Rossana Rossanda: Macron l’americano

di Rossana Rossanda

Fonte Inchiestaonline.it

 

Diffondiamo da sbilanciamoci.info del 26 aprile 2018

Grande frastuono mediatico in Francia per la visita di Emmanuel Macron al presidente degli Stati Uniti: in questo momento, mentre scrivo, sta concludendosi con un discorso in inglese al congresso. Si sono sprecati gli abbracci, i baci e altre carinerie.

Tutti e due, il Donald e l’Emmanuel, avevano bisogno di una immagine rinfrescata; ma il bilancio politico del presidente francese appare modesto. Soprattutto sono emersi i dissensi a proposito del Medio Oriente e in particolare dell’Iran: Macron era molto più mite di quanto non sia stato il suo ospite americano, che ha addirittura alzato la voce contro i fatali persiani. “Abbiamo riempito il Medio Oriente con miliardi di dollari, senza averne nulla in cambio: adesso la musica cambia!” Macron ha cercato di rimediare la violenza di Trump, proponendo un rinnovo del contratto a suo tempo firmato da Obama, ma Trump non ha ceduto: la scadenza del vecchio contratto è il 12 del mese prossimo. In quel giorno, Trump farà sapere il suo parere.

Neanche sul problema dei dazi su acciaio e alluminio esportati dalla Francia si è lasciato commuovere, ma questo è secondario rispetto alle ambizioni di Macron di svolgere un ruolo internazionale come rappresentante degli stati europei. Effettivamente, è più lui ad aver bisogno dell’amico americano che il reciproco: Trump ha l’aria di stare benissimo anche da solo, mentre Macron si trova in una difficile situazione nel proprio paese.

Lo sciopero dei ferrovieri non declina, anche se è molto difficile da sopportare per gli utenti: anzi, i ferrovieri hanno segnato un punto rifiutandosi di continuare il dialogo fra sordi con la ministra dei trasporti Elisabeth Bornet. Hanno interrotto i rapporti con lei chiedendo di trattare direttamente col presidente del consiglio Edouard Philippe, e dopo qualche diniego, lo hanno ottenuto: l’incontro fra tutte e tre i sindacati e Philippe avrà luogo il 7 maggio. Sono in ballo non soltanto le sorti della SNCF e in particolare il suo ingente debito, ma anche lo statuto speciale dei ferrovieri, che il governo intende rinnovare: effettivamente, era diversa la condizione di lavoro quando i macchinisti dovevano riempire di carbone le locomotive in mezzo a un sudiciume e un calore asfissiante, tuttavia il pensionamento anticipato rispetto ad altre categorie e i vantaggi salariali non sono “privilegi” cui è facile rinunciare. Lo sciopero che si rinnova ogni 10 giorni e dura ogni volta 48 ore, non declina e fino ad oggi è appoggiato anche dall’opinione pubblica che continua ad amare i suoi cheminots. Non solo, ma la compagnia aerea di bandiera Air France si è aggiunta all’agitazione della SNCF, sia pure senza l’andamento a singhiozzo della mobilitazione dei ferrovieri. Anche alcune università si sono inserite nel movimento: niente però di simile alle molte rievocazioni del ’68.

In questa situazione, a Macron giova vantarsi di essere il primo rappresentante di un paese europeo che Trump ha invitato, non senza stendere il tappeto rosso e tutti gli onori del cerimoniale. Anche le due consorti Brigitte e Melania hanno fatto la loro parte: mentre gli uomini si occupavano di politica, cioè delle cose serie, esse, bianco vestite, visitavano una esposizione di Cézanne oppure (Melania) si occupavano del menu e della decorazione del tavolo serale. Naturalmente la stampa degli Stati Uniti ha dato all’evento minore rilievo di quella francese, che non ci ha risparmiato nulla dei tre giorni di visita.

LA DISUGUAGLIANZA HA MILLE FACCE di Nadia Urbinati

 

FONTE FACEBOOK.COM

Destra, sinistra e nuove categorie
LA DISUGUAGLIANZA HA MILLE FACCE
Nadia Urbinati

Il segno più eclatante delle ultime consultazioni elettorali è stato da molti analisti sintetizzato così: la sinistra vince in centro e perde nelle periferie, dove vince il populismo nazionalistico o il gentismo anti-partitico. Il fenomeno non è solo italiano. Si è verificato con l’elezione di Trump, con Brexit e con l’arrivo di Macron all’Eliseo. Viene esaminato in relazione con la crescita delle diseguaglianze che hanno mutato la fisionomia del popolo sovrano, dividendolo in nuovi patrizi e nuova plebe. Per la prima volta da quando la democrazia è rinata, dopo la seconda guerra mondiale, l’andamento delle relazioni tra classi e forze politiche ha subito un mutamento profondo che cambia il significato dei termini “destra” e “sinistra”. Se fino agli anni ’ 80 il voto ai partiti di sinistra o centrosinistra era associato a basso tenore di vita, meno cultura e minor reddito, dalla fine del secolo si è sempre più associato alle élite con alta educazione e buoni redditi.

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Ridurre del 10% la spesa militare può salvare il nostro Pianeta!

Martedì, 24 Aprile 2018

Foto: Disarmo.org

Il cambiamento climatico e il riscaldamento del pianeta causato dall’uomo sono problemi giganteschi che avranno effetti devastanti su gran parte della popolazione mondiale. Le strategie politiche che stanno distruggendo il nostro pianeta alla ricerca di benefici solo per pochi possono essere sostenute solo dalla violenza, e la violenza è solitamente condotta attraverso gli eserciti e rafforzata dal militarismo e dalle spese militari. Gli affari di guerra, alimentati dai molti complessi militari-industriali, si basano sul commercio di armi e sulle strutture di potere che portano a morti civili e conflitti devastanti, depredando il pianeta e contribuendo attivamente al cambiamento climatico. Le azioni per ridurre gli effetti dei cambiamenti climatici richiedono una massiccia riduzione delle spese militari e rinnovati sforzi per utilizzare per risolvere i conflitti attraverso negoziati. 

Le spese militari nel 2016 sono arrivate ad un totale di 1.680 miliardi di dollari.Molti Governi stanno pianificando aumenti nei bilanci militari in contemporanea a tagli per la sanità, l’istruzione e la cooperazione allo sviluppo. Le notizie sul potenziamento del budget militare proposto negli Stati Uniti sono allarmanti: il Congresso ha recentemente approvato un aumento di 165 miliardi di dollari nelle spese militari nei prossimi due anni. Nel frattempo molti altri stati come Australia, Nuova Zelanda, Francia, Regno Unito, Germania, Camerun, Kenya, Nigeria, Spagna, Italia e altri stanno seguendo le linee guida degli Stati Uniti senza alcuna discussione. Le guerre in Siria e nello Yemen sono alimentate dal commercio di armi mentre la Corea del Nord viene utilizzata per giustificare una nuova corsa agli armamenti. Il Primo Ministro giapponese Abe sta tentando di emendare l’articolo 9 Costituzione giapponese che rinuncia esplicitamente alla guerra. L’Unione Europea (per la prima volta nella sua storia) investirà a breve ingenti fondi per sviluppare nuovi sistemi d’arma. Ciò potrebbe anche innescare una corsa agli armamenti in regioni come l’Africa e il Medio Oriente, dove sono dirette importanti esportazioni europee. Stiamo assistendo a massicci aumenti delle spese militari (incluse le armi nucleari, nonostante il recente Trattato per la messa al bando votato all’ONU) da parte delle grandi potenze, aumentando il pericolo di guerre disastrose. Ciò avviene in un momento in cui il “Bullettin of Atomic Scientist” ha spostato le lancette del “Doomsday Clock” a 2 minuti a alla mezzanotte, il punto più vicino all’annientamento globale dal momento dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki.

