo
Maria Paola Guerra, Docente UNIMORE
Daniele Guzzinati, Pd Medolla – Ex Assessore
Gianlorenzo Ingrami, Direzione Pd Sassuolo
Michele Lacirignola, Medico – Modena
Michele Lalla, Docente UNIMORE
Mauro Malavasi, Pd “San Faustino” Modena
Marco Malferrari, Consigliere Comunale Pd Modena
Stefania Marchesi, Dirigente Associativo
Mauro Masetti, Funzionario cooperazione – ex segretario Pd Centro Storico
Tonino Mazzucchelli
Pasquale Palermiti, Militante
Angelo Panzetti, Pd Nonantola
Arnaldo Parmeggiani, Iscritto Pd Modena
Brunella Piccinini, Direttivo Circolo Pd “Crocetta”
Antonio Rossi, Consigliere Comunale “Lista Civica Pistoni” Sassuolo
Enrico Rinaldi, Circolo Pd “San Faustino” – Storico Volontario Feste
Giovanni Romagnoli, Ex Assessore Modena e regionale
Uliana Roncagli, Ex iscritta-Ex Volontaria Feste
Armando Rossi, Pd “San Faustino”
Leda Roversi, Pd “Buon Pastore” – Assemblea Provinciale
Sergio Rusticali, Assemblea Cittadina Pd Modena
Gina Sacchetti, Volontaria SPI – CGIL
Mario Scianti, Elettore – Ex Funzionario pubblico in pensione
Loretta Sgarbi, Volontaria SPI-CGIL
Valentina Solfrini, Pd Castelnuovo Rangone
Luca Sitta, Segretario Circolo Tematico Modena
Nadia Soliani, Pd Modena
Enio Superbi, Direttivo provinciale ANPI – Direttivo Pd Finale Emilia
Vincenzo Walter Stella, Consigliere Comunale Modena – Segretario di Circolo
Giovanni Stigliano, Ex assessore ed ex segretario Pd Bomporto
Simone Tazzioli, Segreteria Pd Sassuolo
Luciano Tomassia, Pd “Buon Pastore” – Storico Volontario Feste
Rita Tonus, Consigliere Pd Q2 Modena
Gianni Tosi, Pd “San lazzaro-Modena Est”
Patrizia Villani, Ex Segretaria Circolo – Direzione provinciale Pd
Lauro Vignudelli, Segretario di Circolo Pd (Modena)
Ivan Zanni, Pensionato – Modena
Gigliola Zanni, Elettrice – Modena
Mauro Zanni, Ex iscritto Pd San Cesario SP
Tiziano Zanni, Direttivo Pd Sant’Agnese
Romano Zanotti, Direttivo Pd “San Lazzaro”
Alfredo Zetti, Pd “Crocetta” – Assemblea Cittadina
Alberto Zini, Elettore – Consulente del Lavoro – Docente Unimor

Michael Moore: Cinque cose da fare dopo la vittoria di Trump

 

di Michael Moore, da facebook.com

1. Restituire il Partito Democratico al popolo. Ha fallito miseramente.

2. Licenziare chi ha fatto previsioni sbagliate: esperti, profeti, sondaggisti, chiunque del mondo della comunicazione si sia rifiutato di ascoltare o riconoscere cosa stava realmente accadendo. Quegli stessi parolai ora ci diranno che dobbiamo “superare le divisioni” e “unirci”. Diranno ulteriori balle nei giorni a venire. Spegneteli.

3. Ogni membro democratico del Congresso che oggi non si sia svegliato con la voglia di combattere, resistere e ostacolare come hanno fatto i repubblicani con Obama tutti i giorni degli ultimi otto anni, si faccia da parte e lasci il posto a chi è pronto ad arginare la follia che sta per cominciare.

4. Basta dire che siete “scioccati” e “sconvolti”. Dovreste piuttosto dire che avete vissuto in una bolla e non avete fatto attenzione ai vostri fratelli americani più disperati. Per anni sono stati ignorati da entrambi i partiti, la rabbia e la voglia di vendetta contro il sistema non ha fatto che aumentare. Poi è arrivata la star della tv il cui piano era distruggere i partiti, quindi la vittoria di Trump non è una sorpresa. Trattare Trump come fosse uno scherzo non ha fatto che renderlo più forte. E’ una creatura dei media, ma anche una creazione dei media.

5. Hillary ha vinto il voto popolare, ricordatelo a chiunque incontrate. La maggioranza dei votanti l’ha preferita a Trump. Punto e basta. E’ un dato di fatto. L’unico motivo per cui lui è stato eletto presidente è una folle e arcana idea datata diciottesimo secolo e chiamata Collegio elettorale. Finché non la cambiamo, continueremo ad avere presidenti che non abbiamo eletto e che non vogliamo. Viviamo in un Paese dove la maggioranza è d’accordo sul cambiamento in atto, sulla parità di salario fra uomini e donne, sull’educazione libera da debiti. Una maggioranza di cittadini che non vuole invadere altri paesi, vuole un aumento del salario minimo e un sistema sanitario che funzioni, insomma una maggioranza che ha posizioni “liberali”. Ci manca solo la leadership liberale per realizzare tutto questo.

(11 novembre 2016)

In Europa i partiti di “sinistra” non rappresentano più il lavoro

Sinistra - Foto di Sel

di Vittorio Capecchi

In questo numero di Inchiesta i testi si interrogano sulla scomparsa del lavoro dalla politica e dalle istituzioni. Francesco Garibaldo ricostruisce il processo di aziendalizzazione delle relazioni sindacali e di involuzione aziendalistica dei sindacati in Europa.

Come scrive Garibaldo, “se i lavoratori possono essere rappresentati solo come parte dell’azienda, allora non esiste più un punto di vista, una ipotesi sul lavoro che sia rappresentativa del mondo del lavoro come soggetto collettivo; il che non significa che non vi siano più conflitti tra manager e lavoratori, ma essi riguardano quel mondo chiuso e quindi hanno sempre come limite la comune esigenza di combattere, come sottolinea Marchionne, per sopravvivere contro le altre imprese”. L’aziendalizzazione arriva a inglobare le materie del welfare e prepara “un’ulteriore escalation di privatizzazione dei servizi sociali”. Come sintetizza Garibaldo “il lavoro è depoliticizzato e de-istituzionalizzato”.

Il lavoro esce in Europa dai partiti di “sinistra” e come analizza Alessandro Somma, è profetico l’ultimo testo di Peter Mair (politologo irlandese morto nel 2011) che descrivere la politica che “governa il vuoto” avendo lasciato il potere all’economia delle banche e delle multinazionali. L’immagine di questa politica è quella descritta da Bruno Giorgini nell’incontro a Maranello: l’alleanza tra un Renzi a capo del “partito della nazione”, la Merkel, Marchionne ed Elkann. Luigi Vinci si pone l’interrogativo utilizzato per questo editoriale “Come è potuto accadere?” e parla di una politica europea “populista”, basata “sulla movimentazione di atteggiamenti e comportamenti popolari, sulla sfiducia nella politica e negli assetti istituzionali, sul rapporto diretto tra seguaci e leadership, sulla banalizzazione del discorso politico e sulla centralità del richiamo emotivo”.

Sono avvenute profonde trasformazioni sia nel rapporto capitale/lavoro che nel rapporto capitale/natura. Sul primo di questi rapporti Umberto Romagnoli sottolinea le difficoltà di un diritto del lavoro che si trova in una fase con prospettive, come in Italia, di “crescita zero” che coesistono con i successi di Industria 4.0 descritti da Matteo Gaddi. Le ricadute sulla salute e sulla sicurezza di chi lavora sono descritte da Gino Rubini. Marco Assennato, che analizza il quadro sindacale francese e le lotte che attraversano Parigi, vede la situazione attuale come risultato di una non convergenza delle lotte, convergenza “da cercarsi direttamente sul terreno metropolitano, nei servizi, nella logistica, sul territorio”. Da tener poi presente che quando si cerca di uscire dal modello neoliberista i contraccolpi politici sono immediati, come spiega Railidia Carvalho che descrive il veloce retrocedere dei diritti del lavoro nel Brasile del golpe portato avanti contro Dilma Rousseff da parte dell’apparato di potere industriale, che vuole un ritorno trionfale del neoliberismo messo in discussione da Lula.

Sulla relazione capitale-natura sono importanti le considerazioni di Mario Agostinelli dopo il Forum Sociale Mondiale di Montreal a cui ha partecipato e in questa direzione è anche il dossier curato da Laura Corradi che riflette sul libro scritto da lei insieme a Raewyn Connell, Il silenzio della terra, che rappresenta il punto di arrivo di una esplorazione ventennale nelle teorie sociali dei paesi non occidentali e nelle realtà aborigene, nel tentativo di imparare da esse mettendo al centro la terra.

Esiste ancora una sinistra?

Le analisi storiche e le diagnosi presentate nei saggi prima ricordati sembrerebbero convergere verso una risposta negativa, ma sia al livello internazionale che al livello nazionale vi sono risposte che mostrano scenari politici, economici e culturali alternativi al neoliberismo dominante.

Al livello internazionale sono importanti le iniziative e proposte che provengono dal Forum Sociale Mondiale descritto da Mario Agostinelli: cambiamenti nelle fonti energetiche, spostamento verso un sistema agricolo più localizzato ed ecologico, abolizione dei trattati commerciali che interferiscono con i tentativi di ricostruire le economie locali, accoglimento di rifugiati e migranti che cercano sicurezza e una vita migliore, introduzione di un reddito minimo universale, interruzione di sussidi ai combustibili fossili, tassazione sulle transazioni finanziarie, tasse più elevate per le corporation e per i ricchi, una tassa progressiva per il carbonio.

In questo scenario si collocano le iniziative politiche italiane di sinistra. La scomparsa di partiti che si riferiscano al lavoro come base sociale aumenta le responsabilità politiche del sindacati e della Fiom in particolare. Gianni Rinaldini delinea “un Sindacato Confederale, autonomo, indipendente e democratico, espressione di un progetto di cambiamento della società (..) che non può che essere fondato su un proprio progetto di cambiamento della società, da cui derivano le proprie compatibilità nella stessa iniziativa rivendicativa

Un Sindacato democratico nella vita dell’Organizzazione, nella forma e nella modalità di elezione dei gruppi dirigenti e nel rapporto democratico con l’insieme dei lavoratori e delle lavoratrici. Da qui dovrebbe cominciare una vera discussione, senza ipocrisie ed infingimenti”. In questo scenario si muovono le iniziative della Fiom in materia di formazione raccontate da Giuseppe Ciarrocchi e Gabriele Polo e quelle descritte da Bruno Papignani (intervistato da Tommaso Cerusici) che analizza quattro temi di grande rilevanza: l’accordo raggiunto in Fincantieri, il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici, i referendum promossi dalla Cgil contro il Jobs Act e il referendum costituzionale.

