Come il neoliberalismo ha preparato la strada a Donald Trump – Zygmunt Bauman

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Il 9 gennaio scorso è morto all’età di 91 anni Zygmunt Bauman sociologo e filosofo polacco di formazione marxista.

Di lui vi proponiamo la traduzione di uno dei suoi ultimi scritti a proposito della vittoria di Trump alle presidenziali della fine dello scorso anno: in esso Bauman denuncia fin dal titolo le gravi responsabilità della politica e della ideologia neoliberista, ma al tempo stesso ci mette in guardia dalla retorica fascistoide di Trump e dei suoi accoliti.

Ricordo ancora vividamente ciò che sempre meno persone, col passare del tempo, possono fare e fanno: le definizioni che Nikita Kruscev, avendo deciso di esporre e di screditare pubblicamente e di condannare i crimini del regime Sovietico per prevenire il loro ripetersi, ha dato alla cecità morale e alla disumanità che sono stati fino ad allora il marchio distintivo di quel regime: egli li chiamò “errori e deformazioni”, commessi da Joseph Stalin nel corso della riuscita implementazione di una politica sana, corretta e profondamente etica.

Nei discorsi lunghi molte ore di Kruscev non trovò spazio il minimo sospetto che ci dovesse essere stata una qualche iniquità, indecenza e immorale malvagità con la quale quella politica fu fin dall’inizio alterata e avvelenata; e che – a meno che fosse stata fermata e rivista completamente – aveva portato alle atrocità allora denunciate e deprecate. La norma del sistema fu presentata come una serie di errori commessi da un solo uomo, al massimo in cooperazione con altri, anche personalmente individuabili.

Ricordo vividamente anche le pubbliche reazioni alla rivelazioni di Kruscev. Alcuni cresciuti, condizionati e accuditi, come avveniva, sotto il controllo del Ministero Sovietico della Verità, abbracciarono e accettarono, sebbene con qualche residuo disagio, la successiva proclamazione dall’alto. Molti di più piansero, lamentando lo storico dramma delle loro vite per una seconda volta – ma questa volta degradato al rango (contingente e certamente non intenzionale ) di gaffe e sviste di un uomo sostanzialmente infallibile e integro che perseguiva un obiettivo assolutamente nobile.

Ma la maggior parte rise, sebbene l’amarezza in quella risata fosse fin troppo percepibile.

Sto ricordando tutti questi fatti (dopo tutto lontani) proprio perché i vecchi come me tendono ad appassionarsi e a dipendere dai ricordi – ma anche perché sono stranamente simili alle reazioni degli sconfitti e dei loro simpatizzanti alla clamorosa pesante batosta inflitta a Hillary Clinton , al Partito Democratico che essa rappresentava, e alle politiche neoliberali che essi hanno erroneamente condotto e promesso di continuare a condurre se avessero vinto le elezioni.

Anche termini come “errori” o “deformazioni”, con i nomi dei colpevoli debitamente collegati, in entrambe le reazioni messe a confronto, sono stati utilizzati come spiegazione fondamentale, sufficiente ed esaustiva.

Orban, Kaczynski, Fico, Trump – questa è una lista incompleta di coloro che hanno già realizzato o sono in procinto di farlo – cioè imporre un governo che ha il suo solo (e sufficiente!) fondamento e la sua legittimazione nel volere di chi governa, in altre parole, mettere in pratica la definizione di Carl Schmitt (un tempo pretendente al ruolo di filosofo di corte di Adolf Hitler) del potere assoluto (si veda il suo “Teologia politica”) come un governo “decisionista”. La lista di coloro che guardano avidamente la loro audace e sfacciata insolenza, pieni di ammirazione e di voglia scalpitante di seguire i loro esempi, si sta allungando velocemente. Ahimè, la pubblica acclamazione e la rivendicazione in favore dell’uno e dell’altro [di Schmitt e di Hitler ndr] e perciò del principio Ein Volk, ein Reich, ein Fuhrer (un popolo, una nazione, un capo) elaborata verbalmente da Hitler nel 1935 e quindi prontamente messa in pratica, sta crescendo velocemente e forse sempre di più.

Quello che fino a poco tempo fa era un mercato in cui si offrivano leader che avrebbero voluto essere “uno e uno solo” è diventato rapidamente un mercato dove si esprime proprio una tale domanda. Trump è diventato il Presidente degli USA perché egli ha chiarito agli Americani che lui vuol essere quel tipo di leader e perché gli Americani hanno voluto essere guidati da un leader di quel tipo.

