Il tema del comune come modo di produzione è oramai entrato nel dibattito teorico neo-operaista. Il prossimo week-end a Napoli si svolgerà una tre giorni di discussione sui beni comuni al tempo della crisi tra mutualismo e autoproduzione culturale, del rapporto tra la loro gestione e l’economia della rendita e dell’austerity, diritto alla città e pratiche di autodeterminazione. Non si parlerà solo di beni comuni ma anche di “comune” in quanto ambito conflittuale di valorizzazione contemporanea. Come contributo a questo dibattito, pubblichiamo la recensione di Marco Fama al volume di  Carlo Vercellone, Francesco Brancaccio, Alfonso Giuliani e Pierluigi Vattimo: “Il comune come modo di produzione”, Ombre Corte, Verona, 2017. 

 

Per pensare a nuove forme di organizzazione della vita sociale – non rispondenti alle logiche competitive del mercato, né a quelle “mostruosamente gelide” della burocrazia statale – occorre fare ricorso alla memoria, prima ancora che all’immaginazione. Bisogna calarsi nella materialità della storia e riportare alla mente tutte le sopraffazioni su cui la nostra modernità ha edificato il proprio avvenire, sia per riuscire ad attingere dalla potenza creativa che sempre scaturisce dall’indignazione, che per iniziare a smontare l’impianto discorsivo attraverso cui l’ordine vigente continua a nutrire il tarlo della propria legittimità.

Da questo fondamentale atto di rimemorazione si dipana “Il comune come modo di produzione” (ombre corte, pp. 230), un nuovo prezioso volume – scritto a più mani da Carlo Vercellone, Francesco Brancaccio, Alfonso Giuliani e Pierluigi Vattimo – che interviene in maniera originale all’interno del dibattito sul tema dei commons.

La “tragedia dei beni comuni” viene svelata per quello che effettivamente è: una storia davvero triste, non certo per le fallaci ragioni addotte da Garrett Hardin[1], ma poiché narra della sistematica disintegrazione delle risorse, delle consuetudini e delle forme di cooperazione su cui si è a lungo retta la riproduzione delle classi subalterne.

Accantonando una volta per tutte la visione astorica e naturalistica dei commonspropugnata dall’economia neoclassica, da cui neppure la critica ostromiana[2] ha saputo smarcarsi completamente, gli autori volgono lo sguardo in direzione dei processi storici, dei rapporti di forza, delle strutture da cui, in ultima istanza, dipende la concreta possibilità di costruire forme altre di organizzazione sociale.

Da ciò, l’invito a parlare di Comune al singolare, e non già di beni comuni, emancipandoci dalle catalogazioni oziose che spesso ricorrono nella letteratura economica. Come chiarito dagli autori, “nessun bene è infatti destinato, per le sue qualità intrinseche, a diventare, ipso facto, oggetto di un modo di gestione in particolare”[3]. Ed anzi, mentre, da un lato, “nessun valore d’uso sfugge in quanto tale alla sfera della produzione mercantile e del profitto”[4], dall’altro, non vi è bene, sia esso scarso o meno, la cui gestione non possa per natura essere improntata a dei criteri, magari frutto di specifici processi di partecipazione e di condivisione, differenti da quelli imposti dalle logiche dell’angusto binomio pubblico-privato.

Per inciso, va peraltro osservato come la scarsità stessa, contro cui l’economia borghese presume di lottare, sia prima di ogni altra cosa un’esperienza sociale, e dunque politicamente determinata. La produzione artificiale di scarsità, malcelata dal rutilante affastellamento delle merci, è, invero, condizione della persistenza stessa di un sistema economico retto sull’idea di possesso, in cui i diritti di proprietà, come scriveva Baudrillard, non fanno che assolvere ad un funzione precisa, cioè quella di denotare una limitatezza, posto che “non si ha diritto ad una cosa che dal momento che non ve ne è abbastanza per tutti”[5].

Questa caratteristica innata del capitalismo emerge con forza ancora maggiore dall’analisi dell’attuale contesto produttivo, cui il libro dedica ampio spazio. La crescente messa a valore delle risorse immateriali, il sempre maggiore peso patrimoniale assunto dagli assetintangibili e, più in generale, il processo di compenetrazione tra capitale fisso e capitale variabile in uno scenario contraddistinto dall’affermarsi di una intellettualità diffusa rivelano sino a che punto la conoscenza sia oggi divenuta cruciale. Ma ci raccontano anche di come tale “bene”, per definizione cumulativo e non rivale, sia, proprio in ragione della sua sediziosa abbondanza, sempre più soggetto a processi di privatizzazione e di mercificazione, come tra le altre cose testimonia l’inarrestabile diffusione dei diritti di proprietà intellettuale.