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Sindacati belgi, e internazionali: si allarga lo schieramento che chiede la liberazione di Lula e un percorso elettorale equo e trasparente

I sindacati belgi insieme al sindacato internazionale hanno chiesto l’immediato rilascio dal carcere dell’ex presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva. In una lettera consegnata all’ambasciatore brasiliano a Bruxelles, la CSC, la FGTB, la CIS e la Confederazione europea dei sindacati hanno dichiarato che la reclusione arbitraria di Lula è una minaccia per la democrazia. I sindacati di Asunción, Buenos Aires, Ginevra, Giacarta, Lima, Londra e Rabat si sono dati appuntamento ieri anche nelle ambasciate brasiliane, in seguito alle proteste di Madrid, Montevideo, Parigi, Roma e Washington, D.C.“Lula è stato giudicata colpevole da un tribunale di grado inferiore sulla base di nessuna prova, qualcosa che gli stessi giudici della bassa corte hanno ammesso. Lula è il politico più popolare del Brasile e la persecuzione giudiziaria ha lo scopo di impedirgli di diventare nuovamente presidente “, ha detto il segretario generale dell’ITUC Sharan Burrow.

Gli avvocati di Lula hanno portato il caso al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, sottolineando l’evidente pregiudizio di giudici e pubblici ministeri e chiedendo al Consiglio di riconoscere che “il tribunale regionale che lo ha riconosciuto colpevole, il giudice Sérgio Moro e il procuratore federale hanno ha violato i diritti di Lula alla privacy, il diritto a un processo equo, la libertà dall’arresto arbitrario, il diritto alla libertà di movimento e il diritto alla presunzione di innocenza fino a che non venga dichiarato colpevole”, si legge ancora nella nota.

Il movimento sindacale europeo si trova in assoluta solidarietà con i sindacalisti brasiliani e aiuterà in ogni modo possibile “la loro battaglia per difendere la democrazia e ripristinare lo stato di diritto”, ha affermato il segretario generale della CES Luca Visentini.

“Questa è l’ultima di una serie di gravi minacce alla democrazia in Brasile. Il movimento operaio belga sta con Lula per la lotta per il popolo brasiliano e la sua democrazia “, ha detto il presidente della CSC Marc Leemans.

“Siamo profondamente preoccupati dalla volontà delle forze conservatrici di mettere sotto accusa, con ogni mezzo, l’ex presidente Lula per essere candidato a un processo elettorale giusto e democratico”, ha affermato il segretario generale dell’FGTB, Robert Vertenueil.

Il Nord che cambia, un’inchiesta operaia fresca di stampa

Fonte: Sbilanciamoci

“Ma come fanno gli operai” è il titolo del libro di Loris Campetti risultato di una lunga inchiesta operaia nelle fabbriche e nei cantieri del Nord Italia. Ne esce una imprescindibile radiografia dei rapporti con i sindacati, la rappresentanza, gli immigrati.

Loris Campetti ci porta in giro per l’Italia del Nord a colloquio con venti o trenta dei suoi amici e delle sue amiche. Sono tutti operai, tanto che il titolo del viaggio è “Ma come fanno gli operai”. L’editore del libro, Manni, riassume così: “Precarietà, solitudine, sfruttamento/ Reportage da una classe fantasma”.

Loris ha di certo un’ invidiabile capacità di mettere a proprio agio le persone; le fa parlare, si confidano con lui, sono convinte che lui capisca i loro problemi e sappia spiegarli: dunque, da Torino al Varesotto, dalle valli di Brescia alla Bergamasca, dal Veneto al mare di Trieste impariamo a conoscere i lavori e la speranze della classe fantasma. Le persone che ci raccontano della loro vita sono per lo più inserite nella produzione metalmeccanica, tranne gli occhialai del bellunese che lavorano naturalmente al “miracolo” Luxottica oltre ai “ragazzi” della gig economy e la gente delle cooperative, dalle parti di Reggio Emilia.

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I nuovi schiavi… degli algoritmi e delle gerarchie aziendali

fonte controlacrisi.org

orologio

Vogliamo andare in ordine sparso cedendo alla presunta caoticità di argomenti che solo un osservatore superficiale giudicherebbe tra loro scollegati.
Nei giorni scorsi, una sentenza della Corte di Cassazione ha stabilito che i lavoratori pubblici e quelli privati di fronte alla gerarchia aziendale e a ordini di servizio anche illegittimi debbono rispondere nel medesimo modo: obbedire.
Credere, obbedire e servire al posto del credere, obbedire e combattere di epoca mussoliniana, il diritto del lavoro è ormai prono ai rapporti di forza che da 30 anni a questa parte sono decisamente a favore dei padroni.

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« Ils ont oublié les leçons du Rana Plaza »

 

Garment worker Ziasmin Sultana survived the Rana Plaza building collapse on 24 April 2013, but 1,298 of her peers have been killed in Bangladesh’s garment factories since 2012.

(Musfiq Tajwar)

Suite à l’effondrement du Rana Plaza, au Bangladesh, où 1134 travailleuses et travailleurs de l’habillement ont péri et des milliers d’autres ont été blessés, l’horreur de la tragédie a suscité une mobilisation internationale qui a conduit à des améliorations notables au plan de la sécurité dans la majorité des quelque 3000 fabriques et ateliers du secteur de l’habillement.

Cependant, d’après les organisateurs des travailleurs de l’habillement au Bangladesh, cinq ans après la tragédie du 24 avril 2013, une majorité d’employeurs font preuve de négligence en matière de sécurisation des sites de production. Toujours d’après eux, le gouvernement fait très peu pour assurer que les travailleuses et travailleurs de l’habillement soient libres de former des syndicats aux fins d’accéder à des conditions de travail sûres. Depuis l’incendie de l’usine Tazreen, où 112 personnes ont péri en 2012, il est estimé que 1298 travailleurs de l’habillement ont été tués et 3875 blessés dans des catastrophes dues à des incendies, d’après les données du Solidarity Center.

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Francia: Ieri un’altra grande giornata di sciopero in Francia. Oggi la polizia sgombera Tolbiac

 Fonte Dinamopress

Continua lo sciopero francese con adesioni e numeri di piazza altissimi. Questa mattina il governo Macron ha lanciato la sua durissima controffensiva sgomberando la sede universitaria di Tolbiac

In Francia prosegue la lotta su più fronti contro il governo e le politiche di Macron che ha lanciato un’offensiva a 360 gradi contro tutto il settore pubblico, dai trasporti della SNFC all’Università, dalla loi asile et immigration al tentativo di sgombero della ZAD. Macron ha rivelato il suo vero volto neoliberale che unisce privatizzazione selvaggia e conservatorismo estremo –peggio di Le Pen, si dice nelle piazze. Ecco di quale “guerra civile europea” sta parlando.