Un capo “decisionista” non ha bisogno di nulla se non di una pubblica acclamazione ad agire             ( spontanea o artificiosa, volontaria o imposta). Le sue decisioni non sopportano altre limitazioni – neppure quella che si suppone possa derivare e/o possa essere imposta da reali o presunte “più alte motivazioni” o da comandamenti supremi, indiscutibili, che stanno al di sopra dell’umanità – come nel caso dei re “unti del Signore” del Medio Evo. Un capo decisionista si colloca vicino all’assoluto: come Dio nella sua risposta alla domanda di Giobbe, egli si rifiuta di spiegare le sue decisioni e rifiuta a Giobbe (o a qualunque altro per lo stesso motivo) il diritto a chiedere spiegazioni e ad attendersi che gli vengano date.

La sola spiegazione che la decisione del capo richiedeva ed era dovuta a coloro che ne erano coinvolti e che veniva data loro era il volere del capo stesso.

La certezza che cose importanti per la vita possano avvenire oppure no è il più avido dei sogni che possa essere sognato da persone vessate e oppresse dalla loro incertezza (sebbene questa certezza possa anche essere, come William Pitt il giovane osservò già nel 1783, “ la giustificazione per ogni tipo di violazione della libertà umana” e “l’argomento dei tiranni”). La politica guidata dal principio decisionista è il punto d’incontro tra i gustosi argomenti dei tiranni e il vorace appetito dei loro sostenitori. Possiamo dire che la nuova era della democrazia liberale, il cui imminente affermarsi fu presagito da Pitt tra i primi, si dedicò a prevenire che tale incontro si realizzasse per il bene della ragione e dei più autentici interessi umani.

Nel corso dei seguenti decenni che si fusero in secoli, giuristi e professionisti, così come filosofi della politica coalizzarono le forze per sviluppare – e una volta sviluppato salvaguardare – questo proposito. Tutto il loro pensiero e ingegno fu dispiegato per raggiungere quell’obiettivo. La strada per adempiere a quel proposito (identificato praticamente col passaggio del potere dai re e dai principi al popolo) si sviluppò secondo l’opinione prevalente attraverso misure istituzionali: divisione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, simultaneamente e reciprocamente autonomi e strettamente, intimamemte correlati – spingendoli perciò a coinvolgersi permanentemente nella negoziazione di un accordo e nel contempo allontanandoli dalle tentazioni di un potere solitario, potenzialmente assoluto.

Questa tendenza fu integrata da un’altra – di provenienza culturale più che istituzionale. Il suo manifestarsi avvenne attraverso lo slogan Liberté, Egalité, Fraternitè coniato dai filosofi dell’Illuminismo e poco dopo ricamato sulle bandiere portate da un capo all’altro dell’Europa dagli eserciti rivoluzionari francesi. I sostenitori di quello slogan erano consapevoli che i suoi tre elementi avevano la possibilità di realizzarsi solo se restavano uniti insieme.

Liberté può produrre Fratenité esclusivamente se collegata con Egalité; tagliate fuori dalla triade questo postulato di medietà/mediazione – e Liberté porterà molto probabilmente alla disuguaglianza e nei fatti alla divisione, alla reciproca inimicizia e al conflitto, al posto dell’unità e della solidarietà. Solo la triade nella sua interezza è capace di assicurare la costruzione di una società    pacifica e fiorente , ben integrata e imbevuta dello spirito di reciproca cooperazione.

Sia esplicitamente o implicitamente questa posizione fu strettamente associata con il “classico” liberalismo dei precedenti due secoli, che concordava sul fatto che gli uomini possono essere realmente liberi solo a condizione di possedere la capacità di fare uso della loro libertà – e solo quando entrambe le qualità, libertà e fratellanza, sono raggiunte, la vera Fraternité può realizzarsi.

John Stuart Mill trasse conclusioni socialiste dalle sue profonde convinzioni liberali; mentre Lord Beveridge, lo spirito guida e l’agitatore di un welfare universale in Inghilterra (così come l’ispiratore degli altri paesi europei a seguire il suo esempio), considerava e presentava quel modello raccomandandolo come indispensabile per l’implementazione degli ideali compiutamente liberali.

Ma per far breve questa lunga storia: il neo-liberalismo, ora filosofia egemonica condivisa da quasi tutto lo spettro della politica ( e sicuramente dall’intera parte classificata da Trump e da quelli del suo genere come “establishment” destinato all’annientamento da parte della collera e della ribellione popolare) si è allontanato dai suoi predecessori e si è davvero collocato in una dura contrapposizione facendo esattamente ciò che il liberalismo classico combatteva valorosamente per evitare che volgendosi all’indietro si ribaltasse ciò che era stato fatto: e cioè esiliare il precetto dell’Egalité – per tutti i suoi propositi e intenti pratici, dal patto tripartito dei principi e dei postulati dell’Illuminismo – anche se non sempre dalla sua titolarità sul piano puramente verbale.