Per non fermarci alle argomentazione più care ai teorici del capitalismo cognitivo, forse – ahinoi – indigeste ad alcuni, basterà, a titolo esemplificativo, ricordare come persino le catene globali di valore che oggi dominano il settore agricolo siano sempre più rette su forme di brevettazione della natura, dietro alle quali si celano dei veri e propri processi di espropriazione dei saperi contadini tramandati da secoli. Del resto, come osservano con arguzia gli autori, la stessa distinzione tra commons della conoscenza e commons naturali non ha ragion d’essere, atteso che anche il funzionamento di questi ultimi poggia “sulla mobilitazione di saperi complessi, spesso tramandati di generazione in generazione, attraverso meccanismi cumulativi di arricchimento delle conoscenze e dei savoir-faire”[6].

Comunque sia, al cospetto delle vecchie e nuove forme di enclosures,  il libro ha il grande merito di offrici degli spiragli promettenti, individuando nel concetto stesso di Comune l’opportunità di una nuova “costruzione sociale fondata sulla diffusione della conoscenza e l’autogoverno della produzione”[7].

Nel fare ciò, la critica che gli autori muovono alla concezione normativa e metafisica che del Comune viene postulata da Dardot e Laval[8] appare assolutamente pertinente[9]. E bene fa il libro a tenere un occhio sempre vigile sulle contraddizioni che legano lo sviluppo dei processi produttivi a quello dei rapporti di produzione, giacché nulla, nella storia sociale e politica, accade per pura invocazione.

D’altra parte, è pur vero che se si guarda alle condizioni materiali ed ai rapporti di forza attualmente vigenti – e con ciò al perfezionamento dei dispositivi di soggettivazione e di assoggettamento che di tali rapporti sorvegliano oggi la permanenza – alquanto ardue appaiono le sfide che attendono il Comune. Non vi è infatti dubbio sul fatto che la riarticolazione dei processi produttivi avviatasi in reazione alla crisi del fordismo abbia innalzato enormemente le regole di ingaggio del capitale, dando vita ad un processo di colonizzazione di tutte le sfere del sociale che ha finito col produrre una vera e propria sorta di “mutazione antropologica” delle figure del lavoro vivo.

La nostra sensazione è che la comparsa dei nuovi “soggetti intraprendenti” che tanto spopolano nei nostri lidi – continuamente istigati alla propria auto-attivazione produttiva, vieppiù messa a valore mediante le logiche della rendita finanziaria – sia consustanziale ai processi che ne hanno prodotto il potenziamento delle capacità cognitive e relazionali. D’altro canto, le pratiche di comunanza – che da questo potenziamento si spera possano adesso trarre giovamento – oltre ad essere precedenti all’affermazione storica del capitalismo, ne hanno anche accompagnato l’intera evoluzione, in un processo dialettico che ha sempre comportato la diffusione strategica di taluni saperi e l’estinzione di altri. Basti pensare a come le conoscenze di cui era depositario l’operaio di professione siano state in un certo senso frantumate, per poi essere oggettivate all’interno della macchina fordista.

Per dirla in altri termini, è la stessa reazione adottata nei confronti della crisi del modello fordista ad aver invocato il superamento dell’irrigidimento dei corpi e dei saperi all’interno della catena di montaggio, prediligendo la spontaneità produttiva alla ripetitività del gesto meccanico. Anche perché, mentre, da un lato, quest’ultimo rimaneva sempre esposto al rischio dell’efficace sabotaggio, dall’altro, le politiche di piena occupazione e le conquiste sindacali di quegli anni avevano ormai leso il principio dell’intercambiabilità dell’operaio massificato. In un tale contesto, le tecnologie di rete hanno avuto un ruolo determinante nel consentire i processi di delocalizzazione degli impianti e di disarticolazione delle tradizionali identità di classe portati a compimento con la transizione verso il nuovo paradigma, allorquando si è trattato di trovare formule innovative attraverso cui poter gestire da remoto le nuove cellule produttive spazialmente, oltre che idealmente, separate. Al contempo, l’affermazione di un’intellettualità diffusa sospinta dalla pedagogia di stato, che pure – non lo si può negare – si è rilevata utile al nutrimento di pratiche di conflitto e di emancipazione, è andata di pari passo con un processo di gerarchizzazione funzionale della conoscenza – ora portato all’estremo dalla totale aziendalizzazione delle dinamiche sottese alla produzione del sapere.

