Il periodo storico in cui viviamo è stato definito con due accezioni, fortemente collegate tra loro: società post-industriale e società dell’informazione. Queste definizioni indicano un fenomeno preciso, ovvero il maggior rilievo assunto nei paesi a economia avanzata dal settore terziario (servizi e informazione) rispetto al settore secondario. Parimenti, questa fase è stata accompagnata dalla retorica dell’immaterialità della produzione e del consumo (e dunque dell’impatto ambientale) posizionandosi gioco forza in una prospettiva eurocentrica. Al contrario, se analizziamo il sistema socio-economico come un’unità organica, ci accorgiamo che la supposta dematerializzazione nel Nord globale (contraddetta a sua volta dalla persistenza di forme di lavoro vivo profondamente degradate), si poggia sulla produzione e sul consumo delle risorse umane e ambientali del Sud globale. Il caso dei cosiddetti ‘minerali insanguinati’ è illuminante da questo punto di vista: essi indicano l’insieme di quelle risorse naturali provenienti da zone di guerra o nelle quali si fa ricorso al lavoro forzato. Tra questi i più conosciuti fino agli albori del XXI secolo erano l’oro e i diamanti, le cui filiere sono state regolamentate dal Protocollo di Kimberley. Tuttavia, con le innovazioni tecnologiche nel campo dell’informatica, della cibernetica, dell’elettronica e dell’automobile, altri minerali sono diventati risorse cruciali per le industrie di riferimento; per esempio il coltan (una combinazione di niobio e tantalio), il cobalto e, ancor più recentemente, il litio. Queste risorse sono centrali, in quanto base da cui realizzare le infrastrutture socio-materiali dell’attuale modello di accumulazione del capitale. Numerosi articoli hanno portato alla ribalta la questione delle condizioni di vita estremamente degradanti nel processo lavorativo di estrazione dei minerali insanguinati, in particolare nella Repubblica Democratica del Congo (RDC): l’ultimo caso riguarda una class action mossa da un gruppo di cittadini congolesi contro i giganti dell’Hi-Tech per sfruttamento di lavoro minorile[1]. Oppure la questione del lavoro forzato nell’estrazione del cobalto, un minerale fondamentale per le batterie agli ioni di litio[2] (altro metallo ormai al centro dell’attenzione, in quanto centrale per la durata delle batterie delle macchine elettriche e dei nostri smartphone). Ma, prima ancora, si parlava di “corsa al coltan” (coltan rush)[3], in riferimento all’intensificazione dell’estrazione della columbite-tantalite (appunto coltan) nelle miniere artigianali del Kivu, nella regione orientale della RDC.

Tutto ciò ci porta all’analisi delle filiere produttive come punto di vista privilegiato per smontare la retorica della dematerializzazione della produzione e del consumo, svestendoci dei panni eurocentrici. In particolare, qui ci focalizzeremo sulla filiera del coltan e, più nello specifico, del tantalio. Ma andiamo con ordine.

Sul solco della rimodulazione dei processi di valorizzazione e di accumulazione del capitale iniziata a partire dagli anni Settanta, si è consolidato il modello economico-organizzativo noto come capitalismo delle piattaforme. Esso si può declinare in diverse dimensioni: economia della condivisione, economia collaborativa, economia dei “lavoretti” o gig economycrowdworkwork on-demand via apps ecc. Se in origine il fuoco dell’attenzione era rivolto principalmente alle dimensioni di collaborazione e condivisione di risorse sotto-utilizzate (economia collaborativa e di condivisione) tendenzialmente al di fuori della logica del mercato, in un momento successivo la connotazione dello sfruttamento e della degradazione del lavoro è diventata centrale (gig economycrowdworkwork on-demand via apps). Qualsiasi connotazione si voglia attribuire a questo modello economico, ciò che conta qui è la questione delle filiere produttive che lo costituiscono, grazie alle quali è possibile far emergere lo sfruttamento dell’ambiente naturale e del lavoro attraverso cui il capitalismo delle piattaforme può esistere. Infatti, lungo le filiere produttive si delineano i vari nodi in cui si materializzano due contraddizioni interrelate: una tra capitale e lavoro, l’altra tra capitale e ambiente naturale. Entrambe accompagnano il capitalismo fin dalla sua origine e, se nel caso della contraddizione tra capitale e lavoro sono intervenuti il diritto del lavoro e le forme di welfare state a attenuare le pressioni del mercato sui lavoratori, nel caso della controversia tra capitale e natura i primi interventi sono stati sviluppati solo a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, seppur con poco successo[4]. Tuttavia, se ci poniamo da una prospettiva che guarda al sistema socio-economico come un’unità organica, ci accorgiamo che gli interventi a tutela dei lavoratori e dell’ambiente hanno riguardato prevalentemente i paesi del Nord globale (e per un periodo di tempo limitato), mentre i paesi esterni a questo blocco non hanno conosciuto uno sviluppo di questo genere[5]. I minatori del sud del mondo e, proseguendo lungo le filiere produttive, gli operai che assemblano il prodotto (in particolare alla Foxconn in Cina)[6], sono esclusi da qualsiasi ipotesi di diritto del lavoro e di diritti umani in generale: non esistono misure di sicurezza sul luogo di lavoro e gli orari e i ritmi lavorativi sono estenuanti. A ciò si aggiunge lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali e l’inquinamento dovuto all’attività produttiva delle fabbriche.