Sull’esistenza di una sinistra in Italia e in Europa si muovono poi le interviste fatte in questo numero da Luciano Berselli a Paul Ginsborg e Sergio Labate (autori del libro Passioni e politica, uscito recentemente da Einaudi) e da Sergio Caserta a Laura Urbinati, impegnata nella campagna per il NO, da lei considerata una lotta essenziale “per la difesa della democrazia costituzionale”. La sinistra esiste ed è impegnata su più fronti.

Ordinare se stessi per governare il mondo

Questa frase proviene da un antico testo cinese di recente pubblicato in italiano, il Neiye (Neiye, Il tao dell’armonia interiore a cura di Amina Crisma, Garzanti 2016) ed è anche il senso profondo dell’intervento di Emilio Rebecchi in questo numero che ci invita a guardare dentro di noi se si vuole affrontare la complessità del reale e distinguere tra il buono e il cattivo. Il disegno riportato in questo editoriale è quello della mappa Loshu (una delle due mappe dell’Yijing, il Classico dei Mutamenti) impressa sulla tartaruga (simbolo di longevità) che naviga in acque difficili. E’ il mio personale augurio di longevità e cambiamento (Yi) per la sinistra.

Questo articolo è stato pubblicato da Inchiesta online l’8 novembre 2016 ed è l’editoriale di Inchiesta 193 (luglio-settembre 2016)

Riccardo Petrella: La bella mela “costituzionale”. Grazie, NO

fonte Inchiestaonline che ringraziamo

Riccardo Petrella, professore  emerito dell’Università Cattolica di Lovanio e promotore dell’Università del Bene Comune ci ha inviato  questa favola della modernità del XXI° secolo, versione italiana.

La favola

C’era una volta una Repubblica italiana. I suoi cittadini erano fieri della loro Costituzione, dichiarata da un anfitrione nazionale – molto amato e stimato dal popolo – «la più bella Costituzione al mondo». Un giorno venne un principe, giovane, bello, soprattutto conquistatore. Pragmatico, spregiudicato. E forse per questo, agli occhi degli Italiani, accattivante, simpatico. Arrivò velocemente al potere politico massimo, senza esservi stato eletto, ma cooptato dai poteri forti. Voleva rottamare, diceva, il vecchio, l’inutile, i fossili. Trovò che una parte importante della Costituzione non era più all’altezza dei compiti assegnati ai decisori, in assonanza con i tempi. A diverse riprese manifestò sintomi d’insofferenza nei riguardi della Costituzione, criticata per non permettere al governo, a suo dire, di agire rapidamente senza tante discussioni ai vari livelli istituzionali e territoriali della rappresentanza eletta. Per riuscire nel suo intento «riformatore» (pardon, rottamatore) ebbe l’idea di sedurre il popolo italiano, offrendogli una bella mela, lucida, dai colori smaglianti, senza incrostazioni o foruncoli sulla buccia, perfettamente rotonda, in stato eccellente di maturazione: la mela del costo della politica. Mordere la mela avrebbe significato ridurre i costi della politica, soprattutto quelli della rappresentanza eletta, dare efficienza e velocità alle decisioni da parte di coloro che sanno e, soprattutto, che «hanno i numeri» (come è solito dire) per decidere (cioé, le chiavi del potere). Gli Italiani avrebbero guadagnato denaro, speso meno. Una manna. Difficile per gli Italiani resistere alla tentazione. Non sappiamo, però, ad oggi, com’é andata. Il futuro, assai prossimo, ce lo dirà.

Il racconto

Il 4 dicembre 2016, fra un mese, più di 30 milioni d’Italiani in età di votare dovranno rispondere SI o NO al seguito seguente:

«approvate……..

  • § le disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario
  • § la riduzione nel numero del parlamentari
  • § il contenimento dei costi del funzionamento delle istituzioni
  • § la soppressione del CNEL
  • § la revisione del Titolo V della Parte II della Costituzione ?

Da notare che la quinta proposta riguarda 47 articoli relativi ai rapporti tra Stato e Regioni (e collettività locali)

All’origine della favola della mela stanno due visioni della politica in quanto regolazione ed organizzazione del vivere insieme, fortemente impregnate da una cultura utilitarista e mercantile della società:

– la politica istituzionale è un’attività che comporta costi e benefici, e la sua utilità si dimostra quando i benefici misurabili quantitativamente (specie in termini monetari, per esempio sul piano fiscale) ma anche qualitativamente (certezza e qualità dei beni collettivi usufruibili e dei servizi resi) superano i costi ;

– lo Stato – in quanto insieme di istituzioni dotate di poteri legislativi, esecutivi e giudiziari – deve essere efficiente, efficace ed economico nell’esercizio delle sue funzioni, soprattutto nei confronti dei pagatori delle tasse (singoli cittadini, soggetti collettivi, imprese….) su cui si fondano le entrate dello Stato.

I cinque «semi» della mela renziana riflettono singolarmente e collettivamente le due visioni. Queste possono essere ricondotte ad una sola visione normativa: minori sono i costi della politica, più efficienti, efficaci, ed economici saranno il vivere insieme e «fare società», dal livello locale a quello mondiale. La politica si definisce e vale in funzione delle tre E (effcienza, efficacia, economicità).

I gruppi sociali dominanti degli Stati Uniti furono i primi a far entrare i costi della politica come tema centrale nell’agenda politica del mondo occidentale, fin dalla fine degli anni ’60, ancor prima del reaganismo e del thathcerismo. Penso, in particolare, al presidente americano Lyndon Johnson e il suo progetto per l’America The Great Society. Centrato, per ragioni di evidente comunicazione politica, su «la guerra alla povertà», la proposta chiave consistette nella riforma privatista di quel poco di Stato del welfare ch’era stato messo in piedi dopo la grande crisi del 1929-33.

Di costi della politica in Italia si cominciò a parlare all’epoca dei governi di centro sinistra, sull’influenza delle tesi sulla terza via di infausta memoria alla Blair, alla Schroeder, alla Clinton, alla Prodi, e di cui uno degli esponenti massimi fu Giulio Amato, oggi membro della Consulta. Negli ultimi venti anni dobbiamo al «grande democratico ed uomo di Stato» che è Silvio Berlusconi (sic !) il fatto che il tema dei costi della politica ha continuato a dominare l’immaginario politico ed il dibattito ideologico e sociale nel nostro Paese.

La matassa ideologica e socio-culturale delle concezioni centrate sui costi della politica è integralmente presente nella mela renziana. Essa è snodata secondo il seguente intreccio.

Tempo 1. I costi della politica sono considerati esorbitanti e inaccettabili, si sostiene che lo Stato spende troppo al di là delle sue capacità e tassa troppo: lo Stato deve ridurre le spese e le tasse. Il governo Renzi è fiero di considerarsi il governo che ha ridotto le tasse in maniera più consistente e rapida dei governi precedenti. A tal fine, sostiene il governo, è necessario ridimensionare le spese di funzionamento delle istituzioni politiche, in particolare le istituzioni parlamentari. Da qui le due prime proposte offerte dalla mela renziana. Perché il governo Renzi dà la priorità alla riduzione dei costi delle istituzioni parlamentari?

Tempo 2. Lo Stato è accusato di essere inefficiente ed inefficace in un’epoca marcata da cambiamenti continui e rapidi, su scala mondiale, i quali domandano al potere politico tempi di decisione compatti, coerenti e rapidi. La democrazia parlamentare, le istituzioni della rappresentanza politica eletta, sono considerati dei fattori limitativi, bloccanti. All’era dell’informatica, della telematica e delle reti mondiali, la democrazia deve essere, si dice, efficace, ha bisogno di poteri esecutivi forti e non sottomessi alle instabilità e volatilità permanenti degli schieramenti partititici, sempre più sbriciolati, e dei giochi delle alleanze politiche ai vari livelli territoriali della rappresentanza eletta. Coerentemente a queste tesi, il governo Renzi ha addirittura tentato di evitare la ratificazione del trattato CETA da parte dei parlamenti nazionali degli Stati membri dell’UE (come previsto dai trattati costitutivi dell’UE) proponendo che fossero solo la Commissione europea ed il Parlamento europo a farlo. Per il nuovo principe, la democrazia rappresentativa eletta è un sistema del passato che necessita di ammodernamento, di snellimento, in un duplice senso: da un lato, della riduzione dei poteri legislativi e di controllo in mano alle istituzioni parlamentari e, dall’altro, della loro estensione e rafforzamento in mano all’esecutivo centrale (nazionale). Da qui anche le ultime due proposte che mirano a dare sempre maggiori poteri all’esecutivo.

