Draghi, lupi, faine e sciacalli – di Marco Revelli

FONTE VOLERELALUNA .IT

Questo articolo di Marco Revelli è stato pubblicato il 29 marzo 2020, Lo riprendiamo ora, per opportuna conoscenza 

 

“Meglio tardi che mai” verrebbe da dire a proposito dell’ormai celeberrimo intervento di Mario Draghi sul “Financial Times” del 25 marzo sotto il titolo potentissimo: We face a war against coronavirus and must mobilise accordingly. Ma cosa pensare davvero, di questo neopensionato governatore della Banca centrale europea che mette in campo un linguaggio di stampo keynesiano (il Keynes delle celeberrime considerazioni su Le conseguenze economiche della pace del 1919) dopo essere stato per decenni attento “custode dei cancelli” del credo ultraliberista egemone?
E’ un Draghi che ritorna alle origini, giovane assistente del prof. Federico Caffè, uno dei padri del keynesismo italiano, dopo una brillante tesi di laurea su “Integrazione economica e variazioni dei tassi di cambio” discussa con lui relatore alla Sapienza e premiata magna cum laude? O è il Draghi della sua seconda (molto più lunga) vita, spesa nel cuore delle roccaforti finanziarie globali? Certo, il suo curriculum accademico è ragguardevole (nel 1981 ad appena 33 anni è ordinario di Economia e politica monetaria a Firenze), ma è l’altro, quello finanziario, sicuramente molto più denso, e “visibile”, a segnarne il profilo. Ed è un profilo che sicuramente con gli ideali keynesiani della giovinezza ha assai poco a che fare.

Incomincia infatti presto, a mettere le mani nella “rozza materia” del capitalismo reale, come grand commis di Stato: dal 1991 al 2001 è Direttore Generale del Ministero del Tesoro chiamatovi da Guido Carli (ministro del VII governo Andreotti) e poi riconfermato da tutti i governi successivi: Amato, Ciampi, Berlusconi, Dini, Prodi, D’Alema… In questa veste promuove e gestisce da protagonista la lunga serie di “privatizzazioni selvagge” dell’apparato pubblico italiano (IRI, Telecom, Comit,Credit, Eni, Enel…) per un totale di 182.000 miliardi di lire. Fece scalpore, allora, la notizia dell’incontro avvenuto nel 1992, proprio all’inizio di quel processo di privatizzazioni, a bordo del panfilo HMY Britannia della Regina Elisabetta, con alti esponenti del mondo finanziario internazionale, nel corso del quale – fu riferito – Mario Draghi si dichiarò perfettamente consapevole del fatto che un tale intervento avrebbe “indebolito la capacità del Governo di perseguire alcuni obiettivi non di mercato, come la riduzione della disoccupazione e la promozione dello sviluppo regionale”, ma che tuttavia lo riteneva “inevitabile perché innescato dall’aumento dell’integrazione europea”. Dieci anni (nel corso dei quali fece sottoscrivere al Tesoro una serie di prodotti derivati che si riveleranno assai onerosi per la nostra finanza pubblica), prima di passare, nel gennaio del 2002, al vertice della banca d’affari americana Goldman Sachs con la carica di Vice Chairman e Managing Director per le strategie europee e, dal 2004 come membro del Comitato esecutivo del gruppo (lo stesso che proprio in quel periodo, rifilò alla Grecia un pacchetto degli stessi prodotti derivati a suo tempo sottoscritti dall’Italia, che avrebbero dovuto permettere alla fragile economia ellenica di entrare in Europa e che si riveleranno, nel decennio successivo, tossici). Poi, come spesso accade, per effetto delle cosiddette “porte girevoli” che regolano le traiettorie all’interno dell’oligarchia globale, nel 2005 Supermario approda come Governatore alla Banca d’Italia, dove resterà fino al 2011, quando passerà a dirigere la BCE.
Ma questa è già cronaca nota. Di lui ricordiamo la feroce “letterina”, firmata come Governatore entrante insieme al Governatore uscente Jean-Claude Trichet, in cui si intimava al governo italiano, come misure improrogabili per “ripristinare la fiducia degli investitori”: “una profonda revisione della pubblica amministrazione”, “privatizzazioni su larga scala” compresa “la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali; […] la riduzione del costo dei dipendenti pubblici, se necessario attraverso la riduzione dei salari; […] la riforma del sistema di contrattazione collettiva nazionale; […] criteri più rigorosi per le pensioni di anzianità” e dulcis in fundo “riforme costituzionali che inaspriscano le regole fiscali”. Fu sua, d’altra parte, l’idea del “fiscal compact“ (“una revisione fondamentale delle regole a cui le politiche di bilancio nazionali dovrebbero essere soggette in modo da risultare credibili”) che si materializzerà nel 2012 con la sottoscrizione di una versione ulteriormente indurita del Patto di stabilità istituito col trattato di Maastricht (che Draghi consacrerà in un’intervista al “Wall Street Journal” con queste parole: “Non c’è alternativa al consolidamento fiscale, il modello sociale europeo appartiene già al passato”). Suo, certo, è il fatidico Whatever it take con cui, a detta di tutti, nel luglio del 2012 salvò l’Euro sotto attacco dalla speculazione internazionale. Ma non basta a far dimenticare la mattanza sociale di tre anni dopo, del luglio del 2015 a danno della Grecia e del suo giovane governo Tsipras: il vae victis intimato dall’Eurogruppo e sancito dalla Commissione, a cui la BCE aggiunse il proprio peso da 90 tagliando i flussi di liquidità d’emergenza alle banche greche come punizione per aver osato indire un referendum contro i diktat europei. Ripenso ancora con dolore e orrore alle immagini delle file di anziani, ad Atene, davanti ai bancomat prosciugati, non diverse da quelle oggi, di volti simili, di vecchi prossimi al fine-vita, davanti ai reparti ospedalieri in cui scarseggiano i respiratori. L’ordine di tagliare l’ossigeno alla ribelle Grecia arrivava dal suo ufficio, ai piani altri della Eurotower.

