Podcast di Diario Prevenzione 9 dicembre 2021.Puntata n° 92

 

 

a cura di Gino Rubini

In questa puntata parliamo di

– Il DL 146/21 per la parte che tratta salute e sicurezza nel lavoro sarà convertito in legge nei prossimi giorni. Come abbiamo scritto su Diario P., come hanno testimoniato molti operatori e personalità autorevoli sottoscrivendo l’appello per modificare il DL, questo intervento normativo rischia di produrre più problemi di quelli che si propone di risolvere. Il tentativo di ridurre, in nome di una presunta efficienza, la complessità dell’intervento di prevenzione ad una semplificata vigilanza antinfortunistica rischia di occultare l’enorme problema delle vecchie e nuove patologie derivanti dalle caratteristiche delle attuali modalità organizzative del lavoro.
– Individuazione dei punti deboli che hanno consentito il successo di questa operazione di regressione culturale e scientifica rispetto alle sfide  dei rischi emergenti dalle attuali modalità di organizzazione del lavoro.
– Diario Prevenzione sarà parte diligente nell’analisi del nuovo dispositivo di legge e svolgerà un ruolo di monitoraggio nelle fasi di attuazione della norma.

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Appello alle Autorità, ai Cittadini … e in particolare alle Cittadine e ai Cittadini che non intendono accedere alla vaccinazione anti-Covid

AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA

AL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI

AL PARLAMENTO ITALIANO

AI GRUPPI PARLAMENTARI

AI PARTITI POLITICI

AI MEZZI DI COMUNICAZIONE

ALLE CITTADINE E AI CITTADINI

Davanti al crescere e propagarsi in Italia e in Europa dei livelli di infezioni e ricoveri ospedalieri da Coronavirus ci sentiamo in dovere di appellarci alle Autorità dello Stato e, nel medesimo tempo, alle Cittadine e ai Cittadini che non intendono accedere alla vaccinazione anti-Covid richiamando alcuni dati di realtà che, vistosamente incalzanti, potrebbero riportare il nostro Paese nel pieno delle tragiche e note conseguenze socio-sanitarie.

Queste le osservazioni:

– le vaccinazioni coprono ormai oltre l’80% della popolazione italiana;

– il vaccino esenta dall’ammalarsi gravemente in misura di circa il 90% e del 98% dal ricovero in Reparti di terapia intensiva, dall’intubazione e dall’exitus;

– ad oggi il vaccino costituisce l’unica misura efficace contro infezione e malattia da Covid, insieme a distanziamenti personali, uso di mascherine certificate e di soluzioni alcoliche per le mani;

– il vaccino non è scevro da rischi, e questo vale per tutti i farmaci e le azioni diagnostico-terapeutiche, i quali sono infinitamente bassi rispetto ai gravi rischi che l’infezione virale comporta;

– il vaccino riduce gradualmente la propria efficacia dopo 6-7 mesi dalla sua completa inoculazione;

– la guarigione dall’infezione conferisce un’immunità, per efficacia e durata, simile a quella raggiunta dalla vaccinazione;

– gli oltre 7 milioni di Cittadini di non vaccinati in Italia favoriscono la diffusione del virus, la crescita di varianti e l’affollamento di Ospedali, rallentando i percorsi diagnostico-terapeutici per urgenze e malattie cronico-degenerative e neoplastiche;

– la mobilità fra Paesi europei favorisce la diffusione virale;

– la nostra Costituzione fonda il suo baricentro sul Bene comune pur prevedendo il dissenso e la libertà personale di rifiutare azioni diagnostico-terapeutiche;

– la vaccinazione rappresenta oggi l’attuazione del Bene comune, in assenza di una legge che la imponga.

Queste le proposte:

– fornire da subito a tutta la cittadinanza informazioni chiare e puntuali su rischi e vantaggi della vaccinazione;

– fornire da subito a tutta la cittadinanza informazioni chiare e puntuali sulla situazione pandemica con dati analitici su tassi d’infezione, ricoveri ospedalieri, mortalità e guarigioni in vaccinati e non vaccinati e per classi d’età;

– semplificare e accelerare a grandi passi su acquisizioni e somministrazioni delle terze dosi di vaccino;

– rilanciare le regole prudenziali di distanziamento personale, uso di mascherine certificate, anche all’aperto in luoghi di transito e affollati, disinfezione delle mani;

– controllare con meticolosità coloro che giungono sul suolo italiano;

– escludere i non vaccinati dall’ingresso in luoghi e mezzi di trasporto pubblici e privati, che costituiscano forme di aggregazione civile, e organizzare efficaci controlli in questo senso.

Grazie per l’attenzione e cordiali saluti

O.d.V.:      “SCIENZA MEDICINA ISTITUZIONI POLITICA SOCIETA’ “

sito: www.smips.org  e-mail: smips1@libero.it

Le prime firme :

Francesco Domenico Capizzi, presidente SMIPS, Bologna; Adriano Prosperi, Scuola Normale di Pisa; Vincenzo Balzani, Università di Bologna; Francesco Corcione, Università di Napoli; Giancarla Codrignani, docente, politica e giornalista, Bologna; Daniele Menozzi, Scuola Normale di Pisa; Marzia Faietti, già  direttrice degli Uffizi, ricercatrice Kunsthistorisches Institut, Firenze; Gabriella Galletti, segretaria SMIPS, Bologna; Giancarlo Gaeta, Università di Firenze; Francesca Isola, vice-presidente SMIPS, Bologna; Giuseppe Giliberti, Università di Urbino; Gianpaolo Bragagni, dirigente medico, Bologna; Marina Marini, Università di Bologna; Bruna Bocchini Camaiani, Università di Firenze; Francesco Di Matteo, giurista, Bologna; Giuseppe Cucchiara, chirurgo, Roma; Elda Guerra, storica, Bologna; Franco Favretti, chirurgo, Vicenza; Claudia Rizzi, dirigente medico, Bologna; Lucia Migliore, Università di Pisa; Adriana Destro, Università di Bologna; Gino Rubini, esperto di sicurezza sul lavoro, Bologna; Ugo Mazza, politico, Bologna; Giovanna Facilla, dirigente scolastica, Bologna; Renzo Tosi, Università di Bologna; Carlo Hanau, presidente del Tribunale della salute OdV, Bologna; Ildo Tumscitz, psicoterapeuta, Bologna; Mauro Pesce, Università di Bologna; Monica Bini, docente, Bologna; Marilia Sabatino, dirigente scolastica, Bologna; Maria Teresa Cacciari, docente,  Bologna; Davide Peretti Poggi, pittore, Bologna; Giuseppe Bartolotta, medico, Rimini; Luciano Fogli, dirigente medico, Bologna; Anne Drerup, docente, Bologna; Michele Del Gaudio, magistrato, Torre Annunziata; Graziella Di Cicca, orafa, Rimini; Amedeo Alonzo, chirurgo, Novara; Sergio Boschi, dirigente medico, Bologna; Giorgio Dragoni, Università di Bologna; Alessandra Ferretti, docente, Bologna; Daniele Capizzi, dirigente medico, Bologna; Paolo Rebaudengo, presidente di Olivettiana APS, Bologna; Vincenzo Frusci, dirigente medico, Melfi; Domenico B. Poddie, medico vaccinatore volontario, Ravenna; Enzo Lucisano, Università di Bologna; Margherita Venturi, Università di Bologna; Silvia Lolli, docente, Bologna;

Per aderire all’Appello inviate l’adesione a smips1@libero.it

Il decreto-legge 146 su salute e sicurezza sul lavoro è un passo falso.Sono necessarie modifiche al decreto. È necessario un intervento organico in materia

Lettera aperta al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Ministro della Salute, al Ministro del Lavoro, al Presidente della Conferenza delle Regioni.

 

Il decreto-legge 146 su salute e sicurezza sul lavoro è un passo falso.

Sono necessarie modifiche al decreto. È necessario un intervento organico in materia

 

Con il decreto-legge 21 ottobre 2021, n. 146 il Governo intende portare alcune significative modifiche del Decreto Legislativo n. 81/2008, cosiddetto testo unico sulla sicurezza del lavoro. Un decreto emesso sulla spinta di ‘fare qualcosa’ con urgenza – spinta ben comprensibile e condivisibile – per il quale è stato verosimilmente utilizzato il ‘materiale’ sul quale gli uffici del Ministero del Lavoro stavano da tempo lavorando (1) e che a nostro avviso non convince. Non si comprende il motivo per cui il Governo abbia deciso di duplicare i soggetti che intervengono nella vigilanza anziché realizzare condizioni per permettere ai servizi di prevenzione collettiva delle aziende sanitarie di essere maggiormente operativi in termini di personale e di presenza sul territorio nazionale. La duplicazione dei soggetti che intervengono non si traduce in migliori e maggiori interventi di vigilanza, anzi, è possibile ipotizzare conflitti di competenze e/o interventi duplicati.

 

LO STATO DELLE COSE

Colpisce particolarmente che i tipi di incidenti mortali sono ancora quelle ‘antichi’, da anni 50 del secolo scorso. La stragrande maggioranza di questi incidenti erano e sono evitabili con una corretta organizzazione del lavoro, con pratiche concrete di valutazione e gestione dei rischi, con una formazione professionale mirata ai rischi specifici connessi alla mansione. La vigilanza da parte dello Stato nelle sue articolazioni è importante, ma non potrà mai sostituire il compito delle imprese nella gestione dei rischi, con il contributo di controllo e partecipazione dei lavoratori. Non vi saranno mai abbastanza ispettori per vigilare che vi sia una corretta gestione della sicurezza a livello aziendale nella miriade d’imprese e microimprese. I determinanti che spesso hanno causato l’incidente riguardano la precarietà del rapporto di lavoro, la mancata e/o inadeguata formazione alla sicurezza dei lavoratori, la debolezza contrattuale dell’impresa che fornisce prestazioni in regime di subappalto verso la stazione appaltante, l’’informalità maligna’ che regola l’organizzazione approssimativa del lavoro nelle reti dei subappalti, la sostanziale impreparazione tecnica e professionale di talune imprese pur iscritte alla Camera di Commercio.

 

Lavori instabili e scarsa regolazione nell’occupazione sono più la regola che l’eccezione. La diffusione del cosiddetto subappalto ha esploso il ventaglio delle condizioni di lavoro rendendo sovente complicata la stessa rappresentazione della condizione lavorativa. La giungla dei contratti collettivi nazionali di lavoro esistenti in Italia – ben 985 registrati a giugno dal Cnel, l’80% in più nell’arco di un decennio – riflettono un mercato del lavoro frammentato e dove proliferano accordi pirata firmati da sindacati o associazioni di impresa sconosciuti.

 

A fronte di questa ‘realtà effettuale’ il decreto-legge 146/2021 rischia di essere un passo falso perché crea una condizione di non chiarezza sul ‘chi fa che cosa’ circa l’attività di vigilanza sul rispetto delle misure di sicurezza svolte dalle istituzioni di controllo, tende a disgiungere la stessa vigilanza dalla prevenzione. Appare sostanzialmente orientato alla mera repressione ed opera uno strappo nell’ordinamento giuridico vigente. Per la prima volta dall’entrata in vigore della riforma sanitaria (legge 833/1978) si mette in crisi quella che è stata una delle innovazioni più importanti della riforma stessa, che consisteva nell’assegnare le competenze relative alla salute dei lavoratori al Servizio sanitario nazionale come una delle funzioni comprese nella promozione della salute del cittadino. La riforma sanitaria produsse in questo settore effetti positivi legati al fatto che le misure di prevenzione utili alla tutela della salute dei lavoratori potevano essere non solo individuate dai servizi pubblici, ma successivamente anche imposte con poteri dispositivi e prescrittivi (2), realizzando quindi una continuità tra prevenzione, vigilanza e repressione (vi è infatti un forte legame tra legge 833/78 che stabilisce i principi e decreto legislativo 81/2008 e D.L.vo 758/94 che forniscono gli strumenti per applicare tali principi). Certi caratteri del provvedimento DL 146 nell’attuale stesura sembrano in contrasto anche con recenti dichiarazioni del Ministro del Lavoro (3).

 

Per quanto riguarda la vigilanza, ciò che occorreva ‘con urgenza’ – insieme al certamente necessario incremento del personale dell’Ispettorato finalizzato al controllo del lavoro nero e rapporti di lavoro irregolari – era, piuttosto, porre rimedio alla situazione di abbandono nella quale i governi e le regioni hanno tenuto gli organi delle aziende sanitarie incaricati della prevenzione e della vigilanza, lasciando che gli addetti in dieci anni diminuissero del 50%, senza provvedere alle necessarie nuove assunzioni. Depauperamento che ha inciso sulla qualità delle prestazioni dei servizi territoriali di prevenzioni, con la difficoltà ad affrontare la complessità delle condizioni di lavoro e temi come quelli della salute, del disagio psicosociale, dello stress correlato al lavoro, delle malattie da lavoro. Si avverte un rischio di scivolamento burocratico verso un ruolo pressoché esclusivo di «ispettore» e non anche di «tecnico della produzione di salute», con un’attenzione orientata più alla verifica del rispetto del dettato normativo e non anche alla ricerca condivisa di soluzioni ai problemi di salute e sicurezza. Ben sappiamo che l’efficacia della prevenzione non è completamente corrispondente a quella di “numero di unità locali controllate”. Le attività di igiene ambientale (misurazione diretta degli inquinanti) sono pressoché scomparse. I tagli alle iniziative di formazione e la carenza di figure specialistiche (chimici, ingegneri, biologi, psicologi del lavoro, …) caratterizza pressoché tutte le regioni. In alcune regioni, come la Toscana, si sono intraprese anche iniziative di riorganizzazione che prevedono una separazione gestionale e programmatica (non solo dell’opportuna valorizzazione della specificità professionale) delle diverse categorie di operatori della prevenzione, invece di garantire una piena integrazione interprofessionale.

 

Nell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) non esistono oggi le competenze specifiche per esercitare le nuove funzioni che richiedono elevata e specifica professionalità, requisiti presenti negli operatori dei servizi delle ASL (Tecnici della Prevenzione, Medici del lavoro, Ingegneri, Assistenti sanitari, Chimici, Biologi, Psicologi del Lavoro,…) acquisiti attraverso specifica formazione universitaria. Nei Servizi delle ASL, inoltre, permane comunque un patrimonio scientifico e di esperienze gestionali, arricchitosi nel corso di decenni di attività, volto alla soluzione dei problemi e non solo alla ricerca dei reati. Si è adottato un provvedimento ‘con urgenza’ i cui effetti non si vedranno, ad essere ottimisti, che tra qualche anno: giusto il tempo per bandire e concludere i concorsi per le assunzioni del personale all’ispettorato (oggi drammaticamente insufficiente anche solo per i controlli sul lavoro nero o sulle violazioni del rapporto di lavoro), avviare i neoassunti alla necessaria formazione in materia di vigilanza e far acquisire loro quel minimo bagaglio di esperienza che garantisca qualche risultato sul fronte della sicurezza per i lavoratori.

 

Il ‘doppio binario’ della vigilanza crea confusione. Con l’individuazione di due organi, entrambi deputati alla vigilanza su salute e sicurezza sulla totalità dei comparti, si è anche disattesa una delle indicazioni del Senior Labour Inspectors Committee (SLIC), rappresentate nel Report on The Evaluation of The Italian Labour Inspection System (4). In un recente contributo sulla necessità di incremento numerico delle ispezioni, ma effettuate in modo più mirato, si discute, anche con confronti internazionali, l’affermazione che “è tempo di ripensare all’idea di un unico Ispettorato nazionale del lavoro, il cui fallimento era stato preannunciato” (5).

 

LE COSE NECESSARIE

La necessità di avere un coordinamento e un indirizzo nazionale del tema salute e sicurezza sul lavoro, di un controllo della coerenza tra principi e modelli organizzativi regionali, obiettivamente da molto tempo carente in sanità pubblica (6), è indubbia (ad es., risulta che dal 2018 non viene prodotta una relazione organica sull’attività svolta da questi servizi nelle diverse regioni, che, pure, hanno operato dando un contributo importante anche nel fronteggiare la pandemia).

È chiaro, inoltre, che per incidere sul fenomeno degli incidenti mortali occorre una iniziativa su diversi piani, dalla regolarità del lavoro, alle regole sugli appalti, ecc. La vigilanza in materia di sicurezza degli Enti preposti è solo uno degli strumenti, importante, ma non sufficiente.

 

Di seguito avanziamo alcune indicazioni, che potrebbero essere attivate anche a legislazione corrente, frutto di tante esperienze e ricerche, ma che finora non hanno trovato corrispondenza in decisioni politico programmatiche.

 

  • Posto che è quanto mai opportuno rafforzare il numero degli ispettori dell’INL (come effettivamente propone il decreto 146) per rafforzare la vigilanza sui rapporti di lavoro, la cui irregolarità è concausa degli infortuni e delle malattie professionali, è indispensabile rafforzare gli organici dei Servizi di Prevenzione Collettiva delle ASL stanziando apposite risorse nella Manovra di bilancio attualmente in discussione in Parlamento, controllandone (da parte del Ministero della Salute) l’effettivo utilizzo da parte delle Regioni e delle ASL (gli addetti ai Servizi di Prevenzione delle ASL sono passati da 5.060 operatori nel 2008 a 3.246 nel 2018). Necessario, inoltre, definire degli standard di personale per i Servizi delle ASL in modo da garantire omogeneità delle strutture territoriali e assicurare loro la formazione necessaria, alla luce delle importanti modifiche del tessuto produttivo.
  • È indispensabile rafforzare il ruolo del Comitato ex art. 5 D.Lgs. 81/08 dotandolo di poteri decisionali e di adeguate risorse. Nella nota una proposta di modifica dello stesso articolo (7). Il Comitato deve relazionare periodicamente e pubblicamente l’efficienza e l’efficacia dei programmi di prevenzione attuati in relazione al Piano Nazionale della Prevenzione (PNP) e ai Livelli essenziali di assistenza (LEA). Raccolta e diffusione linee guida, buone prassi e iniziative di prevenzione meritevoli di estensione ed incremento degli interventi di prevenzione nelle piccole imprese, cooperative, lavoratori autonomi, sviluppando attività di assistenza. Dare nuovo impulso (in attuazione del Piano Naz Prevenzione) alla prevenzione delle malattie da lavoro, in particolar modo per quelle di tipo cronico-degenerative, con interventi di igiene industriale mirati alla riduzione dell’esposizione ad agenti chimici, cancerogeni e mutageni. A questo stesso livello si deve effettivamente attuare un efficace coordinamento delle strategie e attività tra INL e Regioni/ASL. Analoghe considerazioni possono essere fatte per il livello regionale e provinciale, assicurando la collaborazione delle forze sociali.
  • all’interno del Ministero della Salute devono essere rafforzate/costituite le funzioni relative al governo della prevenzione nei luoghi di lavoro, con compiti di indirizzo e verifica delle attività svolte dalle varie strutture e delle risorse impegnate.
  • un sistema di registrazione nazionale di infortuni, malattie da lavoro e rischi indipendente da finalità assicurative, che costituisca strumento per l’analisi del fenomeno e la programmazione e fonte ufficiale di comunicazione periodica dei dati da parte del Ministero della Salute e degli Assessorati Regionali (anche questo punto è effettivamente trattato anche nel DL 146).
  • Rafforzamento della rete degli RLS

 

Queste proposte ed altri suggerimenti erano già stati indicati nella nota della Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione inviata il 27 maggio 2021 al Presidente del Consiglio, ai Ministri della Salute e del Lavoro e al Presidente della Conferenza delle Regioni.

 

Un intervento legislativo più consistente e organico di aggiornamento del d.lgs. n. 81/2008 (mancano anche circa 20 provvedimenti di attuazione del DLgs 81!) è comunque necessario. Riportiamo alcuni punti che reiteriamo fondamentali:

  • adozione di un sistema di qualificazione delle imprese (andando oltre il mero modello della patente a punti, non applicabile a tutti i settori come per l’edilizia e che interviene a posteriori dopo infortunio e/o sanzione), considerato l’aumento esponenziale del lavoro in appalto e del numero rilevante di infortuni che si verificano nello svolgimento delle mansioni svolte nell’ambito di tali contratti.
  • riforma della formazione. Non esaurendosi solo sulla revisione dei programmi (almeno riferiti alla figura dell’RSPP/ASPP, ruolo di necessaria trasformazione) e sul sistema di accreditamento degli enti erogatori sul territorio, ma in particolare sull’introduzione dell’obbligo nei riguardi dei datori di lavoro e nei programmi scolastici, fin dai primi anni dell’istruzione
  • un rafforzamento e qualificazione delle figure del Responsabile Sevizio di Prevenzione e Protezione (RSPP) e del medico competente, nella loro autonomia professionale e nel loro rapporto con le strutture pubbliche.
  • un potenziamento delle funzioni svolte dell’ex Istituto Superiore di Prevenzione e Sicurezza nei Luoghi di Lavoro (ISPESL), attualmente accorpate all’INAIL, con l’ipotesi di un loro inserimento nell’Istituto Superiore di Sanità (ISS).