Tempo 3. Il modello attuale di governo dello Stato, però, non è considerato costituire un modello capace di rendere le azioni dell’esecutivo, pur anche rinforzato, più efficienti, efficaci ed economiche. A tal fine , si afferma, occorre sgrassare lo Stato di tutte le attività economiche strategicamente importanti per la crescita dell’economia nazionale e della sua competitività sui mercati internazionali, per affidarle ai soggetti economici privati, quali le imprese, attraverso chiari processi di deregolazione, di liberalizzazione e di privatizzazione. La privatizzazione deve riguardare, in particolare, la gestione del ciclo integrale della preservazione, produzione, distribuzione, uso, trattamento e riciclaggio dell’insieme dei beni e dei servizi comuni essenziali per la vita ed il benessere collettivo, affidata nel passato ad imprese pubbliche (municipalizzate, aziende speciali) e finanziata dal denaro ubblico. Il Il modello pubblico di governo, si afferma, non funziona più, visto che lo Stato ha perso il controllo effettivo della moneta e della finanza, passato oramai in mano, per volontà degli Stati, ai mercati finanziari e alle istituzioni private politicamente indipendenti come la BCE (Banca Centrale Europea). Il governo Renzi considera favorevolmente i mutamenti sopraddetti, per cui stima che sia urgente e necessario mettere in piedi un «nuovo» modello di governo fondato sul principio che lo Stato deve uscire dal governo dell’economia, per affidarla ai soggetti ed ai meccanismi economici considerati « naturali», cioé le imprese e il mercato. In queste condizioni, la mela «costituzionale» del principe propone che il governo politico pubblico dell’economia fondato sulle istituzioni rappresentative elette deve essere trasformato in una «governance economica » fondata sul potere d’iniziativa legislativa, di decisione e di controllo da parte di tutti i portatori d’interesse (gli « stakeholders »). Secondo questa visione, i portatori d’interesse sono soggetti sia pubblici (gli Stati, le regioni, i parlamenti, i comuni…) che privati (le imprese, i sindacati, le fondazioni, le associazioni della società civile). Il luogo principale dell’incontro, dei dibattiti e delle deliberazioni deve essere, anche secondo il governo Renzi, aperto, libero, flessibile, cioé il mercato, da quello locale a quello mondiale. Per questo, dicono, la «governance economica» deve essere considerata il sistema di governo politico più efficiente, efficace ed economico dell’economia e della società. Si passa da una visione pubblica co-responsabile delle regole (il diritto) delle relazioni interindividuali e collettive del vivere insieme, e del «fare società» nell’interesse comune (sicurezza sociale per tutti) e giusto (Stato dei diritti), ad una visione contrattualistica privata di salvaguardia e di promozione degli interessi particolari in un contesto di rapporti di forza inuguali ed asimmetrici. La proposta di soppressione del CNEL è un esempio «minore» esterno ma simbolico di questo mutamento. Le tre prime poposte sono, invece, il segno sostanziale della natura profonda del passaggio dal governo pubblico fondato sulla rappresentnza eletta nel rispetto dei diritti dei cittadini alla « governance economica» fondata sui portatori d’interessi e sull’incontro/scontro tra interessi di forza inuguale. Siamo apertamente di fronte ad una «costituzionalizzazione» della privatizzazione del potere politico pubblico.

Con la buona pace di Eugenio Scalfari e del divertente Benigni, è difficile affermare onestamente che la nuova Costituzione sarà una buona Costituzione nell’interesse degli Italiani (Scalfari) e resterà la più bella Costituzione al mondo (Benigni) perché consacrerebbe il fatto che la democrazia sarebbe stata sempre e principalmente un sistema di oligarchie. Fortunatamente cio’ e falso, altrimenti che cose orribili sarebbero tutte le Costituzioni degli altri Paesi! Cosi, ci dicono, l’imperiosa necessità del passaggio alla governanza economica spîega l’importanza chiave della quinta proposta che restituisce allo Stato centrale, nel contesto del nuovo ruolo attraibuti allo Stato dalla globalizzazione economica, la competenza esclusiva su quasi tutte le competenze considerate dalla Costituzione  in vigore  concorrenti tra Stato e Regioni
. Secondo i gruppi dominanti, più lo Stato è snello  ed alleggerito e piu accentra le competenze regolatrici rimastegli, al servizio della « governanza economica »,  più esso congribuisce a rendere la governanza efficcae, efficiente ed economica. La stessa osservazione vale riguardo i Comuni che perdono definitivamente quei poteri che avevano costituito nel passato la grandezza e la forza «democratiche» dell’autonomia comunale.

Tempo 4 ed ultimo. È il tempo nel corso del quale i cinque semi della mela fanno agire il veleno «nascosto». È il tempo del non esplicito e del non diretto nell’offerta della mela. È il tempo della bella mela non ancora morsa ,ma i cui effetti potenziali sono stati «geneticamente» introdotti. Il veleno si trova iniettato nell’esaltazione che la mela fa dell’eccellenza, della performance, misurata dall’indice di competitività dell’economia nazionale e « locale », delle imprese, delle università e del sistema educativo, dei trasporti, degli ospedali, delle città, delle persone. L’indice di competitività è visto come l’espressione più potente della forza dell’eccellenza, e quindi la fonte della legittimità del merito. Così la mela promette che più un soggetto è competitivo e porta ricchezza alla crescita ed al benessere dell’economia del Paese, più i diritti ed il potere saranno accessibili. I diritti, dice la mela, si meritano. Mordendola si può ricevere la grazia di accedere ai diritti, in teoria universali, ed alla sovranità in quanto soggetto di storia, in teoria collettiva, condivisa, diffusa.

In futuro, se gli Italiani cedono alla tentazione di mangiare la mela, la Costituzione sarà effettivamente ribaltata: la società della sicurezza sociale generale sarà soppressa e lo Stato dei diritti sarà svuotato di senso. Nell’una come nell’altro la sicurezza e i diritti dovranno essere pagati a un prezzo abbordabile, secondo le « leggi » del mercato.

GRAZIE, NO. PROPONGO DI NON MANGIARE LA MELA !

Fonte Inchiestaonline

#StopCETAday – 5 novembre. Attivati anche tu

#StopCETAday – 5 novembre. Attivati anche tu

folla-ceta

Saremo in varie città d’Italia, con iniziative pubbliche e in piazze virtuali, ancora una volta per opporci dal basso agli accordi di libero scambio nemici delle persone e del pianeta. Dopo la grande manifestazione del 7 maggio a Roma, la Campagna Stop TTIP rilancia la mobilitazione sui territori con lo #StopCETAday di sabato 5 novembre. Contestualmente, diffonderemo “CETA: attacco al cuore dei diritti“, un adattamento del dossier “Making Sense of CETA” pubblicato a settembre da numerose organizzazioni della società civile europea.

Di seguito:
– le città che si mobilitano
– il dossier da inviare a europarlamentari del vostro comprensorio e ai capigruppo di Camera e Senato
– i tweet da inviare durante il tweetstorm del 5 novembre

Siamo chiamati a ribadire il nostro no all’accordo UE-Canada, il cavallo di Troia del TTIP. Oltre ad essere altrettanto pericoloso, il CETA apre le porte dell’Europa a più di 40 mila multinazionali statunitensi con una sede in territorio canadese. Dopo accelerazioni e brusche frenate, Bruxelles e Ottawa sono sicure di firmare il trattato entro l’11 novembre. Poi toccherà al Parlamento Europeo ratificare, e infine ai governi nazionali. Ma a quel punto, il CETA sarà già per buona parte in vigore a causa dell’applicazione provvisoria, proposta dalla Commissione UE e avallata dai capi di Stato. Riteniamo inaccettabile scavalcare i parlamenti nazionali su materie di tale importanza per la vita dei cittadini. Non condividiamo l’impostazione dei grandi accordi commerciali, costruiti su misura per il grande business a discapito dei diritti e dei beni comuni. Per questo invitiamo tutte le cittadine e i cittadini a scendere in piazza per fermarli ancora una volta.

fonte STOPCETA

In libreria : “Da Gelli a Renzi (passando per Berlusconi)” di Aldo Giannuli

 

Un libro interessante,“Da Gelli a Renzi (passando per Berlusconi) che risulterà assai scomodo e fastidioso per i rappresentanti dei poteri forti. Anche per questo motivo l’Autore afferma  :

“questa volta ho proprio bisogno del vostro aiuto per far sapere che c’è, perché si fatica molto ad ottenere qualche recensione o segnalazione e tutto mi fa pensare che faticheremo molto a restare in libreria. Per cui vi rivolgo un appello con il passaparola segnalando il libro ad amici e conoscenti, mandando qualche mail, condividendo su Fb e rilanciando su Twitter. Insomma mi aspetto che mi diate una mano.
Chi pensasse di trovarvi le prove di una fantasiosa congiura massonica, che da Gelli porta a Renzi, resterebbe deluso: non è di questo che mi occupo (e, peraltro, una congiura che dura per quasi mezzo secolo, sopravvivendo a morti ed eclissi dei vari protagonisti, non è molto convincente e sa di opera fantasy). Ci sono cose molto più durature dei complotti e sono le idee, le correnti di pensiero che, pur con le inevitabili modificazioni che il tempo impone, rispuntano, come fiumi carsici, quando meno lo si aspetta.
C’è un filone di pensiero che affonda le radici molto indietro nel tempo (sin nel XVIII secolo) e che ha opposto le ragioni della società civile contro lo Stato ed i suoi apparati. Questo scontro sembrò vinto definitivamente in Italia nel 1945, quando, dalla sconfitta del fascismo, sorse una repubblica dal forte contenuto sociale, garantita da una democrazia parlamentare che esaltava la rappresentanza e la partecipazione popolare. Poi, pian piano, riemerse una cultura politica che, nelle nuove condizioni storiche, pensava ad una riforma della Costituzione e della legge elettorale che comprimesse la rappresentanza, liquidasse gli strumenti di partecipazione democratica e desse vita ad un regime oligarchico che, però, conservava forme elettive.
La P2 fu il soggetto che riuscì a sdoganare quella cultura  ed ad imporre questo tema nell’agenda politica circa 40 anni fa. Non hanno torto i sostenitori del Si al referendum a sostenere che la riforma delle istituzioni “attende da 40 anni”, ma solo se si ammette che è della riforma di Gelli che si sta parlando. E, in effetti, le somiglianze fra il piano della P2 e l’attuale progetto di riforma istituzionale non mancano affatto: legge elettorale maggioritaria, partiti “all’americana”, centralità assoluta del governo che assorbe in gran parte la funzione legislativa, compressione degli organi di controllo e garanzia, abolizione/trasformazione del Senato, abolizione delle provincie, ecc. E’ la stessa filosofia antiparlamentare di Gelli.
D’altro canto, anche la base sociale e regionale della P2 presenta diverse somiglianze con il “giglio magico” renziano ed i suoi dintorni. Ovviamente sia tanto nel progetto quanto nella composizione sociale, ci sono anche differenze inevitabili, dato il tempo trascorso, ma quel che conta è il nucleo centrale di entrambi, come dire? Il Dna che si trasmette nelle generazioni pur nei mutamenti parziali.

