Il patto suicida

Fonte: Badiale & Tringali – 01.01.2023

Questo scritto è dedicato ad una riflessione su quale sia oggi la natura del patto sociale fra ceti dominanti e ceti subalterni.


 

 

1. Il patto sociale nelle società premoderne e nella modernità

In questo scritto espongo alcune riflessioni sulla situazione dello “spirito del tempo”. Il punto di partenza è la convinzione che la società attuale sia indirizzata verso un rovinoso crollo di civiltà, che sarà causato dal concorrere di una serie di crisi concomitanti, fra le quali la più significativa in questo momento è la crisi climatica. Ho argomentato tale mia convinzione in interventi passati [1] e non mi soffermerò su di essa in questo scritto, che è piuttosto dedicato ad esaminare le conseguenze di questa situazione sul piano della cultura e delle ideologie.

Il punto di partenza è una considerazione del tutto generale (e piuttosto banale): in ogni società umana che presenti un gruppo sociale dominante e uno o più gruppi sociali subalterni, esiste una qualche forma di “patto sociale”, non sempre chiaramente esplicitato, per il quale i ceti subalterni accettano il dominio dei ceti dominanti. Nessun dominio stabile può basarsi esclusivamente sulla forza bruta, ma deve prevedere un momento nel quale le istanze dei ceti subalterni sono considerate e almeno parzialmente soddisfatte; ovviamente questo avviene entro limiti ben precisi, compatibilmente cioè con la perpetuazione del potere e dei privilegi dei ceti dominanti [2]. Naturalmente, niente garantisce che il patto sociale funzioni: può succedere che i ceti dominanti falliscano nel tener fede al patto, per incapacità propria o per cause di forza maggiore (disastri naturali, sconfitte militari). Ma in tal caso il loro dominio è messo seriamente in pericolo, e se non viene ripristinato e reso storicamente efficace un patto sociale soddisfacente, i ceti dominanti vengono abbattuti e sostituiti da altri ceti dominanti.

Questo scritto è dedicato ad una riflessione su quale sia oggi la natura del patto sociale fra ceti dominanti e ceti subalterni. Per comprendere meglio il problema, possiamo iniziare tracciando una distinzione, anch’essa molto generale, fra le caratteristiche che le ideologie egemoniche assumono nelle società premoderne e quelle tipiche della modernità.

Nelle società premoderne il patto sociale fra dominanti e dominati è di tipo conservatore: il sovrano si impegna a conservare la stabilità dell’ordine sociale, in maniera che i ceti subalterni abbiano la garanzia di poter vivere una vita pacifica all’interno della rete comunitaria nella quale sono vissuti i loro antenati, e nella quale vivranno in pace i loro discendenti. Questo patto sociale è comunemente espresso in termini religiosi, in maniera da ricevere una legittimazione che lo radica nell’ordine complessivo del mondo. Naturalmente sono molteplici le forme specifiche di espressione del patto sociale, dall’alleanza di Dio col popolo eletto nell’Antico Testamento alla teoria del “mandato celeste” del pensiero cinese tradizionale. L’aspetto fondamentale del patto sociale tradizionale sta nel fatto che esso è rivolto alla conservazione sia degli aspetti materiali sia di quelli simbolici: è ovviamente necessario che i ceti subalterni possano vivere una vita materialmente sufficiente e priva per quanto possibile di violenze arbitrarie, ma oltre a questo è necessaria anche la conservazione delle loro comunità, che sono depositarie dei fondamenti simbolici necessari ad una vita sensata.