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Si taglia tutto, ma mai la spesa per le armi: nel 2018 aumenta del 7%

Fonte MILEX

Articolo di addioallearmi.it del 6 aprile 2018

Tagli alla sanità, ai servizi pubblici, alle pensioni. Tagli ovunque, spesso orizzontali, ignorando le necessità dei cittadini: il tutto nel sacro impegno dei risparmi per le casse dello Stato. Ma nessuno ha pensato di concentrarsi su un capitolo ricco, che non conosce crisi: le spese militari; che nel 2018 sfioreranno (salvo eventuali ritocchi al rialzo) i 25 miliardi di euro. Né tantomeno il governo Gentiloni ha previsto specifiche riduzioni di spesa per gli armamenti. Anzi, al contrario: rispetto allo scorso anno è stato messo in conto un incremento del 7%. Una questione che si pone al prossimo governo e al nuovo Parlamento, peraltro già gabbato sulle reazione per l’export delle armi made in Italy.

L‘Osservatorio Mil€x ha sintetizzato lo studio realizzato sull’ultima legislatura, in relazione alla spesa militare complessiva.

Nei cinque bilanci dello Stato 2014-2018 di diretta responsabilità di questa legislatura c’è stata una crescita di circa il 5% delle spese militari, valutate secondo la metodologia Mil€x. Si è passati da 23,6 miliardi annui ai quasi 25 miliardi appena deliberati, con una crescita avviata due anni fa dai Governi Renzi e Gentiloni che hanno deciso una risalita dell’8,6% (quasi 2 miliardi in più) rispetto al bilancio Difesa del 2015 (l’ultimo a risentire degli effetti della spending review decisa nel 2012 dal Governo Monti e applicata dal successivo Governo Letta anche al Ministero della Difesa).

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Marielle presente! Intervista a Daniela Albrecht – di Michela Pusterla

 Fonte Effimera.org

*Daniela Albrecht è laureata in psicologia e ricercatrice in servizio sociale, militante del movimento antimanicomiale e del PSOL di Rio de Janeiro

MP: Un mese fa, l’uccisione di Marielle Franco, consigliera comunale di Rio de Janeiro per il PSOL e militante nera, femminista e lesbica, e dell’autista Anderson Gomes hanno avuto una straordinaria eco globale, riverberata dalle reti sociali a centinaia di piazze cittadine. In Italia, il ruolo fondamentale nell’organizzazione è stato svolto da Non una di meno, facendo sì che l’attenzione fosse focalizzata (com’è legittimo) sulla militanza femminista di Marielle. Nella sfera mediatica italiana, quantomeno, ne è nata una narrazione concentrata sulla vicenda personale di Marielle e sulla sua figura potentissima, che ha forse trascurato il contesto di quella che Giuseppe Cocco su effimera ha definito «un’esecuzione politica» e ha isolato Marielle dalla sua militanza, cioè dal motivo per il quale è stata uccisa. Tuttavia, gli eventi successivi che hanno coinvolto il fondatore del PT hanno rifocalizzato l’attenzione mediatica italiana ed europea sul Brasile, producendo un moto di affetto politico – tanto comprensibile quanto spesso acritico – nei confronti di Lula. Non sono mancati interventi – tra i quali citerei quello di Eliane Brum uscito su El País e tradotto su Transglobal e Euronomade – che hanno avuto la capacità di analizzare il funzionamento della macchina mitologica del Lula in vita e le contraddizioni insuperabili del progetto politico del PT. Questa intervista – realizzata il 2 aprile 2018 – si pone come obiettivo quello di provare a comprendere la situazione politica brasiliana attraverso l’esecuzione di Marielle Franco e insieme le ragioni di quella esecuzione alla luce di quel contesto, in un dialogo con una voce interna al partito nel quale Marielle Franco militava.

MP: Qual è la situazione in Brasile?

DA: Per capire meglio il contesto del Brasile oggi, secondo me, è necessario partire dal 2013 – un anno di grande sconvolgimento sociale e mobilitazioni di piazza, che scoppiarono quasi all’improvviso, a seguito dell’aumento dei prezzi dei biglietti degli autobus. In quel momento, divenne chiaro alla borghesia che il Partido dos Trabalhadores (PT), dopo 12 anni al potere, non era più in grado di mantenere il suo ruolo nel patto sociale, di garantire il consenso sociale intorno al progetto borghese come aveva fatto fino ad allora. Allora la borghesia cominciò a interrogarsi sul suo progetto politico, a perdere unità intorno a questa sua rappresentanza politica, con una parte della borghesia che cominciò a volere la caduta del governo PT.  In quella occasione, la stampa brasiliana – che solitamente criminalizza fortemente le lotte sociali – di fronte alla portata delle manifestazioni popolari trasformò radicalmente la sua strategia e tentò di intestarsi le manifestazioni, dettandone le parole d’ordine. Tentò cioè di depoliticizzare quelle rivendicazioni che avevano un contenuto sociale e chi contestava l’ordine in questo senso, lanciando lo slogan della lotta alla corruzione. Una parte della stampa era già contro lo stesso PT.

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Migranti, Open Arms: “Nave dissequestrata, ma buona notizia a metà”

Fonte Pressenza.com

Migranti, Open Arms: “Nave dissequestrata, ma buona notizia a metà”
(Foto di DIRE)

Il dissequestro della Open Arms è una buona notizia, ma è una piccola battaglia vinta all’interno di una situazione che resta difficile: l’inchiesta per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e associazione a delinquere contro i nostri due operatori continua. Ma la decisione di oggi dimostra che stiamo andando verso la verità“. A parlare alla DIRE è Riccardo Gatti, portavoce della ong spagnola Proactiva Open Arms.

Poche ore fa il gip di Ragusa Giovanni Giampiccolo, ha deciso di far cadere il provvedimento di sequestro della nave, ferma al porto di Pozzallo dal 18 marzo. Il fermo della nave cadrà entro la giornata. Ma proseguono le indagini a carico di Marc Reig Creus, il comandante della nave di ricerca e soccorso, e del capo missione Ana Isabel Montes Mier, che ad ogni modo “si imbarcheranno oggi stesso“.

 

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“La Open Arms deve ripartire al più presto- prosegue Gatti – ma adesso la porteremo ‘in secca’, per valutare i danni subiti mentre è rimasta ferma al porto. Qualche giorno fa c’è stato mare grosso. Oggi stesso partirà invece la Astral, e intanto continuiamo a cercare una nave che possa sostituire la Open Arms: non sappiamo quanto ci vorrà per metterla a posto, forse qualche settimana, forse più di un mese”.

Sebbene le donazioni alla ong si siano ridotte del “40 per cento da luglio scorso, più o meno da quando sono iniziate le accuse di traffici illeciti contro le navi che salvano migranti nel Mediterraneo”, Gatti dichiara di aver assistito a una dinamica positiva: dopo il sequestro della loro imbarcazione, “abbiamo ricevuto un enorme supporto non solo dai singoli cittadini e associazioni, ma anche dalle istituzioni e dalle piccole amministrazioni. E’ questo che ci sta aiutando ad andare avanti”.