Le somiglianze fra i due progetti (quello di Gelli di ieri e quello odierno di Renzi) si colgono meglio se si tengono presenti anche due documenti preparatori del notissimo Piano di Rinascita Democratica: il “memorandum” sulla situazione italiana e lo Schema “R” molto meno conosciuti e che ripropongo alla vostra lettura. Più che mai questa volta il libro è pensato come un’arma di battaglia (qui la scheda di presentazione del libro).
Spero che vi interessi e, come al solito, sono a disposizione per risposte, chiarimenti ed anche per accogliere critiche e contestazioni. Spero non mi deluderete. Aldo Giannuli ”

La Scheda di presentazione del Libro

fonte aldogiannuli.it

Con la riforma del Titolo V via libera allo sfruttamento selvaggio dei territori

fonte BLOG LAVORO SALUTE

Lo sport nazionale dei governi è la riforma di tutto ciò che non piace alle imprese, per invogliarle ad investire nel proprio paese. Sulle riforme per attirare gli investimenti, i governi non hanno molto da inventare, ha già scritto tutto il World Economic Forum,l’associazione delle multinazionali che tutti gli anni organizza l’incontro di Davos, per dettare l’agenda politica. Nei suoi rapporti elenca le condizioni che piacciono alle imprese: basso regime fiscale, bassi oneri sociali, alta flessibilità del lavoro e un assetto istituzionale sicuro e veloce. Cioè governi stabili capaci di garantire continuità politica e parlamenti veloci capaci di produrre in fretta leggi favorevoli agli affari.
Con la riforma del Titolo V via libera allo sfruttamento selvaggio dei territori

Partiamo da un presupposto: il consolidamento della post-democrazia di cui parlava Crouch ha bisogno di riforme costituzionali come quella che saremo chiamati a votare (o meglio a sventare) il 4 dicembre. Il disegno sotteso alla riforma – propagandata come al di sopra del bene e del male, buona di per sé, come se dopo anni di tentativi andati a vuoto il solo concetto fosse salvifico e non ne importasse il carattere migliorativo o peggiorativo – mira alla consacrazione di un sistema politico in cui, invece che restituire sovranità al popolo cui apparterrebbe, si fa il possibile per concentrarla sempre più verso l’alto. Vale la pena ricordare che il colosso finanziario JP Morganaffermava nel 2013 che le costituzioni antifasciste – ispirate ai diritti e all’allargamento della base democratica – sono una zavorra per la crescita e vanno profondamente modificate.

L’indicazione giunta al governo dalle istituzioni finanziarie riguarda dunque la creazione delle condizioni di piena esigibilità per le richieste del mercato: necessarie riforme economiche, necessarie grandi opere, necessario sfruttamento delle risorse naturali, necessari tagli ai diritti sociali e al welfare. Il risultato atteso è legittimare la delega dell’intero esercizio deliberativo ad organismi sempre meno rappresentativi dell’interesse collettivo. La ricetta è lineare: svuotamento dei luoghi della rappresentanza, rarefazione dei centri di potere e corsa a verticalizzarne i meccanismi di decisione tramite maggiori poteri all’esecutivo, la camera politica unica e la nuova legge elettorale che la determinerà, le nuove tipologie di procedimenti legislativi che scavalcano le istituzioni di prossimità.

Uno degli aspetti meno trattati e più rilevanti della riforma è la revisione del Titolo V, che affermerebbe un modello di gestione delle risorse deciso dai ministeri – neppure dal Parlamento – senza previsione di correttivi in senso partecipativo. Le competenze esclusive che tornerebbero allo Stato riguardano produzione, trasporto e distribuzione dell’energia; infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e navigazione; beni culturali e paesaggistici; ambiente ed ecosistema; attività culturali e turismo; governo del territorio; protezione civile; porti e aeroporti civili.

La riformulazione dell’art.117 introduce come ulteriore elemento d’allarme la clausola di supremazia “Su proposta del governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale.“La formula offre all’esecutivo spazio per molteplici forzature: invocando l’interesse nazionale (leit-motiv dell’ultimo decennio) sarà possibile imporre politiche e progetti invisi agli enti locali e alle comunità chiamate a pagarne i costi economici, ambientali, sociali e sanitari. Se ha una sua ratio prevedere che sia il livello centrale a stabilire le regole generali dell’agire in materia di ambiente, garantendo come precondizione il pieno rispetto degli art. 9 e 32 della Costituzione, nello scenario dato il nuovo assetto si tradurrebbe inevitabilmente in un ulteriore arretramento delle legittime pretese dei cittadini potenzialmente o concretamente impattati. Gli enti locali sono inoltre i più esposti – e ricettivi – alle pressioni esercitate dalle comunità locali: elemento rivelatosi spesso decisivo per ottenere la rinuncia a progetti a forte impatto ambientale. Escludere le Regioni dal rapporto di “leale collaborazione” con lo Stato su tutte queste materie senza prevedere di compensare con strumenti di concertazione locale avrà l’effetto di aggravare anziché risolvere il gap (in termini di analisi e proposte) tra comunità e governo centrale.

Da un altro punto di vista, la riscrittura dell’art. 117 è la testa di ariete attraverso cui si tenta di forzare l’introduzione in costituzione di alcuni dei principi contenuti nel decreto sblocca Italia, convertito nonostante forti proteste nella L.164/2014. Si tratta in parte di principi su cui il governo ha dovuto fare marcia indietro in seguito al deposito dei quesiti referendari promossi da 9 Regioni e centinaia di associazioni ambientaliste. Un punto in particolare, che prevedeva l’esclusione delle Regioni dai processi decisionali in materia energetica e infrastrutturale, è stato dichiarato incostituzionale con sentenza n.7/2016 per violazione degli artt.117-118 e recepito obtorto collo dal governo nella legge di stabilità per evitare di sottoporre tale punto (pronto a rientrare in campo proprio con la riforma costituzionale) alla consultazione popolare dell’aprile scorso.

Nonostante la sopravvivenza di un unico quesito, il 17 Aprile oltre 15 milioni di Italiani si sono recati alle urne per affermare il loro diritto a decidere in materia di politiche energetiche. Durante la campagna referendaria il governo ha mostrato quale idea avesse della partecipazione popolare: la proclamazione dell’esistenza di temi troppo difficili su cui esprimersi (guarda caso riguardanti profitti miliardari e devastazioni territoriali), una campagna informativa condotta al fine di boicottare la consultazione, lo sprezzante “ciaone” agli elettori la sera del voto. In quelle stesse settimane emergevano con chiarezza, grazie ad un’inchiesta della magistratura, le connessioni tra il governo e le lobbies energetiche del Paese: scandalo che costrinse l’allora ministro Guidi a dimettersi. Di oggi, infine, è la notizia che il governo Renzi ha autorizzato nuove attività di ricerca di idrocarburi lungo la riviera Adriatica e nel Mar Ionio. Neppure sei mesi dopo il referendum e le continue rassicurazioni circa la rinuncia a nuovi fronti estrattivi, si imbocca nuovamente, indisturbati, la via nera del petrolio. Ulteriore conferma, questa, che lo spirito di quella campagna referendaria e la rivendicazione democratica costruita su centinaia di territori trovano oggi più che mai la loro naturale continuazione nella costruzione di un No collettivo al referendum costituzionale.

Da anni assistiamo all’attivazione di decine di migliaia di persone per ciascuna battaglia territoriale: il movimento No Ombrina in Abruzzo, le lotte contro il Biocidio in Campania, le istanze dei No Triv, No Tav, No Tap e No Muos, le centinaia di altre realtà di resistenza popolare in prima linea per il diritto alla vita, alla salute, all’ambiente. Questo aumento della conflittualità sociale attorno all’imposizione di politiche impattanti (con gravi effetti documentati da rigorosi e numerosi studi ambientali, epidemiologici, economici e demografici) suggeriscono che i meccanismi di funzionamento della democrazia andrebbero riformati in direzione opposta da quella indicata dalla riforma: devolvendo potere decisionale alle comunità sulla gestione delle risorse e inaugurando un nuovo concetto di sovranità legato al territorio.

Alcune tra le maggiori organizzazioni ambientaliste, le 19 big firmatarie dell’appello in cui si chiede al governo di rivendicare la competenza esclusiva dello Stato in materia ambientale senza postulare la necessità di una riforma in senso partecipativo, dimostrano di non aver compreso che la partecipazione alle decisioni e la centralità della volontà popolare non è affatto un corollario marginale per una piena tutela dell’ambiente e dei diritti a esso connessi.

La riforma aiuta infine l’ufficializzazione di una prassi di sospensione democratica già arbitrariamente utilizzata: il massiccio ricorso alla gestione commissariale e allo stato di emergenza, attraverso le quali nell’ultimo decennio si è imposto il meccanismo del comando e controllo come risposta autoritaria all’emergere delle istanze più disparate.

Questa riforma è l’atto finale del processo di trasformazione dello Stato e di suo asservimento a logiche puramente neo liberiste, succubi del mercato e della finanza. Un processo che dopo vent’anni di “berlusconismo”, l’avvento dei tecnici (Monti) e il ricorso a larghe intese (Letta) ha trovato il suo perfetto scudiero in Renzi e la sua definizione formale nella proposta di modifica costituzionale.

Di fronte a questa minaccia, convinti che sia necessario ricostruire un sistema paese fondato sulle redistribuzione dei poteri e della ricchezza e sulla giustizia ambientale, non possiamo che individuare nell’approvazione della riforma un rischio enorme per la tenuta sociale e democratica del paese e nel coinvolgimento pieno delle realtà di resistenza territoriale nella campagna del No una prospettiva concreta per una reale trasformazione del nostro paese.

Marica Di Pierri – Associazione A Sud

Stefano Kenji Iannillo – Rete della Conoscenza

Pubblicato su HUFFINGTON POST del 21 ottobre 2016

Il digitale, i controlli a distanza e… la democrazia!

Il digitale, i controlli a distanza e… la democrazia!
C’è un filo rosso che lega la contro-riforma costituzionale con i controlli a distanza che coinvolgono i lavoratori anche nei momenti liberi. di Riccardo De Angelis 22/10/2016

Fonte  LACITTAFUTURA.IT

 


L’autunno è arrivato sull’onda del dibattito relativo all’impatto dell’era digitale e robotica nel mondo del lavoro, con le ormai abituali previsioni di riduzione di milioni di posti di lavoro. Tralasciando ora la questione che la riduzione non è legata all’innovazione ma alle scelte di sfruttamento che il capitale adotta, vogliamo concentrarci invece sulle capacità di controllo della produzione e dei “produttori” che il digitale consente in assenza di una adeguata regolamentazione o meglio ancora concezione dell’organizzazione del lavoro.