La filiera del tantalio (e quindi del coltan) può rappresentare un caso interessante per far emergere tale sfruttamento e smontare la retorica green del capitalismo. Il tantalio è un metallo di colore grigio, che venne indentificato per la prima volta in Svezia nel 1802. Il nome deriva dal mito di Tantalo, che era stato condannato dagli dèi a subire un supplizio eterno: venne legato a un albero di frutta in un lago e, nonostante fosse diventato ombra, sentiva il bisogno di mangiare e bere. Tuttavia, nel momento in cui si avvicinava ai frutti per mangiare, essi si allontanavano. Allo stesso modo, quando si chinava per bere l’acqua, essa si diradava. La scelta di far derivare il nome del minerale da questo mito risiede nelle sue capacità chimiche. Infatti, il tantalio è un minerale refrattario, ovvero è in grado di resistere agli attacchi di sostanze acide a elevate temperature, senza perciò avviare reazioni chimiche, ha un punto di fusione molto alto e la presenza nella crosta terrestre è molto bassa, ovvero 0.7 parti per milione (ppm). Inoltre, nonostante la sua resistenza, risulta essere anche un minerale duttile e biocompatibile, ovvero è inerte al corpo umano. Questo insieme di caratteristiche rende il tantalio un minerale fondamentale per l’utilizzo industriale in vari settori, di cui il più importante riguarda la produzione di semiconduttori da applicare ai condensatori per uso elettronico. La rilevanza del tantalio in questo ambito è facile da intuire: i condensatori sono dispositivi elettrici, il cui scopo è di immagazzinare energia all’interno di un campo elettrico e i semiconduttori in tantalio consentono di accumularne una quota maggiore, anche con dimensioni e peso minori. Ciò vuol dire che garantisce prestazioni migliori rispetto a condensatori realizzati con altri materiali, con una riduzione dello spazio occupato. Questo fattore nell’ambito dell’industria elettronica è fondamentale, poiché consente la miniaturizzazione delle componenti e quindi di guadagnare spazio e ridurre il peso di un dispositivo[7]. Il primo impiego rilevante cominciò in campo militare, in particolare durante la Seconda guerra mondiale, per l’utilizzo di radar e radio per le comunicazioni. Successivamente, in un contesto sociale dominato dalle Information and Communication Technologies e connotato dalla massificazione dei dispositivi elettronici, la sua importanza è aumentata esponenzialmente, con una conseguente intensificazione dell’estrazione. Comunque sia, a tutt’oggi il tantalio in parte continua a essere ottenuto dagli scarti della lavorazione di altri minerali (in particolare lo stagno), quindi nella parte della filiera in cui sono coinvolte le raffinerie e le fonderie.

Tra i vari nodi esistenti nella geografia globale della produzione di questo minerale, qui ci focalizzeremo su uno in particolare: la Repubblica Democratica del Congo (RDC) e, nello specifico, il Kivu. Possiamo dire che la RDC vive una condizione definibile come paradosso della ricchezza, in quanto il suo territorio è uno dei più ricchi al mondo di risorse naturali, ma delle quali i popoli locali non riescono a godere. La ricchezza di questa terra segue un periodo lunghissimo, che va dalla storia precoloniale a quello postcoloniale, passando ovviamente per la colonizzazione. A seconda dell’epoca storica di riferimento, il Congo possedeva quel tipo di risorsa di cui re, principi e mercanti erano bramosi per arricchirsi o per sfoggiare il proprio status. Oggi sono le multinazionali e i paesi a economia avanzata che si spartiscono le risorse. Legname, caucciù, diamanti, oro, avorio, acqua, caffè, tè, cotone, uranio, coltan, cobalto e molti altri minerali diventati fondamentali col progresso tecnologico: tutte queste risorse rappresentano la ricchezza naturale del suolo congolese[8]. La storia contemporanea della RDC è molto travagliata, a causa di due motivi principali: lo smantellamento di gran parte delle industrie minerarie durante la fase post-coloniale e le due guerre civili che hanno afflitto il Paese tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI. Una conseguenza del primo è stata la diffusione capillare di miniere artigianali di dimensioni ridotte, a alta intensità di lavoro e bassa intensità di capitale. Le due guerre civili, dal canto loro, hanno creato una enorme massa di persone altamente vulnerabili e senza lavoro, le quali sono confluite nelle miniere a lavorare sotto violenza e coercizione. La situazione di caos perenne, in particolar modo nella regione del Kivu settentrionale e meridionale, ha determinato la nascita e la diffusione di milizie armate illegali che controllano centinaia di miniere artigianali presenti in questo territorio. Loro decidono chi, come e quando può lavorare. Inoltre, i profitti tratti dalla commercializzazione del coltan (ma non solo) servono a finanziare le loro scorribande. Inoltre, in questa area è presente uno dei contingenti ONU più grandi al mondo – missione Monusco – con circa 20 mila soldati dispiegati.

