Emergency: un atto di guerra contro i migranti

07.08.2017 Emergency

Emergency: un atto di guerra contro i migranti
(Foto di Emergency)

La decisione del Governo italiano di inviare navi militari in Libia è un atto di guerra contro i migranti

Il codice di condotta per le ONG che operano nel Mediterraneo mette a rischio la vita di migliaia di persone e costituisce un attacco senza precedenti ai principi che ispirano il lavoro delle organizzazioni umanitarie.

Emergency è impegnata da anni nell’assistenza a migranti, profughi e sfollati in paesi in guerra come in Italia; pur non essendo attualmente coinvolta in operazioni di ricerca e salvataggio in mare, Emergency ritiene inaccettabile il codice di condotta imposto dal Governo Italiano alle organizzazioni umanitarie impegnate nelle azioni di ricerca e salvataggio (SAR).

In particolare, la richiesta di consentire l’accesso a bordo di personale militare, presumibilmente armato, è di fatto un’aperta violazione dei principi umanitari che sono il pilastro delle azioni delle ONG in tutto il mondo.

Tale concessione rischia di creare un pericoloso precedente che potrebbe essere mutuato in altre realtà dove da anni siamo riusciti a far accettare il principio per cui le nostre strutture di ricovero e cura sono aperte a tutti coloro che hanno bisogno di assistenza, e dove nessuna persona armata può avere accesso. Ciò non ha mai impedito a governi e istituzioni di vigilare sulla correttezza e sulla trasparenza del nostro operato.

Questo codice di condotta è la foglia di fico di un’Europa che continua a dimostrarsi indisponibile, ancora prima che incapace, a gestire questa crisi con responsabilità e umanità. Lo stesso coinvolgimento delle ONG nelle attività di ricerca e salvataggio in mare si è reso necessario principalmente per colmare una lacuna dei Governi europei, che hanno la responsabilità primaria di queste operazioni.

L’unica risposta sembra essere, ancora una volta, quella militare, sia nel Mediterraneo che nei Paesi di origine e transito. Sempre più spesso i fondi italiani ed europei destinati a progetti di sviluppo vengono deviati verso il potenziamento dei sistemi di sicurezza e degli apparati militari di paesi africani per arginare i flussi migratori. Inoltre, per blindare le proprie frontiere, l’Europa non esita a chiudere gli occhi davanti a gravissime violazioni dei diritti umani, in Libia e non solo.
L’invio di navi militari in Libia, approvato oggi dal nostro Parlamento, è l’evidente negazione dei diritti umani fondamentali di chi scappa dalle guerre e dalla povertà. Migliaia di persone verranno respinte in un paese instabile e saranno esposte a nuovi crimini e violenze, senza alcuna tutela.

Solo con un massiccio impegno in politiche di promozione della pace, di cooperazione e di sviluppo si affronteranno le vere cause delle migrazioni. Solo aprendo canali di accesso legali e sicuri per chi cerca rifugio nel nostro continente si garantirà il rispetto dei diritti contrastando la piaga del traffico di esseri umani. Solo proseguendo con le politiche di accoglienza e integrazione che il Governo italiano ha avviato in questi anni, seppur senza un reale sostegno dell’Unione Europea, si potrà assicurare la gestione dei flussi migratori in maniera lungimirante e sostenibile.

Luigi Manconi: Reato d’altruismo

Luigi Manconi: Reato d’altruismo

Luigi Manconi | 4 agosto 2017 | Comments (0)

 

 

 

 

Diffondiamo da Il Manifesto del 4 agosto 2017

 

Reato umanitario: come capita non di rado, è stato il quotidiano «dei vescovi» a trovare la definizione più efficace, e moralmente e giuridicamente più intensa, per qualificare la colpevolizzazione delle Ong: e, nel caso specifico, della Jugend Rettet. Il che potrà indurre molti laici, anche solo per questa ragione, a schierarsi dalla parte della magistratura e dello Stato, quasi che gli orientamenti delle chiese e delle organizzazioni umanitarie fossero l’espressione di un profetismo antistatuale e anarcoide.