La modernità introduce in questo quadro un elemento nuovo e dirompente: la nozione di progresso. Il patto sociale nella modernità non è più basato sulla conservazione ma appunto sul progresso. I ceti dominanti non promettono più la continuazione pacifica della vita tradizionale, ma al contrario il suo incessante sovvertimento. I figli non faranno la vita dei padri, ma una vita migliore. La base del patto sociale della modernità è innanzitutto, ovviamente, il progresso materiale, cioè lo sviluppo delle forze produttive, che permette il superamento delle condizioni di scarsità tipiche delle società premoderne. Ma il progresso nella modernità significa anche la dissoluzione delle comunità tradizionali, che davano senso alla vita ma al tempo stesso rinchiudevano gli individui entro confini, più o meno stretti a seconda delle situazioni, ai quali gli individui erano forzati ad adattarsi. La promessa della modernità è dunque quella della liberazione dell’individuo sia dal timore della penuria materiale, sia dai vincoli delle comunità tradizionali. Naturalmente, nel caso delle società moderne come in quello delle società tradizionali, il patto sociale di cui parliamo è un tipo ideale, rispetto al quale le concrete vicende storiche potevano rappresentare momenti di vicinanza o di forte distacco. È abbastanza evidente che, per le società occidentali, i trent’anni seguiti alla Seconda Guerra Mondiale, gli anni del “compromesso socialdemocratico”, hanno rappresentato un momento di tendenziale avvicinamento all’ideale “patto sociale della modernità”. Lo sviluppo materiale (riassunto nel concetto di “grande accelerazione” [3]) si diffuse fra i ceti subalterni, mentre si disgregavano le barriere morali alle scelte individuali, tipiche delle fasi precedenti. In questo modo si creavano per larghe fasce di popolazione effettive possibilità di liberazione e di sviluppo personale.

2. La situazione contemporanea

A partire dalla fine degli anni ‘70 il “compromesso socialdemocratico” viene attaccato ed eroso dall’azione dei ceti dirigenti, per ragioni indagate da una letteratura ormai amplissima, che in questa sede non discutiamo [4]. Ovviamente le classi dirigenti, nel rifiutare il precedente patto sociale, hanno elaborato una costruzione ideologica che lo potesse sostituire. Tale costruzione è ciò che usualmente chiamiamo “neoliberismo”. Senza ripercorrere la complessa storia di questa formazione ideologica, mi limito a quanto è rilevante nel contesto di questo articolo, cioè la natura del nuovo patto sociale proposto dai ceti dirigenti. Tale patto si basava sulla tesi che lo smantellamento del Welfare State “socialdemocratico” avrebbe liberato le energie del capitalismo, e questo avrebbe portato ad un forte sviluppo economico che si sarebbe risolto in maggior benessere per tutti. Ora, a distanza di qualche decennio dal primo instaurarsi di pratiche ed ideologie neoliberiste fra i ceti dominanti, appare abbastanza evidente che i risultati non sembrano così brillanti, per i ceti subalterni, anche se le situazioni possono essere diverse da paese a paese. Il punto che intendo qui sottolineare è però un altro.

Come ho scritto all’inizio, è mia convinzione che l’attuale società capitalista, ormai estesa all’intero pianeta, si sia avviata lungo una spirale di autodistruzione. Per uscire da questa spirale occorrerebbero drastici mutamenti dell’intera organizzazione economica e sociale, dei quali oggi non si scorge neppure l’ombra. La radice ultima di questa dinamica mortifera sta nel carattere “illimitato” della logica capitalistica, nel fatto che il modo di produzione capitalistico implica una crescita continua, senza fine, e senza altri fini che non siano i profitti. Il passaggio di fase del capitalismo, dal “compromesso socialdemocratico” al neoliberismo, ha accentuato questi aspetti, che certo erano presenti anche nelle fasi precedenti, in quanto radicati nella logica del modo capitalistico di produzione. Alla luce del collasso prossimo venturo dell’attuale società, il patto sociale neoliberista assume un aspetto diverso, e più sinistro, rispetto a quanto poteva apparire decenni fa. All’epoca della sua instaurazione, fra gli anni Settanta e gli Ottanta del Novecento, il patto sociale neoliberista, che i ceti dominanti hanno proposto o imposto ai ceti subalterni, poteva suonare come “dovete rinunciare ai diritti e ai redditi del Welfare State, e in cambio avrete uno sviluppo economico che porterà maggior benessere a tutti”. Alla luce del prossimo collasso, esso diventa “dovete rinunciare ai diritti e ai redditi del Welfare State, e in cambio avrete una catastrofe quale mai si è vista nella storia umana. Ma vi lasciamo giocare con lo smartphone”. Appare chiaro che, su queste basi, se chiaramente esplicitate in tutti i loro aspetti e soprattutto nelle loro conseguenze, è impossibile costruire consenso ed egemonia.