 

MODIFICARE IL 146

Parallelamente a queste indicazioni di fondo, la fase di conversione in legge del 146 offre la possibilità di poter intervenire sul testo. A questo riguardo concordiamo sostanzialmente con le osservazioni espresse dal Coordinamento Tecnico delle Regioni – Area Prevenzione e Sanità Pubblica (Parere sullo schema di disegno di legge di conversione del decreto-legge 21 ottobre 2021, n.146. Proposta di emendamenti). In particolare, riteniamo corretta e utile la proposta di abrogazione della duplicazione della competenza ispettiva. L’ottimizzazione dell’azione di vigilanza si può realizzare con il rispetto delle competenze concorrenti di cui all’articolo 117 della Costituzione, nonché di quanto disposto dalla legge 833/78. Nella stessa nota del Coordinamento tecnico delle Regioni, infatti si osserva che “L’azione di vigilanza avrebbe potuto ricevere ulteriore (e facile) impulso rafforzando le ASL e non già affiancando l’INL, Ente che, considerati i profili professionali del personale che lo sostanzia (legali, amministrativi), possiede abilità per i soli controlli formali (e non sostanziali) che si tradurranno in un mero intervento repressivo a danno (anche economico) alle imprese, peraltro in una fase in cui – superata auspicabilmente l’emergenza pandemica – l’impegno del Paese è supportare la ripresa”. E, ancora: “la presenza di un secondo organo di vigilanza costituisce essenzialmente elemento di forte criticità dell’azione di coordinamento che il nuovo art. 13 comma 4 DLgs 81/08, per il solo livello provinciale, pone in capo sia alle ASL che all’Ispettorato (“A livello provinciale, nell’ambito della programmazione regionale realizzata ai sensi dell’articolo 7, le Aziende Sanitarie Locali e l’Ispettorato nazionale del lavoro promuove e coordina sul piano operativo l’attività di vigilanza esercitata da tutti gli organi di cui al presente articolo. …” ).

 

CONCLUSIONI

Il proposto DL 146 manca di una più approfondita valutazione della causalità sociali del fenomeno delle malattie da lavoro e degli infortuni. Risulta non considerare adeguatamente alcuni elementi strategici, di ordine culturale e politico, della legislazione fondamentale in materia, nonché di recenti raccomandazioni di derivazione europea. Nella NADEF (Nota di aggiornamento al doc di economia e finanza 2021) sono previsti una serie di impegni e riforme specifiche tra le quali quello di un ‘DDL per l’aggiornamento e il riordino della disciplina in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro’. Per le considerazioni svolte in questa nota lo stesso decreto non può certo assolvere questo impegno.

 

Sul tema salute e sicurezza del lavoro si giocano i caratteri fondanti della dignità delle persone che lavorano e, più in generale, del grado di incivilimento di un paese. I soggetti collettivi devono riaprire una discussione, un confronto con i lavoratori, i servizi pubblici, le istituzioni, per definire una nuova politica, un complesso ‘organico’ di provvedimenti, per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro. Alla base ci deve essere piena consapevolezza dalla ‘realtà effettuale’ dell’Italia, caratterizzata così fortemente dalla prevalenza della microimpresa, dalla massiccia estensione del subappalto e del lavoro precario e nero, che rendono più impegnativa la costruzione di veri sistemi aziendali di gestione del rischio. Questo rende particolarmente forte il bisogno di ‘assistenza’ e ‘formazione’ e la necessità di un rinnovato controllo delle insopportabili inappropriatezze mercatiste delle consulenze private in questo campo, insieme, naturalmente, alla irrinunciabile deterrenza della vigilanza e repressione dei reati. I provvedimenti parziali e contingenti dovrebbero essere coerenti con questa visione.

 

Susanna Cantoni, già direttore Dipartimento Prevenzione ATS Città Metropolitana Milano

Beniamino Deidda, già Procuratore Generale Firenze, componente comitato direttivo Scuola Superiore della Magistratura

Mauro Valiani, già direttore Dipartimento Prevenzione ASL Empoli

Massimo Bartalini, Tecnico della Prevenzione Siena

Stefano Fusi, Tecnico della Prevenzione Firenze

Giuseppe Petrioli, già direttore Dipartimento Prevenzione ASL Firenze e componente Commissione Interpelli

Gino Rubini, editor blog Diario della Prevenzione, già sindacalista CGIL

Carla Poli, Tecnico della Prevenzione ASL Toscanacentro

Stefano Silvestri, igienista del lavoro, collaboratore Università del Piemonte orientale

Fulvio Cavariani, già direttore Centro Regionale Amianto Regione Lazio

Eugenio Ariano, già Direttore Dipartimento Prevenzione ASL Lodi

Lalla Bodini, medico del lavoro Milano

Ettore Brunelli, medico del lavoro Brescia

Daniele Gamberale, già direttore Dipartimento Prevenzione ASL Roma 1

Bruno Pesenti, già Direttore Dipartimento Prevenzione ATS Bergamo

Giuliano Tagliavento, già Direttore Direzione Tecnica Prevenzione Collettiva ASUR Marche

Dusca Bartoli, medico del lavoro Empoli

Giuliano Angotzi, già Direttore Dipartimento Prevenzione ASL Viareggio

Teresa Vetrugno Medico del lavoro ex RSPP in Azienda Sanitaria

Rodolfo Amati Medico del Lavoro già Responsabile Spisll Ausl 9 Grosseto

Danilo Zuccherelli già Direttore del Dipartimento di Prevenzione USL 6 Livorno

Francesco Loi già Responsabile Dipartimento di Prevenzione ex Azienda USL 7 Siena

Andrea Innocenti già Responsabile PISSL USL Toscana centro (Pistoia)

Lucia Bramanti Responsabile Servizio di prevenzione igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro AUSL Toscana nord-ovest zona Versilia

Raffaele Faillace già Responsabile per la regione Toscana dei servizi di prevenzione e direttore generale di varie ASL

Augusto Quercia Direttore Dipartimento di prevenzione ASL VT e Direttore UOC PRESAL ASL VT

Sandro Celli Dirigente Professioni Sanitarie della Prevenzione

Tiziana Vai medico del lavoro UOC PSAL ATS Milano città Metropolitana

Donatella Talini medico del lavoro presso Azienda USL Toscana Nordovest

Giovanni Pianosi medico del lavoro

Stefania Villarini Responsabile U.O.S. PRESAL Distretto A AUSL Dott.ssa Stefania

Leopoldo Magelli , medico del lavoro, già responsabile SPSAL di Bologna e primo presidente SNOP

Fulvio Ferri medico del Lavoro Reggio Emilia

Graziano Maranelli Trento

 

 

Scarica il documento integrale da cui è tratto l’articolo:

“ Il decreto-legge 146 su salute e sicurezza sul lavoro è un passo falso”, lettera aperta al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Ministro della Salute, al Ministro del Lavoro, al Presidente della Conferenza delle Regioni (formato PDF, 235 kB).

 

Scarica la normativa di riferimento:

Decreto-Legge 21 ottobre 2021, n. 146 – Misure urgenti in materia economica e fiscale, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili.

 

Loris Campetti: La salute nel sindacato

 

Fonte: Inchiestaonline.it

Diffondiamo da il manifesto in rete del 29 ottobre

Serve ancora il sindacato, nel secondo decennio del terzo millennio dopo Cristo? Seconda domanda: chi rappresenta il sindacato nella stagione della globalizzazione neoliberista, quali figure sociali tutela e quali sono invece abbandonate allo strapotere del turbocapitalismo? Terza domanda: cosa è diventato il sindacato? Sono tre domande difficili, le risposte non possono essere semplici né individuali. Quel che posso tentare di fare è di inquadrarle nel contesto dato, qui e ora ma con un occhio al futuro analizzando le linee di tendenza.

 

La miseria della politica

La prima cosa che mi viene da dire è che non è mai stato così difficile come oggi fare sindacato e, al tempo stesso, non è mai stato così necessario. Indispensabile, aggiungerei. La ragione prima della difficoltà rimanda alla politica, alla sua mutazione nella chiave dell’autoreferenzialità, allo sfilacciamento e allo snaturamento della democrazia e allo svuotamento della partecipazione. Non solo in Italia, certo, ma sulle dinamiche in atto nostro paese val la pena soffermarsi. Bastava dare un’occhiata alla grande manifestazione di Firenze organizzata dal collettivo e dalle Rsu Fiom della Gkn per rendersi conto dell’abisso che separa la lotta operaia, le condizioni materiali dei lavoratori, dalla Grande Politica. Nelle interviste realizzate per un libro-inchiesta – Ma come fanno gli operai – mi aveva colpito il racconto di un giovane delegato di una fabbrica aerospaziale del Varesotto: “Vedi, lì dai tempi dei tempi è appesa una gigantografia di Enrico Berlinguer. Per i vecchi operai la sinistra incarnata dal segretario del Pci rappresentava un riferimento forte, identitario. Per i giovani operai, invece, gli eredi principali del Pci sono quelli che più scientificamente hanno abbattuto i diritti dei lavoratori, a partire dall’attacco allo Statuto dei lavoratori”. La rabbia può addirittura spingere gli operai convintamente di sinistra a votare per dispetto un partito con cui non si ha nulla a che fare pur di punire chi è accusato di essere passato dall’altra parte, dalla parte dei padroni. Un operaio della Fiat diceva parole condivise da tanti suoi compagni in tuta blu: “Ho votato per Appendino sindaca di Torino anche se non mi aspetto nulla dai grillini, perché il Pd ripresentava Piero Fassino, quello che nello scontro tra la Fiom e Marchionne si era schierato con Marchionne. Non ho votato come sarebbe stato normale per Giorgio Airaudo, ottimo compagno, perché il modo più sicuro per far perdere Fassino era votare per il M5S”. I lavoratori sono ormai privi di una rappresentanza politica forte, per essere più precisi non hanno sponde nella politica (so bene che a sinistra del Pd ci sono forze come il Prc che si battono al fianco dei lavoratori, ma se vuoi trovarle devi andare nelle manifestazioni di lotta, non in Parlamento e nelle istituzioni. Ma ciò richiederebbe una riflessione a parte che esula da questo articolo). E’ stupido e ipocrita meravigliarsi a ogni elezione per la fuga fuori dalla sinistra del voto operaio. I lavoratori sono soli, il centrosinistra cerca consensi e voti nei ceti alti, nei centri storici e nei quartieri bene delle città, nei cda delle banche più che tra i bancari, in quella che una volta si chiamava borghesia. Fare sindacato senza avere sponde nella politica e nelle istituzioni, con il Pd che è il più convinto sostenitore della dittatura del mercato, è davvero dura.

 

C’era una volta l’internazionalismo

Di un altro elemento di difficoltà a fare sindacato scrivo solo il titolo, è il passaggio dall’internazionalismo proletario all’individualismo proprietario: la fine del bipolarismo con l’inevitabile e tardiva implosione del socialismo reale ha “semplificato” lo scenario mondiale e abbattuto icone e riferimenti. Ciò ha contribuito, in assenza di un progetto politico alternativo, cioè di un’altra idea di sinistra e del mondo, ad accelerare lo scatenarsi della guerra tra poveri, tra lavoratori del nord e quelli del sud e dell’est, tra uno stabilimento e l’altro. Insomma, la crisi della solidarietà è cresciuta di pari passo con le diseguaglianze. Consiglio a tutti una gita a Monfalcone, davanti ai cancelli della Fincantieri, per farsene un’idea. Il sindacato, nato con l’idea che i proletari di tutto il mondo dovessero unirsi, oggi più che in passato avrebbe bisogno come il pane di un’ottica internazionale, globale se preferite, che invece manca da tempo. Senza una strategia e un coordinamento globali si può far poco per ridimensionare la prepotenza delle multinazionali, si può salvare per un po’ una fabbrica magari a discapito di un’altra collocata in un’altra città o in un altro continente. Ma così non si fa molta strada.

A parità di prestazione parità di trattamento

Privati di ogni rappresentanza (e sponda) politica, i lavoratori rischiano di trovarsi soli di fronte all’arroganza del potere. Là dove non esiste neppure una rappresentanza sindacale, il passo è breve per arrivare alla cancellazione dell’insegnamento di Giuseppe Di Vittorio: mai più con il cappello in mano davanti al padrone. Allo svaporarsi della centralità del lavoro in sede politica e, ahimè, nell’immaginario collettivo, si accompagna la massiccia rivoluzione portata dal capitalismo nell’organizzazione del lavoro, nelle relazioni sociali, nella composizione della classe lavoratrice. La crescita esponenziale della logistica agevolata dalla pandemia, inoltre, sta scardinando il bagaglio dei diritti conquistati nel secolo breve, personalizzando il rapporto padrone-dipendente, e a occuparsi della mediazione non è certo il sindacato bensì il caporale. E non solo nella logistica ma anche nell’agricoltura, nell’edilizia, fino al cuore della produzione industriale dove le scelte politiche e dunque la legislazione hanno accompagnato e favorito la frammentazione del ciclo moltiplicando le diseguaglianze e scatenando il dumping sociale. Il vecchio adagio ‘a parità di prestazione parità di salario, orario, diritti’ è stato travolto dal sistema di appalti e subappalti e dalla possibilità concessa alle imprese di scegliere la forma contrattuale più conveniente grazie a un menù disponibile di decine di forme diverse. Spesso il sindacato è in grado di rappresentare e tutelare solo la parte alta del lavoro nella piramide in cui esso è stratificato. Ma fino a quando riuscirà a rappresentare, facciamo un esempio, i dipendenti diretti della Fincantieri? Cioè, fino a quando i lavoratori della Fincantieri riusciranno a difendere i propri diritti, sotto la grandine del dumping prodotto dal sistema degli appalti? Credo che non ci sia futuro, persino per un sindacato di classe come è ancora la Fiom, senza la capacità di andare a mettere mani e cuore nelle fasce più deboli del mondo lavoro, riconquistando proprio quell’idea che a parità di prestazione deve corrispondere parità di trattamento.

La solitudine del nuovo proletariato

La pandemia ha ulteriormente spinto verso un superamento dei corpi intermedi, detto in parole povere sta ulteriormente indebolendo il sindacato. Essendo mutato nel profondo l’impianto della produzione, della distribuzione e dei consumi anche il sistema legislativo andrebbe riscritto, e persino lo Statuto dei lavoratori – quel che ne resta dopo i colpi d’accetta degli ultimi anni – andrebbe aggiornato per includere e tutelare le nuove figure sociali, il nuovo proletariato. I sindacati confederali sono in grave ritardo nella conoscenza dei nuovi lavori; soltanto negli ultimi mesi la Cgil, che ha impiegato un paio d’anni per capire che quello dei rider è un lavoro a tutti gli effetti dipendente, ha messo a fuoco i ciclofattorini che solo grazie alla loro soggettività e le loro battaglie in bicicletta condotte in solitaria sono riusciti a imporsi all’attenzione di tutti. Nella logistica le prime lotte sono state portate avanti con il fragile appoggio dei sindacati di base e i confederali a fatica stanno cercando di mettere qualche radice tra i lavoratori. Quando un camionista travolse un facchino ai cancelli durante uno sciopero si scoprì che i camionisti sono (debolmente) rappresentati dalla Cgil e i facchini (debolmente) dai sindacati di base. Se si perde di vista il nemico vero si finisce in una guerra dei penultimi contro gli ultimi.

 

Il covid al lavoro

Tra le conseguenze più pesanti del covid sul lavoro c’è il suo uso ricattatorio da parte del sistema delle imprese: con la perdita di centinaia di migliaia di posti, tentano di imporre il peggioramento delle condizioni lavorative con annessa riduzione di salario, diritti, sicurezza e dunque dignità. Se vuoi lavorare, è la parola d’ordine, accetta le mie condizioni perché la ripresa in una competizione internazionale senza esclusione di colpi impone i suoi diktat e c’è la fila di persone disposte a prendere il tuo posto. Del milione e duecentomila posti cancellati nel primo anno di pandemia se ne sono recuperati cinquecentomila nel primo semestre del 2021, ma per la quasi totalità si tratta di lavori variamente precari, a termine e in somministrazione cioè in affitto. E parlano con altrettanta chiarezza i numeri dei morti sul lavoro che continuano a crescere paurosamente (più di mille nei primi 8 mesi dell’anno a cui si aggiungono quasi 200 tra medici e infermieri vittime del covid).

 

L’inadeguatezza del sindacato

Questo è il contesto, reso più aspro dalla debacle del sistema dei partiti che hanno commissariato a un banchiere un’Italia già cloroformizzata dal coronavirus. I sindacati sono usciti indeboliti dalla pandemia, dopo più di un anno di riunioni e assemblee da remoto: il distanziamento è un ostacolo al rapporto tra organizzazioni sindacali e lavoratori, cioè alla pratica dei valori fondanti dell’azione collettiva e della stessa democrazia. Sic stantibus rebus, non basta dire che il sindacato è fondamentale, che è uno dei pochi strumenti di autodifesa dei lavoratori. Bisogna chiedersi se il sindacato dato è all’altezza della sfida che ha di fronte. Detto che più che di sindacato bisogna parlare di sindacati, è difficile negare l’inadeguatezza delle organizzazioni dei lavoratori. Per tutte le ragioni oggettive sin qui enunciate o solo accennate (per prima la mancanza di una dimensione internazionale), ma anche per cause soggettive. Nel tempo i sindacati sono diventati una costola dello stato e, nei casi peggiori, dei governi. L’autonomia sindacale si è indebolita ed è cresciuta la burocratizzazione, quasi un’abitudine a vivere di rendita, trasformandosi da organizzazioni di lotta in strutture di servizio, caf e via dicendo. Era proprio obbligatorio tenere chiuse per un anno e mezzo le Camere del lavoro? Anche dentro la Cgil – taccio su Cisl e Uil, ma anche sul cosiddetto sindacato europeo, la Ces, per evitare querele – il corpaccione dei funzionari vede ogni cambiamento come un attentato allo status – e allo stipendio – acquisito. Anche così si spiegano le difficoltà incontrate da Maurizio Landini nel suo tentativo di rigenerazione o rifondazione che dir si voglia dell’organizzazione, riportandola in strada (il sindacato di strada è un buon esempio laddove viene sperimentato) e dentro i luoghi di lavoro. Ha sostanzialmente retto, invece, la struttura dei delegati, le Rsu che hanno, spesso in solitudine, tenuto vivo e costante il rapporto con i lavoratori.

La resistenza e il cambiamento

Che il sindacato serva lo dimostra l’esempio della Gkn: la Fiom ha lasciato liberi i suoi quadri di costituire un collettivo che insieme alle Rsu sta gestendo una difficile vertenza e ha intentato causa all’azienda per antisindacalità, vincendola. Certo, per vizi di forma, il modo (del licenziamento via mail) ancor m’offende. Ha consentito ai lavoratori di tirare una boccata d’ossigeno ma nella sostanza il problema resta immutato per l’acquiescenza della politica alle imprese e alla pratica delle multinazionali di chiudere stabilimenti per delocalizzare la produzione là dove di diritti ce ne sono ancora meno. Almeno, la Fiom si conferma un sindacato di resistenza, ne fa fede l’esperienza straordinaria degli operai napoletani della Whirlpool; non che non abbia un progetto sociale in testa, ma questo si impantana nelle stanze della politica e fatica ad avviare un percorso unitario con le altre categorie della sua stessa confederazione. Il nobile tentativo di costruire una coalizione con movimenti e forze sociali avviato qualche anno fa dall’unico sindacato che già a inizio secolo aveva scelto di stare con il movimento cosiddetto no-global, si è presto arenato, un po’ per la debolezza e la frammentazione degli interlocutori, un po’ per la diffidenza della Cgil e un po’ perché non basta mettere insieme le teste pensanti, i leader, per trascinare con sé tutto il resto. Le alleanze non possono che costruirsi dal basso. Come ai tempi della Flm e dei delegati di gruppo omogeneo, verrebbe da dire.

E forse proprio dal basso bisognerà ripartire per costruire un sindacato adeguato alle nuove sfide.

Loris Campetti è nato a Macerata nel 1948. Laureato in chimica, già nella seconda metà degli anni Settanta è passato al giornalismo. Al “manifesto” fino al 2012 ha ricoperto tutti i ruoli e si è occupato prevalentemente di lavoro e lotte operaie. Ha scritto molti libri di inchiesta e nel 2020 è stato pubblicato da Manni il suo primo romanzo, “L’arsenale di Svolte di Fiungo”.