Altri, e io tra questi, vedono invece in quegli stessi orientamenti un’ispirazione, rigorosamente democratica e liberale, che si rifiuta di ricondurre l’agire umano e l’azione sociale nell’ambito esclusivo degli apparati istituzionali, delle loro norme e del loro ordine superiore.

È un’idea statolatrica, e tendenzialmente autoritaria, che i democratici e i garantisti non possono condividere.

Se gli appartenenti a Jugend Rettet o l’equipaggio della sua nave – ma il pm di Trapani ha parlato solo di «alcuni membri» – hanno commesso reati, vengano processati e, qualora riconosciuti colpevoli, condannati.

Ma finora, dai dati conosciuti e dalle stesse dichiarazioni della procura – avrebbero agito «non per denaro» ma per «motivi umanitari» – si tratterebbe solo ed esclusivamente della realizzazione di un «corridoio umanitario». Così ha suggerito Massimo Bordin nella sua rassegna stampa su Radio radicale.

E a me sembra proprio che di questo si tratti. Uno di quei rarissimi «corridoi umanitari» che possono consentire ingressi sicuri in un’Italia e in un’Europa, dove tutti gli accessi legali risultano ermeticamente serrati.

E, dunque, si può dire che – fatte salve l’indiscussa buona fede della magistratura e la necessità di attenderne le conclusioni – siamo in presenza, sul piano della pubblica opinione e del senso comune, di uno degli effetti della campagna di degradazione del ruolo e delle finalità delle organizzazioni non governative, in corso da mesi. E delle conseguenze di un processo – se possibile ancora più nocivo – di svilimento di alcune categorie fondamentali come quelle di salvataggio, soccorso, aiuto umanitario. Questo è il punto vero, il cuore della controversia in atto e la vera posta in gioco morale e giuridica. E, per ciò stesso, politica.

Dunque, e torniamo al punto di partenza, la falsa rappresentazione da cui guardarsi oggi è quella che vedrebbe uno schieramento, definito «estremismo umanitario», utopistico e velleitario (e tanto tanto naif), e, all’opposto, un fronte ispirato dal realismo politico e dalla geo-strategia, tutto concentrato sul calcolo del rapporto costi-benefici. Ma, a ben vedere, quest’ultimo mostra tutta la sua fragilità. Davvero qualcuno può credere che sia realistica e realizzabile l’ipotesi di chiudere i porti? E di attuare un «blocco navale» nel mare Mediterraneo?

Cosa c’è di più cupamente distopico dell’immaginare che la missione militare, appena approvata dal Parlamento italiano, possa essere efficace in un quadro segnato da un’instabilità oggi irreparabile, come quella del territorio libico e del suo mare?

Se considerato alla luce di questi interrogativi, il reato umanitario di cui si macchierebbero le Ong rappresenta davvero la riproposizione, dopo un secolo e mezzo, di quelle fattispecie penali che precedettero la formazione dello stato di diritto. Reati senza vittime e privi di quella offensività e materialità che sono i requisiti richiesti dal diritto contemporaneo: il vagabondaggio, l’anticlericalismo, il sovversivismo, la propaganda antimonarchica.

Di questi comportamenti, il reato di altruismo rappresenta una sorta di forma disinteressata («non per denaro») e ispirata dalla obbligazione sociale e da quel senso di reciprocità che fonda l’idea contemporanea di comunità e di cittadinanza.

Tutto il dibattito sulle Ong è completamente surreale

FONTE  THESUBMARINE.IT 

Dopo l’inchiesta di Trapani contro Jugend Rettet, il discorso pubblico su questo tema è definitivamente deragliato.

“Ormai le Ong rischiano di cambiare significato. Non per colpa loro, ma di chi intende ri-definirle. Con intenti (anti)politici strumentali.” Così scriveva ieri su Repubblica Ilvo Diamanti, presentando un sondaggio Demos-Coop da cui risulta che soltanto il 26% della popolazione esprime una valutazione positiva sulle Ong che operano nel Mar Mediterraneo (la percentuale corrisponde a voti uguali o superiori al 7 su una scala da 1 a 10). Il sondaggio risale a giugno, ben prima dell’inchiesta di Trapani contro Jugend Rettet e dell’escalation di questi giorni — il che è tutto dire.