Come si può evincere dai numerosi tentativi di regolazione delle filiere dei minerali insanguinati, l’attenzione di Stati, Organizzazioni non governative e sovranazionali nei confronti della RDC è stata, e continua a essere, molto forte. Oltre al già menzionato protocollo di Kimberley, troviamo per esempio il Dodd-Frank Act statunitense del 2010. Questa legge ha come scopo potenziare la trasparenza e la responsabilità del sistema finanziario degli Stati Uniti e, nella sezione 1504, introduce requisiti obbligatori di tracciabilità delle compagnie estrattive[9]. Dal canto suo, l’Unione Europea ha approvato nel maggio 2015 una legge per l’obbligatorietà della tracciabilità dei minerali critici e strategici. A questi, vanno aggiunti gli standard come l’OECD Due Diligence Guidance for Responsible Supply Chains of Minerals from Conflict-Affected and High-Risk Areas dell’OCSE, che rappresentano le strutture guida per le politiche aziendali in merito alla responsabilità sociale e che hanno contribuito alla formazione di protocolli che fornissero uno strumento utile alle imprese per certificare l’intera filiera produttiva.

Ma in che modo quanto detto fino a ora è collegato alle contraddizioni tra capitale, lavoro e ambiente naturale, in particolare in riferimento al coltan? I paesi a economia avanzata stanno puntando con maggior vigore sulla sostenibilità e sull’utilizzo delle risorse rinnovabili. Tuttavia, il sistema capitalista per la sua stessa riproduzione deve sviluppare dinamiche di produzione continua e di accumulazione per l’accumulazione, alle quali viene data una copertura ideologica attraverso impianti pubblicitari e campagne di marketing che inducono il pubblico a consumare. Il mercato dei prodotti elettronici è, assieme al vestiario, quello più coinvolto nelle dinamiche dell’usa e getta e, come abbiamo detto poc’anzi, la produzione di un dispositivo elettronico comporta uno sfruttamento della manodopera e un impatto ecologico rilevantissimo, sia nella fase dell’estrazione, che in quella della pulizia e lavorazione del minerale, così come per il riciclaggio. Oltre all’inquinamento dovuto al processo di produzione necessario per creare le componenti ed assemblare i dispositivi elettronici, se ne forma un altro dovuto al loro utilizzo: il funzionamento dei data center che consentono di usufruire dei servizi digitali e, affinché ciò possa avvenire, la fornitura continua di energia elettrica ai server. Inviare un messaggio, utilizzare servizi di streaming, cloud computing, internet ultraveloce o, in poche parole, stare costantemente connessi assorbe una quantità di energia elettrica immensa[10]. Questo fenomeno raggiunge un’importanza maggiore nel momento in cui l’accessibilità a internet sta diventando capillare in tutte le parti del mondo e i paesi in forte espansione economica (in particolare la Cina) hanno ampliato enormemente la domanda di dispositivi elettronici, soprattutto di cellulari e pc.