Qatar, 12 mesi ai Mondiali di calcio. Ultimo anno senza progressi sui diritti dei lavoratori migranti

(Foto di Thameur Belghith, Wikimedia Commons)

 

Fonte : Pressenza.com 

 

Manca un anno all’inizio dei Mondiali di calcio: il tempo perché il Qatar mantenga gli impegni di abolire il sistema denominato “kafala” e di aumentare la protezione dei diritti dei lavoratori migranti sta scadendo.

Lo ha dichiarato oggi Amnesty International nel suo “Reality check 2021”, una nuova analisi della condizione del sistema del lavoro in Qatar. Dalla ricerca emerge come nell’ultimo anno non vi siano stati progressi e alcune vecchie prassi siano tornate in auge, con la riemersione di alcuni dei peggiori aspetti del sistema del “kafala” e la neutralizzazione delle recenti riforme.

Nonostante le riforme legislative adottate dal 2017, la realtà quotidiana per molti lavoratori migranti resta drammatica. Mentre, con l’approssimarsi dell’inizio dei Mondiali la situazione dei diritti umani in Qatar attira sempre maggiore attenzione, Amnesty International chiede alle autorità locali di prendere misure urgenti per ridare vita alle riforme prima che sia troppo tardi.

“Le lancette dell’orologio continuano ad andare avanti, ma non è ancora troppo tardi per tradurre le promesse in azioni concrete. Le autorità del Qatar devono attuare interamente il loro programma di riforme. Se non lo faranno, ogni progresso fatto finora sarà stato vano”, ha dichiarato Mark Dummett, direttore del programma Temi globali di Amnesty International. “L’atteggiamento compiacente delle autorità del Qatar sta lasciando migliaia di lavoratori migranti alla mercé dello sfruttamento da parte dei loro datori di lavoro: molti non sono in grado di cambiare impiego e rischiano di essere privati del salario. Hanno scarse possibilità di ottenere rimedi, risarcimenti e giustizia. E dopo i Mondiali, il futuro di chi resterà in Qatar sarà ancora più incerto”, ha aggiunto Dummett.

Nell’agosto 2020, il Qatar aveva adottato due leggi per porre termine ai limiti posti ai lavoratori migranti di lasciare il paese e cambiare impiego senza il permesso del datore di lavoro. La loro completa applicazione avrebbe colpito al cuore il sistema del “kafala”, che invece continua a vincolare i lavoratori ai datori di lavoro.

Pur non prevedendo ancora il diritto dei lavoratori di aderire a sindacati, il processo di riforme era iniziato già nel 2017, attraverso limitazioni all’orario di servizio per il lavoro domestico, la costituzione di tribunali del lavoro per favorire l’accesso alla giustizia, l’istituzione di un fondo per risarcire i salari non pagati, l’introduzione del salario minimo e la ratifica di due importanti trattati internazionali. La mancata attuazione delle riforme ha fatto sì che lo sfruttamento continuasse.

Sebbene il Qatar sulla carta abbia cancellato l’obbligo, per la maggior parte dei lavoratori migranti, di chiedere e ottenere il permesso di uscire dal paese e di cambiare lavoro attraverso un certificato di nulla-osta da parte dei datori di lavoro, questi ultimi riescono ancora a bloccare i trasferimenti dei lavoratori e a tenerli sotto controllo, chiedendo ad esempio somme esorbitanti – in alcuni casi, cinque volte superiori al salario mensile – per concedere il nulla-osta, che dunque di fatto, pur essendo stato abolito per legge, rimane in vigore.

Le organizzazioni che difendono i diritti dei lavoratori migranti e le ambasciate degli Stati d’origine in Qatar hanno rilevato che se non si è in possesso di qualche documento scritto da parte del datore di lavoro, le possibilità di cambiare lavoro diminuiscono. Questa situazione ha dato luogo a una sorta di commercio dei nulla-osta assai lucrativo per i datori di lavoro privi di scrupoli.

Tra le altre pratiche illegali che rendono difficile cambiare impiego si segnalano il trattenimento dei salari e dei bonus, l’annullamento del permesso di soggiorno e le denunce di “latitanza”. Nella sua analisi, Amnesty International ha anche rilevato che i ritardati o mancati pagamenti dei salari e dei bonus contrattuali rimangono una delle principali forme di sfruttamento subite dai lavoratori migranti in Qatar. A questa si aggiungono le difficoltà di accedere alla giustizia e il divieto di organizzarsi in sindacato per difendere i propri diritti.

Nell’agosto 2021 Amnesty International aveva denunciato la mancanza di indagini da parte delle autorità del Qatar sulle decine di migliaia di morti di lavoratori migranti, nonostante fossero emerse prove della relazione tra questi decessi e la mancanza di sicurezza sul lavoro. Nonostante l’introduzione di alcune misure di protezione, restano ancora grandi situazioni di rischio: ad esempio, non è previsto un periodo di riposo obbligatorio proporzionale alle condizioni climatiche o al tipo di lavoro.

“Il Qatar è uno degli stati più ricchi al mondo, ma la sua economia dipende da due milioni di lavoratori migranti. Ognuno di loro ha il diritto di essere trattato equamente e di ottenere giustizia e risarcimenti”, ha commentato Dummett. “Il Qatar potrebbe farci assistere a un torneo che tutti potremmo ricordare, se inviasse segnali chiari contro lo sfruttamento, se punisse i datori di lavoro che violano le leggi e se proteggesse i diritti dei lavoratori. Ma così ancora non è”, ha concluso Dummett.

Amnesty International si è rivolta anche alla Fifa, organizzatrice dei Mondiali di calcio del 2022, affinché adempia alle sue responsabilità di identificare, prevenire, mitigare e porre rimedio a rischi per i diritti umani collegati all’evento sportivo. Tra questi rischi vi sono quelli per i lavoratori dei settori dell’ospitalità e dei trasporti, in forte espansione in vista dell’inizio dei Mondiali. La Fifa deve chiedere in forma privata e pubblica al governo del Qatar di attuare il suo programma di riforme nel sistema del lavoro prima del calcio d’inizio dei Mondiali.

 

L’UNIVERSITÀ: UNA COMUNITÀ APERTA, CRITICA, ANTIFASCISTA

 

 

di Tomaso Montanari

Testo integrale della prolusione del Magnifico Rettore dell’Università per Stranieri di Pisa Prof. Tomaso Montanari [Fonte: Volerelaluna.it)

Autorità, colleghe e colleghi docenti e non docenti, studentesse e studenti, amiche e amici che oggi siete con noi, e caro Magnifico Rettore, caro professor Cataldi – caro Pietro. La prima cosa che voglio dire prima di varcare la soglia che oggi mi porta a continuare il tuo lavoro; la prima cosa che voglio dire, parlando a nome della nostra collettività, è: grazie, Pietro! Grazie per la misura, la grazia, l’equilibrio, la dedizione, la determinazione, e vorrei dire l’amore con cui ti sei preso cura di questa comunità, nella buona e nella cattiva sorte. Grazie per la prosperità, la crescita, l’autorevolezza che hai saputo garantire alla Stranieri. Grazie per la guida sicura nel buio della pandemia. Grazie soprattutto per una cosa, che mi colpì fin dal primo momento che ci conoscemmo: grazie perché non ti sei mai vergognato della tua umanità. Ricordo che pensai che se un rettore di una università italiana era ancora visibilmente un essere umano, allora forse c’era qualche speranza. Da allora ho imparato a conoscerti, e negli ultimi mesi sei stato per me non solo un mentore incredibilmente paziente e uno straordinario didatta, ma anche un amico vero. E, lo sai, da domani ti troverai ad avere ancora più pazienza. E questo grazie, pubblico e solenne, è anche per tutto quello che ancora ti chiederò. Hai chiuso il tuo discorso ricordandoci che «il nostro lavoro è tenere insieme lo spazio definito di questa città tanto identitaria e le quinte sconfinate del mondo, il nostro lavoro – hai detto – è la fatica e la felicità dell’attraversamento». Il nostro lavoro. Fermiamoci su queste due cose: noi, la nostra comunità accademica; e il lavoro che facciamo. Il mio impegno per i prossimi sei anni è che continuiamo ad essere, e diventiamo ancor più, un noi. «Salvarsi da soli è avarizia, salvarsi insieme è politica», diceva don Lorenzo Milani (e lo ripeterà tra poco il ministro Roberto Speranza, che ringrazio per aver voluto essere, virtualmente, con noi): e la nostra politica è quella di pensare non come una somma di egoismi, ma come una comunità. Ho provato a spiegare, nel programma di mandato, cosa questo vuol dire, in concreto e a partire dal ruolo del rettore. Primo. Un governo plurale e paritario, di prorettrici e prorettori, delegate e delegati. Perché l’unico modo di far sì che il potere diventi servizio, non solo nella retorica, è suddividerlo, assumerlo insieme, renderlo largo, trasparente, responsabile. Secondo. Una comunità di eguali fondata sulle diversità. Il che vuol dire: comportarsi ogni volta che sia possibile, e tendenzialmente sempre, come se esistesse un ruolo unico della docenza (e lottare perché esista presto), e abolire ogni odioso segno di gerarchia tra docenti, non docenti e studenti. Siamo persone: rimaniamo persone! E vuol dire anche abbandonare, progressivamente e sostenibilmente, ogni forma di precarietà, cioè di sfruttamento. Tra i docenti, tra i non docenti, tra le persone che assicurano ogni giorno la pulizia e l’accessibilità degli edifici in cui si svolge la nostra vita. E riconoscere, valorizzare, celebrare (in parole e opere) le diversità: quelle dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, quelle delle lingue e delle culture, quelle delle età e dei talenti. Perché «siamo differenti, inteso “differenza” nel senso di diversità delle identità personali» e perché «siamo disuguali, inteso “disuguaglianza” nel senso di diversità nelle condizioni di vita materiali». E l’eguaglianza – questo il punto centrale – si deve realizzare «a tutela delle differenze e in opposizione alle disuguaglianze». Siamo una comunità dalla parte dei più deboli. Delle donne, di chi è o si sente diverso, di chi è povero culturalmente e materialmente, di chi è marginale e periferico. Siamo una comunità antifascista. Ha un prezzo questo? Sì, lo ha. Nelle scorse settimane, per aver espresso un punto di vista culturale, per aver ammonito sulle conseguenze della manipolazione politica della storia, per aver denunciato la strumentalizzazione politica delle vittime delle Foibe, ho dovuto subire un accanito linciaggio mediatico. E voi con me: e ve ne domando scusa. Penso, tuttavia, che ne valga la pena. Nel programma di mandato mi sono impegnato a dedicare dodici aule ai soli dodici professori universitari che non giurarono fedeltà al fascismo, nel 1931: ho capito a mie spese quanto quell’idea fosse attuale. Se guardiamo a quella generazione, la resistenza che ci è richiesta, è ben poca cosa: non farla – per convenienza, viltà, malinteso amore di pace – sarebbe una vergogna imperdonabile. Del resto, da storico dell’arte credo profondamente nella forza dei luoghi, nelle storie e nei destini che nei nomi dei luoghi sono iscritti. Ebbene, la vita della nostra piccola università si muove tra due poli principali: “Rosselli” (questo plesso) e “Amendola” (il rettorato). Il nostro “noi” è piantato nel cuore della toponomastica antifascista: quelle vite, quegli ideali, quelle voci ci accolgono e vegliano su di noi. Carlo Rosselli, a cui è intitolato il piazzale che tutti abbiamo appena attraversato arrivando qua, è una figura altissima di professore, di intellettuale, di antifascista – di martire dell’antifascismo, ucciso insieme a suo fratello Nello in Francia nel 1937, per ordine di Mussolini. Tra le tante pagine che, negli articoli di Carlo Rosselli, sembrano scritte per noi ce n’è una (del 1934) che spiega a fondo cosa significhi essere antifascisti oggi (nel 2021), e cosa significhi esserlo da umanisti, e in una università per Stranieri: «Siamo antifascisti non tanto e non solo perché siamo contro quel complesso di fenomeni che chiamiamo fascismo; ma perché siamo per qualche cosa che il fascismo nega ed offende, e violentemente impedisce di conseguire. Siamo antifascisti perché in questa epoca di feroce oppressione di classe e di oscuramento dei valori umani, ci ostiniamo a volere una società libera e giusta, una società umana che distrugga le divisioni di classe e di razza e metta la ricchezza, accentrata nelle mani di pochi, al servizio di tutti. Siamo antifascisti perché nell’uomo riconosciamo il valore supremo, la ragione e la misura di tutte le cose, e non tolleriamo che lo si umilii a strumento di Stati, di Chiese, di Sette, fosse pure allo scopo di farlo un giorno più ricco e felice. Siamo antifascisti perché la nostra patria non si misura a frontiere e cannoni, ma coincide col nostro mondo morale e con la patria di tutti gli uomini liberi». La nostra patria è il mondo, e la nostra piccola comunità si autodetermina declinando questi valori altissimi nella gioia e nella fatica del lavoro di ogni giorno. Nel Senato accademico (che si riunirà, nella sua nuova composizione, già il prossimo 19), nel Consiglio di Amministrazione, nel Consiglio di Dipartimento decideremo insieme come attuare tutte queste cose, esposte in dettaglio nel Programma di mandato e nel discorso con cui, l’8 giugno scorso, ho chiesto la vostra fiducia. Ma, in questo giorno fausto, abbiamo qua molti ospiti e amici, e dunque nei prossimi minuti non vorrei parlare ancora di noi, bensì del nostro lavoro, continuando a riflettere sulle ultime parole del discorso di Pietro. Qual è, dunque, questo nostro lavoro? È lo stesso della scuola: perché l’università, non 3 mi stancherò di ripeterlo, è parte della scuola – è scuola. E quel lavoro è formare cittadini, e prima ancora persone: persone umane. Tutta l’università esiste per formare umani, anche Legge o Ingegneria non sfornano solo avvocati o ingegneri, ma formano o non formano esseri umani. Noi, poi, come umanisti siamo capaci solo di fare quello: se non lo facciamo più, siamo come il sale quando perde il suo sapore. Ma non possiamo farlo, questo lavoro, se non siamo umani noi stessi. Un singolare paradosso – confessiamocelo. Se passiamo la vita a studiare humanities, e non riusciamo a diventare un poco umani, a cosa davvero abbiamo dedicato la vita? Per questo non si può separare ricerca e didattica, studio e insegnamento, biblioteca e aula: perché se ci separiamo dalla sorgente, siamo fontane aride. E per questo il governo dell’università, la sua organizzazione, non può mai diventare impersonale, spersonalizzata, astratta, burocratica. Non è un’azienda, non si ciba di numeri. Siamo una comunità di persone, in cui le persone vengono prima di ogni altra cosa. Siamo come l’orco della favola a cui Marc Bloch paragona lo storico: «Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda». Solo che non vogliamo mangiarla, la nostra preda: la vogliamo far vivere più intensamente. Più umanamente. La prima cosa che dunque abita le nostre aule è il dubbio, il pensiero critico, la contestazione di ogni dogma, di ogni autorità – a partire dalla nostra. A partire da quella del rettore. La nostra deve essere un’università ribollente di letture tendenziose. È il titolo delle «parole dette [da Franco Antonicelli] per l’inaugurazione della Biblioteca dei portuali di Livorno», il 15 ottobre del 1967. Già, perché gli scaricatori di porto avevano voluto una loro biblioteca: strumento di riscatto e di liberazione. E Antonicelli, questo intellettuale singolarissimo e libero, quel giorno memorabile consigliò loro ciò che oggi vorrei consigliare alle studentesse e agli studenti della Stranieri: «Cercate sempre i libri che vi tormentano, cioè che vi conducono avanti, i libri che vi gettano lo scrupolo di coscienza: questi sono i libri, i libri non di fede accertata, ma di fede incerta. Questi sono i libri che un cittadino, un portuale che diventa, che è, che vuol essere più cittadino deve leggere». Dobbiamo costantemente ricordare che la nostra ispirazione è questa fede incerta, piena di dubbi. Consapevole che abbiamo scelto questa vita e questa via, non perché pensiamo di sapere molto. Al contrario, l’abbiamo scelta perché sappiamo di non sapere. Ha detto la poetessa polacca Wislawa Szymborska, nel discorso di accettazione del Premio Nobel, nel 1996: Ispirazione non è un privilegio esclusivo dei poeti o degli artisti in genere. C’è, c’è stato e sempre ci sarà un gruppo di individui visitati dall’ispirazione. Sono tutti quelli che coscientemente si scelgono un lavoro e lo svolgono con passione e fantasia. Ci sono medici siffatti, ci sono pedagoghi siffatti, ci sono giardinieri siffatti e ancora un centinaio di altre professioni. Il loro lavoro può costituire un’incessante avventura, se solo sanno scorgere in esso sfide sempre nuove. Malgrado le difficoltà e le sconfitte, la loro curiosità non viene meno. Da ogni nuovo problema risolto scaturisce per loro un profluvio di nuovi interrogativi. L’ispirazione, qualunque cosa sia, nasce da un incessante “non so” … A questo punto possono sorgere dei dubbi in chi mi ascolta. Allora anche carnefici, dittatori, fanatici, demagoghi in lotta per il potere con l’aiuto di qualche slogan, purché gridato forte, amano il proprio lavoro e lo svolgono altresì con zelante inventiva. D’accordo, loro “sanno”. Sanno, e ciò che sanno gli basta una volta per tutte. Non provano curiosità per nient’altro, perché ciò potrebbe indebolire la forza dei loro argomenti. E ogni sapere da cui non scaturiscono nuove domande, diventa in breve morto, perde la temperatura che favorisce la vita. Nei casi più estremi, come ben ci insegna la storia antica e contemporanea, può addirittura essere un pericolo mortale per la società. Per questo apprezzo tanto due piccole paroline: “non so”. Piccole, ma alate. Parole che estendono la nostra vita in territori che si trovano in noi stessi e in territori in cui è sospesa la nostra minuta Terra. Se Isaak Newton non si fosse detto “non so”, le mele nel giardino sarebbero potute cadere davanti ai suoi occhi come grandine e lui, nel migliore dei casi, si sarebbe chinato a raccoglierle, mangiandole con gusto. Se la mia connazionale Maria Sklodowska Curie non si fosse detta “non so”, sarebbe sicuramente diventata insegnante di chimica per un convitto di signorine di buona famiglia, e avrebbe trascorso la vita svolgendo questa attività, peraltro onesta. Ma si ripeteva “non so” e proprio queste parole la condussero, e per due volte, a Stoccolma, dove vengono insignite del premio Nobel le persone di animo inquieto ed eternamente alla ricerca. È per proclamare questo «non so», è per questa fede incerta, vedete, che ho preferito non indossare la toga: e chiedo scusa se questo gesto può aver offeso qualcuno. Perché tra quei libri di fede incerta ne ho letti due (i Pensieri di Blaise Pascal e le Tre Ghinee di Virginia Woolf) che mettono in guardia dal rischio di trovare troppo certezze nelle vesti liturgiche dei poteri maschili. Il primo ha scritto che se «i magistrati possedessero la vera giustizia non saprebbero che farsene di quelle loro toghe rosse, dei loro ermellini, di cui s’ammantano come gatti villosi […] se i medici sapessero la vera arte per guarire, non avrebbero palandrane e pantofole, e berrette a quattro pizzi». E Virginia suggeriva che le coloratissime toghe delle università inglesi servissero a suscitare «competitività e invidia». Un recente, luminoso discorso delle allieve e degli allievi della Scuola Normale Superiore di Pisa, mia amata alma mater, ci ha di recente ricordato quanto questi sentimenti siano attivi, e distruttivi, nell’università prigioniera del mito dell’eccellenza. Dunque, non rifugiamoci nelle insegne che proclamano al mondo che siamo quelli che sanno. Preferiamo l’umiltà – cioè l’amorevole, francescana vicinanza alla terra – di chi sceglie come sua insegna il «non so». Agli abiti, ai gesti, ai riti, ai pensieri che disegnano l’università come un clero separato dal mondo, preferiamo tutto ciò che ci restituisce al mondo, e al nostro lavoro per cambiarlo. Per questo accogliamo con gioia e gratitudine le bandiere delle diciassette contrade, il gonfalone della Regione Toscana e quello della Provincia: perché l’università si sente parte di una comunità civile, della sua storia, 4 del suo desiderio di futuro. Siamo profondamente legati all’amatissima città di Siena, e alle sue istituzioni: qua oggi tra noi rappresentate dalla Balzana, il gonfalone civico che salutiamo con deferenza e con affetto. E desidero inviare il saluto più rispettoso e amichevole al Sindaco di Siena, che ha scelto di non essere presente tra noi. Abitare il mondo significa – ce lo insegnano le nostre studentesse e i nostri studenti – aver voglia di cambiarlo dalle fondamenta. E la lezione inaugurale, che tra poco ascolteremo, serve a non lasciare dubbi sulla direzione in cui vogliamo cambiarlo, il mondo. Pietro ed io abbiamo chiesto a Cecilia Strada di aprire questo anno accademico, perché ci pare che Resq, «la nave degli italiani» che solca il Mediterraneo per salvare «esseri umani, leggi e diritti», della quale Cecilia è portavoce, sia tra le luci accese nell’eterna notte della Repubblica. Italiani che accolgono stranieri: e che per accoglierli li strappano al mare, perché non siano riconsegnati alle carceri libiche – a torture pagate con i soldi delle nostre tasse. Resq salva la nostra stessa identità: «Profugo … povero, ignoto, io vago fra i luoghi deserti di Libia / dall’Europa … respinto»1 : sono parole del primo canto dell’Eneide, a parlare è Enea. «Profugo … povero, ignoto, io vago fra i luoghi deserti di Libia / dall’Europa … respinto»: se questo è il mito fondativo di Roma, come potremmo essere più fedeli alla traditio, al passaggio di mano della cultura, se non con la presenza, la testimonianza, la parola di Cecilia Strada? Siamo stranieri in Italia: da sempre meticci, fusi, diversi, sangue misto, bastardi. Questa la nostra storia: questo il nostro progetto per il futuro. Questo, in una università in cui si impara a diventare stranieri, è davvero il nostro lavoro di ogni giorno. La nave Resq dice di sé, lo abbiamo sentito, che salva non solo i corpi, ma anche le leggi. Già, le leggi. Oggi vorrei ricordare che costruendo le basi culturali per aprirci agli stranieri, la nostra università è dalla parte della legge, dell’ordine. È bene ricordarlo, in un’Italia in cui legge e ordine sembrano essere diventate bandiere di chi i migranti li sequestra sulle navi, o li vorrebbe affondare sui barconi. Nadia Fusini – che oggi ci onora della sua presenza – mi ha regalato l’ancora inedita traduzione di un brano del Thomas More, questo dramma scritto nell’Inghilterra del primo Seicento da un collettivo di autori, uno dei quali fu nientemeno che William Shakespeare. E proprio in uno dei brani così evidentemente suoi, leggiamo parole che sembrano scritte per oggi. Tomaso Moro, cancelliere del regno, è chiamato a sedare il tumulto del popolo che vorrebbe cacciare gli stranieri che rubano il lavoro agli inglesi. Così si rivolge loro: Diciamo che sono espulsi, e diciamo che questa vostra protesta.