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L’indagine contro la Proactiva Open Arms è stata avviata dal gip di Catania Carmelo Zuccaro, dopo che è sopraggiunto un problema di competenza a intervenire tra l’imbarcazione e la Marina militare libica, nell’ambito di un triplice intervento di salvataggio che ha coinvolto oltre 200 migranti nel Mediterraneo.

Secondo il giudice di Catania, la nave avrebbe trasportato i migranti in Italia violando le norme sulla competenza. Il salvataggio secondo le autorità italiane in un primo momento sarebbe dovuto spettare alla Marina militare libica, ma l’ong ha contestato il fatto che l’incidente non sia avvenuto nelle acque territoriali di quel Paese. Gli operatori inoltre denunciano di essere stati “minacciati di morte dalle autorità libiche“, se non avessero consegnato i profughi appena tratti in salvo.

Cosa che si sono rifiutati di fare, temendo per l’incolumità dei profughi. Inchieste giornalistiche e testimonianze raccolte da operatori sostengono che in Libia i migranti subiscano gravi violazioni dei diritti umani, ed è sulla base di tali accuse che  la Proactiva ha preferito portare i migranti nel territorio italiano.

 

Lula, l’umano

 Fonte Associazione Transglobal 

Introduzione e traduzione di Stefano Rota – Associazione Transglobal

Il 7 aprile 2018 si è verificato un fenomeno piuttosto raro: una esplicita richiesta da parte di un uomo in vita del riconoscimento di una sorta di trascendenza verso una dimensione non umana, verso una forma-mito. La richiesta è stata accolta da una larga parte della popolazione che lo sostiene, in ragione del ruolo importantissimo che ha svolto quest’uomo nella storia recente del proprio paese: si tratta di Luiz Inácio Lula da Silva e il paese è quindi il Brasile.

Tutti noi che abbiamo visto nel laboratorio politico dell’America Latina dello scorso decennio una possibilità concreta di contrapposizione continentale al neoliberismo globale abbiamo messo post sui social network con foto che ritraevano Lula letteralmente sommerso dall’abbraccio del suo Popolo. Tutti noi che parliamo portoghese abbiamo seguito il discorso dell’ex presidente il giorno della sua consegna alla Polizia Federale – dopo aver assistito alla messa in suffragio della moglie – trasmesso in diretta anche dalla televisione portoghese. Forse molti, non tutti, sono rimasti un po’ colpiti dalla modalità discorsiva e dal linguaggio scelti da Lula. Nessuno, incluso il sottoscritto, ha sentito però il bisogno di rendere pubblico un certo disagio, perché il momento era drammatico: Lula andava difeso, punto e basta. Quella tragedia umana (umana!) che si apprestava a dispiegare la sua pagina più dolorosa, presentandogli un conto salatissimo e ingiustificato, è frutto di una macchinazione golpista orchestrata dai nemici politici che non gli avevano perdonato le misure sociali, economiche e politiche a favore dei ceti popolari e da sempre svantaggiati (ma non tutti!), come argine, molto parziale, invero, delle logiche sviluppiste e neoliberiste in cui è lanciato il paese; una macchinazione che lo aveva trascinato nel fango, tuttora senza prove concrete, dello scandalo di corruzione “Lava Jato”.

 

Il 9 aprile, sull’edizione brasiliana di El Paìs esce questo articolo di Eliane Brum, che riportiamo qui tradotto. E’ un articolo lungo, ma vale la pena leggerlo tutto, perché di quella vicenda complessiva offre una lettura sobria, rotonda, facendo giustizia dei nostri imbarazzi e riportando al centro la caleidoscopica composizione e le contraddizioni di un paese, a cui Lula prima e soprattutto Dilma dopo, hanno offerto soluzioni a volte quanto meno imbarazzanti, creando delle fratture tra un Brasile e un altro, tra metropoli e Amazonia, tra sviluppo e diritti umani e non-umani, tra cittadini “sviluppabili” e lavoratori marginali, indigeni e negros delle favelas. E molto altro (Stefano Rota).

Lula, l’umano

Di Eliane Brum*

 

“Io non sono più un essere umano. Io sono un’idea”. La frase del discorso di L. I. Lula da Silva prima della prigione dal palco del sindacato dei metallurgici di São Bernardo do Campo, è già diventato celebre, come era programmato. Ma il simbolo di questo momento che passerà alla storia non è stato il discorso, ma piuttosto l’immagine presa dall’alto, in cui colui che aveva appena finito di proporsi non come candidato, ma come una leggenda, sembra mutuare la propria sostanza nella moltitudine che lo circonda. “Questo paese ha milioni e milioni di Lula”.

Il problema di colui che vuole essere un mito in vita è la vita stessa. La vita intralcia il mito. La vita ricorda al mito, giorno dopo giorno, che è umano, troppo umano. Questo è un pericolo per il mito. Consapevole di questo rischio, Getùlio Vargas (1882-1954) [politico progressista brasiliano della prima metà del secolo scorso] si suicidò, con l’accortezza di lasciare una lettera-testamento impeccabile dal punto di vista storico, in un ultimo slancio di genialità politica. Il Padre dei Poveri del Brasile del XX secolo sapeva che la vita ostacolava la leggenda.

Lula crede di poter essere un mito in vita, il corpo arrestato nella cella della Polizia Federale di Curitiba, mentre il mito attraversa il corpo della moltitudine. E’ in questa direzione che si sono rivolti gli sforzi principali di Lula, da quando la prigione si è manifestata come una possibilità sempre più concreta e vicina. Le frasi in questo senso sono state molte nelle ultime settimane; la più messianica è questa: “Loro si stano raffrontando con un essere umano differente: io non sono io, io solo l’incarnazione di un pezzetto di cellula di ognuno di voi.”

Il fatto che quella che è già diventata l’immagine storica del momento sia stata la foto scattata da sopra non è un dato qualunque. Da sopra c’è il mito, da sotto, nell’interno della moltitudine, ci sono le realtà e i sentimenti più umani. Ma la foto segna un punto importante, mostrando che Lula si intende di politica molto più di Sérgio Moro [giudice federale a capo dell’operazione Lava Jato], che scommetteva nella foto di Lula arrestato, sconfitto dall’operazione Lava Jato. Dovrà invece fare i conti con la foto di un mito tra le braccia del popolo. Non è un peso di poco conto per un uomo vanitoso come Moro, che aspira a un luogo di rispetto nella Storia. Nessuno vuole il posto di un Carlos Lacerda [politico brasiliano della metà del secolo scorso, conservatore e alleato delle forze interventiste dell’esercito, oppositore del candidato alle presidenziali nel 1950 per le forze progressiste Getùlio Vargas, ai cui danni orchestrò un attentato].

La storia, però, è un punto interrogativo, perché il passato è costruito nel futuro. Niente sembra più incerto del futuro del Brasile. La memoria di Lula è ancora oggetto di disputa.