Che cosa scrive ora Draghi, nel pieno di una nuova emergenza (la peggiore)? Bisogna dirlo. Il suo è, senza dubbio, un intervento all’altezza della tragedia in corso (“la pandemia del coronavirus è una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche”). E’ il discorso di uno consapevole della portata dirompente dell’emergenza non solo sul piano economico, ma anche su quello sociale. E della prospettiva storica: di quanto ci aspetta, se si sbaglia oggi. Parla, come Keynes esattamente un secolo fa, delle conseguenze paragonabili a quelle “di una guerra”. E del fatto che “le guerre […] si finanziavano attingendo al debito pubblico”. Apre così una prima breccia nel muro dell’austerity – dichiara cioè aperta una “nuova era”, per così dire, in cui appare inevitabile “un cambio di mentalità”: “Livelli molto più alti di debito pubblico diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e dovranno essere accompagnati dalla cancellazione del debito privato”, scrive. E anzi si spinge più in là, sul terreno specifico che gli compete, quello del ruolo delle banche: “Le banche devono rapidamente prestare fondi a costo zero alle aziende preparate a salvare posti di lavoro. Poiché in tal modo esse divengono veicoli di politica pubblica, il capitale di cui necessitano per eseguire questo compito deve essere fornito dallo stato sotto forma di garanzie pubbliche su tutti gli sconfinamenti aggiuntivi di conto o sui prestiti. Né la regolazione né le regole sulle garanzie devono intralciare la creazione di tutto lo spazio necessario nei bilanci delle banche a questo scopo. Inoltre, il costo di queste garanzie non dovrebbe essere basato sul rischio di credito dell’azienda che le riceve ma dovrebbe essere zero indipendentemente dal costo di finanziamento del governo che le emette”.
Sono le parole dietro le quali si è immaginato da molti commentatori che si profili una vera e propria “rivoluzione” (”Questo è forse il passaggio più intrigante che fa saltare le paratie costruite finora anche dall’Unione europea”, si legge ad esempio su “Il Foglio”). Ma è lecito chiederci: fu vera svolta? Aldilà degli aspetti emotivi del messaggio, e dei sacrosanti richiami alle tragedie degli anni Venti e Trenta innescati dal mancato appuntamento con la Storia dei leader democratici di allora, quello evocato dalla presa di coscienza del passaggio da un’economia di pace a un’economia di guerra è davvero un “cambio di mentalità”? O, meglio, una “rottura di paradigma”, che seppellisce il dio fallito del recente passato: la furia privatistico-mercatistica dell’ultimo quarto di secolo? L’accumulazione privata come unica leva dello sviluppo economico e esclusiva regolatrice dell’ordine sociale? La funzione del “pubblico” come variabile dipendente dell’interesse privato? Personalmente ho i miei dubbi.
Mi ha colpito, in particolare, una frase di quell’articolo apparentemente di rottura. Un punto che mi sembra contenga un passaggio centrale nel suo ragionamento, quasi una sorta di “cerniera”. Subito dopo aver parlato dell’imperativo di “intervenire con la necessaria forza e rapidità per impedire che la recessione si trasformi in una depressione duratura” e subito prima di avvertire che dovremo abituarci a vedere “alti livelli di debito pubblico” diventare un dato permanente dell’orizzonte futuro, l’ex governatore della BCE precisa, quasi en passand, che “la perdita di reddito subita dal settore privato, ed il debito raccolto per colmare la differenza, devono alla fine essere assorbiti, in tutto o in parte, dai bilanci degli stati”. Poco oltre spiegherà che le banche, in quanto in grado di “raggiungere ogni angolo del sistema economico” e “di creare liquidità all’istante, concedendo scoperti oppure agevolando le aperture di credito”, sono lo strumento ideale per distribuire in tempo reale le risorse là dove “servono” per mantenere la sostenibilità e la dinamicità del sistema, meritandosi così la necessaria copertura dei propri eventuali disavanzi con risorse pubbliche. Dunque “Banca” (privata) – “Impresa” (privata) – Mercato del lavoro e delle merci (privati entrambi): questo sembra, nel New Deal draghiano, il circuito privilegiato, anzi esclusivo, della regolazione sociale. Al “Pubblico” – cioè allo Stato – il compito di prestatore di ultima istanza. Anzi: di finanziatore finale di un dispositivo che rimane monopolisticamente privato. E che campeggia come unico mediatore con la Società.
Nulla lascia intendere – in questo ordine del discorso – che ci sia una sia pur minima possibilità per l’apertura di canali di erogazione diretta di risorse dalle finanze pubbliche al sociale. O per l’ipotesi – sia pur estrema – di una qualche riappropriazione di risorse finanziarie, organizzative, operative da parte del settore pubblico in forma di nazionalizzazione o di partecipazione societaria (tipo Iri delle origini, o National Recovery Act roosweltiano). Il Capitale rimane integralmente privato e mantiene appunto il monopolio della distribuzione di risorse collettive. Per questo mi sento di dire che il “paradigma liberista” rimane alla fine intatto, pur nel passaggio d’epoca. E che il vecchio motto proprietario: “privatizzare i benefici nei tempi di vacche grasse e socializzare le perdite in tempi difficili” finisce per rivelarsi – pur nella metamorfosi del linguaggio – tutto sommato intatto.