Giunga a ledere la maestosa dignità dell’Inghilterra. Immaginate di vedere gli stranieri disgraziati, Coi bambini sulle spalle, i loro miseri bagagli, Arrancare verso i porti e le coste per imbarcarsi, E voi assisi in trono, padroni ora dei vostri desideri, L’autorità soffocata dalle vostre risse, Voi, agghindati delle vostre opinioni, Che avrete ottenuto? Ve lo dico io: avrete insegnato A far prevalere l’insolenza e il pugno forte, E come si annienta l’ordine. Ma secondo questo schema Nessuno di voi arriverà alla vecchiaia: Ché altri furfanti, in balìa delle loro fantasie, Con quello stesso pugno, con le stesse ragioni, e lo stesso diritto, Come squali vi attaccheranno, e gli uomini, pesci famelici, Si ciberanno gli uni degli altri. […] Volete calpestare gli stranieri, Ucciderli, sgozzarli, impadronirvi delle loro case, Mettere il guinzaglio alla maestà della legge Per aizzarla poi come un cagnaccio. Ahimè! Diciamo che il Re, Clemente col traditore pentito, rispondesse In modo non commisurato alla vostra grande colpa, Mettendovi al bando: dove ve ne andrete? Quale paese, vista la natura del vostro errore, Vi darà asilo? Che andiate in Francia o Nelle Fiandre, in qualsiasi provincia germanica, In Spagna o in Portogallo, In qualunque luogo che non sia amico dell’Inghilterra: Ebbene, lì sareste per forza stranieri. Vi piacerebbe forse Trovare una nazione di temperamento così barbaro Che scatenandosi con violenza inaudita, Vi negasse rifugio sulla terra, anzi Affilasse detestabili coltelli per le vostre gole, Scacciandovi come cani, come se non fosse Dio 1 «Ipse ignotus, egens, Libyae deserta peragro, / Europa atque Asia pulsus (VIRGILIO, Eneide, I, 385-86). 5 Che v’ha fatto e creato, come se gli elementi naturali Non servissero anche ai vostri bisogni Ma dovessero essere riservati a loro? Cosa pensereste Di un simile trattamento? Questo è il caso degli stranieri, Questa la vostra montagnosa disumanità. Chi caccia lo straniero, chi lo perseguita, chi lo insulta distrugge la legge e l’unico ordine possibile, quello umano. Le parole di Shakespeare sono ancora più vere nell’Italia di oggi, retta da una legge fondamentale, la Costituzione del 1948, che fa del nostro comune essere persone umane il fondamento stesso di ogni legge. E, come vedete, dallo studio della storia e delle lingue, dalla filologia, dalla traduzione estraiamo continuamente, come da un tesoro, cose nuove e cose antiche. Ecco, dunque, il nostro lavoro: tenere in tensione queste cose. L’antico e il nuovo, il passato e il presente: quella tradizione umanistica che ancora può renderci umani. «La nostra patria – ci ha ricordato Carlo Rosselli – non si misura a frontiere e cannoni, ma coincide col nostro mondo morale e con la patria di tutti gli uomini liberi». È un forte, fortissimo invito alla presenza. Ad essere presenti, contro ogni forma di indifferentismo. Oggi siamo felici anche perché finalmente possiamo essere qua in presenza – pur conservando, come è doveroso, distanziamenti, mascherine, porte aperte e prudenza. Il nostro impegno è che questa presenza fisica sia segno e annuncio di una presenza morale, culturale, umana dell’Università per Stranieri: nella città di Siena, in Italia e in un mondo che, anche per noi, coincide con la patria di tutte le donne e di tutti gli uomini liberi. Buon lavoro a tutte, e a tutti! .  Buona festa di tutti i Santi e di tutte le Sante del cielo e della terra, sperando di non smarrire mai la dimensione senza confini della «santità» che non è collo storto e mani giunte in un misticismo di maniera, ma vivere con la consapevolezza di essere non «più stranieri né ospiti, ma concittadini [syn-polîtai] dei santi e familiari di Dio» (Ef 2,19). Essi proprio perché hanno lo sguardo volto al cielo, hanno la loro «pòlis» nel mondo intero, come insegna lo scritto anonimo del I-II sec. a noi giunto come «Lettera a Diogneto»: «I cristiani … abitano nella propria patria, ma come pellegrini; partecipano alla vita pubblica come cittadini, ma da tutto sono staccati come stranieri … Obbediscono alle leggi vigenti, ma con la loro vita superano le leggi … Così eccelso è il posto loro assegnato da Dio, e non è lecito disertarlo!»2 Essere santi e sante è molto facile: basta imitare il Signore Gesù. Il resto è superfluo.

Mario Agostinelli: La necessaria transizione energetica e come realizzarla. Incontro con Mimmo Perrotta e Marino Ruzzenenti

Fonte: Inchiestaonline 

 

Energia e vita

Per cominciare, è necessario spiegare perché di questi tempi è così importante riflettere sull’energia. L’energia è una proprietà che consente a un corpo o a un sistema che la possiede di fare lavoro o di dar luogo a trasformazioni energetiche a spese delle sue caratteristiche di partenza. Quando si dispone di maggiori potenze, il lavoro o la trasformazione avvengono a maggiori rapidità. È questa una delle ragioni per cui si è concentrata sulla potenza l’applicazione prevalente e sempre più devastante dell’energia alla trasformazione della natura inerte e soltanto da poco più di un secolo la scienza tratta con sempre maggior preoccupazione del rapporto tra energia e vita, tenendo conto che i cicli naturali si riproducono raggiungendo condizioni di stabilità ed equilibrio con la minore dispersione di energia. Più ancora che di un oggetto di difficile definizione, si tratta di una lente formidabile attraverso cui si può leggere il mondo – dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande – e capire come tutto sia interconnesso in forma di scambi, di relazioni, che ordinano il vivente mentre “disordinano” l’ambiente in cui sopravvive.

Dalla rivoluzione scientifica del 1600 avevamo tratto la capacità di mettere in relazione quantitativa le grandezze fisiche presenti nel nostro universo, stabilendo leggi matematiche che ritenevamo immutabili e che trasformavano la materia a velocità sempre più elevata, nella presunzione che le risorse cui si applicava il lavoro e l’energia che ottenevamo con la combustione del carbone fossero illimitate. Si profilava e attuava un mondo artificiale sempre più complesso, che circondava le città, le fabbriche, delimitava le campagne e inquinava i fiumi, concentrando sulla produzione e il commercio di manufatti la crescita e la ricchezza delle economie e delle nazioni. È il mondo che Engels scopre nella sua valle di Wuppertal, ormai costipata di manifatture avvolte da nuvole pestifere. Ma è proprio dalla seconda metà dell’800 che nascono i primi studi sistematici e i nuovi modelli per interpretare la vita come fenomeno e valore distinto, irripetibile e fragile, che andava trattato come un insieme e non semplicemente come un “ente” scomponibile o smontabile in parti complementari, giacché il tutto era superiore alla pura somma dei costituenti. L’entrata in campo della vita e delle sue relazioni indissolubili con la natura finì col togliere alle leggi fisiche newtoniane, deterministe, indipendenti dal tempo e dal contesto in cui si applicavano, il primato nel disegnare il nostro futuro e addirittura di stabilire la gerarchia che presiedeva alla politica, consegnando a un approccio interdisciplinare e non più solo specialistico la preoccupazione per la cura, per il benessere, per una giusta sopravvivenza dell’intera biosfera.

Credo che la lettura più straordinaria che sia stata data negli ultimi anni sul rapporto tra energia e vivente sia quella articolata con suggestioni penetranti nella enciclica Laudato Si’. Con essa Francesco ha prodotto una cesura con la concezione meccanicistica e determinista dell’energia ed ha contribuito a spostare il centro della discussione dall’antropocentrismo e dalla geopolitica alla cura della Terra come complesso coerentemente inscindibile. Per la prima volta un religioso – non soltanto cattolico, ma, probabilmente, unico nelle religioni – fa marciare insieme la scienza più avanzata e la religione e non le mette in rapporto gerarchico e nemmeno dialettico tra di loro. Si tratta di una lettura della realtà che ci circonda, che io non mi sarei aspettato, soprattutto da un’esegesi religiosa, anche perché interiorizza un’idea di un tempo che va immancabilmente e colpevolmente a finire, in cui il disordine provocato dall’ultima specie comparsa sul Pianeta può diventare talmente insopprimibile da mettere in discussione la riproduzione della vita. Molta ecologia già percorreva una strada parallela, ma la diffusione del negazionismo climatico non aveva ancora incontrato un pensiero che – come afferma Peter Kammerer – “ha preso le ali”.

Un altro aspetto da prendere in considerazione nella relazione tra energia e vita è quello della giustizia sociale. Sembrerebbero nozioni assai distanti, ma basta per collegarli dare una definizione all’ordine e al disordine che si crea intorno alla vita: “entropia”. Essa è la misura del grado di ordine e di informazione che si può trarre da un corpo; in natura, fatta di tanti corpi isolati nel loroambiente, l’entropia di [vivente + ambiente] tende irreversibilmente a crescere. Poiché gli esseri viventi sono dotati di un “progetto interno” che mantiene il loro ordine il più elevato possibile, prelevano energia dall’ambiente, creando in tal modo una quantità di scarti, sprechi, rifiuti che fanno crescere il degrado e il disordine complessivo. “Ogni vivente – dice Bertand Russell – è a suo modo un imperialista che cerca di appropriarsi dell’ambiente circostante”. A meno che prevalga una cooperazione, che nel mondo animale e vegetale è assai presente e che la specie umana affronta o rifiuta dandosi regole politiche e sociali. Consumare troppa energia o troppi alimenti o troppi oggetti, e lasciarne privi altri esseri, corrisponde a ridurre potenzialità di vita in base a scelte che prevedono ingiustizia sociale, come accade nel sistema capitalista, che, oltrepassando i limiti naturali, è all’origine anche dell’ingiustizia climatica.

Da solo poco più di cinquanta anni abbiamo consapevolezza di un rapporto tra energia e vita così inquietante quando se ne infrangono i limiti, per due ragioni importanti, che purtroppo non vengono ancora insegnate nelle scuole (non le hanno insegnate neanche a me, che sono un chimico-fisico): la prima riguarda le eccessive potenze (velocità trasformative) con cui si è messa al lavoro da secoli l’energia fossile; la seconda corrisponde alla sottovalutazione dell’innalzamento della temperatura della Terra, che è indice di una crescita della sua energia interna oltre l’equilibrio.

La prima consapevolezza emerge solo negli anni ’60: prima di allora, si pensava all’energia come un magazzino infinito da cui potessimo trarre infinite risorse, impiegate nella trasformazione della natura in mondo artificiale. Solo dopo la metà del Novecento i primi attenti osservatori si accorgono che la natura si consuma e che alcune materie non sono recuperabili in cicli utili, ma vanno scartate e non c’è energia conveniente per rinnovarle. Nel 1972, il Club di Roma individuò nell’uso esasperato di materie prime la possibile fine della presenza umana sulla terra. E quindi spinse per un atteggiamento sobrio rispetto in particolare ai consumi di materia. L’energia fossile con i suoi effetti climalteranti era presa in considerazione solo per la sua esauribilità.

La seconda consapevolezza si è fatta strada quando si è estesa la convinzione che la finestra energetica in cui avvengono processi di vita “salubri” è entro i limiti di due-tre gradi al massimo. E la climatologia cominciò ad avvertire, con milioni di dati alla mano raccolti giorno dopo giorno e ad ogni latitudine e longitudine, che se la temperatura media dovesse aumentare oltre 2°C, le catastrofi sarebbero superiori alle disponibilità di prevenirle e l’estinzione della specie avrebbe un orizzonte temporale di poche generazioni. Non era possibile fino ai primi decenni del Novecento, con la relatività e la quantistica ormai affermate, individuare i meccanismi microscopici che spiegano gli scambi di energia tra raggi solari e Terra, per cui si comprende che l’esistenza della vita dipende da un fatto eccezionale: che questo pianeta è circondato da un insieme minuto e differenziato di particelle che vengono colpite dalla radiazione, che con un meccanismo quantistico ne spezza le molecole oppure, nel caso della CO2 o del metano, induce vibrazioni che trasmettono movimento alle altre molecole che stanno attorno e quindi producono calore. E si comprende, infine, che se questi meccanismi microscopici producono disordine irrecuperabile la vita stessa potrebbe estinguersi. Ad esempio, basta un eccesso di CO2 perché le piante non respirino come prima. Si è cominciato quindi a parlare di bilancio di flussi energetici in atmosfera, di assorbimenti negli oceani, di permeabilità dei suoli, di assorbimento delle foreste. Da questo punto di vista è stato decisivo l’osservatorio di Mauna Loa, alle Hawaii, che dalla fine degli anni ’50 misura costantemente la CO2 nell’atmosfera e la temperatura sulla terra.

Queste due consapevolezze sono molto recenti, storicamente datate e fortemente negate dagli interessi del mondo dell’impresa e delle grandi multinazionali, assecondate da gran parte dei governanti.

 

La transizione ineludibile

Oggi a livello globale tra le fonti di energia prevale ancora nettamente la quota di fossile: ancora molto carbone e, relativamente in crescita rispetto al carbone, petrolio in forma di benzina e diesel per la mobilità e gas per le forniture elettriche. Il futuro è però sicuramente un futuro di azzeramento delle quote fossili, anche se questa prospettiva sarà frutto di aspri conflitti e di resistenza alle pressioni lobbistiche delle multinazionali attivissime in tutte le sedi internazionali (come l’attività di Eni e Snam a Bruxelles e all’interno del governo italiano denunciate da Re:Common). Sono necessari una serie di accordi internazionali, dopo quello insufficiente di Parigi 2015, con il rispetto dei quali il mix energetico si deve drasticamente spostare dal carbonio per provenire esclusivamente da fonte solare in costante equilibrio con il pianeta terra. Questa è la indicazione “da scolpire sulla pietra” assieme ad una riduzione dei consumi energetici pro capite, allineata in ogni regione del globo.

Le fonti fossili sono il lavoro fatto per milioni di anni dal sole e conservato all’interno della crosta terrestre o dei mari in forma altamente condensata, quindi con densità energetica (potere calorifico) rilevante. I giacimenti fossili sono il frutto del sequestro sottoterra o nelle rocce o nei mari – e comunque non in atmosfera – di notevoli quantità di anidride carbonica che, senza processi di equilibrio tra aria, rocce, mari e vegetazione, avrebbero reso la vita impossibile. Man mano che questi stati di carbonio in forma di complessi, cioè carbone, gas, petrolio, sono stati sequestrati e sottratti all’atmosfera attraverso processi geologici, è diminuita la quantità di CO2 che sopravviveva in parti per milione nell’aria, fino a raggiungere un equilibrio attorno a 300 parti per milione, che ha consentito la transizione decisiva verso l’evoluzione, in quanto permetteva all’assorbimento di CO2 da parte delle piante l’emissione di ossigeno e, di conseguenza, l’alimentazione della vita attraverso la respirazione. La presenza di una concentrazione di CO2 sostanzialmente costante ha dato origine all’effetto serra, dovuto a una riflessione in atmosfera della radiazione infrarossa, che ha consentito che la temperatura media del pianeta raggiungesse 15°C, da -18°C in assenza di effetto serra. Ora, però, man mano che emettiamo CO2 in eccesso – siamo nel 2021 a oltre 415 parti per milione – rischiamo di far crescere a tal punto l’effetto serra da avere una temperatura media sul pianeta che non è più completamente compatibile con la riproduzione della vita, a cominciare dai tropici e dai poli.

Si capisce perché occorra tenere sotto terra due terzi di tutto il materiale denso di energia che proviene dal carbonio fossile, sotterrato geologicamente in una successione di miliardi di anni e che la combustione potrebbe invece liberare all’istante. Per questo è indispensabile lo spostamento verso fonti di energia come acqua, vento, sole e in misura meno rilevante geotermia, che non liberano anidride carbonica. L’attenzione così si sposta dal modello di consumo al modello di produzione: non più consumo rapido di energia – non più combustione! un evento che in natura esiste solo come incidente – ma equilibri naturali e ciclo solare secondo tempi biologici di smaltimento delle scorie.

Un secondo fattore che indica l’ineluttabilità dell’abbandono dei fossili sono i costi, che aumentano costantemente rispetto a quelli delle fonti rinnovabili, che oggi sono più convenienti anche considerate nell’intero ciclo di vita. Certo, dal punto di vista dei costi le fonti fossili hanno – ma potremmo dire avevano – un vantaggio rispetto alle rinnovabili: possono essere trasportate e bruciate anche per un intero anno, mentre le rinnovabili sono intermittenti: dipendono dall’esposizione al sole (quindi solo durante le ore del giorno) o al vento (che tira bene per tre quarti dell’anno nel Baltico, per metà dell’anno nel Mediterraneo…). Questo fino a cinque anni fa faceva pendere la bilancia dei costi verso i fossili. Oggi c’è una novità, che è vista come una soluzione decisiva anche in prospettiva: la possibilità che, attraverso l’idrolisi, l’energia elettrica prodotta in eccesso e non consumata (quando magari c’è vento troppo forte o c’è un sole troppo battente o magari di notte quando l’idroelettrico viene usato come pompaggio) venga invece trasformata in idrogeno, che può essere trasportato o di nuovo riconvertito in energia elettrica. Potremmo dire che una soluzione alla sostituzione definitiva dei fossili è già alla portata anche economica: rinnovabili, in particolare eolico, e accanto a esse un sistema di approvvigionamento che possa essere poi ridistribuito e utilizzato nei momenti in cui non c’è dispacciamento diretto di energia elettrica (idrogeno, pompaggi, batterie).

L’UE in questo Next Generation Plan ha puntato quasi tutto in una direzione di questo tipo.