Dopo trenta/quaranta anni di egemonia assoluta e mai seriamente sfidata della filosofia neo-liberale in un paese con grandi attese e ancora, grazie ai suoi governanti neo-liberali, anche di non minori frustrazioni, la vittoria elettorale di Trump è arrivata totalmente imprevista. Date le circostanze, agli errori e alle deformazioni cercate o costruite avidamente e discusse così caldamente dalla maggioranza degli opinion-makers avrebbe dovuto esser lasciato il ruolo di glassa su una torta completamente cotta (o troppo cotta?).

Per gli autonominati portatori di grandi attese e conquistatori di grande frustrazione, demagoghi e arringatori di tutti i tipi, insomma: personaggi che si autoproclamano e credono di essere forti uomini/donne la cui forza si misura sulla loro capacità di rompere piuttosto che di rispettare le regole del gioco imposte e amate dall’establishment, il loro comune nemico – quelle circostanze equivalgono a una giornata campale. Noi ( intendo così riferirmi alla gente disgustata dalle loro azioni e ancor più dal loro potenziale non ancora pienamente disvelato) siamo avvertiti, comunque, di essere scettici a proposito delle soluzioni rapide e istantanee dei problemi. A maggior ragione per quelle opzioni che affrontiamo in queste circostanze che sono state presentate come le scelte tra un diavolo e un mare di un blu profondo.

Poco prima di morire, il grande Umberto Eco tratteggiò nel suo brillante saggio “Costruire un nemico” la seguente triste conclusione dai suoi numerosi studi sulla materia: “ Avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità, ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo, il valore nostro”. In altre parole: abbiamo bisogno di un nemico per capire chi siamo e chi non siamo; sapere questo è indispensabile per la nostra auto-approvazione e autostima. E aggiunge: “Pertanto quando il nemico non ci sia, occorre costruirlo.”

Un codicillo:” I nemici sono differenti da noi e seguono usanze che non sono le nostre. L’epitome della differenza è il forestiero”.

Bene, il problema con un forestiero è che spesso egli è davvero straniero – non tanto nel senso che segue abitudini diverse, ma anche – e più significativamente – perché risiede al di là dell’ambito della nostra sovranità e così anche al di là della nostra possibilità di raggiungerlo e controllarlo. Non sta propriamente a noi fare di questo tipo di gente dei nemici e mettere in pratica la nostra inimicizia ( a meno che, naturalmente, essi non attraversino il confine con l’intenzione di stabilirsi in mezzo a noi). Se la sovranità consiste nella capacità decisionista di agire esclusivamente di propria volontà, allora più di un forestiero è inadatto a ricoprire il ruolo di un vero e proprio nemico secondo quanto scrive Eco.

In molti casi ( o forse in tutti ?) è meglio cercare , trovare o inventarsi un nemico più vicino a casa e soprattutto all’interno del recinto. Un nemico in vista e a portata è per molte ragioni più adatto (e soprattutto più facile da controllare e manipolare ) del soggetto raramente visto o udito appartenente a una totalità immaginaria. Già nel Medio Evo nel caso degli stati cristiani la funzione del nemico era svolta perfettamente dagli eretici, dai saraceni e dagli ebrei – tutti residenti all’interno dei reami delle dinastie e delle chiese dalle quali erano stati designati. Oggi nell’era che favorisce l’esclusione più dell’inclusione mentre la prima (ma non la seconda) sta diventando velocemente una misura di routine alla quale ricorrere quasi meccanicamente, le scelte interne assumono ancora più attrazione e facilità.

La scelta più popolare tra gli attuali uomini/donne forti o aspiranti tali quando si tratti di attribuire il ruolo di nemico (cioè, come enunciato da Eco, di realizzare il processo di auto-definizione, integrazione e auto-affermazione) è normalmente l’establishment – davvero una piena e vera meta-scelta, che determina tutte le altre scelte per associazione o per derivazione: un qualcosa di difficilmente impacchettabile (per la felicità di coloro che l’hanno scelto e dei loro aspiranti soldatini) come un nebbioso e indefinito raggruppamento di sorpassati che sono sopravvissuti al loro tempo e che con molto ritardo devono essere relegati alla storia e ricordati nei suoi annali come un aggregato di egoisti ipocriti e di falliti inetti. In termini semplici: establishment sta per un passato repulsivo, tagliato fuori e poco attraente e gli uomini/donne forti, pronti a mandarlo nella discarica alla quale appartiene, stanno per le guide di un nuovo inizio, dopo il quale essi che sono stati niente saranno tutto.

Traduzione di Riccardo Barbero

Zygmunt Bauman 16 novembre 2016 – pubblicato da Social Europe