Il grido di Santiago per le comunità Mapuche

FONTE  LAVOROCULTURALE

L’ultima volta che è stato visto vivo, il ventottenne Santiago Maldonado stava partecipando a una mobilitazione della comunità in resistenza di Cushamen – provincia di Chubut, Argentina.

Santiago Maldonado

«… e sì, noi siamo coscienti che se fossimo stati mapuche, invece di un giovane come Santiago, tutto questo non avrebbe avuto una ripercussione del genere. Santiago ha lanciato quel grido di cui noi avevamo bisogno. È molto triste che sia toccato a lui».

Ivana Huenelaf, attivista mapuche, commentava così, lo scorso settembre, la desaparición di Santiago Maldonado. Lei stessa, nel mese di gennaio, era stata vittima della repressione scatenata dalla gendarmeria argentina contro la comunità (Pu Lof) in resistenza di Cushamen. Insieme ad altre cinque persone, è stata trattenuta per diverse ore nel commissariato locale, ferita – dopo che i gendarmi le avevano fratturato un polso –, incappucciata e isolata dal resto del mondo. Durante il fermo, ha sentito alcuni agenti negare, alle attiviste e agli avvocati venuti a cercarla, di averla trattenuta, mentre altri gendarmi le dicevano «los vamos a hacer desaparecer»: vi faremo scomparire.

Santiago

L’ultima volta che è stato visto vivo, il ventottenne Santiago stava partecipando a una mobilitazione della comunità in resistenza di Cushamen – provincia di Chubut, Argentina – che protestava per l’arresto del proprio lonko[1] e per la minaccia di sgombero da parte delle autorità locali. La manifestazione è stata duramente repressa dalla Gendarmeria nazionale[2]e le tracce di Santiago si sono perse durante le violenze, quando un testimone ha visto che veniva costretto a salire su un veicolo dei gendarmi. Da quel momento, per 81 giorni, di lui non si è saputo più nulla, finché il suo corpo non è stato ritrovato il 18 ottobre nel Río Chibut, in una parte poco profonda del fiume già ripetutamente setacciata nelle settimane precedenti.

La gestione del caso di Santiago, su cui sono intervenute anche l’ONU e la Commissione Interamericana per i Diritti Umani, ha registrato numerose negligenze da parte dell’apparato statale argentino: dalla lentezza con cui si è investigato circa il coinvolgimento della Gendarmeria – i veicoli usati durante la repressione, ad esempio, sono stati analizzati parecchi giorni dopo i fatti, quando ormai erano già stati lavati –, all’apparente svista con cui Patricia Bullrich, Ministra della Sicurezza, ha rivelato in una conferenza stampa il nome di un testimone protetto coinvolto nell’inchiesta, che aveva denunciato come, alcuni giorni dopo la scomparsa di Santiago, qualcuno avesse risposto al telefono del giovane desaparecido. Apparenti sviste e negligenze che hanno portato anche alla ricusazione e sostituzione del giudice responsabile dell’inchiesta.

Il caso è stato inoltre caratterizzato da una costante manipolazione mediatica dell’informazione [3], finalizzata sia a screditare Santiago e la sua famiglia sia a negare la gravità e la rilevanza della scomparsa e della successiva morte del giovane. Paradigmatica, in questo senso, è stata la copertura mediatica data ai risultati dell’autopsia sul corpo del giovane: realizzata da più di 50 esperti delle diverse parti coinvolte, l’indagine autoptica ha rilevato, a un primo esame, che il corpo non presentava lesioni, senza tuttavia stabilire la causa della morte – che si conoscerà nei prossimi giorni – né escludere che il giovane abbia subito violenze. Eppure, alcuni importanti quotidiani – tra cui, in Italia, La Repubblica – hanno riportato la falsa notizia che l’autopsia avrebbe stabilito che il corpo fosse in acqua da almeno 60 giorni e attribuito al giudice responsabile del caso una dichiarazione, mai rilasciata, secondo cui “tutto lascia pensare che [Santiago] sia affogato [4]”.