Dopo le modifiche operate di fatto sull’Art.4 dello Statuto dei lavoratori (L. 300/70) dal Jobs Act e al portone aperto dall’accordo del 2011 tra Confindustria e Sindacati, ratificato da una norma inserita dall’ultima Finanziaria di Berlusconi dello stesso anno, le aziende private e pubbliche stanno operando un affondo deciso per conquistare questo baluardo della rigidità sindacale. Il divieto di controllo a distanza, già eluso negli anni precedenti con diversi accordi aziendali che con la scusa della sicurezza cedevano quote di questo diritto alla riservatezza, subisce un destino in controtendenza rispetto a quanto stabilito dalle nuove normative sulla privacy che avrebbero potuto blindare tale divieto anche dentro i luoghi di lavoro. Come è facile capire, la politica della sicurezza imperante, ha fatto invece cedere il passo al “diritto” dei lavoratori e lavoratrici di poter essere liberamente spiati durante l’orario di lavoro.

Se è vero che i precedenti accordi venivano molto spesso trincerati dietro la postilla per cui le informazioni raccolte tramite i sistemi di controllo non potevano essere in alcun modo utilizzate per provvedimenti disciplinari, è altrettanto vero che si introduceva il monitoraggio costante e ripetuto dei comportamenti abituali dei lavoratori, potendo in ogni caso definire meglio i profili di attivisti, agitatori, o contestatori di diverso ordine e grado.

Oggi, invece, il contesto normativo legato anche alle molteplici attività digitali ha creato i presupposti per un appetito più ampio per il datore di lavoro. La battaglia, che nel ciclo di lotta di conquista era contro l’aumento della produttività a scapito di salute e occupazione, si è trasferita nell’era contemporanea (già pregna di lotte di retroguardia) nella battaglia contro la produttività individuale a favore della più volte reiterata condivisione dei sindacati per la produttività collettiva. Quindi cessa di avere una qualsivoglia capacità di resistenza nel momento in cui il datore di lavoro può misurare costantemente e sistematicamente l’attività di ogni suo singolo dipendente nel momento stesso che sta operando. Ciò permette di esercitare una pressione concreta e psicologica sul singolo, tanto più con un modello salariale sempre più legata alla produttività, che avrà ripercussioni psico-fisiche ben note già da 40 anni.

Ma se tutto ciò non fosse abbastanza, in queste settimane la voracità di Confindustria e dei suoi più agguerriti assaltatori non si esaurisce negli strumenti coercitivi legati al semplice aumento della produttività individuale ma al controllo stesso del singolo lavoratore, con particolare attenzione al profilo che può innescare la contestazione anche in quelli sopiti.

Il cambio normativo sollecitato per contrastare le inevitabili e oggettive resistenze che l’appiattimento dei salari sta determinando ha bisogno di un “salto di qualità” nella capacità di isolare e rendere inoffensive quelle avanguardie che non si arrendono e continuano a seminare conflitto o semplicemente a svelare la natura antiumana del capitalismo in ogni loro contesto.

Questa affermazione che forse molti troveranno abnorme, si rafforza nei ragionamenti e nelle richieste ingiustificate di aziende “pubbliche” o private che non si accontentano di controllare l’attività di produzione di ogni singolo dipendente, ma sempre più ne vogliono controllare la sfera personale, di relazioni, di pensieri che grazie alla sempre più coinvolgente digitalizzazione della comunicazione passa attraverso strumenti promiscui come le mail, i social, il web ecc ecc. Gli algoritmi che permettono a un Facebook qualsiasi di proporci beni di consumo in base alle ricerche o ai “like” inseriti in esso, devono diventare l’abituale controllo giornaliero del datore di lavoro nei confronti del lavoratore.

Cosi, se l’Università di Chieti installa dei software di controllo individuale per conoscere preferenze, discussioni, ricerche e letture on line dei tecnici-amministrativi e dei docenti con la scusa della sicurezza, per fortuna (ribadiamo pura fortuna!) il Garante della privacy, a seguito dell’inchiesta istituita su sollecitazione dei dipendenti, ha vietato tale utilizzo perché il software raccoglieva dati sensibili in nessun modo utili alla sicurezza o all’interesse dell’Università.

Almaviva, invece, preferisce chiudere 2 sedi (Roma e Napoli) dove guarda caso l’accordo sul controllo a distanza era stato rigettato dalle assemblee in maniera netta, preferendo mettere per strada 2000 persone circa. Ree non solo di non acconsentire all’abbattimento del costo del lavoro ma che pretendono “impunemente” di lavorare senza essere trattati come si fa in un campo di concentramento. Perciò la capacità di “rieducazione” di tale gruppo di lavoratori è talmente scarsa che Almaviva non ritiene opportuno cercare strade alternative alla chiusura delle sedi ribelli e lasciare in piedi la sola sede dichiaratasi più pronta a farsi stuprare la dignità.

Telecom Italia, dal canto suo, nella trattativa per il rinnovo del contratto integrativo richiede non solo il controllo nei luoghi produttivi dove operano circa 50mila dipendenti, ma anche di tutti gli strumenti messi a disposizione dalla stessa azienda che non vengono considerati legati all’attività lavorativa come web, mail, social, ecc- Ora, ammesso che non siano legati all’attività lavorativa, ci chiediamo perché l’azienda spende soldi per mettere a disposizione tali strumenti, e ancora qual è il bramoso interesse per conoscere usi e costumi di ogni singolo dipendente se ciò non è strettamente connesso all’attività lavorativa?

La verità è che la cospicua giurisprudenza considera tali strumenti per loro natura promiscui in quanto utili alla comunicazione di ognuno di noi che, come noto, non è univoca ma afferente alla sfera di relazioni che abbiamo e che per la maggior parte degli esseri umani spazia da quella lavorativa a quella affettiva fino ad arrivare oggi ad ambiti quali l’e-commerce. Ancora il 15 settembre di quest’anno il Garante per la protezione dei dati personali nel pronunciarsi sull’ateneo di Chieti ha specificato quali siano gli strumenti per i quali è possibile trovare un’intesa sindacale per il controllo a distanza e quali, invece, siano fuori dalla portata di questi accordi in quanto riguardanti diritti GARANTITI costituzionalmente. Il Garante della privacy esclude quindi il monitoraggio costante e sistematico di mail, instant messagging, registrazione di indirizzi IP e dati personali, ma questo non pare fermare l’appetito padronale.

Un sistema di annientamento personale che, certificato dalla legge, mina la tenuta democratica del paese. Parliamo del controllo totale di una persona che ha la sola sfortuna di lavorare sotto padrone! Di una società in cui il datore di lavoro, per il fatto stesso che “ti concede” di lavorare per lui, ha diritto di sapere ogni cosa dei propri dipendenti e quindi, volenti o nolenti, di costruire il proprio giudizio su una serie di questioni che esulano dall’ambito lavorativo. Si potrebbe obiettare che tali strumenti basta non usarli ma l’era digitale ormai impone l’utilizzo quasi giornaliero di strumenti come quelli citati, ed ove anche fosse possibile l’auto-coercizione del proprio pensiero, ciò risulta abbastanza spaventoso.

Non è un caso che il Garante si esprima in contrasto con tali utilizzi non solo rispetto alle norme sulla privacy ma anche in riferimento agli aspetti costituzionali relativi al divieto di discriminazione delle persone in base al sesso, razza, religione, ideologia . E non è un caso che personaggi come Briatore, Squinzi e simili affianchino il governo Renzi nell’azione di destrutturazione della carta costituzionale ultimo relitto di una legislazione costruita nel conflitto e nella mediazione di classe, a favore un nuovo sistema di regole totalmente sbilanciato per il Capitale e i fruitori dei suoi privilegi.

22/10/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

Fonte  LACITTAFUTURA.IT

LIBERTA’ D’INFORMAZIONE A RISCHIO NEGLI USA : FARE IL FILMAKER DOCUMENTARISTA NEGLI USA PUO’ COSTARE MOLTO CARO..

Due giornaliste che riprendevano con la videocamera manifestazioni di protesta contro la costruzione di un oleodotto nel Nord Dakota sono state arrestate e imputate per reati che possono portare ad una condanna per 20 o trent’anni di prigione. Non è una bufala, è una notizia riportata dal quotidiano inglese Guardian. Altro che salvaguardie per chi fa informazione garantite dal primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, le polizie e i giudici locali si comportano come i loro colleghi degli “Stati delle banane”.

Documentary film-makers face decades in prison for taping oil pipeline protests (fonte Guardian.uk )

Documentary Filmmaker Faces Up to 45 Years in Prison for Covering Pipeline Protest (fonte trofire.com )

Documentary Filmmaker Faces Up to 45 Years in Prison for Covering Pipeline Protest

Marcinelle, 8 agosto 1956: carbone in cambio di vite umane

di Fiorenzo Angoscini

libretto 3 [Oggi si sente spesso ripetere che l’attuale Unione Europea avrebbe tradito, con le sue misure economiche draconiane, lo spirito fondatore della stessa. Eppure, esattamente sessant’anni fa, la tragedia mineraria di Marcinelle aveva già rivelato il patto di sangue che fondava la CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio).
Il trattato costitutivo della stessa fu firmato a Parigi il 18 aprile 1951 ed entrò in vigore il 24 luglio 1952. Il “mercato comune” previsto dal trattato venne inaugurato il 10 febbraio 1953 per il carbone e il ferro e il 1º maggio seguente per l’acciaio. Il trattato aveva una durata di 50 anni e la CECA successivamente divenne parte dell’Unione europea. I paesi firmatari erano: Belgio, Francia, Repubblica Federale Tedesca, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi. S.M.]

