Quattro domande cruciali sulla Libia a Nancy Porsia

11 agosto 2017 – Fonte Open Migration che ringraziamo
Il 10 agosto 2017, nel bel mezzo del tormentone contro la presunta disobbedienza delle Ong al codice di condotta del Viminale, la Marina libica, per voce del generale Abdelhakim Bouhaliya, comandante della base navale di Tripoli di Abu Sitta, annuncia di voler allargare il divieto di ingresso alle Ong di decine di chilometri oltre le canoniche 12 miglia nautiche nazionali, quindi in acque internazionali, istituendo una propria zona di “Search and rescue” per intercettare e riportare i migranti in Libia. Si presume si tratti del ripristino della zona Sar imposta a suo tempo da Muammar Gheddafi – una decisione unilaterale la cui legalità è dubbia. La Guardia Costiera italiana chiede alle Ong di arretrare le operazioni per la loro sicurezza.
Il 12 agosto SOS Mediterranee ottiene che il famoso “codice di condotta” venga modificato fino a riprendere praticamente la forma della legislazione già vigente e già rispettata dalle Ong, e lo firma, ma intanto prima Msf con la sua nave Prudence, poi la Sea-Eye, poi anche Save The Children annunciano la sospensione del soccorso, perché la Guardia Costiera italiana non è più in grado di garantire operazioni in sicurezza, e perché quelle operazioni le renderebbero complici della Guardia Costiera libica notoriamente collusa con i trafficanti. Msf e Sea-Eye avvertono: così si apre una falla mortale nella solidarietà nel Mediterraneo. Intanto, chi viene respinto dalla Guardia Costiera libica in questi giorni finisce di nuovo nei famigerati campi di detenzione da cui era partito. Abbiamo chiesto alla giornalista specializzata Nancy Porsia di spiegarci com’è la situazione in Libia.

Nancy, Msf, Sea Eye e Save The Children si fermano, perché nell’attuale progetto militare italiano nel Mediterraneo si collabora con una Guardia Costiera libica pericolosa e collusa con i trafficanti e si respingono i migranti verso “campi” in Libia in cui il rispetto dei diritti umani venga garantito dall’Onu – ma lo stesso Unhcr dice che campi del genere non esistono e non possono esistere. Che destino avrebbero le persone che vengono trattenute in Libia senza più poter partire?

Parto dalle informazioni che sto raccogliendo in questi giorni sul campo, nel contesto della ricerca che mi è stata commissionata da Cini e Concord, network di Ong italiane ed europee, nell’ambito di un monitoraggio sull’impatto degli EU Trust Funds in Libia sulla stabilità del paese e la tutela dei diritti umani dei migranti. In questi giorni sto conducendo interviste con vari second player – sia gli international implementer (i.e., quelli che di fatto hanno accesso agli EU Trust Funds e poi aprono bandi a cui partecipano Ong e altri soggetti della rete territoriale libica), come l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) e Ong e istituzioni libiche – coinvolti nell’istituzione del “nuovo” sistema di accoglienza/detenzione in Libia.

Confermo che questi campi non esistono e non possono esistere. Di fatto, questi famosi campi non sono mai stati un’opzione reale, e quello su cui si sta lavorando è piuttosto il miglioramento dell’assistenza dei migranti nel contesto del sistema di detenzione già esistente, attraverso la fornitura di vari servizi – dalla messa a disposizione di kit di beni di prima necessità ai controlli medici e al supporto psicologico, che però non viene espletato da personale esperto: il personale che opera nei centri è e resta, infatti, libico e decisamente poco specializzato, e non c’è una presenza fisica di personale internazionale. Questo fa sì che la situazione resti statica perché non agevola il percorso di sensibilizzazione sui diritti umani che dovrebbe essere condotto con i libici. Sostanzialmente è questo, che gli europei hanno pensato per ottenere un miglioramento delle condizioni nel sistema di detenzione pre-esistente.

Allo stesso tempo si stanno cercando nuove soluzioni nel lungo termine, attraverso un engagement con le autorità libiche per definire un sistema alternativo alla detenzione – passando nell’immediato a strutture ospedaliere le persone in condizioni di maggiore vulnerabilità, e in generale spingendo verso un passaggio di consegne per la gestione dei migranti (quantomeno quelli vulnerabili) dal Ministero dell’Interno a quello della Sanità, e quindi a strutture mediche specializzate e poste sotto la supervisione degli international implementer. È chiaro che poi alla base c’è un vulnus: i migranti nei centri di detenzione hanno sì violato la legge libica entrando nel paese irregolarmente, ma sarebbe comunque loro diritto – un diritto che non viene evidentemente rispettato – avere un equo processo; equo processo che di fatto non è nemmeno pensabile in un paese come la Libia, profondamente instabile e privo di un vero e proprio Stato e degli apparati nazionali centralizzati. L’equo processo non è garantito nemmeno ai libici, figuriamoci ai migranti: è questa una peculiarità dell’intero paese (e non solo della filiera che si muove sulla migrazione), che in maniera trasversale permea l’intera struttura della privazione della libertà. In questo contesto, secondo gli international implementer l’unica opzione davvero percorribile è quella dell’assistenza al rimpatrio volontario, della fornitura di assistenza essenziale nei centri detentivi, e dell’apertura di un canale alternativo di stampo ospedaliero per i soggetti più vulnerabili.