D’altra parte, come abbiamo detto all’inizio, senza qualche forma di egemonia da parte delle classi dominanti e di consenso da parte delle classi subalterne, nessuna società divisa in classi può sostenersi. I ceti dominanti attuali si trovano quindi di fronte a un problema serio. La risposta ideologica a tale problema, da parte dei ceti dominanti, segna in profondità la situazione spirituale contemporanea. Nei paesi occidentali (ai quali limito qui la mia analisi), i fondamenti di tale azione ideologica dei ceti dominanti mi sembrano tre: in primo luogo, distrazione di massa; in secondo luogo, restrizioni alla libertà di pensiero e di parola; in terzo luogo, rilegittimazione dei ceti dominanti come alfieri di qualche tipo di valori. L’insieme di questa operazione ideologica si può riassumere come creazione di una “bolla onirica” dentro alla quale i ceti subalterni perdono il contatto con la realtà. In tutte le tre forme sopra indicate, appare centrale il ruolo del sistema mediatico.

Per quanto riguarda il primo punto, la distrazione di massa consiste soprattutto nell’alimentare i simulacri spettacolari della lotta fra destra e sinistra, fra fascismo e antifascismo, fra progressisti e conservatori. Si tratta di contrapposizioni del tutto avulse dalla realtà: nella realtà, tutte le correnti politiche che hanno accesso alla scena mediatica accettano senza discussioni di sottostare alla logica capitalistica e al comando imperiale statunitense, e solo dopo questa accettazione hanno il permesso di accedere alla scena mediatica e di giocare a fare la parte della destra o della sinistra, del fascismo o dell’antifascismo, del populismo o del progressismo. Questa scena mediatica crea una bolla onirica nella quale si perde ogni contatto con la realtà sociale, segnata dalla perdita di diritti del lavoro, della lenta distruzione del Welfare State, dell’impoverimento progressivo. E se tale schermo onirico impedisce di vedere la realtà sociale attualmente esistente, a maggior ragione impedisce di vedere il collasso sociale ed ecologico in arrivo.

In secondo luogo, mi sembra possibile affermare che sia in atto da tempo, nei paesi occidentali, un processo di restrizione della libertà di parola. Esso si manifesta come tendenza all’ampliamento dello spettro di opinioni configurate come reato, e soprattutto alla definizione sempre più generica delle opinioni proibite o a rischio di esserlo: basti pensare alla vaghezza di nozioni come quella di “hate speech”. In ogni caso, una volta che si è raggiunto un certo consenso sociale sulla possibilità di configurare come reato le opinioni sgradite, è chiaro che si apre la strada ad ogni arbitrio del potere politico, specie se quest’ultimo, disponendo dell’appoggio dei media, può suscitare le emozioni del pubblico contro una particolare opinione sgradita. Tale tendenza sembra riguardare l’intero spettro delle forze politiche ufficiali dei paesi occidentali: a tutte fa comodo la prospettiva di poter limitare l’espressione delle idee sgradite, che sono sempre quelle esterne all’ufficialità mediatico-politica.

In terzo luogo, le forze politiche ufficiali cercano di rilegittimarsi agli occhi dell’opinione pubblica: per questo fanno leva sulle opposizioni oniriche viste al primo punto (destra e sinistra, fascismo e antifascismo). La divisione artificiosa dell’attuale ceto politico, sostanzialmente unitario nelle sue scelte di fondo, permette a ciascuna delle due “ali” di presentare l’altra come un pericolo per la civiltà, e di legittimarsi contro il pericolo così evocato: la sinistra presenta la destra come fascista e autoritaria, e se stessa come argine dei diritti e delle libertà, la destra presenta la sinistra come artefice di dinamiche incontrollate e distruttive (immigrazione, distruzione della famiglia tradizionale, controlli invasivi statali), e se stessa come difesa contro tali dinamiche.