Il futuro è imprevedibile anche nel modo in cui la memoria sarà costruita nel mondo che verrà. Non siamo ancora in grado di comprendere come internet ripercuote e cambia quello chiamiamo memoria. Il futuro del Lula storico no sarà determinato dai libri di storia scritti da accademici o da biografie fatte da giornalisti – o per lo meno non solo da loro – come accadde con Vargas e altre icone della traiettoria del Brasile. Questo rappresenta già un nuovo dato del momento. Solo più avanti sapremo se un martire di sinistra in carcere ha la forza che ebbe nel futuro del passato, quando internet non entrava nella costruzione delle narrazioni.

Lula è arrestato, non morto. Lula è ancora nel gioco del presente.

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Dentro le ragioni dell’assalto a Lula

 

fonte ComuneInfo

di Raúl Zibechi

La votazione degli undici giudici del Supremo Tribunale Federale (STF), nella notte di mercoledì 4 aprile, presuppone la fine della carriera politica di Luiz Inácio Lula da Silva, così come desideravano i militari, i grandi imprenditori, il governo degli USA e un importante settore della società brasiliana.

L’offensiva permanente della destra durante gli ultimi cinque anni, gli ha permesso di compiere il suo sogno più desiderato: disarcionare Lula dalle elezioni presidenziali di ottobre, per le quali era il favorito con il 35% di sostegno popolare, molto lontano dagli altri candidati.

Il STF ha votato negativamente l’habeas corpus presentato da Lula, che gli avrebbe permesso di aspettare il risultato del processo per arricchimento illecito, che è stato confermato in seconda istanza. Il tribunale si è appellato alla giurisprudenza che dice che ogni processato, la cui pena è confermata in seconda istanza, entrerà in prigione. In effetti, il passato gennaio Lula è stato condannato da un tribunale federale a 12 anni.

Sembra necessario ripassare le ragioni che hanno portato ciascuno di quei settori ad appoggiare la condanna di Lula, al di là della sua presunta colpevolezza. Anche molti politici dovrebbero stare nei tribunali per delitti ancor più gravi, come l’attuale presidente Michel Temer, in una chiara dimostrazione di una doppia misura della giustizia, delle istituzioni e della stessa società brasiliana.

In primo luogo, per gli USA i governi di Lula non furono specialmente problematici, per lo meno se ci atteniamo alle dichiarazioni di ambedue le parti. Salvo su un punto: il progetto di autonomia nella difesa, concretizzatasi nella costruzione di un sottomarino nucleare, oltre alla capacità di fabbricare caccia di quinta generazione e al potenziamento della base di satelliti di Alcántara, vicina alla linea equatoriale.

“Casualmente”, da quando Dilma Rousseff fu disarcionata dal governo nell’agosto del 2016, i tre progetti affrontano delle serie difficoltà, anche se le autorità si impegnano a negarlo. Il terzo fabbricante mondiale di aerei commerciali, l’Embraer, che ha firmato un accordo con la svedese Saab per i caccia brasiliani, è in via di fusione con la statunitense Boeing, fatto che può rendere vano lo sviluppo che renderebbe autonoma la forza aerea.

Riguardo al sottomarino nucleare, insistere solo sul fatto che è a carico della ditta di costruzioni Odebrecht, in alleanza con la francese DCNS, che è seriamente indagata dalla giustizia, e che può mandare all’aria tutto il programma strategico. Non può essere casuale che solo l’Odebrecht stia nell’occhio della giustizia quando tutte le imprese di costruzioni operano allo stesso modo.

8 aprile 2018, Lula e il suo popolo

Gli USA sono vicini a giungere ad un accordo con il governo di Temer per operare nella base di Alcántara, che per la sua ubicazione geografica permette un risparmio fino al 30% del combustibile. Questo è unito al sottomarino nucleare, uno dei punti più sensibili per il Pentagono.

La seconda questione sono i grandi imprenditori, che avevano mantenuto un atteggiamento favorevole ai governi del PT, per lo meno fino all’anno 2012. Nonostante ciò, il rafforzamento del movimento sindacale e l’irruzione delle nidiate più povere dei lavoratori nel movimento degli scioperi del 2013, che batté tutti i record storici nella quantità di scioperi, li convinsero della necessità di interrompere il corso della presa di potere del movimento operaio.

In questo senso, bisogna ricordare che la federazione industriale di San Paolo (PIESP), la più potente del paese e una delle più ricche del mondo, è tornata a giocare il medesimo ruolo che ebbe nel 1964 quando fu la principale artefice del colpo di stato militare che abbatté Joao Goulart.

La terza incognita sono le forze armateSotto i governi di Lula (2003-2010) furono uno dei settori più privilegiati. Fu programmato un importante riarmo, come era avvenuto solo sotto la dittatura militare (1964-1985). Fu rafforzato il complesso industriale-militare con sede nella città paulista di Sao José dos Campos, con accordi con imprese europee che hanno aperto nuovi affari alle compagnie brasiliane coinvolte nella difesa.

Ma soprattutto, è stata definita una Strategia Nazionale di Difesa che è stata concordata con gli alti comandi, il governo e gli imprenditori, che definisce nuovi e più ambiziosi progetti per le Forze Armate.

Due di questi stabiliscono la creazione di una seconda base navale alla foce del Rio delle Amazzoni, che si aggiungerebbe all’attuale situata a Río de Janeiro. Parallelamente, il rafforzamento della vigilanza sui giacimenti off-shore della piattaforma marittima, implica la progettazione di una potente flotta di sottomarini convenzionali e nucleari.

Le ragioni che hanno portato al cambio di direzione militare hanno due basi. La prima è la politica sottile ma persistente degli USA, che non hanno mai visto di buon occhio la costruzione del sottomarino nucleare né l’autonomia satellitare, progetti che hanno persistentemente minato dietro le quinte. Anche se un settore dei militari brasiliani ha delle forti inclinazioni nazionaliste, c’è un altro settore molto dipendente dalla logica statunitense che pone il Venezuela, la Russia e l’Iran come nuovi demoni che giocano lo stesso ruolo del comunismo, sotto la dottrina della sicurezza nazionale che portò ai colpi di stato dei decenni del 1960 e 1970.

Il secondo, è il crescente ruolo della destra civile nelle caserme. Molti alti comandi rifiutano qualsiasi menzione dei crimini di lesa umanità commessi durante la dittatura. La ex presidente Rousseff fu torturata da militari, comportamento che è esaltato da vari alti comandi che non hanno mai accettato la minima critica della repressione della dittatura.

Da ultimo, le classi medie e medio alte hanno intensamente militato contro Lula e i quattro governi del PT. Così come non ci fu rottura con la dittatura, in Brasile nemmeno c’è stata una  decolonizzazione sociale e culturale che avrebbe democratizzato la società e le relazioni tra bianchi e neri (il 54% dei brasiliani). Questi ostacoli hanno provocato l’attuale polarizzazione sociale e politica, in risposta all’ascesa dei più poveri al rango di classi medie. Ma queste eredità sono, anche, alla base della crescente decomposizione di un paese che si proponeva come potenza globale.

Gli umanisti brasiliani ripudiano l’incarcerazione illegale di Lula

Fonte Pressenza.com

10.04.2018 Partido Humanista do Brasil

Quest’articolo è disponibile anche in: Inglese, Spagnolo, Portoghese, Greco

Gli umanisti brasiliani ripudiano l’incarcerazione illegale di Lula

Il Movimento Umanista Internazionale  si oppone all’ingiusto ordine di incarcerazione politica dell ex-presidente del Brasile, Luis Inácio Lula da Silva.