Marcinelle, sobborgo operaio di Charleroi, lembo di terra vallona dove si è combattuto un frammento di guerra di classe, si trova nel cuore del bacino minerario dello stato artificiale belga.
Polvere nera di mina assassina. Umili abitazioni, piccoli esercizi commerciali di poco svago e relativo divertimento, al cui interno, come in tutto il borgo, si respirano miseria, povertà e silicosi.
Nel resto della nazione, quella con spirito fiammingo, sulle porte e vetrine dei pubblici locali, campeggia un cartello perentorio: “vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”.

marcinelle interdit A Le Bois du Cazier (nome della miniera vigliacca) torri di estrazione, un’infinità di pozzi innaturali, scavati, violentandola, nelle viscere della terra, ingoiano tutti i giorni, tramite montacarichi criminali, uomini (unici e veri infoibati) e vagoncini da riempire di carbone (coke) da barattare, poi, con le loro vite. Alti camini di ciminiere sputano in continuazione fumo e fuliggine insieme a sudore e sangue di immigrati. Una coltre di polvere grigiastra sporca case, giardini, parchi e monumenti.

segue su fonte CARMILLAONLINE

Brasile: colpo di stato mediatico-giudiziario

 

Pubblicato il 11 mar 2016

Con l’arresto di Lula, un nuovo tentativo di golpe in Brasile, che segue di tre mesi la richiesta d’impeachment per la presidente Dilma Rousseff. Ma questa volta il colpo di zappa sembra essere andato sui piedi dei golpisti: ancora una volta il processo sociale torna alla ribalta con grande potenza e offusca gli scenari fasulli che i media controllati dalle oligarchie avevano preparato per la rappresentazione. Il Partito dei Lavoratori, dopo i momenti di difficoltà vissuti nei mesi passati, ritrova la forza e la volontà di ricompattarsi, e ritrova il sostegno di altri partiti progressisti, di movimenti sindacali e dello storico movimento dei Senza Terra.
Approfondimenti su Lava Jato
http://www.pandoratv.it/?p=6215

Il Pd non ha capito che cosa succede

Il Pd non ha capito che cosa succede

fonte Blog Giubberosse

Leggi le reazioni all’intervista durissima di D’Alema o a quelle di Bersani e Bassolino e capisci che nel Pd non capiscono quello che sta succedendo fuori dal Palazzo. No, proprio non c’è verso, altro che cambiaverso e lavoltabuona.
Il problema non sono D’Alema, Veltroni, Bersani (che pure sono tre ex segretari, mica passanti), il problema non è Prodi (che pure è un ex due volte premier e presidente della Commissione Ue, mica un professore emerito), il problema non è Bassolino (che pure è un ex sindaco ministro presidente di Regione, mica un podista della domenica). No, il problema vero non sono loro che a volte sbagliano a volte l’azzeccano come succede a ogni essere umano che non sia illuminato da qualche Sacra Missione.
Il problema vero è che c’è un’incazzatura in giro contro un Pd autoreferenziale, dove il massimo di espressione dirigente è, come scrive oggi Reichlin,  ripetere a pappagallo le frasi del Capo e dove si tenta di nascondere sotto il tappeto ogni problema perché tanto è roba da gufi. Un partito capace di non scandalizzarsi se qualcuno gonfia le schede bianche e nulle alle primarie di Roma perché che volete che sia. Che non si scandalizza se alle primarie di Napoli c’è chi pagava gli elettori fuori dai seggi e chi faceva votare esponenti di destra dentro i seggi perché tanto il risultato non cambia e quindi niet al ricorso legittimo di Bassolino battuto per soli 452 voti. Un partito che ha fatto dell’apologia del leader e delle sue gloriose corse verso il futuro luminoso la sua ragione politica. Un partito che esalta con immaginifica enfasi qualche zero virgola in economia credendo di aver raggiunto i mirabolanti obiettivi di un novello piano quinquennale. Un partito infine che non sa più distinguere il vero dal falso e non ha nemmeno la più pallida idea di che cosa sia la vita reale dell’Italia reale.
No, il problema non sono D’Alema, Prodi, Bersani o Veltroni perché di loro come di ogni leader democratico che si rispetti si può anche fare a meno. Il problema sono quegli elettori che sono stanchi di propaganda, stanchi di sentire sempre le stesse parole sempre su di giri, stanchi di essere raggirati quando votano alle primarie e non possono fidarsi di chi dirige il traffico dello spoglio, stanchi di sentirsi definire truppe cammellate di qualche capobastone se decidono di non andare ai gazebo. Stanchi a tal punto che spesso non sanno più per chi votare e se votare.
Ecco qual è il vero problema cari dirigenti del Pd. Voi potrete continuare a far finta di niente, a dire che l’Italia corre e voi con lei, che chi non corre gufo è e che le primarie sono state un trionfo di popolo e di partecipazione e che tutti quelli che la pensano diversamente sono da asfaltare.  Ma il rischio è che alla fine di questa fantasmagorica marcia trionfale sia asfaltata la sinistra. E resti un triste desolante deserto.

fonte blog giubberosse

Al renzismo non c’è mai fine

Dai diritti alle regalie ai poveri e ai giovani. È la filosofia di Matteo Renzi. Ma per le regalie servono soldi, dove va a cercarli il “sindaco d’Italia”? Nei patrimoni dei ricchi e dagli evasori fiscali, o rinunciando a Tav e ponte sullo Stretto? Macché, così si fermerebbe una crescita che solo Renzi vede. Meglio seguire altre strade: spremere i lavoratori bloccando i rinnovi contrattuali nel pubblico, cancellando il contratto nazionale nel privato e – riconsegnato con il jobs act tutto il potere ai padroni – puntando tutto sul secondo livello a cui una minoranza può accedere, sostituendo gli aumenti salariali nella parte fissa del salario con aumenti variabili, detassati, legati all’andamento aziendale; tagliando sanità, previdenza, istruzione e sostituendo l’universalità dei diritti con il welfare aziendale; colpendo ancora i pensionati – ultimo ammortizzatore sociale per i giovani senza lavoro e senza reddito di cittadinanza – già fatti a pezzi dalla Fornero, strizzando le pensioni di reversibilità ai coniugi dei lavoratori deceduti.
Eppure Renzi tiene, e se si crede ai sondaggi aumenta i consensi così come il Pd. Gli italiani sono matti? Più che matti sfiancati, paralizzati dalla crisi della rappresentanza politica e sociale. La forza di Renzi sta nell’assenza di alternative, e se la democrazia agonizza tanto vale tenersi l’uomo solo al comando, mica è la prima volta nel Belpaese. L’unico scontro in atto, dentro e fuori il Pd, è sulle unioni civili con il riemergere dell’eterna subalternità di tanta politica alle fatwe vaticane. Per il resto, basta guardare alle prossime comunali nelle principali città: a Roma, commissariata per Mafia capitale, dove l’impresentabile Pd va sfiduciato alle primarie mentre la destra si scanna sul Bertolaso dei grandi eventi, pupillo di Berlusconi, l’uomo dei massaggi speciali nei centri benessere e dello scandalo del G8 mancato all’Aquila terremotata; a Milano, drogata dall’Expo che dice addio al modello Pisapia anche grazie a Pisapia e ai suoi infedeli seguaci che si autocancellano e mette due figure identiche a combattere per la poltrona di sindaco, il neo-renziano Sala, già deus ex machina di Moratti, ex ad Pirelli e dg Telecom ed Expo per il Pd (te la do io la classe operaia) e Parisi, già deus ex machina di Albertini, già Cgil e Psi per la destra; Napoli, dove per battere il sindaco di sinistra De Magistris dal cappello del Pd esce un Bassolino d’annata sfidato da una ex bassoliniana, mentre la destra non si vede all’orizzonte; Bologna, dove il Pd spera che la maggioranza degli scontenti resti a casa e i pochi contenti possano confermarlo al potere, magari di nuovo con il 37% dei votanti, mentre si cerca un candidato che unisca quel che resta a sinistra; sembra resistere l’alleanza Pd-Sel solo nella Cagliari del sindaco di sinistra Zedda; infine Torino, dove il sindaco Fassino con azionisti di destra, pd e centro non ha rivali, salvo la buona candidata 5 Stelle e dove la sinistra si è unita intorno al nome di Giorgio Airaudo, un nome di qualità allevato in casa Fiom. Ma chi in alcune città rischia vincere è fuori dalla mischia, i 5 Stelle degrillizati (solo) nel simbolo, forti delle miserie altrui al punto da permettersi di schierare candidati sconosciuti ai più.
In attesa del braccio di ferro sulle unioni civili, Renzi sogna il miracolo a Milano mentre dà per quasi persa Roma e mette le mani avanti: chiunque vinca, hic manebimus optime e punta tutto sul referendum d’autunno sulle riforme istituzionali che smantellano Costituzione e democrazia parlamentare. Non senza aver prima impedito l’election day tra amministrative e referendum contro le trivellazioni del povero Adriatico, che si svolgerà prima al costo aggiuntivo di 300 milioni nella speranza che fallisca il quorum.fonte area7.ch

RAVENNA, SALUTE E SICUREZZA NEL LAVORO OGGI, INTERVISTA AD ANDREA MARCHETTI

SALUTE E SICUREZZA NEL LAVORO A RAVENNA
INTERVISTA AD ANDREA MARCHETTI CGIL RAVENNA

 


Abbiamo intervistato Andrea Marchetti, responsabile per la Cgil del Coordinamento Salute e Sicurezza nel Lavoro sullo stato dell’arte nel territorio di Ravenna.
Come stanno andando le cose a Ravenna, un territorio con molte realtà produttive di grande complessità, dal porto all’industria chimica ove la gestione dei rischi da parte delle aziende è il fattore primario per evitare gravi incidenti sul lavoro e ridurre l’impatto sulla salute non solo dei lavoratori ma anche della popolazione ?
Queste ed altre sono le domande che abbiamo rivolto ad Andrea Marchetti.

L’INTERVISTA

“Frau Merkel, con gli USA non andiamo da nessuna parte”

Un attacco frontale al filo-atlantismo e alla politica di rigore della Merkel Dalla leader dell’opposizione Sahra Wagenknecht una dura critica alle ingerenze USA in Europa. Dai rapporti con la Russia all’approvazione del TTIP, dal caso Grecia alla sudditanza alla Troika.
Supervisione editoriale Adolfo Marino, traduzione Maria Heibel, editing Santiago Martinez de Aguirre. Pandora TV – 2015

Podcast Notizie Ambiente Lavoro Salute di Diario Prevenzione – 21 gennaio 2016 – n° 34

 

Podcast Notizie Ambiente Lavoro Salute di Diario Prevenzione – 21 gennaio 2016 – n° 34
a cura di Gino Rubini

In questo numero parliamo di

– Un clima pesante per chi vive del proprio lavoro, Jobs Act e dintorni

– LA SEMPLIFICAZIONE RICHIEDE INTELLIGENZA. L’ABROGAZIONE DEL REGISTRO INFORTUNI, UNA SEMPLIFICAZIONE FATTA SENZA TESTA

– Tecnostress: il punto di vista del sindacato

– LAVORO AGILE, TANTO “AGILE” DA ESSERE VOLATILE E INSICURO PER LA SALUTE E SICUREZZA

– Bruno Maggi: Il “vero paziente è il lavoro ”

 

LAVORO AGILE, TANTO “AGILE” DA ESSERE VOLATILE E INSICURO PER LA SALUTE E SICUREZZA

 

Abbondano i disegni di legge per dare una parvenza di “legalità” alle forme di lavoro “precario” con la sostituzione delle parole che lo definiscono.
Da “precario” il lavoro diviene “agile”, e in alcune accezzioni diviene addirittura “smart” dove di “smart” per il lavoratore vi è molto poco.
Tutto diviene indefinito, la cosìdetta cornice costruita per dare una parvenza di “legalità” per alcuni elementi diviene risibile rispetto, ad esempio, alle norme per la gestione della sicurezza sul lavoro.