Il legame fra i contrabbandieri di esseri umani, le milizie e la guardia costiera libica che fa capo al governo Serraj riconosciuto dall’Onu e dall’Italia è piuttosto documentato. Dove finiscono i finanziamenti che l’Italia mette in campo per addestrare e attrezzare i libici?

Diciamo che si sta facendo un “gioco delle tre carte”. L’Italia tecnicamente non sta finanziando la Guardia costiera libica, ma ha bensì riattivato un vecchio trattato – il trattato di amicizia italo-libico siglato nel 2008 da Berlusconi e Gheddafi – per dribblare il vulnus dell’assenza di un vero e proprio interlocutore governativo, visto che come sappiamo Serraj non rappresenta il governo bensì il consiglio presidenziale, e non ha quindi il potere esecutivo necessario. Allo stato attuale l’Italia sta rifornendo di nuovo la Libia dell’attrezzatura – e nello specifico delle motovedette per il controllo delle coste – che però erano di fatto già di proprietà libica: le motovedette che gli italiani hanno mandato in Libia adesso sono infatti le stesse che Berlusconi, attraverso l’ambasciatore Maroni, aveva fornito nel 2008, e che poi tra il 2011 e il 2012 erano state danneggiate e quindi, non avendo i libici le capacità e le infrastrutture per la riparazione e la manutenzione di queste imbarcazioni, erano state rimandate a Roma perché venissero riparate. Allora l’idea era che le motovedette sarebbero state restituite ai libici nel giro di poco tempo, ma nel frattempo avvenne la spaccatura interna in Libia che rese impossibile per l’Italia individuare un interlocutore legittimo a cui fare la consegna. È stato quindi solo dopo che le pressioni della comunità internazionale hanno fatto di Serraj l’interlocutore di unità nazionale che l’Italia ha avuto, per la prima volta dopo tre anni, un soggetto più o meno legittimo con cui relazionarsi e a cui restituire le imbarcazioni che erano già libiche. Ecco perché l’Italia dal punto di vista legale si muove comunque in un quadro di legalità.

È chiaro poi che la restituzione delle imbarcazioni è stata comunque una sorta di seguito della decisione con cui l’Europa, nel contesto del summit di La Valletta, ha messo a disposizione fondi per progetti finalizzati alla “gestione delle migrazioni” nel paese. Quindi da una parte l’Europa ha allocato dei fondi per il sistema di accoglienza (o, meglio, detenzione) dei migranti in Libia, e dall’altro l’Italia ha trovato l’espediente legale per superare il vulnus diplomatico/governativo e poter riconsegnare le motovedette e quindi abilitare la Guardia costiera a pattugliare le coste e fare attività di controllo dei confini. Si può insomma dire che c’è una sorta di complementarietà tra l’azione dell’Europa e quella dell’Italia – con l’Europa che mette i fondi per i centri in Libia, e l’Italia che fornisce i mezzi (e l’addestramento) alla Guardia costiera libica. Attraverso il Memorandum of Understanding con la Libia, l’Italia – senza dare soldi – dà così comunque manforte alla Guardia costiera libica, tramite la rimessa a disposizione delle motovedette e l’addestramento.

Tanto che la Guardia costiera libica, da questa sua nuova posizione di forza, ha ora imposto a tutte le navi straniere il divieto di soccorrere i migranti nelle aree cosiddette aree di “search and rescue” (Sar) – che vanno molto oltre le 12 miglia nautiche delle acque territoriali, in cui le navi straniera non sono mai potute entrare. Non essendo un’esperta di diritto, non posso dire se e come una nuova regola di un’autorità nazionale possa andare a derogare alle convenzioni internazionali: questa mi parrebbe evidentemente una forzatura da parte della Libia, ma se fosse avallata dalla comunità internazionale rimarrebbe di fatto senza conseguenze – dando l’ennesima prova che la comunità internazionale parla di implementazione e rispetto della legge solo a proprio uso e consumo, come del resto già avvenuto per l’accordo Ue-Turchia (che ha fatto scuola, costituendo un vero e proprio punto di svolta dal punto di vista dell’utilizzo di accordi e strumenti privi di un reale fondamento legale. Quindi: non so davvero come l’Italia e la comunità internazionale riusciranno a fare passare questa dichiarazione unilaterale della Libia; ma se la nuova regola del divieto di ingresso di navi straniere nelle aree Sar sarà messa in atto, con gli italiani a dare manforte ai libici offrendo loro supporto logistico – che, mi immagino, significherà sostanzialmente aiutarli ad individuare i target, mettendo a loro disposizione la potenza di fuoco della tecnologia italiana, con radar, droni e quant’altro) – si darà luogo a un vero e proprio blocco navale.

In senso più ampio, chi sono gli attori in campo in Libia, anche stranieri, che sono coinvolti nel traffico delle persone migranti su vari livelli?