 

Energia e democrazia

Dal punto di vista delle politiche energetiche, questo spostamento verso le fonti rinnovabili è il colpo più duro che potesse subire la geopolitica mondiale, almeno per come l’abbiamo ereditata dalle due guerre mondiali. Mentre le fonti fossili sono ad alta densità e concentrate anche localmente, le energie rinnovabili sono dappertutto: in un deserto c’è molto sole ma non c’è l’acqua, in un fondovalle c’è molto vento e c’è poco sole, in cima ad un ghiacciaio c’è sia sole che vento che acqua condensata. Insomma, le fonti rinnovabili sono largamente disponibili, sebbene in misure e proporzioni diverse, in quasi tutte le parti del pianeta. Questo è il colpo più duro che potessero subire le corporation minerarie e le multinazionali energetiche che avevano dislocato in spazi territoriali circoscritti le loro licenze e proprietà di derivazione sostanzialmente coloniale, visto che ormai il petrolio o il gas si andavano a cercare con strutture e impianti imponenti perfino tra i ghiacci o in fondo al mare, con costi crescenti e sistemi di trasporto smisurati.

A fronte del loro declino, oggi è in corso una duplice forma di guerra. La prima è di sapore antico, militare: per procurarsi il petrolio e il gas, gli eserciti sono in continua crescita e si contendono i territori con forme di occupazione ad alto dispendio di automazione e controllo a distanza. Si noti che il terzo produttore di CO2 al mondo, se lo considerassimo come uno stato, è il settore delle armi: droni, portaerei, cacciabombardieri, missili puntati, ordigni nucleari sempre allerta su mezzi mobili. Questa enorme mole di energia degradata ora dopo ora, sprecata e irrecuperabile contraddice profondamente la possibilità invece di convivere con un’energia rinnovabile, cioè rigenerabile nei tempi della vita umana o nel susseguirsi di generazioni in tempi storici. Le armi, evidentemente, contraddicono qualsiasi principio di rinnovabilità: in un tempo il più breve possibile scaricano il massimo di energia distruttiva. Non è un caso se questo papa è andato in Iraq, dove c’è una guerra per il petrolio, per l’acqua, per l’accaparramento degli elementi naturali.

Il secondo tipo di guerra lo stanno conducendo le grandi multinazionali dei fossili, che hanno capito che dal punto di vista economico in un tempo di venti o trent’anni bisogna passare a un mix dove le fonti naturali saranno nettamente superiori rispetto ai fossili e non hanno alcuna intenzione di lasciare il campo senza combattere. Già nel 2019 e nel 2020 nel mondo si sono fatti più investimenti in rinnovabili che in tutti gli altri settori, compreso il nucleare. L’economia sembra prendere un corso diverso: in tal caso le multinazionali provano a ritardarne quanto possibile la trasformazione anche a spese di salute e clima, per poter reindirizzare tutte le riserve finanziarie del mondo fossile, che sono tutt’ora enormi, verso sistemi ancora centralizzati, proprietari, a dimensione non territoriale.

Il sistema delle rinnovabili, al contrario, è territoriale, decentrato, democratico, cooperativo, senza sprechi. Con le fonti idriche, solari ed eoliche si potrebbe organizzare la produzione di energia in autentiche comunità, che siano in comunicazione tra loro attraverso sistemi informatici e usare il criterio della sufficienza – e ce n’è, perché abbiamo una quantità di sole infinitamente superiore a quella che serve per dare vita alla terra e a tutte le forme che la popolano – mentre il resto dell’energia prodotta potrebbe essere distribuita per eliminare la povertà energetica.

Purtroppo, nell’attuale fase di transizione le grandi corporation elettriche o fossili puntano a costruire ancora grandi impianti, di potenza non distribuita, stoccata eventualmente in grandi bacini di gas, idrogeno e acqua di loro proprietà.

A Civitavecchia è in corso uno scontro chiarissimo e con i connotati sopra riportati. La sostituzione della centrale a carbone dell’Enel – a dispetto della cittadinanza e delle sue rappresentanze territoriali – viene prevista con la combustione di gas metano e un tracollo dell’occupazione anche in prospettiva, con un silenzio tombale finora di Governo e Regione. A questa soluzione, deprecata e contrastata anche dai piani di raggiungimento della neutralità climatica approvati dal Parlamento europeo, i movimenti ambientalisti e la mobilitazione dei lavoratori e della popolazione stanno contrapponendo un modello territoriale concretamente perseguibile, con vantaggi tangibili sul piano della salute, dell’occupazione, della cura del territorio. Un sistema eolico galleggiante a distanza nel mare e una rete alimentata da fotovoltaico sull’area del carbonile attuale, assistiti da stoccaggio con idrogeno, alimenterebbero la città e il territorio circostante, estendendo anche alla mobilità e al calore i benefici di un sistema pulito. A Civitavecchia si è palesato uno straordinario esempo di protagonismo del mondo del lavoro, che si è schierato per la transizione energetica: i dipendenti della centrale, appoggiati dalla Uil, dalla Camera del Lavoro, dall’Usb e dai due maggiori comitati contro i fossili della città, hanno già indetto più ore di sciopero contro il progetto sbandierato con una dose di arroganza da altri tempi dalla direzione Enel attraverso la pagina locale del Messaggero.

 

La difficile transizione nei grandi stabilimenti produttivi e il rischio del nucleare

La svolta in corso adesso non ha i tempi che i governanti vorrebbero imporre. Una parte larga della società, compresi gli studenti, si rende conto che può vivere utilizzando di fatto le fonti solari, sebbene nei luoghi di lavoro questa consapevolezza non sia ancora giunta a piena maturazione.

Certo, non c’è ancora oggi una ricerca avanzata e una tecnologia non solo sperimentale per alimentare con sistemi a fonti rinnovabili alcuni processi produttivi complessi, ad alta temperatura e che richiedono energia molto condensata: acciaierie, cementifici, certi processi chimici. Il caso tipico riguarda le acciaierie di Taranto (io sono di quelli che pensano che l’Ilva andrebbe chiusa al più presto, perché non c’è soluzione per un sistema che non dispone di investimenti e progetti in ricerca di alternative, poiché non si sono prese per tempo le precauzioni per affrontare la transizione). I modelli alternativi per un impianto di quella portata e in condizioni di crisi così impellente non sono ancora all’altezza della sfida. L’idrogeno dovrebbe svolgere un ruolo chiave nella futura decarbonizzazione dell’industria siderurgica e di altre industrie pesanti. Può essere utilizzato come materia prima, combustibile o vettore energetico e stoccaggio e ha molte possibili applicazioni. Di recente la Germania ha adottato il documento “Steel Action Concept” per la decarbonizzazione dell’industria siderurgica tedesca attraverso un aumento dell’utilizzo di energie rinnovabili e l’introduzione dell’idrogeno verde nei processi industriali. Le acciaierie di Lienz in Austria funzionano totalmente a idrogeno, con quattro idrolizzatori; è uno stabilimento davvero notevole e fa un acciaio specialissimo, tuttavia produce solo un quarantesimo di quello dell’Ilva.

Penso che, se consumi e trasporti si convertono a energie rinnovabili e, cosa altrettanto importante, l’agricoltura viene convertita ad agricoltura di vicinanza, senza ricorso ai concimi chimici, allora anche il problema delle grandi produzioni verrà affrontato con uno sforzo maggiore di ricerca e con lo straordinario apporto che può offrire la nuova generazione.

Temo che in questa fase torni una spinta al nucleare, per i grandi impianti. Il nucleare è non solo peggio dei fossili, ma è ben più devastante e irrimediabile in tempi storici. Basti pensare che il tempo di dimezzamento del plutonio è di 121.400 anni e noi ancora non sappiamo dove mettere le scorie in depositi sicuri. E, ancora, che a Fukushima si continua a versare bario e stronzio radioattivo nel Pacifico per tenere a bada la fusione dei tre reattori avvenuta 10 anni fa. Così come ritengo pericolosa l’affermazione avventata del nuovo ministro per la transizione Cingolani sulla disponibilità a dieci anni della fusione nucleare: un diversivo – temo – per non giocare a fondo il passaggio a multipli di potenza rinnovabile già nei prossimi tre anni.

Non ci sono soluzioni meramente tecnologiche, se le tecnologie cercano di risolvere i problemi lasciandone inalterata la causa.

 

Le prospettive dell’Italia

L’Italia tra le nazioni europee ha una particolare caratteristica: possiede una quota di carbone nel suo mix energetico inferiore in genere alla gran parte degli altri paesi, ma non tende a innescare, come accade ad esempio in Germania e Spagna, un processo di crescita di eolico e solare equivalente agli obiettivi a cui tende l’Europa. Eppure, la sua posizione geografica glielo consentirebbe. Negli ultimi anni vi è stato uno stallo: se nel 2007 avevamo il 24,2% di energia elettrica prodotta con fonti rinnovabili (compreso l’idroelettrico, su cui l’Italia vanta una eredità importante, grazie ai grandi impianti alpini e appenninici), nel 2014 siamo arrivati al 38,6%, ma nel 2019 la quota era scesa al 35,9%. Una vera e propria flessione, con una responsabilità politica. Dal 2011 al 2019 abbiamo mantenuto statica la quantità di energia fornita da vento, sole e acqua, mentre abbiamo aumentato la quota di gas, soprattutto in funzione di stoccaggio nel caso di black-out, lasciando del tutto inattivi i bacini di pompaggio pronti all’occorrenza. La crescita di generazione

fotovoltaica in Italia dal 2017 al 2019 è stata un quinto di quella della Germania. Inoltre, soffriamo di un forte disavanzo commerciale riguardo alle “tecnologie verdi”, perché i pannelli fotovoltaici prima prodotti, oggi sono completamente importati.

Nel nostro piano energetico nazionale (PNIEC), per raggiungere l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura media al di sotto di 1,5 gradi, noi dovremmo ridurre anno dopo anno della metà le emissioni di CO2, installando almeno 17 GW di rinnovabili, cosa del tutto improbabile se non si sblocca il meccanismo delle autorizzazioni e se il PNIEC rinuncia all’obbiettivo UE del 55% rimanendo fermo al 48%. Un problema tuttora molto acuto è quello dei trasporti: impieghiamo più energia nei trasporti che nell’industria, abbiamo il carico di auto per famiglia più alto in Europa e un parco macchine che mediamente supera i 135 grammi di CO2 di emissione per km.

Naturalmente una transizione come quella in discussione è fitta di conflitti, ma anche di imbrogli. Il più imbarazzante lo sta gestendo Eni a Ravenna, con il progetto di produrre idrogeno da una centrale a metano con sequestro della CO2 da pompare sottoterra. È un progetto non solo ambientalmente dannoso, data la pericolosità di un giacimento di anidride carbonica, ma anche assurdo, perché l’idrogeno verrebbe a caricarsi dei costi della cattura e della compressione del gas climalterante nelle falde sotterranee. Senza mettere in conto le perdite inevitabili di metano nelle condutture dell’impianto, sotto osservazione per il suo pesante effetto sull’innalzamento della temperatura terrestre.

Rispetto al governo Draghi e al nuovo ministero per la transizione ecologica non sono ottimista. Lo sarei se le associazioni ambientaliste e le rappresentanze locali avessero voce e potessero partecipare alla formulazione dei PNRR (Piani nazionali di ripresa e resilienza). Ma il fatto che la validazione avvenga attraverso McKinsey significa affidarsi a una cultura che punta esclusivamente all’efficienza in termini di come la valuta l’impresa. E qui non siamo di fronte a una contabilità aziendale e nemmeno a progetti che vengano semplicemente delegati agli accordi che Eni, Enel e Cassa Depositi e Prestiti raggiungono a livello ministeriale, nel silenzio dei cittadini e dei lavoratori.

Io non credo che il ministro Cingolani possa presumere di avere da solo la cultura sufficiente per affrontare questo passaggio. Occorre svolgere un dibattito pubblico, accessibile e informato, ma di ciò finora non si ha notizia alcuna. Nemmeno a Civitavecchia, dove la transizione energetica è all’ordine del giorno. Penso che, per quanto riguarda l’ecologia integrale, la tecnologia, che spesso diventa tecnocrazia, prenda il problema per la coda anziché per la testa: è il nostro modo di produrre e consumare che va radicalmente cambiato. A Cingolani proporrei di partire da una attenta considerazione della  Laudato Si’.

«Le vostre soluzioni sono il problema»

In una Roma blindata, i potenti della Terra discuteranno la gestione della pandemia e il contrasto al riscaldamento globale, mentre i movimenti sociali, guidati dal fronte ecologista, scenderanno in strada per ribadire la necessità di un cambio di paradigma strutturale

Mentre assistiamo alle devastazioni provocate dall’uragano che si sta abbattendo sul Sud Italia, a Roma si incontrano i leader delle nazioni più ricche del mondo: l’occasione è il G20 a presidenza italiana, che si terrà alla Nuvola di Fuksas.

Nell’agenda del forum, i temi più importanti su cui i potenti della Terra saranno chiamati a discutere rappresentano le due assolute priorità del momento: la gestione della pandemia e il contrasto al riscaldamento globale, in vista dell’imminente Cop26 di Glasgow.

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Curdi in Italia in solidarietà con Mimmo Lucano

FONTE ANFDEUTCH

La comunità curda in Italia mostra solidarietà a Mimmo Lucano. L’ex sindaco di Riace è stato condannato a oltre 13 anni di carcere per aver fornito case abbandonate ai migranti.

La comunità curda in Italia esprime vicinanza e solidarietà all’ex sindaco di Riace. Mimmo Lucano è un simbolo della cultura dell’accoglienza, della solidarietà e dell’integrazione sociale, secondo una dichiarazione pubblicata sabato dal centro di informazione curdo sulla condanna del politico. Lucano, vincitore del Premio per la pace di Dresda del 2017, è stato condannato giovedì a 13 anni e due mesi di reclusione per abuso d’ufficio, formazione di organizzazione criminale e favoreggiamento all’immigrazione clandestina, nonché per truffa, concussione e falso di documenti. Con il loro verdetto, i giudici sono andati ben oltre la richiesta dell’accusa, che aveva chiesto quasi otto anni di carcere.

Lucano è stato sindaco del piccolo comune della costa meridionale calabrese dal 2004 al 2018 e aveva fornito case abbandonate di residenti emigrati a centinaia di migranti nel remoto quartiere di Riace Borgo nell’entroterra collinare. Il Kurdish Information Center in Italia riporta: “Lucano nasce nel 1998 con un gruppo di 200 curdi che fuggivano dalla guerra dello stato turco contro il popolo curdo e dalla dura repressione del regime di Ankara sulla costa erano sbarcati. Ha aperto le case abbandonate nella città di Riace e accolto profughi curdi a cui erano stati negati i diritti e le libertà più elementari per ripristinare la loro dignità umana e avviare così la rinascita di un’area segnata dalla povertà.

È sempre stato vicino al popolo curdo e non ha mai esitato a schierarsi contro il regime autoritario della Turchia e per la libertà del nostro popolo, come è avvenuto di recente con l’attacco al modello del confederalismo democratico in Rojava. Esprimiamo la nostra solidarietà a Mimmo e siamo certi che il suo caso si risolverà positivamente e verrà riconosciuto il valore del suo progetto di integrazione e solidarietà tra i popoli».

Lucano e la sua squadra di difesa hanno parlato di un “incidente inaudito” dopo l’annuncio del verdetto e hanno annunciato che avrebbero presentato ricorso. I legali di Lucano avevano sostenuto che l’ex sindaco era “ontologicamente incapace” di arricchirsi a scapito di altri, se non altro per il proprio vantaggio politico.

 

da Left : Tutto quello che non torna nella condanna di Mimmo Lucano

 

Fonte:  la rivista LEFT che ringraziamo,   cui invitiamo i nostri lettori ad abbonarsi 

Ecco alcuni elementi giuridici che aiutano a capire come sia potuto accadere che l’ex sindaco di Riace sia stato condannato in primo grado a 13 anni e due mesi

Mimmo Lucano è stato condannato a 13 anni e due mesi di reclusione, oltre a confische per importi elevatissimi. Una condanna che, giustamente, la maggior parte dei commentatori ha definito abnorme. In particolare questa abnormità risalta, perché tutte le violazioni che gli sono state contestate sono di modesta entità.
Passata l’onda delle prime reazioni, prevalentemente di segno politico, occorre provare ad aggiungere qualche elemento giuridico che aiuti a capire come è potuto accadere.
Occorre fare un passo indietro. Il diritto penale si forgia sul fatto fisico, istantaneo, spesso violento: la coltellata, lo scippo. Qui l’azione punita è un fatto umano, dai contorni concreti.
Nel corso degli anni, si sono aggiunti reati di secondo livello. La norma penale non punisce più un fatto fisico ben individuato, ossia la coltellata di cui si diceva, ma può riguardare anche la violazione di una norma di primo livello. Il reato consiste quindi, ad esempio, nella violazione di una norma amministrativa. Qui la spiegazione si fa necessariamente più complicata.

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Comunicato dei e delle docenti di discipline giuridiche degli Atenei italiani a seguito della sentenza di condanna nei confronti di Mimmo Lucano

Fonte ADIR L’altro Diritto

La sentenza di primo grado che condanna Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, a 13 anni e 2 mesi interroga il nostro senso di giustizia.

Da giuristi e giuriste, e studiosi e studiose del diritto e delle istituzioni, attendiamo, prima di ogni valutazione nel merito, di leggere le motivazioni della sentenza e con fiducia pensiamo ai successivi gradi di giudizio come a momenti in cui maggiore chiarezza potrà essere fatta.

Sin da subito, però, non possiamo esimerci dal sottolineare come il Tribunale di Locri abbia ritenuto, per i reati di associazione, truffa sulle erogazioni pubbliche e di peculato, ai cui singoli episodi è stata riconosciuta la continuazione, di applicare una pena estremamente elevata, a fronte di uno stimato danno erariale di meno di 800.000 euro di cui è stato comunque imposto il risarcimento. La sentenza irroga di conseguenza un ammontare complessivo di pena che raramente è stato disposto per reati analoghi anche in procedimenti in cui il vantaggio ingiusto era ben più consistente e rivolto a finalità ben più individualistiche di quelle attribuite a Mimmo Lucano. Basti pensare alle condanne inflitte, nell’ambito del cosiddetto processo “Mafia capitale”, poi diventato “Mondo di mezzo”, a Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, che pur relative a sedici episodi corruttivi, sette di turbativa d’asta, uno di traffico di influenze illecite e uno di trasferimento fraudolento di valori, sono state di gravità inferiore a quella stabilita per l’ex sindaco di Riace.

Questo lascia spazio a dubbi, stupore, e al timore legittimo di un accanimento verso un uomo e una vicenda divenuti simbolo di una visione dell’accoglienza in Italia mirata alla costruzione di percorsi inclusivi effettivi e non alla burocratica osservanza dei protocolli ministeriali.

Ci meraviglia in particolare il fatto che il collegio non abbia ritenuto di applicare alcuna attenuante. Dichiariamo la nostra preoccupazione per un clima di ostilità che si respira a volte anche nelle aule giudiziarie nei confronti di chi, a vario titolo e in vari contesti, appartiene al mondo che esprime fattivamente solidarietà alle persone migranti, e la volontà di monitorare con tutti gli strumenti a nostra disposizione le fasi successive del procedimento aperto nei confronti di Mimmo Lucano.