3. Il patto suicida

Le strategie egemoniche messe in campo dai ceti dirigenti, sopra discusse, sembrano piuttosto efficaci. La grande maggioranza della popolazione accetta acriticamente lo spettacolo onirico proposto incessantemente dai media, ma la cosa più significativa è che neppure le piccole minoranze che vorrebbero essere critiche verso l’esistente riescono a sottrarsi ad esso. Tali piccole minoranze pensano la realtà attraverso gli schemi di destra/sinistra o fascismo/antifascismo o progresso/conservazione, e in questo modo risultano totalmente incapaci di capire la realtà contemporanea, e a maggior ragione di agire su di essa.

Si potrebbe pensare che, anche in assenza di una comprensione adeguata della realtà, il peggioramento delle condizioni materiali dell’esistenza porterà presto o tardi ad una rivolta popolare, ma una simile illusione, comune nei ristretti ambienti anticapitalistici o marxisti, è purtroppo smentita dalla realtà storica: se fosse vero che le persone sottoposte a condizioni inumane si ribellano, avremmo avuto rivolte continue nei lager nazisti e nel gulag staliniano, e tali strutture non avrebbero nemmeno potuto esistere.

È probabile che nella sostanziale e diffusa accettazione della sfera onirica prodotta dal sistema mediatico abbia un ruolo decisivo una “volontà di non sapere”, un rifiuto di confrontarsi con le scelte, dure e necessarie, che la realtà oggi ci impone. E la “volontà di non sapere” è a sua volta basata sulla “volontà di non cambiare”. In definitiva, la stragrande maggioranza dell’umanità contemporanea, dominanti e subalterni, appare unita nella volontà di non cambiare, di non rinunciare a nulla di ciò che la società capitalistica offre loro: i dominanti non vogliono rinunciare a ricchezze e potere, i subalterni non vogliono rinunciare all’auto, o al cellulare, o ai viaggi aerei. E le popolazioni che ancora non sono arrivate ai livelli occidentali di consumi, non aspirano ad altro che ad arrivarci.

Mi sembra allora che siamo di fronte ad un sostanziale accordo fra ceti dominanti e ceti dominati: nessuno vuole i profondi cambiamenti necessari alla sopravvivenza della civiltà umana. Poiché la coscienza chiara della situazione renderebbe difficile far finta di nulla, una buona parte dell’umanità ha scelto di non sapere, o di sapere il meno possibile. Per questo motivo i ceti subalterni accettano passivamente di vivere nella sfera onirica che i ceti dominanti sono ben lieti di fornire. Se le cose stanno così, possiamo affermare che questo sia il patto sociale contemporaneo, e quindi il fondamento ultimo dell’egemonia degli attuali ceti dominanti.

Si tratta ovviamente di un patto suicida. L’egemonia su di esso basata è destinata a collassare assieme alla società attuale. Purtroppo, non si può evitare di pensare che nell’immediato l’evoluzione sociale proseguirà secondo lo schema attuale, finché la devastazione di società e natura, prodotta da un capitalismo ormai impazzito, non renderà impossibile la riproduzione della società stessa, generando un collasso sociale su scala planetaria. Durante il processo del collasso ovviamente crolleranno tutte le illusioni, e i pochi sopravvissuti ricostruiranno una società e una cultura rispetto alle quali oggi non è possibile nemmeno formulare ipotesi.

Note

[1] http://www.badiale-tringali.it/2019/09/siamo-vicini-al-collasso.html
http://www.badiale-tringali.it/2021/03/fine-partita.html
http://www.badiale-tringali.it/2021/07/verso-il-collasso-lettere-al-futuro-5.html

[2] Si tratta di quegli aspetti della realtà sociale che Gramsci indicò con la nozione, oggi divenuta forse un luogo comune, di “egemonia”. Per una prima introduzione si veda il capitolo relativo in F.Frosini, G.Liguori (cura di), Le parole di Gramsci, Carocci 2004.

[3] J.R.McNeill, P.Engelke, La Grande accelerazione, Einaudi 2018.

[4] Per una sintesi efficace del vastissimo dibattito su questi temi si può vedere P.Dardot, C.Laval, La nuova ragione del mondo, Deriveapprodi 2019.


Marino Badiale

Genova, fine 2022

Fonte: Badiale & Tringali 01.01.2023