Maurizio Scarpari: Confucio non basta più a Xi Jinping

Fonte : Inchiestaonline che ringraziamo

 

 

 

Da La Lettura 576, 11 dicembre 2022, pp. 12-13

Le recenti proteste scoppiate in numerose città cinesi sono l’espressione di un malessere profondo e diffuso causato non solo dalle rigide restrizioni imposte dalle politiche “zero Covid”, ma anche dalle crescenti difficoltà lavorative ed economiche in cui versa parte della popolazione, dall’aumento delle diseguaglianze, dall’asprezza della censura e della repressione di ogni forma di dissenso. Non devono perciò stupire le richieste di riforme, libertà, elezioni e democrazia, né le critiche e gli inviti a dimettersi apertamente rivolti ai responsabili del partito e indirizzate per la prima volta persino a Xi Jinping. Il contratto sociale alla base del successo economico cinese – prosperità e stabilità in cambio di minor libertà, obbedienza e disciplina – è andato gradualmente logorandosi. E rischia di incrinarsi pericolosamente. Vedremo se il malessere manifestato con grande coraggio in questi giorni si attenuerà o se invece si trasformerà in qualcosa di più strutturato e duraturo.

D’altro canto, va considerato che per riportare la Cina alla grandezza del passato Xi Jinping ritiene essenziale potenziare il ruolo dello stato mantenendo e perfezionando un assetto centralizzato, forte e autoritario. Il modello cui Xi fa riferimento non è nuovo, essendo stato concepito tra il III e il II secolo a.C., dopo la caduta della prima dinastia imperiale dei Qin, che nel 221 a.C. aveva unificato la Cina grazie all’applicazione, nel proprio regno e quindi nell’impero, delle teorie di strategia militare di Sunzi, l’autore de L’arte della guerra, e delle dottrine dei sostenitori dello stato autocratico, Shang Yang e Han Feizi (il Machiavelli cinese), noti in Occidente come “legisti” (fajia) per via dell’enfasi da loro attribuita alla legge. Questa etichetta è riduttiva, vista l’ampiezza, la profondità e la lucidità delle loro dottrine, scevre da ogni implicazione di ordine morale e ancor oggi perfettamente attualizzabili. L’enfasi sul ruolo della legge, del rigore e della disciplina era in netto contrasto con il preminente valore etico attribuito da Confucio e dai suoi seguaci alle virtù, ai riti, alle convenzioni sociali, alla cultura e all’educazione.

I legisti sostenevano un’idea di stato autocratico, organizzato in modo da aumentarne la ricchezza ed espanderne il territorio esercitando un controllo capillare e dispotico sulla popolazione, facendo leva su un apparato burocratico, militare e di polizia che avrebbe garantito la sicurezza nazionale e l’applicazione di un rigido sistema legislativo. L’impero Qin si era basato su questo modello e sarebbe dovuto durare, nelle previsioni di Qin Shihuangdi, Primo Augusto Imperatore dei Qin, “diecimila generazioni”. Ma dopo solo quattro anni dalla sua morte, avvenuta del 210 a.C., la dinastia collassò a causa dell’eccessiva pressione esercitata sulla popolazione da parte di un governo dittatoriale, per nulla incline a considerare prioritario il bene individuale rispetto all’interesse dello stato (e dei suoi governanti), ma anche per effetto delle lotte di palazzo per la successione. Era tempo che il mandato divino a governare, conferito dal Cielo, passasse di mano e fosse assegnato a persona degna di assumere la guida dell’impero. Un nuovo condottiero-eroe sarebbe apparso per fondare una sua dinastia con la legittimazione dell’autorità divina. L’avvicendamento dinastico così concepito garantirà la sopravvivenza dell’impero e del suo apparato di governo, con gli opportuni aggiustamenti e riadattamenti, per oltre due millenni.

La chiave del successo stava nel saper tradurre le vittorie militari in pratica di governo. Una cosa, infatti, era aver conquistato il potere manu militari, altra era saper governare con la necessaria attenzione ai bisogni del popolo. Nello Shiji (Memorie di uno storico), la monumentale storia universale redatta dagli storiografi di corte Sima Tan e suo figlio Sima Qian tra il II e il I secolo a.C., viene riportato il dialogo tra il filosofo confuciano Lu Jia (228-140 a.C.) e il fondatore della nuova dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.), il contadino-guerriero Liu Pang: «Lu Jia non cessava mai di parlare dei Classici confuciani all’imperatore Gaozu (nome templare di Liu Pang). Irritato, costui domandò: “Ho conquistato l’impero a cavallo; che bisogno ho dunque di questi Classici?” Lu Jia rispose: “È certamente a cavallo che si conquista l’impero, ma è forse a cavallo che lo si governa? I re Tang degli Shang e Wu dei Zhou (i fondatori delle due dinastie pre-imperiali) hanno indubbiamente conquistato il potere combattendo, ma è grazie all’armonia che l’hanno conservato. Saper utilizzare di volta in volta le armi e la cultura, in questo consiste l’arte di durare”». La tensione tra wen, l’aspetto civile della società fondato sulla capacità attrattiva della virtù e della cultura, e wu, l’aspetto militare basato sulla forza delle armi e sulla coercizione, ha segnato l’intera storia cinese e perdura ancor oggi.

Liu Pang e i suoi primi successori non riuscirono a trovare il giusto equilibrio che garantisse un assetto stabile e duraturo all’impero. Fu merito dell’imperatore Wu (r. 141-87 a.C.) aver compreso l’importanza di consolidare quanto costruito dal Primo Imperatore e dal suo primo ministro Li Si (280-208 a.C.), senza nessuna necessità di riaffermarne i principi, con le dottrine confuciane, rielaborate alla luce delle nuove necessità da uno dei maggiori eruditi dell’epoca, Dong Zhongshu (c. 179-104 a.C.). Venne creato così un sistema ibrido, che si rivelò estremamente funzionale. Grazie al conservatorismo confuciano il modello legista non venne mai abbandonato: se a parole si insisteva sulla priorità rappresentata dal benessere del popolo e sui valori di umanità, rettitudine, giustizia, armonia e pace, nella pratica era la ferrea disciplina e l’obbedienza a un sistema gerarchico codificato che garantiva disciplina e stabilità.

Così come dopo il Primo Imperatore trascorsero 69 anni prima che apparisse un successore in grado di portare a compimento il suo progetto, dalla morte di Mao Zedong, avvenuta nel 1976, ci sono voluti 46 anni perché un suo successore riuscisse a consolidare il nuovo assetto politico inaugurato nel lontano 1949. Il ritorno a Confucio, fortemente voluto dal “nuovo imperatore” fin dall’inizio del suo primo mandato, va nella direzione prevedibile in base ai corsi e ricorsi storici, così come il rilancio dell’ideologia marxista-leninista-maoista avvenuto nell’ultimo Congresso del partito è del tutto compatibile, mutatis mutandis, con la visione legista dello stato autocratico. Ancora una volta il modello tradizionale si è rigenerato sotto nuovi auspici. D’altro canto, se ha funzionato per oltre due millenni, perché abbandonarlo proprio ora che ha avuto inizio la “nuova era” di Xi Jinping?