Primi firmatari:

Emilio Santoro, Università di Firenze; Alessandra Sciurba, Università di Palermo; Aldo Schiavello, Università di Palermo; Perla Allegri, Università di Torino; Salvatore Amato, Università di Catania; Adalgiso Amendola, Università di Salerno; Alberto Andronico, Università di Catania; Luca Baccelli, Università di Camerino; Adriano Ballarini, Università di Macerata; Mauro Barberis, Università di Trieste; Clelia Bartoli, Università di Palermo; Viviana Battaglia, Università di Palermo; Barbara Giovanna Bello, Università di Milano Statale; Francesco Belvisi, Università di Modena e Reggio Emilia; Maria Giulia Bernardini, Università di Ferrara; Francesco Biondo, Università di Palermo; Giovanni Bisogni, Università di Salerno; Cecilia Blengino, Università di Torino; Silvio Bologna, Università di Palermo; Silvia Borelli, Università di Ferrara; Marco Borraccetti, Università di Bologna; Carlo Botrugno, Università di Firenze; Maria Borrello, Università di Torino; Marco Brigaglia, Università di Palermo; Raffaella Brighi, Università di Bologna; Gianvito Brindisi, Università della Campania Luigi Vanvitelli; Enrico Camilleri, Università di Palermo; Roberto Cammarata, Università di Milano Statale; Giuseppe Campesi, Università di Bari Aldo Moro; Damiano Canale, Università Bocconi; Carlo Caprioglio, Università di Roma tre; Cinzia Carta, Università di Genova; Thomas Casadei, Università di Modena e Reggio Emilia; Bruno Celano, Università di Palermo; Paola Chiarella, UMG – Università Magna Graecia di Catanzaro; William Chiaromonte, Università di Firenze; Daniela Chinnici, Università di Palermo; Fabio Ciaramelli Università di Napoli Federico II; Luigi Cinquemani, Università di Palermo; Sofia Ciuffoletti, Università di Firenze; Paolo Comanducci, Università di Genova; Luigi Cominelli, Università di Milano La Statale; Elena Consiglio, Università di Palermo; Fabio Corigliano, Università di Parma; Cecilia Corsi, Università di Firenze; Lucia Corso, Università di Enna Unikore; Giovanni Cosi, Università di Siena; Marco Cossutta, Università di Trieste; Rosaria Crupi, Università di Palermo; Paolo Cuttitta, IDPS, Université Sorbonne Paris-Nord; Roberta Dameno, Università di Milano Bicocca; Teresa Degenhardt, Queen’s University Belfast; Alessandro De Giorgi, San Jose State University; Luciana De Grazia, Università di Palermo; Cinzia De Marco, Università di Palermo; Francesco De Vanna Università di Modena e Reggio Emilia; Giuseppe Di Chiara, Università di Palermo; Alberto di Martino, Università Sant’Anna di Pisa; Chiara Di Stasio, Università di Brescia; Madia D’Onghia, Università di Foggia; Giulia Fabini, Università di Bologna; Alessandra Facchi Università di Milano La Statale; Isabel Fanlo Cortès, Università di Genova; Carla Faralli, Università di Bologna; Simona Feci, Università di Palermo; Luigi Ferrajoli, Università Roma tre; Maria Rosaria Ferrarese, Università di Cagliari; Vicenzo Ferrari Università di Milano La Statale; Valeria Ferraris, Università di Torino; Giovanni Fiandaca, Università di Palermo; Nicola Fiorita, Università della Calabria; Micaela Frulli, Università di Firenze; Giovanni Galasso, Università di Palermo; Orsetta Giolo, Università di Ferrara; Valeria Giordano, Università di Salerno; Tommaso Greco, Università di Pisa; Guido Gorgoni, Università di Padova; Riccardo Guastini, Università di Genova; Paolo Heritier, Università di Torino; Giulio Itzcovich, Università di Brescia; Anna Jellamo, Università della Calabria; Giulia Maria Labriola, Università Suor Orsola Benincasa; Marina Lalatta Costerbosa, Università di Bologna; Agostino Ennio La Scala, Università di Palermo; Nicola Lettieri, Università del Sannio; Carlo Lottieri Università di Verona; Claudio Luzzati, Università di Milano Statale; Francesca Malzani, Università di Brescia; Letizia Mancini, Università di Milano Statale; Massimo Mancini, Università di Perugia; Alessio Lo Giudice, Università di Messina; Fabio Macioce, Università di Roma Tor Vergata; Francesco Mancuso, Università di Salerno; Giorgio Maniaci, Università di Palermo; Marco Manno, Università di Palermo; Elisa Marchi, Università dell’Arizona; Leonardo Marchettoni, Università di Parma; Costanza Margiotta, Università di Padova; Realino Marra Università di Genova; Federico Martelloni, Università di Bologna; Luca Masera, Università di Brescia; Silvio Mazzarese, Università di Palermo; Michelina Masia, Università di Cagliari; Fabrizio Mastromartino, Università di Roma tre; Tecla Mazzarese, Università di Brescia; Giulia Melani, Università di Firenze; Dario Mellossi Università di Bologna; Ferdinando Menga, Università della Campania Luigi Vanvitelli; Giovanni Messina, Università di Napoli Federico II; Lorenzo Milazzo, Università di Pisa; Bruno Montanari, Università di Catania; Lalage Mormile, Università di Palermo; Luca Nivarra, Università di Palermo; Valeria Nuzzo, Università della Campania Luigi Vanvitelli; Francesco Pallante, Università di Torino; Giuseppa Palmeri, Università di Palermo; Giuseppe Palmisano, Università Roma tre; Letizia Palumbo, Università Ca Foscari di Venezia; Lina Panella, Università di Messina; Luigi Pannarale, Università di Bari Aldo Moro; Baldassare Pastore, Università di Ferrara Francesco Parisi, Università di Palermo; Paola Parolari, Università di Brescia; Davide Petrini, Università di Torino; Stefano Pietropaoli, Università di Firenze; Cesare Pinelli, Università di Roma La Sapienza; Anna Pintore, Università di Cagliari; Attilio Pisanò, Università del Salento; Tamar Pitch, Università di Perugia; Valerio Pocar, Università di Milano Bicocca; Francesca Poggi, Università di Milano; Ulderico Pomarici, Università della Campania Luigi Vanvitelli; Daniel Pomier, Università di Roma La Sapienza; Andrea Porciello, UMG – Università Magna Graecia di Catanzaro; Franco Prina, Università di Torino; Alessandro Purpura, Università di Palermo; Susanna Pozzolo, Università di Brescia; Isabella Quadrelli, Università di Urbino Carlo Bo; Marco Ragusa, Università di Palermo; Maura Ranieri Università Magna Graecia di Catanzaro; Vincenzo Rapone, Università di Napoli Federico II; Adrian Renteria Diaz, Università dell’Insubria; Giovan Battista Ratti, Università di Genova; Maria Cristina Reale, Università dell’Insubria; Maria Cristina Redondo, Università di Genova; Antonio Riccio, Università di Cassino e del Lazio Meridionale; Alessandro Riccobono, Università di Palermo; Francesco Riccobono, Università di Napoli Federico II; Enrica Rigo, Università Roma tre; Matteo Rinaldini, Università di Modena e Reggio Emilia; Eugenio Ripepe, Università di Pisa; Nicola Riva, Università di Milano Statale; Graziella Romeo, Università di Milano Bocconi; Daniela Ronco, Università di Torino; Paola Ronfani, Università di Milano Statale; Annamaria Rufino, Università della Campania Luigi Vanvitelli; Vincenzo Ruggiero, Middlesex University; Filippo Ruschi, Università di Firenze; Angelo Salento, Università del Salento; Giovanna Savorani, Università di Genova; Pier Francesco Savona, Università di Napoli Federico II; Caterina Scaccianoce, Università di Palermo; Vincenzo Scalia, Università di Firenze; Francesca Scamardella, Università di Napoli Federico II; Alberto Scerbo, UMG – Università Magna Graecia di Catanzaro; Angelo Schillaci, Università di Roma La Sapienza; Laura Scudieri, Università di Genova; Iacopo Senatori, Università di Modena e Reggio Emilia; M. Ausilia Simonelli, Università del Molise; Stefano Simonetta, Università di Milano Statale; Guido Smorto, Università di Palermo; Stefania Spada, Università di Bologna; Eleonora Spaventa, Università di Milano Bocconi; Ciro Tarantino, Università della Calabria; Gianluca Urbisaglia, Università di Roma La Sapienza; Alfredo Terrasi, Università di Palermo; Persio Tincani, Università di Bergamo; Giovanni Torrente, Università di Torino; Enza Maria Tramontana, Università di Palermo; Isabel Trujillo, Università di Palermo; Vito Velluzzi, Università di Milano Statale; Maria Carmela Venuti, Università di Palermo; Valeria Verdolini Università di Milano Bicocca; Massimiliano Verga, Università di Milano Bicocca; Susanna Vezzadini, Università di Bologna; Francesca Vianello, Università di Padova; Gloria Viarengo Università di Genova; Giacomo Viggiani, Università di Brescia; Francesco Viola, Emerito, Università di Palermo; Maria Virgilio Università di Bologna; Ermanno Vitale, Università della Val D’Aosta; Massimo Vogliotti, Università del Piemonte Orientale; Giuseppe Zaccaria Università di Padova; Loriana Zanuttigh, Università di Brescia; MatiJa Zgur, Università di Roma tre; Silvia Zullo, Università di Bologna

CODICI IDENTIFICATIVI SUBITO Chiediamo misure di identificazione per gli agenti impegnati in operazioni di ordine pubblico

Condividiamo la Campagna di Amnesty 

CODICI IDENTIFICATIVI SUBITO

Chiediamo di prevedere misure di identificazione per gli agenti impegnati in operazioni di ordine pubblico.

Vent’anni dopo il G8 di Genova del 2001, molti dei responsabili delle gravi violazioni dei diritti umani commesse in quell’occasione sono sfuggiti alla giustizia, restando di fatto impuniti.

In parte, il motivo è legato all’impossibilità di identificare gli esecutori materiali da parte dell’autorità giudiziaria.

Negli anni successivi, altri casi di persone che hanno subito un uso sproporzionato della forza durante manifestazioni o assemblee pubbliche, chiamano in causa la responsabilità di appartenenti alle forze di polizia.

Per porre fine alle violazioni dei diritti umani che vedono un coinvolgimento delle forze di polizia e riaffermare il ruolo centrale di queste nella protezione dei diritti umani, è essenziale che le lacune esistenti vengano al più presto colmate.

Tra queste ci sono i codici o numeri identificativi individuali, elemento importante di accountability; il fatto che i singoli agenti e funzionari siano identificabili è un messaggio importante di trasparenza che mostrerebbe la volontà delle forze di polizia di rispondere delle proprie azioni e allo stesso tempo accrescerebbe la fiducia dei cittadini.

La richiesta è quella di esporre un codice identificativo alfanumerico sulle divise e sui caschi per gli agenti e i funzionari di polizia (senza distinzione di ordine e grado) impegnati in operazioni di ordine pubblico.

Ciò avrebbe un duplice effetto di trasparenza: verso i cittadini, che saprebbero chi hanno di fronte, e a garanzia di tutti gli agenti delle forze dell’ordine che svolgono correttamente il loro servizio.

PER ADERIRE A QUESTO APPELLO VAI ALLA PAGINA DI AMNESTY 

 

La Resistenza in discarica e il neofascismo sdoganato

Fonte Volerelaluna

Libri e fascisti: un nodo antico, oggi declinato dai media nel modo più ipocrita, in un inquietante dilagare della zona grigia che consente a quella nera di allargarsi, preparandosi a governare il Paese. Perfino in Toscana si moltiplicano i segni di questa drammatica involuzione.

Leopoldo Boscherini, Ebrei a Castiglion Fiorentino. Guerra, internamenti, deportazioni 1940-1944. E ancora: Ivo Biagianti, Dal fascismo alla democrazia: Castiglion Fiorentino negli anni della Seconda Guerra mondiale. Sono solo due delle centinaia di libri che sono stati scaricati, lungo gli scorsi mesi, all’isola ecologica del comune di Castiglion Fiorentino, nella Valdichiana aretina. La notizia clamorosa è che a gettarli via non era stato un privato: era la Biblioteca Comunale. Che si spogliava, così barbaramente, di parte del suo pubblico patrimonio. Gli almeno sette viaggi del motocarro comunale Ape 50 carico di volumi mandati al macero hanno richiamato l’attenzione, e quindi l’indignazione, di alcuni cittadini e di consiglieri comunali di opposizione: ed è scoppiato lo scandalo. Si è così appreso che molti volumi provenivano dall’importante biblioteca lasciata al Comune (con precisi vincoli sulla sua destinazione) da monsignor Angelo Tafi, notissimo erudito autore di rilevanti studi storici sul territorio. In una sorta di suicidio culturale, poi, la Biblioteca ha gettato via anche interi scatoloni contenenti la collana dei suoi Quaderni, assai pregevoli pubblicazioni storiche realizzate con un (sacrosanto) investimento di denaro pubblico.

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Operazione “Guardiano delle Mura”, cosa sta succedendo in Palestina? Intervista a Romana Rubeo – Parte I

Fonte Pressenza.com

 

Ore critiche, specialmente nella Striscia di Gaza. L’Operazione “Guardiano delle Mura”, l’escalation militare portata avanti in questi giorni dall’esercito israeliano, sta mettendo a ferro e fuoco la Palestina. Di questo ne parliamo con Romana Rubeo, giornalista, traduttrice e redattrice di Palestine Chronicle.

Dove hanno origine questi scontri? Cosa è successo settimana scorsa?

Questa ultima escalation, in particolare, nasce dai fatti di Sheikh Jarrah, quartiere di Gerusalemme Est occupata che in questi giorni è il principale obiettivo della sistematica operazione di pulizia etnica portata avanti da Israele.

Dovendo ricostruire la mera cronaca, ventotto famiglie palestinesi che vivono in quel quartiere sono soggette a un provvedimento di sfratto in favore delle associazioni di coloni ebraici, che si sentono legittimati ad acquisire i diritti di proprietà su quelle abitazioni in virtù di un sistema di norme e provvedimenti emanati dallo Stato di Israele ma ritenuti illegittimi sotto il profilo del diritto internazionale. Gli abitanti del quartiere di Sheikh Jarrah stanno cercando in ogni modo di resistere allo sfratto, all’allontanamento forzato, a questa nakba permanente, in cui l’esproprio e il sopruso sono parte della quotidianità. Nella giornata del 2 maggio, data fissata dalla Corte Suprema per l’espulsione di almeno quattro famiglie, molti palestinesi sono accorsi nel quartiere per solidarizzare e resistere al provvedimento.

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Le spese militari in aumento anche nel 2021

Fonte Fondazione Sereno Regis che ringraziamo 
Anticipazione Mil€x: la spesa militare italiana sfiora i 25 miliardi nel 2021, +8,1% rispetto al 2020

La spesa militare italiana si attesta nel 2021 a poco meno di 25 miliardi di euro, secondo le stime anticipate oggi dall’Osservatorio Mil€x. Si tratta di valutazioni effettuate secondo la nuova metodologia elaborata dall’Osservatorio e ricavate dai dati definitivi dagli stati di Previsione finanziari dei Ministeri coinvolti e che evidenzia una crescita annua superiore all’8%.Il dato verrà ulteriormente precisato e definito nelle prossime settimane in occasione dell’uscita del nuovo Annuario  2021 di Mil€x che ingloberà ulteriori dati provenienti dalle documentazioni ufficiali attualmente ancora non disponibili (in particolare il Documento programmatico pluriennale DPP della Difesa e la ripartizione dei costi per le missioni militari all’estero). “A riguardo dei dati che diffondiamo oggi è doveroso sottolineare come non sia possibile una immediata comparazione con le precedenti stime di Mil€x – sottolinea Francesco Vignarca fondatore dell’Osservatorio – in quanto la nuova metodologia cambia radicalmente la considerazione di alcune voci. Abbiamo comunque realizzato un quadro con i riconteggi per gli ultimi tre anni, in modo da delineare le tendenze, in decisa crescita, decise con le ultime tre Leggi di Bilancio”. In particolare il totale complessivo si modifica in maniera rilevante con la nuova valutazione di costi per l’Arma dei Carabinieri: storicamente Mil€x – su indicazioni ufficiali della Difesa – includeva nella spesa militare la metà dei capitoli di bilancio ad essi assegnati, mentre attualmente viene estrapolata una quota (di molto inferiore) dalle indicazioni specifiche che il DPP rilascia sull’uso prettamente militare dei Carabinieri nelle missioni internazionali.Il totale per il 2021 così valutato è dunque pari a 24,97 miliardi di euro, provenienti in larga parte dal bilancio del Ministero della Difesa dedicato ad usi militari.

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José Mujica: “La civiltà digitale sta creando una vera malattia nella democrazia rappresentativa e non so quale sia la cura”

 

Fonte Equaltimes.org

Autore    Luis Curbelo

Traduzione automatica con Google Translator. Questa traduzione rende il senso dell’articolo, tuttavia consigliamo di leggere il testo originale su Equaltimes.org 

José Mujica, presidente dell’Uruguay dal 2010 al 2015, vive in completa isolamento nella sua casa di campagna a Rincón del Cerro (a 11 chilometri dal centro della città di Montevideo) dall’inizio della pandemia. A causa di una malattia immunologica a lungo termine, non può ricevere vaccinazioni e il suo unico modo per affrontare il coronavirus è esercitare estrema cura e precauzione.

Recentemente ha accettato di sedersi per una lunga chiacchierata con Equal Times che copriva molte aree di interesse internazionale. Ha condiviso con noi le sue opinioni sul fenomeno dei social network, i vantaggi e le insidie ​​della civiltà digitale e l’emergere di personaggi politici come Donald Trump negli Stati Uniti e Jair Bolsonaro in Brasile e le masse che li seguono.

Secondo Mujica, questa pandemia ha fatto emergere il lato peggiore dell’umanità accentuando l’egoismo dei paesi ricchi e mettendo a nudo la mancanza di solidarietà tra le persone. Dice che le classi medie, frustrate dalla concentrazione di ricchezza e potere e dalla loro incapacità di accedervi, si sono rivolte sempre più alla politica reazionaria. Sostiene che il vaccino contro il coronavirus è diventato incredibilmente politicizzato e incolpa il presidente russo Vladimir Putin per aver svolto un ruolo centrale in questo chiamando il vaccino prodotto nel suo paese Sputnik.

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Enrico Fierro e il caso Locri: “E’ stata un brutta operazione politica”

Autrice : Graziella Di Mambro

Fonte : Articolo 21.org

L’odiato Mimmo Lucano e gli odiatissimi giornalisti sono stati l’ossessione compulsiva che ha portato, con buona probabilità alle intercettazioni dell’inchiesta Xenia sul modello di integrazione di Riace e sul clamore che fece negli anni 2016-2017, quando, invece, certa vulgata nazional popolare indicava negli immigrati il più importante rischio per l’ordine pubblico e la sicurezza. Il giorno seguente lo scoop sulla seconda “colata” di intercettazioni quantomeno inutili a carico di 33 giornalisti, l’autore, Enrico Fierro, racconta l’accaduto col tono pacato del cronista che non si spaventa e non si illude e che ha seguito questa storia dall’inizio, nei dettagli, alla maniera di un certo giornalismo vecchio stile, ossia leggendo migliaia di documenti e ascoltando, paziente, ogni udienza per raccogliere ogni briciolo interessante di questa vicenda.

Che ha inizio con l’indagine su Mimmo Lucano per poi dipanarsi attorno all’attenzione mediatica per quel sindaco, il quale ha voluto solo dare corpo ad un’idea di accoglienza e integrazione.
“Premetto subito che qui non si tratta di assicurare una disparità di trattamento ai giornalisti né di escluderli dalle intercettazioni nell’ambito di qualsivoglia indagine. Tuttavia ciò che è accaduto è che sono stati ascoltati dialoghi tra giornalisti e Lucano nei quali si parlava di rapporti personali, addirittura di familiari e sono stati trascritti, dunque resi pubblici, numeri di telefono, indirizzi, commenti sulla politica. Io ho fatto con Lucano delle considerazioni politiche, cosa c’entrano con l’inchiesta’”.

Cosa c’entrano?

“Nulla assolutamente. Lo posso dire con certezza e senza pregiudizio. Io mi sono letto le trascrizioni delle udienze e posso affermare che non una sola di quelle intercettazioni trascritte ha apportato alcunché all’accertamento delle contestate responsabilità penali in questa inchiesta né è stata utile eventualmente per altre”

Dunque qual era l’obiettivo? Cosa volevano da Mimmo Lucano?

“Io penso che ciò che è accaduto vada ben al di là di una violazione pur grave della libertà di informare e dell’esercizio della professione. Siamo davanti ad un’operazione politica. Questo è. Sono state utilizzate quelle intercettazioni per un’operazione politica”.

Il processo scaturito dalle indagini sta per arrivare a conclusione. Cosa è stato veramente?

“Io l’ho seguito passo passo e, ripeto, le intercettazioni ai giornalisti non hanno apportato un solo granello di utilità. Poi bisogna dire che questo processo non lo si è potuto seguire in aula. Io ho dovuto aspettare una settimana per leggere le trascrizioni d’aula di ogni udienza e capire. Ma questa è un’altra storia”.
Una storia che riguarda sempre più processi in Italia. Ora abbiamo l’alibi del covid ma in realtà, come ha dimostrato la battaglia per l’accesso al dibattimento di ” Rinascita Scott”, c’è una generale tentazione a sottrarre ai giornalisti la possibilità di seguire anche fasi che la procedura indica espressamente come tappe pubbliche. Per tornare alla vicenda Locri però è utile soffermarsi su un ulteriore passaggio sottolineato da Enrico Fierro. Questo: “E’ difficile credere che chi intercetta e poi trascrive non si renda conto che sta buttando nel calderone elementi ultronei e che, al contempo, sta facendo una violazione grave dei diritti più elementari della giustizia. nel caso dell’indagine della Procura di Locri sono stati resi noti i numeri telefono di persone che, forse, dico forse, non volevano renderli noti. E poi c’è il rispetto per la professione giornalistica. Con quelle intercettazioni è stato conosciuto il contenuto di articoli prima che gli stessi fossero pubblicati. Una roba assurda!”

A chi interessava o interessa in Italia costruire un archivio delle vite private dei giornalisti?

