MIGLIAIA DI ARMI “PERSE” DAI PEACEKEEPERS

RAPPORTO SMALL ARMS SURVEY

Fucili, pistole, mortai, mitragliatrici e lanciagranate. Sono migliaia le armi “perdute” negli ultimi 24 anni dalle tante missioni di pace che hanno operato nel continente. Lo rivela un rapporto, secondo il quale le perdite reali potrebbero essere anche molto maggiori.

di Bruna Sironi

 

La scioccante notizia emerge da una ricerca dell’organizzazione internazionale Small Arms Survey, che si occupa del monitoraggio della diffusione delle armi leggere, ed è pubblicata nel rapporto “Making a Tough Job More Difficult” (Rendere un lavoro duro ancora più difficile). Infatti le armi “perse” finiscono poi per essere usate contro i legittimi possessori e contro i civili che dovrebbero proteggere.

La ricerca si è occupata delle missioni di pace a partire dal 1993 ad oggi, dopo la fine della guerra fredda che ha di fatto determinato il proliferare dei conflitti locali e perciò delle missioni di peacekeeping, condotte dall’Onu, da altre coalizioni o organizzazioni – come l’Unione africana che opera in Somalia con l’operazione Amisom -, o miste Onu e Unione africana – come l’Unamid che lavora in Darfur -, e ancora l’Ecowas che nei paesi dell’Africa Occidentale ha agito in Sierra Leone.

I ricercatori hanno trovato che in almeno una ventina di queste operazioni si sono verificate perdite di armi. E non solo armi leggere, come fucili e pistole, ma anche armi pesanti come mortai, mitragliatrici e lanciagranate, che possono cambiare l’esito di una battaglia. Il direttore della ricerca, Eric Berman, ha dichiarato in un’intervista ad Al Jazeera che sono andate perse “migliaia di armi e milioni di cartuccere”.

La maggior parte si è verificata in missioni che hanno operato, o ancora operano, nell’Africa sub-sahariana e in particolare in Congo, Somalia, Sudan, Burundi, Costa d’Avorio, Sierra Leone, Mali e nella Repubblica Centrafricana. Talvolta le perdite non erano evitabili, perché i peacekeeper sono caduti in imboscate o sono stati sopraffatti in altri modi, ma molto più spesso hanno consegnato le armi piuttosto che difendersi e rischiare di rimanere vittime in uno scontro armato.

Talvolta le armi sono state sottratte dai magazzini che non erano adeguatamente messi in sicurezza. Secondo il rapporto, mancherebbero addirittura precise procedure per la custodia e la messa in sicurezza dei depositi di armi e munizioni provvisori, risultato di sequestri o di operazioni similari. Sono spesso queste armi che finiscono per sparire. Ma non sono mancati neppure episodi di corruzione, in cui le armi in dotazione al contingente, o sotto la sua custodia, sono state vendute al mercato nero o direttamente ai gruppi armati di cui avrebbero dovuto impedire le operazioni.

Nel rapporto sono riportati anche diversi episodi che non fanno onore ai contingenti che ne sono stati i protagonisti. Nel 2010 un contingente di peacekeeper dello Zambia ha consegnato 500 fucili d’assalto, mitragliatrici, mortai e 45.000 cartuccere, arrendendosi ai ribelli della Sierra Leone, piuttosto che combattere. Un episodio simile è successo lo stesso anno in Darfur, dove un contingente nigeriano ha consegnato 55 fucili d’assalto e 14.000 cartuccere ad un gruppo di ribelli che certamente non erano così numerosi da giustificare la resa. In un attacco di al-Shabaab al campo del contingente keniano di El-Ade, in Somalia, nel gennaio del 2016, sono stati razziati 150 fucili, 26 mitragliatrici, cinque mortai e 140.000 cartuccere. E l’elenco potrebbe continuare ancora lungo.

La ricerca afferma anche che spesso questi episodi vengono mascherati o sottostimati nelle relazioni alle istanze superiori e di conseguenza nei documenti ufficiali relativi alle missioni di pace.  Eric Berman, nell’intervista ad Al Jazeera afferma che, anche per questo motivo, quanto contenuto nel rapporto è solo la punta di un iceberg e che le perdite potrebbero essere ben maggiori.

Diversi analisti da tempo osservano che, in generale, i militari delle missioni di pace non si comportano come se dovessero combattere per il proprio paese. Sono poco propensi a rispondere ad un comando che non è quello dell’esercito a cui appartengono. E la disciplina ne risulta allentata. Questa è probabilmente una delle ragioni per cui le missioni di pace sono frequentemente protagoniste di scandali. L’indagine di Small Arm Survey ne mette in luce uno tra i tanti.

Con questo non si vuol dire che le missioni di pace siano inutili o controproducenti. Hanno salvato molte vite e hanno contribuito a risolvere diversi conflitti. Ma probabilmente il loro stesso impianto andrebbe ripensato e andrebbe fatto un lavoro ben maggiore di motivazione e responsabilizzazione dei contingenti.