Per tirare le somme, non è dunque affatto sorprendente che i guru dell’immaginazione al potere e della Silicon Valley siano divenuti gli araldi del capitalismo cognitivo, allo stesso tempo in cui nuovi operai della conoscenza si ritrovano sempre più isolati nelle proprie coscienze, costretti a lavori spesso retribuiti in maniera meramente simbolica e nell’esercizio dei quali, al netto dell’ingente auto-investimento intellettivo e relazionale che richiedono, sono il più delle volte facilmente sostituibili e quasi sempre sorvegliati da una tecnoscienza algoritmica a cui non ha accesso che una ristretta élite.

Per altro verso, è fuor di dubbio che simili fenomeni serbino nel proprio grembo le alchimie necessarie al loro stesso superamento. A maggior ragione di ciò vi è bisogno di libri come questo, arnesi imprescindibili con cui affinare una teoria all’altezza delle sfide che ci attendono, capaci di indicarci la strada da percorrere e di cogliere, tra le miserie del presente, le ricchezze del possibile.

Il tutto, chiaramente, senza mai smettere di guardarci attorno: nelle esperienze di autogestione degli spazi urbani, nelle piattaforme open source, nelle varie pratiche mutualistiche di commonfare passate in rassegna all’interno del volume il Comune è già all’opera. Il rischio, come giustamente osservano gli autori, è che, in assenza di forme di remunerazione alternative – magari in grado di spezzare lo stesso potere sociale che alberga nella moneta – esse possano essere facilmente ricondotte entro le logiche del mercato o, forse ancor peggio, cooptate dalle istituzioni per sopperire alle proprie colpevoli mancanze. Nel frattempo, vale ad ogni modo la pena di sviscerarne i limiti e le potenzialità, traendone un vademecum per l’agire politico che possa aiutarci, tra le altre cose, ad allontanare la tentazione di cedere alle capziose nostalgie del passato.

 

Note

[1] Garrett Hardin, The Tragedy of the Commons, in “Science”, 162, 3859, pp. 1243-1248.

[2] Elinor Ostrom, Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge University Press, Cambridge 1990.

[3] Carlo Vercellone, Francesco Brancaccio, Alfonso Giuliani e Pierluigi Vattimo, Il Comune come modo di produzione. Per una critica dell’economia politica dei beni comuni, ombre corte, Verona 2017, p. 57.

[4] Ibidem.

[5] Jean Baudrillard, La società dei consumi, il Mulino, Bologna 1976, p. 50.

[6] Vercellone, Brancaccio, Giuliani e Vattimo, Il comune come modo di produzione, cit., p. 13.

[7] Ivi, p. 17.

[8] Pierre Dardot e Christian Laval, Del Comune o della rivoluzione nel XXI secolo, Derive Approdi, Roma 2015.

[9] Il problema dell’approccio di Dardot e Laval, come osservato nel libro, è che “scivola in una sorta di idealismo, nel senso nobile del termine, in quanto non si capisce più quali siano le condizioni materiali da cui può sorgere politicamente il Comune. Infatti, è l’idea di comune, in quanto principio politico che precede tanto la sua istituzione che la soggettività, che ne sarà così il semplice supporto. Questa concezione del Comune, che corrisponde a una sorta di utopie sans sujet, è in fondo il tratto che, inconsapevolmente, Dardot e Laval condividono con gli approcci naturalisti di sinistra del comune. Se in questi approcci abbiamo, infatti, un catalogo di beni comuni definiti indipendentemente dai soggetti capaci di instituirli e di produrli effettivamente, in Dardot e Laval abbiamo una “qualité d’agir” che appare come un puro imperativo categorico sconnesso dalle condizioni materiali attraverso cui gli uomini producono e riproducono le condizioni della loro esistenza e il loro essere sociale”. Ivi, p. 55.