Denunciamo un processo kafkiano

Noi ci opponiamo a questa decisione frettolosa, manipolata dal Ministro Carmen Lucia, e spinta dai media e dai generali dell’esercito che non hanno seguito le normali procedure, semplicemente per far fuori Lula dalle elezioni del 2018.

Denunciamo una carcerazione politica

Noi ci opponiamo a questa angosciante e frettolosa carcerazione che dimostra la disperazione delle elites brasiliane di cogliere questa opportunità, a tutti i costi, prima che si apra il registro dei candidati . Dimostrazione del fallimento delle elites, dato che non hanno candidati sostenibili a difesa del loro programma di ritorno al passato.

Denunciamo accuse senza prove

Noi ci opponiamo all’insolita accusa basata su un power point  e la  confusa sentenza di Moro che ordina gli arresti per “convinzione” senza presentare uno straccio di prova.

Denunciamo le bugie dei media

Noi ci opponiamo al linciaggio dei media portato avanti dal network di Globo TV, che mente sistematicamente all’intera popolazione, manipolando l’informazione a servizio di un golpe giudiziario e degli interessi nordamericani.

Denunciamo la propaganda di Netflix

Ci opponiamo alle armi della propaganda mascherate come film e serie tv che si presuppone siano basate su eventi reali, che hanno lo scopo di distorcere i fatti e creare una visione storicamente falsa del momento attuale, incitando all’odio e confondendo la popolazione.

Denunciamo l’intervento militare

Ci opponiamo alle minacce dei generali in pensione e in servizio, che hanno voluto la carcerazione di Lula e che tacciono sull’impunità di Aécio, Temer, che mettono sotto silenzio l’assassinio di Marielle Franco, relatrice della commissione d’inchiesta sull’intervento militare a Rio de Janeiro.

Denunciamo l’autoritarismo giudiziario

Ci opponiamo alla decisione arbitraria del tribunale speciale di Curitiba sul caso Lava Jato (l’inchiesta sulla corruzione che si pretende coinvolga Lula, N.d. T.),  che serve a nutrire le falsità dei media, a perseguitare gli oppositori politici del neoliberalismo e delle grandi imprese nazionali.

Denunciamo l’interferenza americana

Ci opponiamo all’accordo di cooperazione tra  dipartimenti degli USA e i promotori di Lava Jato, che mettono sotto inchiesta le imprese brasiliane per aprire la strada alle multinazionali straniere.

Denunciamo la perdita dei diritti

Ci opponiamo al taglio delle pensioni e alla riduzione dei diritti dei lavoratori, alla chiusura delle scuole e delle università, al congelamento per 20 anni degli investimenti pubblici nel campo dell’educazione, alla sanità e la sicurezza sociale di questo governo, basato su un colpo di stato, che sta favorendo le banche e le multinazionali straniere.

Denunciamo la persecuzione dei più poveri

Ci opponiamo all’incitamento dell’odio politico verso i poveri, i neri e le persone precarie, adducendo come scusa la battaglia contro i traffici di droga, un processo noto come “messicanizzazione” del Brasile.

Denunciamo lo svilimento della democrazia

Ci opponiamo allo svilimento della Costituzione del 1988, e all’interruzione del processo elettorale per cercare di estromettere Lula dalla competizione, imponendo nuove regole elettorali che accorceranno i tempi della campagna elettorale da 90 a 45 giorni con lo scopo di ridurre il processo di rinnovamento del Parlamento nazionale.

Denunciamo gli accordi basati su un colpo di stato

Noi ci opponiamo agli accordi con settori golpisti che non danno alcuna fiducia, come possiamo credere che rispetteranno i nuovi accordi se non hanno rispettato i precedenti? E’ molto ingenuo negoziare la consegna di Lula credendo che verranno rispettati gli accordi.

Faremo pressione su coloro che hanno il potere di decidere

Per cambiare la situazione corrente, è necessaria moltissima pressione popolare e dobbiamo imparare ad usare i metodi della nonviolenza attiva in maniera massiva e sistematica, pretendendo che la Costituzione sia osservata e i diritti di tutti siano rispettati.

Guardiamo al futuro

Nessuna galera può imprigionare il cuore, le idee o lo spirito di persone come Lula, che a dispetto di molte contraddizioni del suo governo, che noi spesso criticavamo, non merita di essere trattato in maniera scorretta e illegale.

Noi metteremo in moto un fronte amplio

In questo momento abbiamo bisogno di capire il contesto attuale e unire le forze in un fronte amplio contro il fascismo e l’autoritarismo, con la priorità di formare forti blocchi in tutti i parlamenti e con una forte presenza nelle periferie e anche nelle campagne.

E’ necessario disobbedire

E’ un obbligo resistere ad una ingiusta prigionia. Quelli che non rispettano le leggi sono quelli che condannano senza prove e non rispettano la costituzione.

Quando le decisioni sono ingiuste è necessario disobbedire.

Partido Humanista do Brasil

 

Traduzione di Annalaura Erroi

ISRAELE E DINTORNI

 

FONTE : IL BLOG DI FRANCO CARDINI CHE RINGRAZIAMO

 

Molti mi chiedono, dopo i recentissimi fatti di Gaza, quali siano le radici storiche della tragedia: prima 21 morti e 1400 feriti circa, la settimana scorsa; e quindi, il 6 scorso, un altro “Venerdì di Sangue” con altri 7 palestinesi morti e un altro migliaio di feriti. Sassate, bombe molotov e cortine fumogene create da pneumatici bruciati per difendersi dai soldati israeliani, che sparano non già per “rispondere al fuoco” (sassi, molotov e fumo non sono “fuoco” nel senso militare del termine), ma solo per impedire ai manifestanti di avvicinarsi a un confine che, oltretutto, non è uno di quelli stabiliti e internazionalmente riconosciuti ma solo una recinzione creata per decisione e nell’interesse di uno stato e di una forza armata che rifiutano la definizione di “occupanti”. Ma il fuoco israeliano è giustificato dalla necessità di “impedire le infiltrazioni”.

E’ stato notato che le manifestazioni di questi giorni sono state monopolizzate da Hamas, che è il partito leader della “Striscia di Gaza” ma che non rappresenta la volontà di tutti i palestinesi che vi sono rinchiusi, e che ormai arrivano a circa 2 milioni. Certo, l’attuale capo di Hamas nella “Striscia”, Yahya Sinwar (56 anni, scarcerato dagli israeliani nel 2011 nel gruppo dei 1000 imprigionati che vennero “scambiati” con il soldato israeliano Gilad Shalit) è un fautore deciso della “linea dura”. I tribunali d’Israele gli avevano inflitto condanne multiple che giungevano a totalizzare ben quattro ergastoli: è lui l’anima della “Marcia del Ritorno” avviatasi prima di Pasqua e che culminerà il 15 maggio prossimo, tre giorni prima del settantesimo anniversario di quel 18 maggio 1948 che vide la fondazione dello stato d’Israele e che per i palestinesi fu la Nakba,il giorno della “sciagura”.