Il punto fondamentale da evidenziare parlando di traffico di migranti in Libia è quello del netto distinguo tra la rete dei passatori e la rete dei trafficanti. Sino a qualche anno fa, gli attori principali erano i passatori, ossia gente che dietro compenso offriva un servizio su richiesta dei migranti stessi: un rapporto consensuale e libero, senza alcun tipo di coercizione, e un servizio (per quanto ovviamente illegale) tendenzialmente professionale e che rispondeva a certi standard – i passatori avevano infatti un certo know-how delle tecniche e rotte di trasporto che mettevano a disposizione, dietro prestazione di compenso, a chi era intenzionato a intraprendere il viaggio verso l’Europa. Con il tracollo della situazione in Libia, i giovani miliziani che prima erano solo sul fronte – ventenni ai tempi della rivoluzione, che spesso hanno problemi di alcol e droga – hanno visto nel business dei migranti una grossa opportunità e quindi hanno iniziato a infiltrare questo mercato, trasformando anche la natura del rapporto coi migranti: da liberi acquirenti di un servizio a soggetti vittime di coercizione e violenza. Questi “cavalli pazzi” non hanno peraltro alcuna competenza nel trasporto di esseri umani né tanto meno scrupoli, e di fatto mandano la gente a morire. Da notare come ovviamente i “cavalli pazzi” libici lavorino comunque “al dettaglio”, nel senso che hanno controllo solo sulla tratta finale della rotta migratoria, quella che passa attraverso il loro paese, perché poi nell’ambito dell’economia regionale è la vera mafia strutturata, che esiste da ben prima della rivoluzione in Libia e ha saputo sfruttare il vuoto di potere determinatosi nel paese, a controllare il viaggio per intero; dal Sudan e la Nigeria sino a Berlino e Londra, dove hanno le loro “antenne”, è la mafia di nigeriani e sudanesi. I libici tendenzialmente sono sul libro paga dei trafficanti della Nigeria. del Sudan e dall’Etiopia, e gli stessi migranti pagano a questi soggetti il prezzo del viaggio e non ai “cavalli pazzi” libici. Tanto che poi sappiamo che circa la metà di loro è vittima di sequestri e violenze da parte dei libici con lo scopo di estorcere ulteriori somme alle loro famiglie, un ulteriore girone dantesco. Sono i trafficanti nigeriani, sudanesi ed etiopi che hanno “industrializzato” il traffico e determinato così un calo non solo della qualità del “servizio”, ma anche del suo prezzo, e un aumento dei numeri delle persone coinvolte.

Che cosa pensi potrebbe succedere se il Mediterraneo diventa una strozzatura della rotta centrale dei migranti? Quali sono gli scenari alternativi che si aprono?

Sinceramente credo ci saranno molte più morti in mare, ma al momento non riesco a fare pronostici ulteriori rispetto a questo. Anche perché qui c’è da fare una considerazione ulteriore, che complica molto il quadro: il cosiddetto governo libico non parla necessariamente anche a nome dei libici. In questo momento, come abbiamo già avuto modo di vedere, anche i libici stessi iniziano infatti a partire coi barconi.

Qui devo puntualizzare una cosa: io non sono contraria alla creazione di un apparato di sicurezza in Libia, perché la Libia ha un grande bisogno di stabilità e questa stabilità passa per forza anche dal controllo dei confini (da cui passano traffici di ogni tipo, dalle armi alle persone). In questo senso penso sia opportuno che l’Europa aiuti la Libia a creare un apparato di sicurezza, perché allo stato attuale nel paese il controllo è – in assenza di un vero e proprio esercito governativo – nelle mani delle milizie, e questo determina una situazione invivibile, non solo per i migranti ma per gli stessi libici: rapimenti all’ordine del giorno, ospedali privi di medicine perché sotto il controllo delle milizie che spesso vendono i farmaci che arrivano con gli aiuti umanitari, sistema sanitario al collasso; impossibilità di ottenere un passaporto, a meno che non si sia in grado di pagare migliaia di dollari sottobanco ai funzionari corrotti, con tempi di attesa di uno o due anni, anche solo per viaggiare verso la Tunisia, unico paese che non richiede ai libici un visto; impossibilità di ottenere un visto per via dei costi proibitivi – parliamo di 5000 dollari, corrispondenti a un anno di stipendio – e dinieghi frequentissimi. Insomma, il sistema delle milizie permea tutta la struttura della società e rende impossibile la vita quotidiana di tutti coloro che si trovano in Libia. Non c’è quindi da stupirsi se, come dicevo, i libici stessi cominciano a mettersi in mare – com’è avvenuto giusto la scorsa settimana con il caso dei tre giovani che sono partiti da soli su una piccola imbarcazione, bypassando il sistema dei trafficanti, si sono avviati verso l’Europa e sono stati poi salvati a largo dalla nave della Ong Proactiva Open Arms. La vera incognita nell’immaginare i futuri scenari è proprio quella del grado di cooperazione della popolazione libica con le politiche del governo: è questo il fattore determinante che al momento non si può definire.


In copertina: foto della European Commission DG ECHO, migranti sul confine egiziano con la Libia (CC BY-ND 2.0)