“Ecco perché questa legge sulla tortura non va bene”. Intervista a Luigi Manconi di Donatella Coccoli

FONTE CONTROLACRISI.ORG

Sì definitivo dell’Aula della Camera al disegno di legge che introduce nell’ordinamento italiano il reato di tortura. Il testo è stato approvato alla Camera con 198 voti a favore, 35 contrari e 104 astenuti. A favore del testo hanno votato Pd e Ap. Contro Fi, Cor, Fdi e Lega. Ad astenersi sono stati M5S, Si, Mdp, Scelta civica e Civici e innovatori. 

A 30 anni dalla convenzione Onu contro la tortura e a 16 anni dai fatti della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto (per i quali l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo) arriva un testo controverso che lascia aperti ancora molti interrogativi. 

Vi proponiamo l’intervista al senatore Manconi pubblicata il 14 giugno scorso sul sito www.abuondiritto.it

Senatore Manconi, lei ha presentato il testo del disegno di legge il 15 marzo 2013. Che cosa è accaduto in questi 4 anni?
Si è messo subito in discussione il mio disegno di legge che si rifaceva nella sostanza alla Convenzione delle Nazioni unite. E soprattutto conteneva il senso più profondo che tutta la giurisprudenza e il diritto attribuiscono a un reato di tortura. Cioè il fatto che questo reato non sia misurabile sulla base dell’efferatezza, della crudeltà o dell’intensità delle sofferenze che infligge, bensì sulla sua origine. Questo è il nodo che nessuno vuol comprendere: non è un atto tra due individidui capace di produrre sofferenze fisiche o psichiche, ma è l’atto commesso e realizzato da chi detiene legalmente il potere di tenere sotto controllo un’altra persona. Questa parola “legalmente” è cruciale.

Mi faccia un esempio.
Spostiamoci su un campo meno abusato e parliamo di un caso classico di possibile tortura che ho seguito passo passo: la contenzione di 87 ore inflitta a Franco Mastrogiovanni ricoverato per un Tso. I medici e gli infermieri che avevano legato il maestro elementare ai quattro angoli del letto lo privavano della libertà legalmente. Oppure, per fare altri esempi, il poliziotto che porta in caserma il clochard lo fa legalmente, così come il poliziotto penitenziario che tiene in cella un detenuto. La tortura, quindi, nasce dall’abuso di potere legale. Se non si capisce questo, non si capisce nulla! La tortura, per intenderci, non è quella di Er Canaro contro l’usuraio, quella è un’altra roba.

Perché non si è capito tutto ciò in Senato?
Questa mia impostazione è stata sconfitta da un’alleanza, non così rara, tra componenti sinistriche e destriche. Le prime sono tornate a farsi sentire nel dibattito finale sostenendo testualmente che questo era più efficace come reato comune e non come reato proprio perché allarga il campo… Ma non è vero che se tu un reato lo puoi attribuire a più persone sia più figo! È una scemenza colossale. Dopo di che si rende ancora più impervia la possibibilità di identificarlo perché la Convenzione delle Nazioni unite parla di “ogni violenza” e qui diventano subito “le violenze”. Ancora: “le violenze” diventano “le violenze reiterate”. Quando nel luglio 2016 riuscimmo a far saltare quel “reiterate” salta anche la discussione. Quando riprende, al posto di “reiterate” troviamo le parole “più condotte”. Io ora arrivo a dire che “reiterate” sarebbe stato meglio di “più condotte” perché nel senso comune“reiterate” richiama una successione di violenze concentrate in uno stesso tempo che può essere più o meno lungo ma è lo stesso tempo. Invece, “più condotte” sembra persino estendere la violenza a più giorni, quindi la tortura c’è solo se e solo quando la condotta fatta oggi viene ripetuta.

Poi c’è la questione della violenza psichica.
Sì e questa cosa mi ha proprio turbato. Perché il trauma psichico, secondo la letteratura scientifica internazionale, non è qualcosa che si rileva con una tac, tanto più realizzata dopo tre anni. I processi di tortura si fanno dopo dieci, venti anni, ma cosa si può rilevare? Ho fatto una piccola ricerca e ho scoperto che la roulette russa, forse la più famosa tortura sotto il profilo dell’immaginario e dell’iconografia, non è rilevabile clinicamente.