La Pu Lof di Cushamen, tra difesa del territorio e continuum coloniale

«Questa violenza è storica, sono pratiche genocide, sono la prosecuzione di quanto iniziò con la Campagna del Deserto, sono politiche di Stato che si sono adattate al contesto contemporaneo» spiega Fernando Jones Huala, attivista mapuche del Movimento Autonomo del Puelmapu (MAP), che unisce diverse Lof presso Chubut, Río Negro, Neuquén, Buenos Aires e La Pampa, riferendosi ai fatti dell’agosto scorso in cui è scomparso Santiago.
Il popolo Mapuche è, storicamente, l’ultimo dei 30 popoli originari presenti nel territorio dell’attuale Argentina a essere stato invaso, 130 anni fa, mediante la cosiddetta “Campagna del Deserto”, durante il Governo di Avellaneda. L’invasione della Patagonia comportò lo sterminio della popolazione, l’espropriazione dei territori mapuche e la negazione di diritti fondamentali, imponendo al popolo originario l’abbandono della propria lingua e dei propri costumi e relegandolo al margine della società. Oggi questo popolo risiede nella zona patagonica del Cono Sud, prevalentemente nelle province argentine di Neuquén, Río Negro e Chubut, e nella zona dell’Araucanía cilena, dove prosegue la lotta per rivendicare la propria identità di popolo preesistente alla costituzione degli Stati argentino e cileno. Nel caso argentino, infatti, sia la Convenzione 169 dell’ILO, ratificata dal Paese, sia l’articolo 75 della Costituzione nazionale prevedono il riconoscimento della preesistenza etnica e culturale delle popolazioni indigene argentine e proteggono i loro diritti, tra cui il diritto alla proprietà comunitaria delle terre da loro tradizionalmente occupate.

Tuttavia, malgrado il quadro normativo nazionale e internazionale apparentemente favorevole e nonostante gli sforzi per ottenere il riconoscimento dei propri diritti presso i tribunali nazionali, la gran parte dei mapuche continua oggi a essere gente “senza terra[5]”. Per questo, come spiega ancora Fernando, “di fronte a questa negligenza dello Stato, i popoli originari hanno deciso di esercitare questi diritti, invece di continuare a mendicarli”, e hanno dato inizio alle azioni di recupero del territorio.
La Lof di Cushamen, in cui è scomparso Santiago, è formata da alcune comunità mapuche che, nel 2015, recuperarono un territorio occupato in Chubut dalla Compañía de Tierras Sud Argentino S.A, di proprietà dell’azienda italiana Benetton, che negli anni ‘90 del secolo scorso aveva acquistato in Argentina circa 900.000 ettari di terreno (il corrispondente di poco più del 90% del territorio della Basilicata). Dal 2015 a oggi la comunità è stata oggetto di una campagna di criminalizzazione mediatica che ne dipinge i membri come “terroristi”, creando così un clima favorevole a un’ondata di procedimenti giudiziari, finalizzata a ottenere la detenzione preventiva più che vere e proprie condanne, considerando anche la debolezza degli impianti accusatori costruiti dalla magistratura.

Inoltre, la comunità ha subito diverse aggressioni da parte della Gendarmeria, che hanno acuito il conflitto in corso. Conflitto che, secondo Ronald Mc Donald, amministratore generale della Compañía de Tierras Sud Argentino, «Non è un problema di Compañía de Tierras o del Gruppo Benetton, è un problema della società, e sarà la società che dovrà stabilire in che Paese o in base a che norma si vuole vivere».

Benetton e l’indio insurrecto[6]

La posizione del Gruppo Benetton rispetto alle rivendicazioni mapuche è ben espressa dalle interviste rilasciate da McDonald. Nelle sue dichiarazioni, l’amministratore spazia dall’espropriazione dei diritti riconosciuti ai popoli originari dalla stessa Costituzione argentina – «Mi sembrano fuori dal tempo. È come se oggi andassi nell’Inverness, in Scozia, e rivendicassi la terra dei miei antenati. Una follia» –, alla negazione della loro identità – «Qui sono immigrati tanto come mio nonno». In altre parole, le comunità, pur essendo mapuche, non potrebbero avanzare alcun diritto perché giunte in realtà dal Cile. Difendendo poi la retorica sviluppista e civilizzatrice che sostiene l’accaparramento di terre in tutto il mondo, McDonald argomenta che «in Patagonia funzionano solo le grandi estensioni [di terra], a causa degli inverni così duri. Se diamo loro qualche ettaro avranno solo un’economia di sussistenza con aiuti statali. In questo modo, abbiamo 130 impiegati diretti e diamo lavoro a 200 persone con un’economia sostenibile», sottintendendo di fatto che i mapuche hanno una visione retrograda della vita e del lavoro, e potranno accedere alla “modernità” e allo “sviluppo” solo attraverso l’adesione al progetto economico e politico del Governo argentino e delle imprese. Delegittimare le rivendicazioni delle comunità mapuche, tuttavia, non sembra sufficiente a McDonald, il quale, di conseguenza, invoca anche l’intervento delle istituzioni, «soprattutto la parte giuridica, e attraverso questa le forze di sicurezza, che devono risolvere il conflitto»[7] e sedare la minaccia dell’“indio in rivolta”. La posizione delle istituzioni governative non si allontana troppo da quella espressa da McDonald, come ricorda la Ministra per la Sicurezza Bullrich quando afferma che il popolo Mapuche «es un grupo de extrema violencia», ossia rappresenta un gruppo estremamente violento. E la risposta alla richiesta di McDonald pare essere arrivata il primo di agosto.