Per comprendere più a fondo la relazione tra le nostre abitudini quotidiane e lo sfruttamento delle risorse umane e ambientali, occorre analizzare anche le dinamiche del consumo e della moda. Infatti, raramente un cellulare o un PC vengono gettati perché esauriscono le loro funzione, ma intervengono variabili collegate alle dinamiche suddette. Latouche, a tal proposito, parla di obsolescenza tecnica, obsolescenza psicologica o simbolica e obsolescenza programmata, riferendosi col primo termine all’introduzione di innovazioni tecniche che rendono antiquate tecniche e dispositivi utilizzati fino a quel momento; col secondo intende la desuetudine dovuta non all’usura tecnica, ma da quella che lui definisce persuasione occulta dovuta alla pubblicità e dalla moda; infine, l’obsolescenza programmata consiste nel far terminare il ciclo di vita del prodotto prima del dovuto, attraverso l’artificiosità di un difetto dovuta all’applicazione di un dispositivo concepito per interrompere la corretta funzionalità anticipatamente. Questo tipo di obsolescenza è stata concepita appositamente per vendere più prodotti, ed è connessa a quella simbolica attraverso un rapporto simbiotico. Per i prodotti elettronici di massa questo aspetto è molto evidente: le principali aziende di vendita bombardano costantemente il pubblico con campagne pubblicitarie che invocano al consumo e all’acquisto dell’ultimo modello. L’obiettivo è quello di intaccare la cosiddetta etica del durevole e di consolidare il suo opposto, ovvero la politica dell’usa e getta. Un effetto che deriva da questi comportamenti è la creazione di enormi quantità di rifiuti, di cui la maggior parte viene smaltita nei paesi del Sud globale. L’impatto per queste regioni del mondo è duplice. Infatti, se in origine vengono depredati delle loro risorse naturali, alla fine del ciclo esse diventano delle discariche. Inoltre, si è sviluppato nel tempo un commercio illecito di tali rifiuti, molti dei quali tossici, in cui si inseriscono gli e-waste, poiché contengono sostanze come piombo, arsenico, berillio, ecc. che, una volta bruciati, producono gas velenosi.

Le società a economia avanzata si trovano dunque nel mezzo di due forze che si muovono in direzioni diverse: da un lato la necessità di implementare politiche per contrastare il surriscaldamento climatico, per esempio attraverso l’adozione di nuove fonti energetiche e la riduzione dei consumi di energia elettrica; dall’altro il bisogno di creare e mantenere in funzione le infrastrutture informatiche e digitali necessarie alla riproduzione della nostra vita quotidiana. Tuttavia, come abbiamo visto, affinché ciò possa avvenire l’impatto sulle risorse umane e ambientali è enorme, sia nella fase iniziale per ottenere le materie prime e creare i manufatti (i dispositivi elettronici e le infrastrutture informatiche e digitali), sia in quella finale dovuta al loro utilizzo e al loro deterioramento.

 

Riferimenti bibliografici

 

Antunes, R. (2018). O prviliegio da servidão. São Paulo: Boitempo.

Antunes, R. (2019).  Riqueza e miséria do trabalho no Brasil IV. São Paulo: Boitempo.

Basso, P. (2016). Tempi moderni orari antichi. L’orario di lavoro a fine secolo. Milano: Franco angeli.

Jacobin Italia, N° 4 / Autunno 2019.

Mosco, V. (2014). To the cloud. Big data in a turbolent world. Londra: Paradigm Publishers.

Ngai, P., Chan, J., & Selden, M. (2015). Morire per un iPhone. Milano: Jaca Book.

Nest, M. (2011). Coltan. Cambridge: Polity Press.

Van der Linden, M. (2008). Workers of the world. Essays toward a global labour history. Leiden: Brill.

Van Reybrouk, D. (2014) Congo. Milano: Feltrinelli.

Ushie, V. (2013). Dodd-Frank 1504 and Extractive Sector Governance in Africa. The North-South Institute.

 

NOTE

[1]https://www.repubblica.it/esteri/2019/12/17/news/rd_congo_14_famiglie_contro_apple_e_google_hanno_ucciso_i_nostri_figli_-243687644/. Ultimo accesso: 18/12/2019.

[2] https://www.repubblica.it/tecnologia/2016/10/06/news/gli_schiavi_del_congo_che_alimentano_l_industria_hi-tech-149233370/. Ultimo accesso: 18/12/2019.

[3] Si veda Michael Nest (2011).

[4] Per un approfondimento adeguato si veda il numero Apocalypse No di Jacobin Italia.

[5] Si vedano, tra gli altri, Ricardo Antunes (2018; 2019), Pietro Basso (2016), Marcel Van Der Linden (2008).

[6] Si veda Pun-Ngai et al. (2015).

[7] Per un maggiore approfondimento delle dinamiche economiche del coltan, e quindi del tantalio, si veda Michael Nest (2011).

[8] Per una più approfondita conoscenza della storia della Repubblica Democratica del Congo si veda David Van Reybrouk (2014).

[9] Per un approfondimento si veda Vanessa Ushie (2013)

[10] Per un’analisi approfondita si veda Vincent Mosco (2014).