Abbiamo tra le mani un ibrido che sta tra il regolamento aziendale tipo e e un contratto commerciale ove il lavoratore è un fornitore in una relazione di potere sbilanciata. L’aspetto della prestazione è affidato al contratto individuale tra lavoratore e impresa, in una condizione di totale subalternità del lavoratore.

Orari, tempi di lavoro, aspetti gestionali sono consegnati alla trattativa individuale tra lavoratore e impresa. Abusi, truffe e compensi non pagati in ragione di contestazione della qualità della prestazione erogata dal lavoratore saranno possibili e numerosi in quanto le clausole contro gli abusi riguardano solo gli aspetti formali del contratto. Il dominus è l’azienda committente versus il lavoratore che è monade isolata e debole. Non esiste nessun accenno che richiami l’ergonomicità delle attrezzature fornite dal committente o proprie del lavoratore. Per fare un esempio i lavoratori agili del call center potranno operare con cuffie da tre soldi, apparecchiature di bassa qualità…
Non parliamo poi della prevenzione dello stress lavoro correlato totalmente ignorata in quanto il lavoro “agile” non sarebbe stressante per definizione. 🙂

I commi 2 e 3 dell’articolo 6 sono emblematici dell’assenza di tutela della salute di questi lavoratori.
Il Parlamento dovrà discutere seriamente prima di licenziare questo pericoloso pastrocchio ove di “agile” vi è solo l’amabile disinvoltura ad evitare di affrontare la complessità dei problemi che questa tipologia di lavoro produrrà nel mercato del lavoro.
La  pericolosità sta nella diffusione di un rapporto di lavoro di natura altamente subordinata spacciato come rapporto di lavoro autonomo “leggero” e senza rischi per la salute . La sua “pericolosità sociale” è pari solo a quella generata dai Voucher.

Art. 6. Sicurezza sul lavoro.

1. Il datore di lavoro deve garantire la tutela della salute e della sicurezza del lavoratore che svolge la propria prestazione lavorativa in modalità di lavoro agile.

2. Al fine di dare attuazione all’obbligazione di sicurezza, e tenuto conto dell’impossibilità di
controllare i luoghi di svolgimento della prestazione lavorativa, il datore di lavoro deve
consegnare una informativa periodica, con cadenza almeno annuale, nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alle modalità di svolgimento della prestazione.

3. Il lavoratore che svolge la propria prestazione lavorativa in modalità di lavoro agile, per i
periodi nei quali si trova al di fuori dei locali aziendali, deve cooperare all’attuazione delle
misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro.

LA BOZZA DEL DDL SUL LAVORO AGILE

Nessuno deve fiatare nei luoghi di lavoro. Tutto va bene Madama La Marchesa

 

Un clima pesante nei luoghi di lavoro. Il capolavoro di Renzi è realizzato: con il JOBS ACT i padroni sanno di avere mano libera per trattare i lavoratori come servi.
Nessuno deve fiatare, credere obbedire e fare finta di produrre. Si, fare finta di lavorare bene perchè non si può dire nulla neanche quando il capetto da istruzioni sballate su come fare una certa cosa. Comunicazione monodirezionale top bottom, dal vertice all’ultimo lavoratore, pochi feed back e in quelle aziende in cui c’è qualche disponibilità  all’ascolto bocche cucite per non rischiare di parlare male del capetto che non sa dirigere e fa cavolate.
Queste sono le prime suggestioni che ci vengono in via diretta dai lavoratori di diverse aziende. Continueremo a raccogliere testimonianze e a fare inchieste sui climi cupi che si vivono nelle realtà di lavoro. Ruvidus

Perché Onde Corte blog sta con Luca Fiorini

Intervista a Luca Fiorini

Perché sto con Luca Fiorini
Stiamo vivendo un’epoca di rottura o , usando un termine diffuso, di disrupting dei diritti costituzionali in nome di un pragmatismo ottuso che pone l’efficienza, gli interessi e il comando dell’impresa come unico valore di riferimento per l’agire quotidiano.Tutto il mondo circostante deve essere al servizio e piegarsi alle esigenze dell’impresa.
Un nuovo dogmatismo autoritario è alla base di questa ideologia che sta avvelenando le relazioni tra lavoratori e impresa: tutto ciò che fa bene all’impresa coincide con il bene comune. I diritti dei lavoratori alla dignità sul lavoro rappresenterebbero , secondo questa ideologia, un ostacolo al pieno dispiegarsi degli obiettivi dell’impresa e quindi vanno ridimensionati se non annullati. Questa ideologia neo autoritaria si manifesta in modo clamoroso nei comportamenti spregiudicati dei manager che ne sono portatori. Innumerevoli sono gli episodi di licenziamenti mascherati nella fattispecie del licenziamento per ragioni economiche per eliminare i lavoratori che hanno sollevato obiezioni sulla qualità della gestione delle relazioni con i lavoratori nell’azienda. Il caso recente più clamoroso riguarda il licenziamento di un delegato della Rsu del Petrolchimico di Ferrara, Luca Fiorini, con il pretesto di un banale alterco nel corso di una trattativa. Tante volte chi scrive è stato testimone in corso di trattative sindacali di reazioni verbali sopra le righe ( da entrambe le parti ) che venivano archiviate con una pausa caffè . Una multinazionale che ha avuto moltissimo dai lavoratori, dalle istituzioni elettive che governano quel territorio per risanare e rimettere in piedi gli stabilimenti, ora si pone come una potenza coloniale che , con questo licenziamento, manda il segnale a tutti i soggetti sociali e istituzionali:il sistema di relazioni è cambiato. Il messaggio che pare provenire da questo episodio suona più o meno così :” D’ora innanzi si cambia registro, noi abbiamo il potere di decidere sia all’interno dell’azienda sia nel territorio senza che ci vengano frapposti ostacoli. Chiunque cerchi di rappresentare un altro punto di vista o altri interessi sia pure legittimi è fuori.”
La fitta trama di relazioni tra lavoratori, sindacato e pubbliche istituzioni con l’azienda che hanno consentito negli anni una governance dei problemi complessi, ambientali, d’innovazione industriale e occupazionali appare come polverizzata da questo atto.
Il comportamento di questi manager non va letto come un rigurgito del passato ma come una strategia tesa a ridisegnare le relazioni complessive tra l’azienda, i lavoratori e le istituzioni locali per redifinire i rapporti di potere e di forza sia nell’azienda sia nel territorio.
Comune di Ferrara, Regione sono state avvisate: non ci saranno più mediazioni praticabili.
Per questi motivi bisogna essere più che mai con Luca Fiorini, perché venga revocato il licenziamento e vi sia un pieno rispetto dei rappresentanti che i lavoratori si sono liberamente scelti.

Gino Rubini, editor del Blog Onde Corte

Relazione sull’indagine sul caporalato svolta dalla Commissione del Senato in seguito alla morte della bracciante Paola Clemente

 

 

Relazione sull’indagine sul caporalato svolta dalla Commissione del Senato in seguito alla morte della bracciante Paola Clemente

Relazione relativa all’indagine, istituita l’8 settembre 2015 dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali del Senato, in merito al decesso della sig.ra Paola Clemente, il 13.07.2015 in Andria  ( Bari)

IL RAPPORTO

Disrupting* sociale versus il patrimonio di salute della popolazione.

Disrupting* sociale versus il patrimonio di salute della popolazione.

*Disrupt: to cause (something) to be unable to continue in the normal way : to interrupt the normal progress or activity of (something)

Sono molte le forme di disrupting che stanno avvenendo da tempo nel campo del lavoro , dell’economia , delle norme  che servono a regolare le relazioni tra le persone, tra le imprese e le persone, tra la pubblica amministrazione e i cittadini.E’ caratteristica del cosidetto  capitalismo turbo “innovare” spezzando vincoli sociali, compatibilità ambientali, esperienze e competenze, contesti di vita equilibrata di comunità con la delocalizzazione di attività produttive.
Proprio in questi giorni centinaia di lavoratori della Saeco Philips di Gaggio Montano stanno vivendo il dramma della prossima perdita del lavoro perchè l’azienda ha deciso di delocalizzare.
A questi lavoratori va la nostra piena solidarietà.
Essi sono le vittime di una forma di disrupting sociale dura , visibile e diretta che colpisce le loro vite, interrompe la loro vita normale, la loro autonomia e sconvolge progetti di vita di molte persone. Vi è debolezza degli strumenti della politica locale e nazionale, degli strumenti tradizionali di difesa per contrastare le decisioni distruttive della multinazionale. Il compito della politica democratica è quello di elaborare nuove regole di governo che impediscano il disrupting sociale delle multinazionali che sconvolge la vita di intere comunità dopo avere estratto ricchezza e profitti abbandonano senza pagare pegno la popolazione di un territorio.
Se la vicenda Saeco si iscrive tra le forme più tradizionali e decifrabili  del disrupting sociale ve ne sono altre molto insidiose e silenti che rischiano al momento di passare inosservate e sottotraccia. Sono le forme di disrupting operate direttamente dalle decisioni dal governo quando interviene con la riduzione delle norme di tutela dei lavoratori, con la trasformazione del diritto del lavoro a diritto commerciale che equipara il rapporto di lavoro a rapporto commerciale tra lavoratore e impresa considerando i contraenti come soggetti di pari potere.