Pianificata, quindi, l’azione di Hamas: e prevedibile che non tutti i palestinesi di Gaza, che ne subiranno le conseguenze, l’auspichino e l’approvino. Ma queste sono le regole del gioco: il perpetuarsi di una situazione già condannata dalle Nazioni Unite (dalla celebre “risoluzione 242” in poi) ha reso inevitabile che si arrivasse a tanto. La gente di Gaza è ormai provata fino alla disperazione: e una vecchia regola politico-militare, in casi come questi, prescrive che non si debba mai condurre un avversario in condizioni d’inferiorità alla disperazione. I disperati diventano micidiali. Ma il comunicato degli organizzatori della “Marcia del Ritorno” parla chiaro: “Non abbiamo nient’altro da perdere se non la nostra vita”.

Abu Mazen, presidente dell’Authority nazionale palestinese ed erede riconosciuto della linea dell’OLP di Arafat, non ama né Hamas né il partito sciita libanese Hezbollah che l’appoggia: e non ne è riamato. Israele non ha certo bisogno di esser consigliata, sul piano della politica, eppure non dovrebbe mai dimenticare l’aurea massima latina del Divide et impera, che in passato ha magistralmente messo in pratica. Sarà che Bibi Nethanyahu è attualmente preoccupato di ben altre cose che non i palestinesi e che teme molto per il suo posto e i suoi interessi privati, per non parlare della sua immagine pesantemente compromessa: sta di fatto che negli ultimi tempi sembra aver abbassato la guardia in termini di prudenza in misura inversamente proporzionale a quanto ha alzato le mani in termini di aggressività. Non si spara su chi “si avvicina a un confine”, specie se non lo ha nemmeno ancor superato e se quello non è un confine internazionalmente legittimo: non ci si può permettere di far ciò neppure se si è difesi a oltranza da un inquilino della Casa Bianca (a sua volta piuttosto nei guai). Il risultato delle scelte sbagliate di Nethanyahu è stato che Abu Mazen, messe da parte le sue riserve su Hamas, si è rivolto accorato all’ONU, all’Unione Europea e alla Lega Araba affinché vengano fermate “le uccisioni e la repressione da parte delle forze di occupazione israeliane a fronte di una pacifica manifestazione di massa”. Prima dell’ecatombe del 6 scorso, hanno ripetuto i media internazionali, “inviti alla calma” erano arrivati da Jason Greenblatt, inviato del presidente Trump nel Vicino Oriente, dall’Unione Europea, dal presidente egiziano. “Inviti alla calma” rivolti ai manifestanti, affinché desistessero dall’avvicinarsi alle linee difese dai soldati israeliani? O ai vertici delle forze armate (e della politica) d’Israele, affinché si tenesse presente che il rispondere a una manifestazione di protesta usando le armi da fuoco e seminando la morte è qualcosa che almeno da noi italiani, dai tempi di Bava Beccaris in poi, è stata universalmente disapprovata?

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Francia, blindati e gas lacrimogeni contro attivisti ecologisti

09.04.2018 Agenzia DIRE

Francia, blindati e gas lacrimogeni contro attivisti ecologisti
(Foto di DIRE)

Gas lacrimogeni e blindati sono stati utilizzati nella notte della Gendarmeria francese per sgomberare gli attivisti della Zone à defendre (Zad), in prima fila contro il progetto  di nuovo aeroporto di Notre Dame Des Landes, nella regione di Nantes. Immagini e video del raid sono stati diffusi sulle reti sociali questa mattina. In segno di protesta contro il blitz gli attivisti si sono dati appuntamento oggi alle 18 davanti alla prefettura di Nantes.

Il progetto del nuovo scalo era finito nel mirino dei movimenti sociali per il rischio di insostenibilità ambientale. La protesta aveva spinto a gennaio il primo ministro Edouard Philippe a parlare di “aeroporto della divisione”.

In quell’occasione l’esecutivo aveva sostenuto di voler puntare su una ristrutturazione dello scalo esistente di Nantes-Atlantique e su un ampliamento di quello di Rennes-Saint Jacques. Altra possibilità resta lo sviluppo di linee ferroviarie ad alta velocità tra l’ovest della Francia e Parigi.

Ventimiglia: pensieri su testimonianza e sovraesposizione – di Marta Menghi, Amelia Chiara Trombetta e Antonio Curotto

 FONTE EFFIMERA.ORG

Ti offro questi dati perché niente muoia, né i morti di ieri, né i resuscitati di oggi. Voglio brutale la mia voce, non la voglio bella, non pura, non voglio si diverta, perché parlo infine dell’uomo e del suo rifiuto, del suo marcio quotidiano, della sua spaventosa rinuncia. Voglio che tu racconti. Fanon, Lettera a un francese

 

Dall’inizio del 2016, siamo stati a Ventimiglia regolarmente e tutte le volte abbiamo voluto scrivere e condividere ciò che abbiamo visto e vissuto.

Ci muoveva la convinzione dell’importanza di descrivere gli eventi di cui eravamo testimoni.

Un forte movimento politico e umano tentava di rovesciare la visione dominante e di condividere spazi politici con chi viaggiava, nonostante la repressione delle istituzioni.

Da allora abbiamo osservato e cercato di delineare ciò che accadeva sul nostro territorio: gli effetti della privazione della libertà di movimento, basata sulla provenienza geografica e sul colore della pelle, costringevano un grande numero di persone a vivere in uno spazio artefatto, in condizioni di difficoltà estrema.

Negare l’esistenza di esseri umani, arbitrariamente, in un determinato tempo e luogo, costituisce il presupposto per politiche con cui le istituzioni non solo rifiutano qualsiasi supporto, ma addirittura appaiono tendere all’annientamento della vita stessa.

Riteniamo che, per non cadere nella complessa macchinazione fondata sulla disumanizzazione dei (s)oggetti delle politiche e di noi spettatori, il primo passo sia la conoscenza di ciò che concretamente e quotidianamente accade intorno alla recentemente rinforzata frontiera – delle donne, degli uomini, delle bambine e dei bambini che tentano di attraversarla e che forzosamente si trovano a vivere nelle sue vicinanze.

Come medici, siamo da sempre politicamente impegnati nella direzione dell’accesso alla salute per tutte e tutti.

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In Brasile viviamo una guerra civile sempre più esplicita

Fonte Dinamopress

Realizzata pochi giorni prima della ratifica della condanna a Lula, in questa intervista il filosofo brasiliano Vladimir Safatle denuncia la svolta autoritaria che sta vivendo il Brasile negli ultimi mesi.

Cosa sta accadendo in Brasile?

Gli ultimi eventi dimostrano chiaramente che siamo entrati in una fase di guerra civile sempre più esplicita. Non parlo solo degli spari contro il pullman dell’ex presidente Lula. L’assassinio di Marielle Franco non ha avuto fino ad ora nessuna risposta da parte delle autorità, non vi è stata risposta alcuna nemmeno dopo l’enorme commozione causata dalla sua morte. E’ sorprendente che Geraldo Alckmin, governatore dello stato più grande del paese, e altri rappresentanti istituzionali, presentino come naturale l’attentato contro Lula. Alckmin praticamente dice che l’ex presidente se lo sarebbe meritato, disconoscendo completamente la differenza tra la violenza simbolica della politica e la violenza reale dello sterminio.

Cosa o chi potrebbe risolvere questa impasse?