Videoconferenza del Consiglio europeo sulla crisi Coronavirus

Se l’intervento di Draghi pare svettare, oggi, come esempio di pensiero illuminato e di umanesimo razionalmente benefacente, nel panorama di rovine che ci circonda, è perché coloro contro cui è rivolto, in Europa in primo luogo, sono infinitamente peggiori di lui. Intendo i fautori dell’austerity a oltranza, i difensori oltre tempo massino del fiscal compact e dei suoi annessi, il Fronte del Nord, Cancellerie e Banchieri centrali tedeschi, olandesi, finlandesi, austriaci, catafratti nella loro arcigna difesa di un effimero rigore nei conti fatti senza osti. Un branco di lupi travestiti da mezzemaniche: miopi, cinici, avari, privi di visione e di ragione, sempre col regolo calcolatore a portata di mano come l’ “uomo senza qualità” di Musil, incapaci di imparare da storia e filosofia chiusi come sono nelle ragionieristiche piccole regole che un microscopico corpuscolo ha già travolto. Hanno lo sguardo gelido della signora Lagarde, quando dichiara che alla Bce non frega nulla dello spread che minaccia i paesi più colpiti, e non è affatto una “gaffe” perché esprime un “pensiero profondo” che non è solo suo, è condiviso da quasi tutti i suoi pari. O la mascella quadrata del Governatore della Deutsche Bundesbank Jens Weidmann, che ha fatto del tiro ai Coronabond il proprio sport preferito. Cosa realmente pensano, se lo è lasciato sfuggire il Governatore della Banca centrale austriaca, Robert Holzman, che in un’intervista pubblicata sul portale DerStandard si è detto convinto che la crisi in corso può essere “una purificazione” – ha usato esattamente questo termine: eine Reinigung -: una sorta di “pulizia”, necessaria che “la politica monetaria negli ultimi anni con tassi di interesse pari a zero o negativi ha in qualche modo interrotto” e che invece “può servire per venirne fuori più forti”. E’ la stessa forma di darwinismo – applicata qui all’economia – che i suoi sodali anglo-americani, generatori e cultori del credo iper-liberista, applicano alla biologia e all’epidemiologia, teorizzando la necessità che si lasci il virus diffondersi “liberamente” così da generare nei forti (che sopravvivono) l’”immunità da gregge”, liberandoci nel contempo dai fragili e dai vecchi, tendenzialmente improduttivi, che soccomberebbero rendendo più forte la società.