Il Jobs Act ha in sè un forte potenziale di disrupting sociale che si sta già manifestando con la moltiplicazione dei licenziamenti “economici” dei lavoratori sopra i cinquanta anni, ben lontani dalla pensione,  destinati ad entrare nella fitta schiera delle persone che difficilmente potranno trovare un altro lavoro…
Esiste un fenomeno anch’esso non immediatamente visibile che le pratiche dirette di disrupting sociale e le politiche subalterne dei governi ai poteri forti dell’economia stanno producendo a livello profondo nei comportamenti delle persone: quello dell’adattamento passivo all’obbedienza ai forti, alla perdita della cognizione di sè come cittadino portatore di diritti fondamentali. Questo è il male oscuro che depotenzia la volontà e la capacità di partecipazione mettendo in grave crisi la democrazia: il crescente astensionismo elettorale è un indicatore palese di questo profondo malessere.
Tutto questo ha elevatissimi costi sociali: un patrimonio enorme di potenzialità umane viene dissipato, ai giovani viene prospettato non un futuro da cittadini protagonisti ma da precari assistiti, male.
Innovazione distruttiva è la cifra della cultura ora dominante: un esempio grottesco di questo modo di rapportarsi al mondo viene ad esempio dal ministro Poletti che alcuni giorni fa, in modo confuso, ha proposto la straordinaria innovazione del lavoro con l’orario decontrattualizzato del lavoro a obiettivi decisi unilateralmente dal datore di lavoro,  senza una definizione di limiti dell’orario …
Se dovesse passare la filosofia “innovatrice” del Poletti,  stando alle frasi confuse farfugliate  in un Convegno,  si entrerebbe al lavoro ma non si saprebbe quando termina la giornata o il turno notturno. Questo signore non ha la più pallida idea sul significato e sugli impatti sociali che potrebbe avere l’applicazione delle sue proposte: vorrebbe dire togliere quella piccola barriera o vincolo contrattuale  che consente a milioni di persone un sia pure modesto governo del proprio tempo di vita.
Senza un riferimento contrattuale milioni di persone perderebbero il governo del proprio tempo: chiunque conosca  elementi di psicologia di base  sa che togliere il governo del proprio tempo alle persone significa produrre condizioni di grave rischio per la salute mentale.
Nessuno dello staff ministeriale sembra averlo avvertito su quale terreno il nostro imolese si stesse avventurando.
Le politiche che comportano disrupting sociale sono numerose in molti ambiti diversi, dall’azienda alla scuola alla sanità. Cercare di “vederle”, di individuarle è il primo passo per intraprendere una iniziativa di neutralizzazione di queste pratiche devastanti che stanno facendo regredire migliaia di persone .Per l’anno a venire, come diario prevenzione,  abbiamo intenzione di lavorare molto su questo tema del “disrupting sociale”, sugli impatti che le “innovazioni distruttive” hanno sulla vita delle persone, sul patrimonio di salute della  popolazione.
Gino Rubini, Editor di Diario Prevenzione

Intervista al Presidente dell’Associazione Familiari e Vittime dell’Amianto E.R. AFEVA  Andrea Caselli

 
 
 
 
In Emilia Romagna sono migliaia i lavoratori che sono stati esposti all’amianto nel posto di lavoro, dalle fabbriche del settore fibrocemento di Reggio Emilia alle Officine Grandi Riparazioni di Bologna ai complessi petrolchimici di Ravenna e Ferrara alle piccole aziende e nell’edilizia. Molti sono gli operai e  i tecnici deceduti a causa del mesotelioma e di altri tumori. Una ecatombe attesa che purtroppo continuerà a mietere vittime anche nei prossimi anni. Per questa ragione la Cgil Emilia Romagna ha promosso la nascita di AFEVA, Associazione Familiari e Vittime dell’Amianto E.R.
Abbiamo intervistato Andrea Caselli, Presidente di AFEVA. Nell’intervista audio Andrea Caselli illustra le attività svolte da AFEVA con i suoi sportelli aperti ai lavoratori in attività esposti ad amianto, agli ex esposti, ai malati, ai loro familiari, ai cittadini che hanno bisogno di informazioni sull’amianto.
 

Mister Eternit blocca il libro sul disastro ambientale

LA CENSURA SU AMAZON

Mister Eternit

Mister Eternit blocca il libro sul disastro ambientale

di Piero Bosio
Domenica 06 dicembre 2015 ore 02:39
“Quel libro non deve uscire su Amazon nella sua versione inglese. Bloccatelo”. E così è stato. Il capo dell’Eternit Stephan Schmidheiny ha scatenato i migliori avvocati svizzeri per bloccare l’uscita dell’ e-book promosso dalla casa editrice Falsopiano e l’Isral (Istituto storico della Resistenza di Alessandria).

Il libro digitale in versione inglese, dal titolo The Big Trial (Il Grande Processo) , era stato scritto dal magistrato Sara Panelli, uno dei tre pubblici ministeri (insieme a Guariniello e Colace) del maxi processo di Torino contro l’Eternit , e da Rosalba Altopiedi, consulente per la Procura in quella inchiesta. Il testo racconta e ricostruisce alcune fasi del processo Eternit e del principale accusato, Stephan Schmidheiny.

> l’articolo segue sulla fonte radiopopolare.it

commento: Mr Eternit non è stato assolto dalle accuse per cui era stato condannato in primo e secondo grado di giudizio, il processo non ha potuto concludersi con la conferma delle condanne di primo e secondo grado in quanto i reati erano caduti in prescrizione ….

Il ministro fuori orario ( da Meta)

IL MINISTRO FUORI ORARIO 

 

fonte META 

Per il ministro del lavoro Poletti l’orario di lavoro è un concetto anacronistico, il futuro indica la via della “commissione” o del “progetto” che non è più misurabile in tempo di lavoro ma in oggetti, servizi, cose varie… insomma in merce. A esempio di questa tendenza il ministro porta la Ducati di Borgo Panigale, Bologna; dove si dimostrerebbe la fondatezza del suo pensiero. Ma che azienda avrà mai visitato il ministro Poletti a Borgo Panigale? Da quel che dice sorge il dubbio che non si tratti della Ducati Motor, o viene da chiedersi quale fosse il suo stato di salute mentale – o se non fosse perlomeno un po’ distratto – lo scorso 9 novembre, quando ha incontrato l’azienda, le Rsu, Fim, Fiom e Uilm per conoscere il contratto aziendale firmato il 4 marzo 2015.

La Ducati è una fabbrica. Una fabbrica con orari di lavoro, pause individuali, pause collettive, tempi assegnati, carichi di lavoro e turni diversi a seconda dei reparti.

La Ducati ha una lunga storia contrattuale: oggi è di proprietà del gruppo Audi, ma il suo modello di relazioni industriali e sindacali più che tedesco è prima di tutto bolognese ed emiliano.

Questa storia contrattuale ha permesso di raggiungere importanti accordi, anche negli ultimi mesi.

L’accordo di settembre 2014 sull’introduzione dei 21 turni nel reparto lavorazioni meccaniche (l’officina), ha permesso di consolidare occupazione e investimenti a Borgo Panigale e oggi costituisce in Italia un modello alternativo di orari di lavoro rispetto a quelli Fiat (a partire dai turni di Melfi). Perché per coprire anche il sabato e la domenica, prevede l’introduzione della quinta squadra, l’aumento dei lavoratori del reparto, la definizione di importanti indennità e soprattutto la riduzione degli orari in modo tale da portare le ore di lavoro su base settimanale a una media di 32.

Sempre nel 2014 Ducati ha avviato insieme a Lamborghini, a seguito di un apposito accordo sindacale, la sperimentazione di un modello specifico di alternanza scuola-lavoro: il Desi (Dual Education System Italy). Oggi il Desi è assunto come modello dalla Regione Emilia Romagna, anche perché si basa su un principio preciso: i giovani che trascorrono metà dell’anno scolastico in aree aziendali dedicate e separate dalle linee produttive sono “studenti” e non “lavoratori” e sono inseriti in un percorso di formazione – anche pratica – e non di apprendistato.

Con l’accordo aziendale del 4 marzo 2015, raggiunto dopo quasi due anni di trattative, si è sistematizzato un complesso di diritti individuali, di impegni di responsabilità sociale nei confronti del territorio, si sono definiti percorsi di partecipazione (attraverso incontri periodici, la costituzione di commissioni tecniche, il rafforzamento del ruolo dei delegati), sistematizzato il ricorso ai contratti a termine e lo strumento del part-time verticale per la stagionalità, sono stati previsti i premi di risultato, rafforzati gli schemi di accesso alla polivalenza e alla polifunzionalità e soprattutto formalizzato un piano di investimenti sul sito di Borgo Panigale (160 milioni di euro nel triennio) e un conseguente piano di assunzioni a tempo indeterminato che comporterà l’ingresso di almeno 100 lavoratrici e lavoratori. Come si vede tutti accordi in cui il tempo di lavoro è considerato tutt’altro da una variabile irrilevante e resta uno degli elementi fondamentali di misurazione della prestazione lavorativa, del suo costo, della sua organizzazione e delle sue condizioni.

Il 9 novembre scorso a Poletti abbiamo ricordato che, mentre la Fiom costruiva un contratto aziendale che prevede assunzioni e investimenti, il governo di cui lui è ministro smantellava i diritti delle persone che lavorano. I futuri assunti in Ducati (come in tutte le altre aziende) non avranno più gli stessi diritti dei loro colleghi in caso di licenziamento illegittimo o ingiustificato e di questo dovranno ringraziare Renzi e Poletti. Ma, probabilmente, anche in quel momento il ministro s’era distratto.

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Mujica dice que el capitalismo “es una enfermedad como la sífilis”

Mujica dice que el capitalismo “es una enfermedad como la sífilis”

Esta frase forma parte de un avance del canal La Sexta de España, que emitirá el programa completo con el expresidente el próximo domingo.

“Hay enfermedades que son inteligentes, como la sífilis, que nunca mata a la víctima”, dice Mujica. Jordi Évole, periodista español que supo entrevistarlo en 2014, pregunta si el expresidente uruguayo está haciendo una paralelismo entre esta enfermedad y el capitalismo. “Ambas son enfermedades. La sífilis es evitable, el capitalismo por ahora no”, responde el senador.

Esta escena es un adelanto de la entrevista con José Mujica que este domingo se emitirá en el programa “Salvados”, del canal español La Sexta.

Bajo el título “Confesiones de un expresidente”, el canal español publicita esta entrevista con una personalidad que en el tiempo reciente se ha hecho muy popular en España, al punto de ser considerado como un referente para la izquierda de ese país.

En otro adelanto, el ahora senador nacional dice que se le “caería la cara de vergüenza” si cobrara por dar una conferencia, como hacen algunos líderes mundiales cuando dejan de ser presidentes.

También afirma que las cumbres internacionales entre presidentes son “un verdadero teatro mundial. Parecen una confabulación a favor de los intereses de las líneas aéreas y las cadenas hoteleras”.