Contattati e contagiati contro volontà

Fonte Unimondo che ringraziamo

Ci sono almeno 110 popolazioni indigene volontariamente isolate in tutto il mondo. La maggior parte di loro vive nel bacino amazzonico, tra Bolivia, Brasile e Perù e da decenni devono far fronte alla deforestazione e alle violenze provocate dal land grabbing e dallo sfruttamento delle risorse presenti nei loro territori, oltre che alla minaccia rappresentata dalle malattie infettive. In particolare in Brasile, dove, come avevamo già ricordato, oltre a sottovalutare il Covid-19 aumentando in tutto lo Stato il rischio di infezione, il presidente Jair Bolsonaro (anch’esso risultato positivo lo scorso mese) ha legittimato l’esproprio dell’Amazzonia limitando notevolmente le competenze e le capacità delle agenzie brasiliane di protezione ambientaleIl risultato è che le popolazioni indigene in Brasile soffrono ancora di più che in passato a causa degli invasori illegali che estraggono l’oro, disboscano le foreste per il legname o bruciano la foresta pluviale per l’allevamento del bestiame e la coltivazione della soia. Per questo lo scorso mese su richiesta dei popoli Yanomami e Ye’kwana, la Commissione per i diritti umani dell’Organizzazione degli Stati americani (OSA) chiede ora al governo brasiliano che intervenga con misure adeguate.

Il territorio degli Yanomami è la più grande area indigena del Brasile e copre 96.000 chilometri quadrati. Gli Yanomami contano oltre 26.000 persone e vivono in 321 comunità. Alcune comunità sono state contattate solo di recente e otto vivono in isolamento volontario. Adesso, però, secondo l’Associazione per i popoli minacciati (APM) “sono circa 26.000 i cercatori d’oro attivi solo nelle zone di Yanomami e Ye’kwanaPer l’estrazione dell’oro si usa molto mercurio che contamina i fiumi dove gli indigeni pescano e da cui ottengono l’acqua potabile. Le cave sono anche il terreno ideale per la diffusione delle zanzare che trasmettono la malaria. I cercatori, tra l’altro, godono spesso dell’impunità sulle loro violenze e in giugno hanno sparato a due Yanomami”. Ora questi “invasori” stanno portando il coronavirus anche nelle comunità indigene e l’aspetto sanitario è oggi il motivo principale per cui la commissione dell’OSA ha riconosciuto la gravità della situazione e ha chiesto al governo brasiliano di “lavorare con le comunità indigene colpite per sviluppare e attuare misure per tenere gli invasori permanentemente fuori dai territori”. Se le misure saranno effettivamente adottate sarebbe una rivoluzione in seno al Governo di Bolsonaro, che fino ad oggi ha negato qualsiasi azione che possa proteggere le popolazioni indigene o l’ambiente, tanto che “Il presidente stesso ha più volte incoraggiato l’estrazione dell’oro, il disboscamento, il taglio e l’incendio degli alberi in nome dello sviluppo dell’Amazzonia” ha ricordato l’APM .

Sempre lo scorso mese altri indigeni del popolo Nahua, tribù recentemente contattata, sono stati trovati infettati dal coronavirus. “Vivevano in isolamento volontario nella parte peruviana del bacino amazzonico – ha spiegato l’APM -. Il contatto con le comunità più isolate è sempre associato a un alto rischio per loro. Già durante il loro ultimo contatto con il mondo esterno, più di 30 anni fa, sono state trasmesse malattie convenzionali, motivo per cui sono morti molti Nahua. Durante l’attuale pandemia, è più che irresponsabile cercare il contatto con i popoli isolati o addirittura forzarlo”. Anche qui, come nel caso di Yanomami e Ye’kwana, i Nahua sono stati contattati contro la loro volontà da taglia legno e cercatori d’oro illegali, oltre ad aver ricevuto le visite di missionari e dallo stesso personale medico, spesso già infetto, che era lì per mettere in sicurezza la popolazione indigena. Per questo alcune comunità hanno deciso di limitare l’accesso alle riserve con punti di controllo, una misura auspicata anche dal nuovo relatore speciale dell’Onu per i diritti dei popoli autoctoni, l’avvocato guatemalteco José Francisco Cali Tzay, un indio Maya Kaqchikel che si è occupato per tutta la vita dei diritti dei popoli indigeni sia per l’Onu che per l’Organizzazione degli Stati Americani, ed e stato attivista e ambasciatore del Guatemala in Germania. Secondo Tzay, di fronte all’invadenza e alle minacce di un’economia iperliberista, “Le comunità autoctone che hanno resistito meglio alla pandemia di Covid-19 sono quelle che sono autonome e si amministrano da sole, gestendo così le loro terre, il loro territori e le loro risorse e garantendo la sicurezza alimentare grazie alla loro culture tradizionali e alla medicina tradizionale”.

Non tutte però ci riescono e per Tzay la pandemia è stata l’occasione per scatenare una vera e propria offensiva contro i popoli indigeni: “In alcuni Paesi, le consultazioni con i popoli autoctoni e le valutazioni di impatto ambientale sono state bruscamente sospese per forzare la realizzazione di megaprogetti legati all’agroalimentare, allo sfruttamento minerario, alle dighe e alle infrastrutture. I popoli autoctoni che perdono le loro terre e i loro mezzi di sussistenza vengono spinti ancora più a fondo nella povertà, con tassi di malnutrizione più elevati, mancanza di accesso all’acqua potabile e ai presidi sanitari, così come all’esclusione dai servizi medici, il che li rende particolarmente vulnerabili alla malattia”. Non a caso “Ricevo ogni giorno rapporti che provengono dai 4 angoli del mondo sulla maniera in cui le comunità autoctone sono colpite dalla pandemia di Covid-19 e non si tratta mai solo di un problema di salute – ha continuato Tzay -. Gli stati di emergenza esacerbano la marginalizzazione delle comunità autoctone e, nelle situazioni più estreme si assiste a una militarizzazione dei loro territori. I popoli autoctoni sono privati della loro libertà di espressione e di associazione, mentre degli interessi commerciali invadono e distruggono le loro terre, i loro territori e le loro risorse”.

Paesi, come il Brasile, la Colombia, il Messico, il Nicaragua, il Myanmar, la Repubblica Democratica del Congo e tanti altri dovrebbero aiutare le popolazioni autoctone ad attuare piani per proteggere le loro comunità e a partecipare all’elaborazione delle politiche nazionali per assicurarsi che non siano discriminatorie nei loro riguardi. Eppure questo ancora non succede. “Nessuno vigila affinché i popoli autoctoni abbiano accesso alle informazioni sul Covid-19 nelle loro lingue e devono essere prese delle misure speciali urgenti per garantire la disponibilità e l’accesso a dei servizi medici culturalmente adattati. Il fatto che gli impianti di salute pubblica siano spesso rari nelle comunità autoctone costituisce un’altra grande sfida. I diritti allo sviluppo, all’autodeterminazione e alle terre, territori e risorse devono essere garantiti per fare in modo che i popoli autoctoni possano gestire questi tempi di crisi e far progredire gli Obiettivi mondiali di sviluppo sostenibile e la protezione dell’ambiente […]. La pandemia ci insegna che dobbiamo cambiare: come i popoli indigeni dovremmo privilegiare il collettivo rispetto all’individuo e costruire delle società inclusive che rispettino e proteggano ciascuno” ha concluso Tzay. Insomma, non si tratta solamente di proteggere la loro e la nostra salute, ma di cambiare paradigma.