“Non lo so e spero che non si tratti di una schedatura. So invece che 33 giornalisti estranei all’inchiesta si sono trovati con le loro vite dentro al brogliaccio di questa inchiesta. I numeri di telefono di queste persone sono stati resi noti senza il loro consenso e senza alcun nesso con l’inchiesta. Vedo inoltre un evidente attacco ala segretezza delle fonti. anche qui: possibile che chi fa questo non si renda conto della gravità?”

Victoria non è morta, è stata uccisa dalla polizia

 

Fonte Americalatina 

Mérida, Yucatán, 31 marzo 2021.- Mentre l’intero stato di Quintana Roo attende l’inizio delle vacanze di Pasqua e le sue migliaia di turisti, lo scorso fine settimana ci sono stati omicidi di quattro donne, uno per mano di poliziotti.

Secondo le statistiche delle Nazioni Unite, in Messico vengono uccise più di 10 donne al giorno. Sabato, quattro di loro sono stati uccisi a Quintana Roo, un Gender Alert dal 2017 e dove lo scorso novembre la polizia di Cancun ha represso con proiettili la manifestazione che chiedeva giustizia per la morte di Alexis, un’altra vittima di femminicidio.

A Isla Holbox, Karla M., 29 anni, originaria di Progreso, Yucatán, tassista e madre di un bambino, è stata assassinata in modo estremamente violento. L’hanno trovata legata, con il seno tagliato, all’interno del suo golf cart, un veicolo che era in mare, tra Punta Coco e Punta Ciricote. È il primo femminicidio registrato nella storia dell’isola.

A Cancun, una donna è stata portata in un luogo disabitato vicino alla suddivisione di Kusamil, dove è stata trovata morta da un colpo di pistola alla testa e due al petto. Inoltre, una giovane donna è stata uccisa dandole fuoco, sebbene la famiglia non volesse fornire ulteriori informazioni su questo caso.
A Tulum, nel pomeriggio di sabato 27, Victoria Salazar, una donna di 36 anni di origine salvadoregna, madre single di due figlie e con un permesso di soggiorno umanitario nel paese, si trovava in Faisán Avenue quando è stata arrestata e uccisa dalla polizia municipale

Alcuni testimoni affermano che chiamava un taxi e fermava tutte le macchine per portarla via e che in ogni momento guardava indietro, come se la inseguissero. In questa è arrivata la pattuglia 9276 della Polizia Municipale, da dove sono scesi gli agenti Veronica Valdivia Cabrera, di Mérida; Juan Chan Uc, di Kantunilkín; Miguel Canché Castillo e Raul López Chan di Valladolid. L’hanno afferrata, ammanettata e sottoposta a terra, come si può vedere nel video che circola sui social, mettendole un ginocchio sul collo, atto che le ha fratturato la base del cranio (tra la prima e la seconda vertebra) e ha causato la morte, anche se in un primo momento si è parlato di soffocamento senza specificarne i motivi.

La Commissione nazionale per la prevenzione e l’eliminazione della violenza contro le donne ha rilasciato una dichiarazione chiedendo che i responsabili siano puniti e la Commissione per i diritti umani di Quintana Roo ha riferito di aver aperto una denuncia d’ufficio contro agenti di pubblica sicurezza municipali a Tulum a causa della privazione della vita.

Le preoccupazioni del difensore civico Marco Antonio Toh Euán sono più che giustificate, visto che finora quest’anno ci sono state 335 denunce contro la polizia municipale, la maggior parte per detenzioni arbitrarie e trattamenti inumani.

A livello federale, secondo il Rapporto 2021 di Human Rights Watch, è normale che le vittime di crimini violenti e violazioni dei diritti umani non ottengano giustizia nel sistema criminale messicano. Da parte sua, l’organizzazione non governativa Impunidad Cero indica che solo l’1,3% dei crimini commessi in Messico è stato risolto. Ciò è dovuto a vari motivi, tra cui corruzione, mancanza di formazione e risorse sufficienti e complicità di agenti del Ministero pubblico e difensori pubblici con criminali e altri funzionari violenti.

Forse cercando di migliorare questa percentuale vergognosa, il procuratore generale dello Stato di Quintan Roo (FGE) ha dichiarato che sarà prepotente nel suo portafoglio, e di fatto la tempestività con cui hanno licenziato Nesguer Ignacio Vicencio Méndez, responsabile dell’unico comando a Tulum. In precedenza, i tre uomini e una poliziotta che hanno ucciso Victoria sono stati separati dalle loro accuse e che sono stati ammessi lunedì nel centro di detenzione di Playa del Carmen con l’accusa di omicidio e femminicidio aggravato.

Sicuramente la pressione del governo salvadoregno e le parole di López Obrador che, lunedì mattina, ha affermato che questo crimine “ci riempie di dolore, dolore e vergogna” che ha influenzato la tempestività della Procura, insieme alla rinnovata sensibilità al quale in tempi recenti i casi di violenza di genere vengono affrontati dai media nazionali e internazionali.

Inoltre, le reazioni dei cittadini che non si sono fatte attendere, a cominciare da Tulum. A poche ore dall’omicidio, centinaia di persone piene di indignazione, rabbia e coraggio sono scese in piazza chiedendo giustizia. Le manifestazioni sono iniziate in quel comune e successivamente si sono diffuse nelle principali città e paesi all’interno e all’esterno dello stato (una è prevista per venerdì 2 alle 18:30 in Plaza Grande de Mérida) con striscioni e slogan come “Polizia femminicida! “,” Non uno più ucciso! ” “Non è stata uccisa!” e “La polizia non si prende cura di me, i miei amici si prendono cura di me!” Sono gli stessi slogan con cui negli ultimi anni migliaia e migliaia di donne sono scese in piazza in Messico e nel mondo.

Perché le donne non si sentono curate dagli agenti? ma al contrario, molti tremano ogni volta che vedono una donna in uniforme.

L’incapacità, l’abuso e la violenza fisica, verbale o psicologica degli agenti di polizia messicani non sono una novità per nessuno di noi che ha avuto l’opportunità di trovare un agente per strada. Per coloro che non lo fanno, daremo alcune informazioni.

I primi provengono da Amnesty International, che ha appena pubblicato il rapporto intitolato “Messico: l’era delle donne. Stigma e violenza contro le donne che protestano ”in cui si legge che le autorità rispondono alle proteste delle donne e contro la violenza di genere con un uso eccessivo e non necessario della forza, con detenzioni illegali e arbitrarie, con abusi verbali e fisici basati sul genere contro le donne e con la violenza sessuale. E l’uso non necessario, eccessivo e sproporzionato della forza è costante come un modo per inibire il diritto di riunione pacifica, attraverso “detenzioni o assicurazioni preventive” per arrestare arbitrariamente coloro che desiderano partecipare a manifestazioni o per “sospetti” di voler trasportare un crimine “.

In questi giorni, il procuratore generale dello Stato ha affermato che “la manovra di sottomissione utilizzata è stata effettuata in maniera sproporzionata, smodata e con un alto rischio di vita”. E con lui, diversi rappresentanti del governo e dei media parlano di un “uso non necessario, eccessivo e sproporzionato” della forza e alcuni addirittura dicono semplicemente che “sono sfuggiti di mano”. Ma i dati ci parlano di una realtà diversa.

Quella manovra di sottomissione era la stessa tecnica che gli agenti di polizia americani di Minneapolis hanno usato per arrestare George Floyd e che ha causato la sua morte, così come le sue famose ultime parole che non riesco a respirare che hanno acceso la rabbia della popolazione afroamericana e del movimento BlackLiveMatters. Diverse forze di polizia hanno già posto il veto a questa manovra a causa dei suoi alti rischi per la vita del soggetto o l’hanno limitata a casi di estrema minaccia per gli agenti, situazione in cui la polizia ovviamente non si è trovata né nel caso di Floyd né nel caso di Victoria.
Eccesso di violenza quindi, come descritto dalla necropia tra le cause della morte di Victoria. Violenze inutili e immotivate, forse per l’incapacità di valutare il rischio secondo le direttive del Manuale per l’uso della Forza di SEGOB e CNS, a causa della scarsa o nulla formazione delle forze di polizia sui diritti umani, come dichiarato da un ex agente di polizia municipale di Tulum e conferma i dati.
In Quintana Roo, il 20 per cento degli agenti di polizia non ha la certificazione unica di polizia (CUP), che approva la preparazione e il profilo di ogni agente per coprire i propri compiti; anche peggio a Tulum, dove il 54 per cento non ha quel requisito obbligatorio a livello nazionale. Si parla di errori e persino di morte ingiusta, come se l’uso sproporzionato della forza da parte della polizia fosse un errore, un fallimento di alcune mele marce, ma ancora una volta i dati ci danno un quadro diverso della realtà.

Perché così tante persone (il 70% della popolazione messicana secondo i dati INEGI) non si fidano della polizia? I rapporti internazionali e le cronache nazionali abbondano di casi di violenza perpetrata dalla polizia e dall’esercito. Disegnano un paese in cui la violenza è usata regolarmente e sistematicamente dallo Stato, che, secondo il sociologo Max Weber, detiene il monopolio della violenza che dovrebbe essere usata all’interno dei quadri costituzionali.
Secondo i dati del Rapporto 2021 di Human Rights Watch, la tortura è ampiamente praticata in Messico per estrarre prove o confessioni nonostante il fatto che una legge del 2017 impedisca l’uso di tali prove in tribunale. Secondo il CNDH, le indagini sui casi di tortura condotte dallo Stato erano solo 13 nel 2006 per passare a oltre 7.000 nel 2019. Il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura ha espresso la sua preoccupazione che pochissimi di questi casi si traducono in procedimenti giudiziari o arresti, dato che dei 3.214 registrati nel 2016 solo otto hanno portato all’arresto e ai relativi procedimenti penali.

L’uso della violenza è comune anche durante l’arresto: secondo INEGI, il 64% della popolazione carceraria ha subito violenze, come percosse, scosse elettriche e altre forme di tortura al momento del loro arresto.
Sperando che l’omicidio della polizia di Victoria venga completamente chiarito, voglio porre ai lettori due domande: cosa sarebbe successo se la donna fosse stata di pelle chiara o di un paese europeo? Cosa sarebbe successo se negli ultimi anni le donne non fossero scese in piazza esprimendo quella giusta rabbia che sta mettendo al bastone chi governa, costringendoli a cercare di dare risposte rapide ed efficaci alla violenza di genere? (Illustrazione tratta dai social network)

 

Un libro. Fascismo Tropicale – Il Brasile tra estrema destra e Covid-19 di Claudiléia Lemes Dias

Fonte : la bottega del Barbieri 

Nel settembre 2018, un mese prima che Jair Bolsonaro divenisse il nuovo, scomodo, inquilino del Planalto, a Rio de Janeiro andò a fuoco il Museo nazionale del Brasile. Tra ciò che venne arso dalle fiamme vi furono la collezione delle lingue indigene, le registrazioni dei canti degli indios e dei quilombolas e la mappa etnico-storico-linguistica originale che localizzava tutti i gruppi etnici. Si trattò di un «tragico annuncio del progetto bolsonarista per il Brasile», ha scritto Claudiléia Lemes Dias nel suo libro Fascismo tropicale. Il Brasile tra estrema destra e Covid-19, che racconta nel dettaglio come la macchina di propaganda del presidente abbia preso possesso militarmente del più grande paese dell’America latina.

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Tre economiste innovatrici

Autrice- Fiorella Carollo

Fonte : Pressenza.com 

Oggi nel mondo sono in atto degli esperimenti a livello politico ed economico che avrebbero bisogno della massima attenzione e considerazione. Da una parte la ragione per cui non hanno ricevuto la dovuta attenzione è da imputarsi all’interesse di mantenere lo status quo, dall’altra mi chiedo se la ragione non sia perché hanno come protagoniste delle donne, da una parte le economiste e dall’altra le politiche. Le tre economiste in oggetto sono Esther Duflo, Julia Steinberger e Kate Rawhorth i fatti in oggetto sono: il 20 aprile 2020 la sindaca di Amsterdam stringe un accordo con l’economista Kate Raworth per conformare le nuove politiche economiche a quelle dell’economista britannica. L’altro fatto è in corso da quattro anni in Nuova Zelanda da quando nel 2016 è stata eletta la prima ministra Jacinda Ardern, la più giovane prima ministra mai nominata nel mondo, la quale ha dichiarato che le politiche e i bilanci della Nuova Zelanda non si sarebbero più uniformate al principio della crescita economica ma bensì ad assicurarsi il benessere nella qualità della vita dei suoi cittadini. Se questi due esperimenti dovessero funzionare cioè se fra qualche anno i dati raccolti dimostreranno che effettivamente le emissioni di CO2 sono diminuite in Olanda e questo non ha comportato alcuna recessione economica e che in Nuova Zelanda l’economia sia riuscita a “prosperare senza crescita” beh a quel punto i sostenitori della crescita a oltranza avrebbero dei dati su cui riflettere.

Da quando ho pubblicato il mio libro “Extinction Rebellion e la rivoluzione ambientale”1 ne parlo con le persone e ho notato che quando affronto criticamente l’argomento “economia” le persone reagiscono come se toccassi una vacca sacra. Mi rendo conto che molti hanno paura di perdere i privilegi e il benessere economico che hanno grazie all’economia, a questa economia. Personalmente, sono d’accordo con quanti dicono che l’economia è troppo importante per lasciarla solo agli economisti. Non dobbiamo sentirci impotenti perché non siamo laureate in economia! Quello che è importante è usare il proprio buon senso e documentarsi costantemente, diventare cittadine partecipi del nostro sistema democratico.

Alla fin fine penso che molto si riduca alla necessità di educare le persone ad una nuova prospettiva sociale, di stimolare il dibattito su un’economia più giusta per tutti, sulla necessità di reclamare un sistema economico diverso che pone al centro non più gli interessi del 1% della popolazione mondiale ma bensì la salute, l’interesse di tutti. Alle persone che temono una economia diversa perché temono di perdere i loro privilegi, dico loro che un’economia che mette in primis il benessere di tutti i cittadini e la loro salute, che vuole tutelare i lavoratori nella transizione alle energie rinnovabili e che vuole rispettare l’ambiente, significherà vivere in una società dove le tensioni sociali, la violenza, la povertà, il crimine saranno alquanto ridimensionate se non scomparse e questo inevitabilmente porterà una qualità di vita migliore per tutti. Allora forse questo è uno scambio che può essere equo per quelle persone benestanti che hanno timore di guardare a un’economia diversa da quella neoliberista.

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Una crescente militarizzazione: rischi in più per la pace e anche per l’ambiente

Fonte:  Fondazione Sereno Regis 

Autrice
Elena Camino


Un interessante caso di collaborazione tra politici e studiosi

È stata pubblicata il 23 febbraio 2021 la relazione finale di una ricerca che era stata commissionata da un gruppo politico (il Left Group del Parlamento Europeo) ai ricercatori di due associazioni che da molti anni sono impegnate nel denunciare – dati alla mano – i rischi e i danni ambientali causati dalle attività militari: una crescente militarizzazione produce rischi in più per la pace e anche per l’ambiente.

Non solo durante le attività belliche (bombardamenti, distruzioni di territori, avvelenamenti di sistemi biologici…), ma anche in tutte le tappe che le precedono e le seguono: dall’estrazione di materie prime, alla produzione di armamenti, alle esercitazioni, agli spostamenti di truppe, fino allo smaltimento – spesso assai inquinante – di residui bellici. 

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Draghi, lupi, faine e sciacalli – di Marco Revelli

FONTE VOLERELALUNA .IT

Questo articolo di Marco Revelli è stato pubblicato il 29 marzo 2020, Lo riprendiamo ora, per opportuna conoscenza 

 

“Meglio tardi che mai” verrebbe da dire a proposito dell’ormai celeberrimo intervento di Mario Draghi sul “Financial Times” del 25 marzo sotto il titolo potentissimo: We face a war against coronavirus and must mobilise accordingly. Ma cosa pensare davvero, di questo neopensionato governatore della Banca centrale europea che mette in campo un linguaggio di stampo keynesiano (il Keynes delle celeberrime considerazioni su Le conseguenze economiche della pace del 1919) dopo essere stato per decenni attento “custode dei cancelli” del credo ultraliberista egemone?
E’ un Draghi che ritorna alle origini, giovane assistente del prof. Federico Caffè, uno dei padri del keynesismo italiano, dopo una brillante tesi di laurea su “Integrazione economica e variazioni dei tassi di cambio” discussa con lui relatore alla Sapienza e premiata magna cum laude? O è il Draghi della sua seconda (molto più lunga) vita, spesa nel cuore delle roccaforti finanziarie globali? Certo, il suo curriculum accademico è ragguardevole (nel 1981 ad appena 33 anni è ordinario di Economia e politica monetaria a Firenze), ma è l’altro, quello finanziario, sicuramente molto più denso, e “visibile”, a segnarne il profilo. Ed è un profilo che sicuramente con gli ideali keynesiani della giovinezza ha assai poco a che fare.

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No caro Renzi, l’Arabia Saudita non é un baluardo contro l’estremismo islamico

Fonte : articolo21.org che ringraziamo

Autrice:Tiziana Ciavardini

Mi dispiace Sig. Renzi, ma sulla politica estera sembra che Lei abbia le idee abbastanza confuse. Definire il regime saudita come un “baluardo contro l’estremismo islamico” é una delle castronerie piú pericolose che Lei potesse dire. Per difendersi dalle polemiche nate in seguito alla sua visita in Arabia Saudita l’ex Sindaco di Firenze, Matteo Renzi, ha rilasciato alcune opinabili dichiarazioni al Corriere della Sera. Dopo aver creato una crisi di governo, in un momento di difficile gestione politica e con l’incognita del futuro di questo nostro sgangherato paese il Leader di Italia Viva, si é recato a Ryad per partecipare ad un evento organizzato dalla fondazione Future investment initiative, di cui fa parte e per il quale recepisce un gettone che arriva fino a 80mila dollari e dove ha incontrato il principe ereditario Bin Salman.

“È un’attività che viene svolta da molti ex primi ministri, almeno da chi è giudicato degno di ascolto e attenzioni in significativi consessi internazionali”  ha risposto Renzi a chi lo ha criticato in questi giorni.

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I leader indigeni hanno denunciato Bolsonaro alla Corte dell’Aia

FONTE LA NUOVA ECOLOGIA CHE RINGRAZIAMO

 

 

 

Accusato di crimini contro l’umanità. Ecocidio, sterminio, migrazione forzata, schiavitù e persecuzione contro gli indigeni

Il Presidente Jair Bolsonaro avrebbe commesso crimini contro l’umanità, con la sua politica ambientale rovinosa e i suoi attacchi continui ai popoli indigeni. Questa l’accusa dei leader indigeni brasiliani, concretizzata venerdì scorso quando il capo Raoni Metuktire, del popolo Kayapo, e Almir Narayamoga Surui, leader della tribù Paiter Surui, hanno presentato una denuncia ufficiale alla Corte penale internazionale dell’Aia (Paesi Bassi). Nel documento, Bolsonaro è accusato, tra gli altri, di morte, sterminio, migrazione forzata, schiavitù e persecuzione contro gli indigeni. I principali capi d’accusa sono i livelli crescenti di deforestazione in Amazzonia, l’aumento delle uccisioni degli indigeni brasiliani e la rimozione delle protezioni speciali per la foresta pluviale e le terre tribali, politiche che secondo i leader mirano a “sfruttare le risorse naturali dell’Amazzonia e colpire i diritti dei popoli nativi”.

“Livelli così intensi di ecocidio devono essere considerati crimini contro l’umanità” – William Bourdon

Nel documento sono citati anche alcuni ministri del governo brasiliano: Ricardo Salles (Ambiente), Tereza Cristina (Agricoltura), Sérgio Moro (Giustizia) e Paulo Guedes (Economia). I tassi di deforestazione nell’Amazzonia brasiliana erano già in aumento quando Bolsonaro è entrato in carica nel gennaio 2019, ma sono saliti alle stelle durante l’ultimo periodo. Anche gli incendi nella regione sono arrivati a livelli record. Più di 2,7 milioni di acri dell’Amazzonia sono stati abbattuti nel solo 2020, secondo i dati del governo brasiliano, mai così tanti negli ultimi 12 anni. Raoni, 90 anni, è stato rappresentato all’Aia dall’avvocato francese William Bourdon che ha dichiarato: “Livelli così intensi di ecocidio devono essere considerati crimini contro l’umanità”.

Il Presidente Bolsonaro ha anche rimosso il Funai (la Fondazione Nazionale per gli Indigeni) dalla funzione di supervisionare e gestire i territori indigeni, affidando questo ruolo al Ministero dell’agricoltura, con il fine di aprire l’Amazzonia e le riserve tribali all’agribusiness e ad altri interessi industriali. L’allentamento dei controlli e della protezione avrebbe causato picchi drammatici di incursioni nelle terre indigene negli ultimi anni e un aumento delle violenze. Nel 2019 le invasioni sono aumentate del 135%, mentre le sanzioni per crimini ambientali sono diminuite del 40%, nonostante la deforestazione sia aumentata.