Un’ultima battuta sul miserabile gioco di chi è subito balzato sulle parole di Draghi per farne una pedina nel retrobottega del sordido gioco politico italiano: Matteo Salvini, in primis. E a ruota l’altro Matteo, sempre alla ricerca affannosa di brandelli di visibilità. Entrambi ignari dell’orizzonte ampio in cui quell’intervento si collocava, e impegnati a tenere artificialmente in vita quell’ipotesi di “governissimo” che vedono come unica ciambella di salvataggio per tenere appena sopra il pelo dell’acqua due leader naufragati. “Mario Draghi ha il fisico per controbattere a Merkel e Macron” ha twittato il primo, evidentemente non informato del fatto che Macron in questa circostanza è alleato dell’Italia contro la Merkel e dimentico che appena un paio di anni fa, da palazzo Chigi, aveva scagliato un altro tweet-siluro contro l’allora Governatore della BCE con la caustica nota: “Conto che gli italiani in Europa facciano gli interessi dell’Italia come fanno tutti gli altri Paesi, aiutino e consiglino e non critichino e basta”. Più sobrio il secondo: “Draghi indica la via, tutti dovranno seguirla” si è limitato a dichiarare al Tg2 post. Ma si sa che continua a lavorare sott’acqua per allargare lo spazio, attualmente davvero minimo, a un cambio di maggioranza che abbia in Draghi il proprio (improbabile) pivot.
Non è d’altra parte la prima volta che il nome di Mario Draghi esce da un cilindro come possibile deus ex machina in una complicata congiuntura politica. Nel gennaio del 2008, quando si fecero forti gli scricchiolii del governo Prodi, incominciò a girare insistentemente la voce di una possibile candidatura dell’allora Governatore della Banca d’Italia alla guida dell’Esecutivo. Gli amanti del pettegolezzo politico ricordano, di allora, una fantasmagorica telefonata dell’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga in diretta alla trasmissione di Luca Giurato, dal contenuto inequivocabile: “Un vile. Un vile affarista – disse, da picconatore impenitente – Non si può nominare presidente del Consiglio dei ministri chi è stato socio della Goldman&Sachs, grande banca d’affari americana. E male, molto male – aggiunse – io feci ad appoggiarne, quasi ad imporne la candidatura a Silvio Berlusconi; male molto male. È il liquidatore, dopo la famosa crociera sul Britannia, dell’industria pubblica, la svendita dell’industria pubblica italiana quando era direttore generale del Tesoro…”.
Ora, è ben vero che le scomuniche del presidente emerito della repubblica Cossiga sono in realtà medaglie e riconoscimenti di buona condotta democratica. Ma nonostante ciò, la replica dell’idea di una candidatura Draghi alla successione di Conte appare, anche in questa occasione, fuori luogo. Un atto di bassa cucina politica che nessuno con sale in zucca in Italia solleciterebbe nel pieno di un’emergenza drammatica, in cui destabilizzare un governo impegnato in un lavoro al limite delle umane possibilità esclusivamente per rientrare in gioco, appare detestabile. Un’operazione, d’altra parte, che certamente lo stesso candidato a sua insaputa respingerebbe con sdegno.