Nella sua analisi del percorso travagliato della legge lei ha definito la classe politica italiana subalterna alle forze dell’ordine.
La penso proprio così. Qui si lavora per stereotipi. Se tu proteggi la polizia da qualsiasi tipo di imputazione, la devi proteggere tutta, come corpo, come istituzione. Da questo punto di vista, la classe politica è più arretrata di quanto lo siano le forze dell’ordine. Ricordo che ho accompagnato Ilaria Cucchi in una visita molto importante dal comandante generale dell’arma dei carabinieri Tullio Del Sette. In quel colloquio il generale riconobbe ciò che io vo dicendo e ho scritto, e cioè che se noi sanzioniamo i responsabili di tortura salviamo l’onore di quelli che responsabili di tortura non sono.

La storia di una legge sul reato di tortura è lunga. Il primo a proporla fu un comunista, Nereo Battello, nel 1989.
Era un garantista, amico di Massimo Cacciari, un rappresentante di una bella cultura politica di quegli anni e in quelle regioni, dove i comunisti non erano reazionari.

La Corte europea dei diritti umani sostiene che l’assenza di un reato di tortura dipende da un “problema strutturale” dell’Italia. Ma una politica che non riconosce i diritti umani, che politica è? Non le sembra che così si vanifichi tutto il resto?
Non è vero! Lo sa perché? Quello di cui stiamo parlando io e lei alla stragrande maggioranza di quella “roba” che si chiama opinione pubblica di sinistra, interessa pochissimo. A quella larga parte di opinione pubblica, ripeto, che si definisce di sinistra, interessa solo il caso Minzolini. È tutto qui, glielo giuro.

Quindi la responsabilità è anche dei giornali che non pongono l’attenzione sui diritti umani…
Mi spiego meglio: se lei chiede a un campione rappresentativo di militanti di sinistra qual è la vicenda che più li ha scandalizzati a opera della classe politica, ebbene, le risponderanno il caso Minzolini. Infinitamente di più della vicenda del reato di tortura, mi creda, è così. Il caso Minzolini, che è insignificante, scandalizza di più. Lo so benissimo, perché nella marea di complimenti per il mio lavoro, c’è sempre qualcuno che dice “certo che proprio lei, il caso Minzolini…”. Ma chi se ne frega, io ho votato a favore di Minzolini, totalmente e profondamente convinto, l’ho raccontato una volta e poi basta. È talmente, ripeto, un fatto insignificante che non posso concedere a chi mi critica questa possibilità di dare al caso Minzolini un peso che non ha…

Torniamo ancora sul binomio diritti umani e sinistra. Riccardo Noury di Amnesty qualche settimana fa a Left ha detto che la sinistra non ha fatto della garanzia dei diritti civili un principio delle proprie battaglie.
Qui bisogna fare un discorso di carattere storico. Il problema infatti è un altro: la sinistra nasce – e stiamo parlando di duecento anni fa – avendo come sua missione e priorità totale, incondizionata, il fatto di creare condizioni di uguaglianza sociale in un mondo disperatamente diseguale. Quindi è ovvio che la sinistra deve perseguire diritti sociali, garanzie collettive e soddisfare bisogni unificanti. È negli anni 60-70 che perde l’occasione, perché contribuisce in maniera determinante al successo delle battaglie sui diritti civili, spesso promosse da altri, ma poi non capisce la profondità e l’importanza del messaggio che quelle battaglie trasmettono. Successivamente si perdono almeno trent’anni. Comunque c’è stato un importante processo di maturazione: la legge sulle unioni civili quarant’anni fa sarebbe stata rifiutata non solo per ragioni di bigottismo etico-politico ma perché si sarebbe detto che in una fase così drammatica di crisi economico-sociale, con la disoccupazione e tutto il resto, non ci si può interessare di questi bisogni che oltretutto sono bisogni “borghesi”. Fortunatamente la gran parte della sinistra infine, ma proprio infine, ha acquisito la consapevolezza che non si tratta di bisogni borghesi e che oggi il diseredato e il disoccupato, il mortificato e il non garantito chiedono lavoro e reddito ma anche la possibilità di soddisfare i propri bisogni privati, le esigenze nel campo delle relazioni umane, della sfera sessuale e dell’autodeterminazione di sé e sul proprio corpo. Un passo avanti gigantesco ma, come abbiamo visto, non sufficiente.