Anche il modo in cui il governo ha gestito la pandemia di Covid-19 nelle terre indigene avrebbe provocato centinaia di vittime, lasciando i nativi senza soccorso. Inoltre gli incendi e il rifiuto di Bolsonaro di delimitare nuovi territori protetti hanno costretto le persone a lasciare le loro terre, generando una nuova migrazione forzata verso le città.

Amanda Gorman, “La collina che scaliamo”

FONTE PRESSENZA.COM 

 

Amanda Gorman, 22 anni, è la più giovane poetessa intervenuta all’insediamento di un presidente degli Stati Uniti. Il team che ha organizzato la cerimonia per Joe Biden l’ha contattata alla fine del mese scorso per recitare una poesia sull’unità del paese.

La collina che scaliamo

Signor Presidente, Dott. Biden, Signora Vice Presidente, Signor Emhoff, americani e mondo, quando arriva il giorno ci chiediamo: dove possiamo trovare la luce in questa ombra infinita? La perdita che portiamo sulle spalle è un mare dobbiamo guadare. Abbiamo sfidato il ventre della bestia. Abbiamo imparato che la quiete non è sempre pace. Nelle norme e nelle nozioni di ciò che è giusto non sempre c’è giustizia. Eppure, l’alba è diventata nostra prima che ce ne rendessimo conto. In qualche modo ce l’abbiamo fatta. In qualche modo abbiamo resistito e siamo stati testimoni di una nazione che non è spezzata, ma semplicemente incompiuta. Noi, i successori di un paese e di un tempo in cui una magra ragazzina afro-americana cresciuta da una mamma single che sognava un giorno di diventare presidente oggi recita all’insediamento di un presidente.

E sì, siamo tutt’altro che ricercati, tutt’altro che puri, ma questo non significa che ci stiamo sforzando di formare un’unione perfetta. Stiamo cercando di forgiare la nostra unione con uno scopo. Per comporre un paese impegnato verso ogni cultura, colore, indole e condizione umana. E così alziamo lo sguardo non su ciò che ci separa, ma su ciò che ci sta davanti. Chiudiamo il divario perché sappiamo che per mettere il nostro futuro al primo posto, dobbiamo prima mettere da parte le nostre differenze. Abbassiamo le nostre braccia in modo da poterci tendere le braccia. Non vogliamo danneggiare nessuno e cerchiamo l’armonia per tutti. Lasciamo che il mondo, se non altro, dica che questo è vero. Anche quando abbiamo sofferto, siamo cresciuti, anche quando ci siamo feriti abbiamo sperato e quando ci siamo stancati, ci abbiamo provato e saremo per sempre legati insieme nella vittoria. Non perché non conosceremo mai più la sconfitta, ma perché non semineremo mai più la divisione.

Le Scritture ci dicono di immaginare che ognuno possa sedersi sotto la propria vite e il proprio fico e che nessuno lo spaventi. Se dobbiamo tener fede al nostro tempo la vittoria non sarà nella spada, ma nei ponti che abbiamo costruito. Questa è la promessa della radura, la collina che scaleremo se solo oseremo. Perché essere americani è più di un orgoglio che ereditiamo: è un passato in cui ci inseriamo chiedendoci come possiamo ripararlo. Abbiamo visto una forza che avrebbe frantumato la nostra nazione pur di non condividerla, l’avrebbe distrutta se solo avesse potuto con questo ostacolare la democrazia. E questo sforzo ha quasi avuto successo.

Ma se la democrazia può essere periodicamente ostacolata, essa non può mai essere permanentemente sconfitta. In questa verità, in questa fede crediamo. Perché mentre puntiamo i nostri occhi sul futuro,
la Storia punta i suoi occhi su di noi. Questa è l’era della giusta redenzione. L’abbiamo temuta al suo inizio. Non ci sentivamo pronti a essere gli eredi di un’ora così terrificante, ma al suo interno abbiamo trovato il potere di scrivere un nuovo capitolo, di offrire speranza e risate a noi stessi. Mentre una volta ci siamo chiesti: come potevamo prevalere sulla catastrofe? Ora affermiamo: come potrebbe mai la catastrofe prevalere su di noi?

Non torneremo indietro verso quello che era, ma ci muoveremo verso quello che sarà un paese ferito ma integro, benevolo ma audace, fiero e libero. Non ci faremo spingere indietro o piegare dalle intimidazioni, perché sappiamo che la nostra inazione e la nostra inerzia saranno l’eredità della prossima generazione. I nostri errori diventeranno il loro peso. Ma una cosa è certa: se uniamo la misericordia con la forza e la forza con il diritto, allora l’amore diventerà la nostra eredità e cambierà il diritto di nascita dei nostri figli.

Dunque fateci vivere un paese migliore di quello che abbiamo lasciato. Con ogni respiro dal mio petto di bronzo solleveremo questo mondo ferito trasformandolo in un mondo meraviglioso. Ci innalzeremo dalle colline d’oro dell’Ovest. Ci alzeremo dal nord-est spazzato dal vento, dove i nostri antenati fecero la rivoluzione. Risorgeremo dalle città sulle rive dei laghi negli stati del Midwest. Ci alzeremo dal Sud arso dal sole. Ricostruiremo, ci riconcilieremo e recupereremo in ogni nicchia conosciuta della nostra nazione, in ogni angolo chiamato paese. Il nostro popolo diverso e bello emergerà maltrattato eppure stupendo.

Quando verrà il giorno, usciremo dall’ombra ardenti e senza paura. La nuova alba sorgerà mentre la liberiamo. Perché ci sarà sempre luce se avremo il coraggio di vederla. Se avremo il coraggio di essere quella luce.

 

Stiglitz afferma che la pandemia del Covid-19 ha mostrato conseguenze del neoliberismo

Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia, si è scagliato contro il neoliberismo e ha assicurato che la pandemia del Covid-19 sta attualmente mostrando le conseguenze di 40 anni di imposizioni da parte del neoliberismo.

L’eminente economista statunitense ha tenuto una conferenza principale nell’ambito delle sessioni del Future Congress 2021, il principale evento scientifico del Cile, tenutosi virtualmente e programmato per concludersi giovedì, dopo aver concentrato la sua attenzione sulla pandemia.

Stiglitz ha affermato che il neoliberismo ha denigrato per quattro anni l’importanza del ruolo dei governi e ha privilegiato l’azione incontrollata dei mercati, ecco perché molti Stati si sono trovati in una situazione povera per affrontare l’attuale crisi sanitaria.

Il professore dell’Università dell’Indiana ha considerato che le nazioni di maggior successo nell’affrontare la pandemia Covid-19 sono state quelle “che vantano governi efficaci, istituzioni forti e buona scienza”.

Ha aggiunto che la pandemia ha colpito di più quelle nazioni con profonde disuguaglianze, dove non c’è accesso universale ai sistemi sanitari e hanno una scarsa protezione sociale, e ha anche detto che ‘per questo motivo gli Stati Uniti sono stati uno dei più colpiti, con il 25% dei casi, nonostante abbia solo il 4 per cento della popolazione mondiale. ”

Si tratta di un paese “che non riconosce l’accesso al sistema sanitario come un diritto umano fondamentale” e ha assicurato che i settori poveri “hanno subito più morti, una maggiore esposizione alla malattia e una maggiore perdita di reddito sanitario”.

 

Milagro Sala: le organizzazioni sociali chiedono la liberazione

FONTE PRESSENZA.COM 

Organizzazioni politiche e sociali, sindacati e organizzazioni per i diritti umani si sono mobilitate nel centro di Buenos Aires, fino a Plaza Lavalle, per chiedere alla Corte Suprema di Giustizia di rilasciare Milagro Sala, leader sociale del gruppo Túpac Amaru, cinque anni dopo il suo arresto a Jujuy.

Milagro Sala è da cinque anni o in carcere o agli arresti domiciliari per una serie di accuse montate ad arte dal governatore di Jujuy Morales, suo nemico politico da sempre, portate avanti da giudici nominati dal governatore stesso al suo insediamento. Le cause in corso hanno avuto risultati controversi e hanno prodotto la paralisi di buona parte delle attività di Tupac Amaru in una delle regioni più povere del paese, dove l’organizzazione presieduta da Milagor Sala aveva realizzato, oltre alle case popolari per cui aveva ricevuto finanziamento, ospedali, scuole, ambulatori medici, parchi giochi e parchi acquatici per i bambini, in un rivoluzionario modello di riscatto sociale dei popoli originari e della gente poveraed emarginata.

“È proprio la Corte che deve risolvere l’apertura dei fascicoli e i ricorsi in appello che abbiamo presentato”, ha spiegato il coordinatore nazionale del Túpac Amaru, Alejandro Garfagnini “La Corte deve pronunciarsi sulla nullità delle cause”, ha detto chiarendo il motivo per cui ci si è rivolti alla Corte Suprema di Giustizia.

Anche a Jujuy una manifestazione analoga si è svolta con grande partecipazione popolare e si è conclusa con il discorso di Raúl Noro, compagno di Milagro Sala.

Brasile, Bolsonaro esclude il 50% degli indigeni dalle vaccinazioni anti-Covid

 

Fonte Pressenza,com

Il leader indigeno Dinaman Tuxá denuncia che il governo di ultradestra di Bolsonaro ha escluso dalla vaccinazione gli indigeni che vivono nei centri urbani.

Il coordinatore esecutivo dell’Articolazione dei Popoli Indigeni del Brasile (APIB), Dinaman Tuxá, ha infatti dichiarato alla stampa locale che l’esecutivo intende escludere dalla vaccinazione contro il Covid-19 coloro che vivono in condizioni precarie, in abitazioni di fortuna o senza fissa dimora nelle aree urbane.

Secondo Tuxá, le autorità hanno in programma di vaccinare contro il Covid-19 solo gli indigeni che vivono nei villaggi ed ha ricordato che l’ultimo censimento della popolazione effettuato in Brasile (2010) ha mostrato che a quel tempo le popolazioni originarie raggiungevano le 890.000 persone.

Citando i numeri del governo, Tuxá ha ricordato che il piano generale di vaccinazione contro il Covid-19 presentato lo scorso dicembre dal ministro della Salute, generale Eduardo Pazuello, prevede l’immunizzazione solo di 410.000 di loro, meno della metà: “Che fine faranno gli altri?”

Secondo il giovane leader del popolo indigeno le misure che l’Esecutivo ha preso nel contesto della pandemia già hanno accresciuto la violenta usurpazione delle loro terre e l’inquinamento, a ciò si aggiunge ora che cercano di escludere più di 500.000 indigeni dalla immunizzazione.

Uno studio sierologico condotto dall’Università Federale di Pelotas (stato del Rio Grande do Sul) nel luglio 2020, ha messo in guardia sulla maggiore probabilità di contaminazione del coronavirus SARS-COV-2 tra le popolazioni indigene che vivono nelle città.

Secondo la ricerca, hanno il 6,4% di probabilità in più di essere infettati rispetto alla popolazione bianca, a causa della mancanza di accesso agli alloggi e ai servizi sanitari di base, all’acqua pulita e alle fognature.

 

Fonte: https://www.telesurtv.net/news/indigenas-brasilenos-alertan-excluidos-vacunacion-20210107-0026.html

Foto: https://twitter.com/Survival/status/1194967956909936640/photo/3

Export di armi italiane, segreti e silenzi di Stato

Autore
Giorgio Beretta

Fonte : Fondazione Sereno Regis 

 

Segreto di Stato. È questo il principio che per quasi 50 anni, ha regolato le esportazioni di sistemi militari dell’Italia. Sancito nel Regio decreto n. 1161 dell’11 luglio 1941 – siamo in piena epoca fascista e guerrafondaia – firmato da Mussolini, Ciano, Teruzzi e Grandi, il principio vietava categoricamente la divulgazione di notizie su movimenti, esportazioni e trasferimenti di armi e materiali militari.

Un principio che gli apparati e l’industria militare hanno sempre apprezzato. Anche per questo la legge n. 185 che il 9 luglio del 1990 ha introdotto in Italia «Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento» è sempre risultata indigesta alle aziende militari.

Come noto, il parlamento approvò la legge, dopo due legislature di intenso confronto parlamentare, grazie alla forte mobilitazione della società civile e dell’associazionismo laico e cattolico che promosse la campagna «Contro i mercanti di morte».

La 185/1990 si caratterizza per tre aspetti. Innanzitutto, richiede che le decisioni sulle esportazioni di armamenti siano «conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia» e vengano regolamentate dallo Stato «secondo i principi della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». E su questo punto si dovrebbe aprire un ampio dibattito politico perché il governo non ha mai spiegato al parlamento come le esportazioni di due fregate Fremm e le trattative in corso per esportare all’Egitto 11 miliardi di euro di sistemi militari – facendo dell’Egitto il primo Paese acquirente di armamenti italiani – siano conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia.

In secondo luogo la legge ha introdotto una serie di specifici divieti e un sistema di controlli da parte del governo, prevedendo specifiche procedure di rilascio delle autorizzazioni prima della vendita e modalità di controllo sulla destinazione finale degli armamenti. Infine, richiede al governo di inviare ogni anno al parlamento una Relazione annuale predisposta dal Presidente del Consiglio dei Ministri che comprenda le relazioni dei vari ministeri a cui sono affidate diverse competenze in materia di esportazioni di armamenti.

La legge riporta numerosi divieti ed in particolare due che attengono direttamente la questione delle esportazioni di sistemi militari all’Egitto. Innanzitutto il divieto ad esportare armamenti «verso i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia o le diverse deliberazioni del Consiglio dei ministri, da adottare previo parere delle Camere».

Ed è proprio a questo articolo che la Rete Italiana Pace e Disarmo ha fatto riferimento per evidenziare che la fornitura delle due fregate militari Fremm all’Egitto è in chiaro contrasto con la norma vigente. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, nella sua risposta al Question Time lo scorso 10 giugno ha infatti affermato che «oltre al vaglio di natura tecnico-giuridica, il governo ha ritenuto di svolgere una valutazione politica, in corso a livello di delegazioni di governo sotto la guida della presidenza del Consiglio dei ministri».

Ai sensi della legge, questa valutazione da parte del governo può essere adottata solo «previo parere delle Camere». Ma in questi mesi – l’annuncio della possibile fornitura delle due Fremm è del febbraio scorso – non risulta alcuna consultazione né parere del parlamento.

Inoltre la legge prevede il divieto ad esportare materiali d’armamento (tutti e non solo le cosiddette «armi leggere» «verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’Ue o del Consiglio d’Europa».

Nei confronti dell’Egitto, c’è una duplice chiara documentazione. Il Rapporto inviato nel maggio del 2017 dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite riporta che in Egitto la tortura è «praticata sistematicamente» ed è «abituale, diffusa e deliberata in un’ampia parte del Paese».

Inoltre la Risoluzione approvata lo scorso 18 dicembre dal Parlamento europeo evidenzia numerose gravi violazioni dei diritti umani in Egitto e che «gli arresti e le detenzioni in corso rientrano in una strategia più generale di intimidazione delle organizzazioni che difendono i diritti umani».

La famiglia Regeni ha annunciato un esposto contro il governo in carica per violazione delle norme delle legge 185/1990. È bene che intervenga la magistratura. Ma è innanzitutto compito del Parlamento richiedere che il governo riferisca alla Camere circa le esportazioni di sistemi militari all’Egitto. Se non vogliamo che il «segreto di Stato» si tramuti nel «silenzio di Stato».


Giorgio Beretta fa parte dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal)


Fonte: il manifesto, EDIZIONE DEL 02.01.2021

BRASILE: RAZZISMO E SFRUTTAMENTO NELLA GRANDE DISTRIBUZIONE

Ringraziamo la Fonte : la bottega del barbieri 

Lo scorso 21 novembre ha fatto scalpore l’uccisione di João Alberto Silveira de Freitas ad opera di uomini della sicurezza privata di Carrefour e della polizia militare a Porto Alegre. Nel più grande paese dell’America latina sono molte le multinazionali della grande distribuzione, degli alimenti, delle bibite e della moda ad essere responsabili di episodi simili.

di David Lifodi

Lo scorso 21 novembre hanno fatto il giro del mondo le immagini delle videocamere di sicurezza di Carrefour che hanno ripreso un uomo del servizio di vigilanza mentre picchiavano, fino ad uccidere, João Alberto Silveira de Freitas, insieme a membri della polizia militare. Il fatto è accaduto in Brasile, a Porto Alegre, a seguito di una presunta lite tra l’uomo e un commesso del supermercato.

L’episodio ha fatto scalpore per tre motivi.

In primo luogo perché situazioni di questo tipo si ripetono spesso nelle favelas e nei quartieri più poveri delle grandi città brasiliane. Gli ultimi dati evidenziano che ogni 23 minuti, in Brasile, viene uccisa una persona di colore.

In secondo luogo, ha sottolineato il giornalista Eric Nepomuceno nel suo articolo Ser negro sul quotidiano argentino Página/12, in Brasile non è la prima volta che Carrefour è coinvolta in casi del genere.

Infine, in terza istanza, la stessa Carrefour, insieme alle altre due grandi catene della grande distribuzione tra le più diffuse in Brasile, Pão de Açúcar e Big-Walmart, vendono frutta raccolta sfruttando i lavoratori più poveri del paese, secondo quanto ha denunciato Oxfam Brasil, evidenziando condizioni di lavoro molto vicine alla schiavitù e particolarmente pericolose soprattutto per via delle sostanze agrotossiche presenti nei campi di raccolta.

Marques Casara, sul quotidiano on line Brasil de Fato, nell’articolo Racismo y muerte en Carrefour son la punta de iceberg que involucra multinacionales ha ripercorso i molteplici episodi di razzismo di cui si sono resi colpevoli i grandi marchi della grande distribuzione organizzata e non solo in Brasile, a partire proprio da Carrefour. Nel 2009 due dipendenti della catena francese, nella città di Osasco (stato di San Paolo), picchiarono un nero, Januário Alves de Santana, pensando che stesse cercando di rubare un’automobile, rivelatasi poi essere di proprietà dello stesso Januário.

E ancora, il 14 agosto 2020, a Recife, sempre in un supermercato Carrefour, la morte di uomo di colore che lavorava per una ditta a cui lo stesso marchio aveva appaltato alcuni lavori fu nascosta dietro una lunga fila di ombrelli aperti affinché il negozio potesse continuare a rimanere aperto.

Se nella sede principale di Carrefour, quella francese, il razzismo non è tollerato, perché in Brasile avviene il contrario? A chiederselo è proprio Marques Casara, giornalista specializzato nell’analizzare l’attenzione dei grandi marchi globali per il rispetto dell’ambiente, dei diritti umani e della sicurezza nei luoghi di lavoro.

Tuttavia, Carrefour non è certo l’unica ad essere responsabile di episodi di questo tipo. L’utilizzo di lavoro schiavo e lavoro minorile, l’invasione di territori indigeni, la violazione dei diritti sindacali e la diffusione degli agrotossici accomunano tutte le grandi transnazionali presenti in Brasile, da Nestlé a Coca Cola, solo per citare alcuni dei marchi più noti.

È per questo che lo scorso 23 novembre, quando l’afrodiscendente João Alberto Silveira de Freitas, un saldatore di 40 anni, è stato ucciso da uomini della vigilanza privata di Carrefour e della polizia militare, centinaia di persone si sono radunate di fronte al supermercato di Porto Alegre per protestare al grido di “Vidas negras importam” e manifestazioni simili sono avvenute anche a Rio de Janeiro e San Paolo, ma il governo, come facilmente immaginabile, ha fatto di tutto per ridimensionare l’episodio e farlo passare sotto silenzio.

João Alberto Silveira de Freitas, bloccato da uno degli uomini della sicurezza, è stato picchiato per circa cinque minuti prima di essere immobilizzato e morire asfissiato.

Da parte sua Carrefour Brasile ha fatto sapere, tramite un comunicato, che si adopererà da ora in poi per combattere i pregiudizi e il razzismo strutturale presente nel paese e il direttore generale Alexandre Bompard, su twitter, ha definito quanto accaduto “un atto orribile” e le immagini delle videocamere di sorveglianza come “insopportabili”.

Spetta alla società civile e in particolare ai consumatori, scegliere cosa comprare e dove, ma gran parte dei grandi marchi, dalla grande distribuzione organizzata agli alimenti, dalla moda alle bibite, difficilmente deciderà di operare in maniera trasparente, equa e rispettando I diritti dei propri dipendenti e delle comunità su cui va ad impattare se l’opinione pubblica non chiamerà a fare “massa critica”.