Non vi è una soluzione a breve termine. La società brasiliana va verso forme estreme di radicalizzazione politica. Non vedo altre vie di uscita. La questione è che solo uno dei due estremi si è organizzato, ed è il campo reazionario. I progressisti continuano a rimanere legati all’idea di un patto di normalità che regola la vita politica nazionale. Ma questo patto è già saltato. La politica nazionale non vive una situazione di normalità. E’ necessario tenerlo presente ed essere pronti.

Questa assenza di comprensione della realtà potrebbe spiegare il fatto che le manifestazioni spontenee dopo la norte di Marielle non si siano trasformate in qualcosa di più efficace ed organizzato?

Non esistono attori politici in Brasile capaci di estendere queste rivendicazioni e dargli un carattere generale rispetto alla situazione nazionale. La società vive una fase di grande effervescenza ma le manifestazioni sono tutte spontanee, como lo sono state lo scorso anno quelle contro il governo di Michel Temer e lo sciopero generale, che ha portato in piazza 35 milioni di lavoratori. Mancano però attori politici che riescano a sostenere nel tempo questa effervescenza sociale. I partiti sono in crisi e vivono una fase di degrado. C’è un deficit tremendo di organizzazione in tutto il paese. Tutta questa forza, enorme, viene dispersa.

In generale in Brasile momenti come questi hanno portato a soluzioni autoritarie. Esiste questo rischio oggi?

Sí, evidentemente. E’ importante per la sinistra prepararsi a tutte le possibili situazioni. Ogni volta che abbiamo vissuto una avanzata autoritaria, la sinistra è sempre stata l’ultima ad abbandonare la speranza nello Stato democratico di diritto. Stava ferma in attesa di qualcosa che non esisteva già più, mentre i reazionari organizzavano la via d’uscita autoritaria. E’ evidente oggi che questo fantasma è qui tra noi. Lo scorso anno, il generale Hamilton Mourão ha parlato in modo esplicito di un progetto di golpe militare e non è stato mai smentito dai suoi superiori. Stiamo vivendo una situazione sempre più tesa. Le elezioni, sappiamo, saranno una farsa, degna della Repubblica di Velha, dove si escludono i candidati che non si vogliono vittoriosi. Il patto minimo di democrazia non esiste più nel paese. Non è un caso che Temer ha appena dichiarato che nel 1964 non vi è stato un golpe militare, ma un movimento sostenuto dal popolo. La dichiarazione è anche falsa dal punto di vista storico. Studiosi dell’opinione pubblica dell’epoca hanno infatti dimostrano che João Goulart sarebbe stato il più votato alle elezioni presidenziali. Si tratta di una falsità che punta a trasformare in elezione popolare una decisione presa dalle elites (quella della dittatura militare del 1964, ndr). Questa dichiarazione di Temer non è per nulla strana nel contesto attuale.

Intervista di  Sergio Lirio a Vladimir Safatle, pubblicata lo scorso 28 marzo 2018 su Carta Capital. Discepolo di Bento Prado Junior, Vladimir Safatle è un filosofo.

I suoi lavori, dalla tesi di dottorato La pasión del Negativo: Lacan y la dialéctica (2006), si occupano dell’intrreccio tra filosofia e psicoanalisi. Ha scritto Cinismo y falencia de la critica (2008), Lo que resta de la dictadura: la excepción brasileña (con Paulo Arantes, 2010), Una izquierda que no teme decir su nombre (LOM, 2012) y El circuito de los afectos: cuerpos politicos, desamparo y el fin del individuo (2015) e Solo un esfuerzo más (2017 ).

Tratto dal blog LOBO SUELTO, traduzione in italiano a cura della redazione di DINAMOpress.

Bruno Giorgini: Il disobbediente e l’arcivescovo

Fonte INCHIESTAONLINE.IT

Il 16 aprile 2018 l’arcivescovo di Bologna Matteo Maria Zuppi  presenterà a Bologna al centro sociale TPO di Via Casarini il libro ‘Terra, casa, lavoro” (ed. Il Manifesto) che raccoglie tre discorsi di Papa Francesco ai movimenti popolari. Con l’arcivescovo dialogheranno anche il curatore del libro Alessandro Santagata e Luciana Castellina, tra i fondatori del Manifesto.

 

Siamo a Pasqua la festa cattolica per eccellenza, quando Cristo risorge. Lo hanno crocifisso per molte ragioni, a me piace pensare che fosse soprattutto perchè aveva cacciato i mercanti dal tempio, e con una certa energia.

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La frontiera dove l’Europa ha perso l’anima

Fonte Ilmanifestobologna

di Marco Revelli

Colle del Monginevro, 1.900 metri di quota, a metà strada tra Briançon e Bardonecchia. È su questa linea di frontiera che oggi batte il cuore nero d’Europa. È qui che la Francia di Emmanuel Macron ha perso il suo onore, e l’Europa di Junker e di Merkel la sua anima (quel poco che ne rimaneva). In un paio di mesi, in un crescendo di arroganza e disumanità, i gendarmi francesi che sigillano il confine hanno messo in scena uno spettacolo che per crudeltà ricorda altri tempi e altri luoghi.

È appunto a Bardonecchia che si è verificata l’irruzione di cinque agenti armati della polizia di dogana francese nei locali destinati all’accoglienza e al sostegno ai migranti gestiti dall’associazione Rainbow4Africa, per imporre con la forza a un giovane nero con regolare permesso in transito da Parigi a Roma di sottoporsi a un umiliante esame delle urine, dopo aver spadroneggiato, minacciato e umiliato i presenti.

Davanti a quello stesso locale, a febbraio, ancora loro, gli agenti di dogana francesi, avevano scaricato come fosse spazzatura il corpo di Beauty, trent’anni, incinta di sette mesi e un linfoma allo stadio terminale che le impediva il respiro. Aveva i documenti in regola, lei, ma non Destiny, il marito, così l’implacabile pattuglia l’aveva fatta scendere dal pullman che da Clavier Oulx porta alla terra promessa, quella dove lo jus soli avrebbe permesso al loro figlio di nascere europeo, e incurante delle condizioni disperate l’aveva abbandonata a terra, al gelo.

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La Francia agisca nel rispetto dei diritti fondamentali delle persone e delle norme internazionali, europee e nazionali

 Fonte ASGI

Il parere giuridico dell’ASGI sulla vicenda di Bardonecchia: ecco le norme vigenti.

In seguito alla richiesta di spiegazioni da parte del Governo italiano, le autorità francesi hanno affermato che i controlli effettuati dagli agenti della Dogana francese nei locali della stazione di Bardonecchia in cui operano i medici di Rainbow4Africa e i mediatori culturali del Comune si sarebbero svolti nel rispetto della normativa vigente.

Le norme europee e gli accordi tra Italia e Francia, intervenuti nel corso degli anni per disciplinare la cooperazione transfrontaliera in materia di polizia e dogana così come le operazioni congiunte di polizia, prevedono che gli agenti francesi possano operare sul territorio italiano, nelle zone di frontiera, ma stabiliscono determinate procedure e specifici limiti e condizioni, che nella vicenda svoltasi venerdì sera sono state palesemente violate.

Il parere giuridico dell’ASGI