1 caso tra 2.263

Secondo l’Environmental Justice Atlas, sono almeno 2.263 i conflitti socio ambientali in corso a livello mondiale – 47 nella sola Argentina – che vedono coinvolte, da una parte, le comunità locali e, dall’altra, i Governi e le imprese, spesso transazionali. Secondo diverse autrici latinoamericane[8], questo fenomeno risponde a una nuova ondata di politiche estrattiviste e di accaparramento della terra, funzionale all’attuale ciclo di accumulazione per espropriazione, che David Harvey[9]indica come il meccanismo attraverso cui il capitalismo cerca di superare le fasi di stagnazione che lo caratterizzano. Il (neo)estrattivismo è trasversale – basti pensare che in Italia sono almeno 25 i conflitti socio ambientali in corso – e, al netto delle specificità proprie di ciascuna regione, si caratterizza per alcuni elementi comuni, che superano la dimensione della sola estrazione intensiva di risorse e beni naturali.

Come indica Anthony Bebbington: «Ciò che s’impone è una logica culturale e una forma di occupazione e controllo dello spazio che riflette il potere del centro rispetto alle regioni, il potere non indigeno e cittadino di fronte alle popolazioni indigene-contadine, e il potere dell’investimento privato di fronte alle istituzioni comunitarie». Si tratta quindi di «un progetto economico, politico e ideologico» [10] che richiede un’alleanza tra le imprese e gli Stati. Questi, come dimostra chiaramente il caso argentino, prestano il loro monopolio della forza per contenere le resistenze locali, ma appoggiano anche la diffusione del modello grazie alla creazione dello spazio, politico e normativo, necessario per garantire l’accumulazione. Le studiose Claudia Composto e Mina Navarro hanno identificato, nell’imposizione di questo modello, un «dispositivo di espropriazione» attivato da Stati e imprese, in cui lo Stato, inizialmente, costruisce il quadro legislativo e il necessario consenso intorno al modello economico proposto per favorire le imprese e le attività estrattive. In questa fase, lo Stato si presenta come «arbitro neutrale garante del bene comune».

In seguito, se si registrano resistenze, si attivano strategie di cooptazione tra i membri del gruppo, e anche azioni di disciplinamento del dissenso. Se queste non funzionano, lo Stato passa ad assumere «una posizione di guerra contro il nemico interno», che si esprime attraverso la costruzione simbolica, di quanti si oppongono al modello, come minacce per il benessere collettivo, e che può spingersi fino alla loro «eliminazione fisica, nei casi più gravi».
Nel 2016 sono state 200 le persone assassinate nel mondo per aver difeso il territorio e i beni naturali: il 40% di queste persone erano indigene, e il 60% residenti in America Latina. Tuttavia, come ricorda ancora Ivana nella sua intervista, «Qui c’è molto dolore, ma anche molta forza [nehuén]. Per questo continueremo [la nostra lotta]. I miei figli e i miei nipoti andranno avanti. Perché la terra ci dà tutto e qui c’è spazio per tutti. Per questo continueremo a recuperare il nostro territorio».

Note 

[1] All’interno dell’organizzazione sociopolitica delle comunità Mapuche, il lonko rappresenta l’autorità.
[2] La Gendarmeria Nazionale è una forza di sicurezza di natura militare che risponde al Ministero della Sicurezza argentino.
[3] Per un’analisi della relazione tra narrazioni tossiche e casi di desapariciones forzadas nell’America Latina contemporanea, si veda lo studio di Lavaca.
[4] Ibid.
[5] Dichiarazione della Pu Lof in Resistenza Dipartimento Cushamen, Marzo 2015.
[6] Letteralmente, “l’indio in rivolta”. L’indio insurrecto nasce in antitesi al concetto di indio permitido (indio autorizzato, o accettato), coniato da Silvia Rivera Cusicanqui per indicare il tipo di soggetto funzionale al multiculturalismo neoliberale, ossia l’indigena che accetta le politiche cosmetiche da questo promosse, senza avanzare particolari critiche. L’indio insurrecto invece – concetto proposto da Charlie Hale – critica la vacuità di tali politiche e rivendica il rispetto dei propri diritti.
[7] Ibid.
[8] Composto, Navarro e Svampa, tra gli altri.
[9] Harvey, David,La acumulación por desposesión,in Bueno, Carmela; Pérez Negrete, Margarita y Alarcón, Sandra (eds), Espacios Globales, México, Universidad Iberoamericana y Plaza y Valdés Editores, 2006, pp.21-52.
[10] Bebbington, Anthony, Minería, movimientos sociales y respuestas campesinas. Una ecología política de transformaciones territoriales,Lima,IEP-CEPES, 2011, pp.30-31.