Se dal canto suo Ilvo Diamanti propone una soluzione quantomeno fantasiosa per riportare le Ong nelle grazie dell’opinione pubblica — ribattezzarle ABC, Associazioni per il Bene Comune, perché ONG suonerebbe troppo “minaccioso” — bisogna riconoscere che il dibattito pubblico attorno a questo tema è ormai irrimediabilmente deragliato. E la colpa è soprattutto di una copertura mediatica acritica, nel migliore dei casi, o intrecciata con la più bieca strumentalizzazione politica, nel peggiore.

Che da settimane non si parli d’altro è già paradossale di per sé.

Il tema dell’immigrazione in Europa può essere affrontato sotto un’infinità di prospettive, e sono tanti i problemi che meritano di essere discussi: i tempi lunghi per l’esame delle domande d’asilo, la procedura stessa che porta all’approvazione o al respingimento delle richieste, i malfunzionamenti del sistema dell’accoglienza — solo per citarne qualcuno. Invece, la politica e l’opinione pubblica sono impegnate a dibattere sull’unico punto su cui non dovrebbero esserci disaccordi: l’operato di organizzazioni di volontari che, nel rispetto delle leggi internazionali (a differenza del Codice del Viminale, che non ha nessun valore legale), cercano di limitare i costi umani di una strage che va avanti da anni soltanto per colpa dell’inazione politica europea. Non si dovrebbe neanche parlare, delle Ong.

Per chi ha seguito questa vicenda dall’inizio, appare chiarissimo invece il meccanismo “a valanga” con cui la campagna mediatica contro le Ong, da insinuazione messa in campo da un think tank olandese e dall’agenzia Frontex, si è ingigantita fino a diventare verità ufficiale, oltre che primo punto dell’agenda politica italiana.

 

Dal video dello youtuber Luca Donadel che svelava la “verità” sulle operazioni di search and rescue nel Mediterraneo al lento sdoganamento dell’espressione “taxi del mare” per riferirsi alle Ong; dalle illazioni del procuratore di Catania Zuccaro al Codice di comportamento voluto dal ministro Minniti, fino all’inchiesta di Trapani contro Jugend Rettet: tutto ha contribuito a trasformare un luogo comune borderline dell’estrema destra — che l’immigrazione sia un fenomeno architettato e favorito per la “sostituzione etnica” del popolo italiano, per la destabilizzazione economica del nostro paese, o anche soltanto per ingrassare le tasche di qualcuno — in narrazione mainstream. Così, anche quotidiani “rispettabili” e progressisti hanno titolato a gran voce, sotto la foglia di fico di un virgolettato, della collusione tra alcune Ong e gli scafisti — la stessa verità che veniva spacciata mesi fa senza uno straccio di prove o inchieste in corso, per cui a buon diritto oggi tutto l’asse xenofobo può esultare e dire di aver avuto sempre ragione.

Del reato di cui sono accusati i ragazzi di Jugend Rettet — favoreggiamento dell’immigrazione clandestina — colpisce soprattutto l’ipocrisia. Sarebbe più consolante se tutti gli agitatori di questa caccia alle streghe gettassero la maschera e si lasciassero andare a una dichiarazione liberatoria: non vogliamo che arrivino, punto e basta. Invece, l’approdo sulle nostre coste viene trasformato in una specie di macabro gioco di ruolo: il migrante attraversa il deserto, affida la propria vita a un viaggio della speranza per raggiungere l’Europa, ma solo se si trova abbastanza in pericolo può essere soccorso e scortato in Italia, altrimenti deve ritornare in Libia, e chi lo aiuta commette un reato (perché non ha bisogno di aiuto, giusto). Una politica molto simile a quella, altrettanto ipocrita, del “piede asciutto, piede bagnato,” applicata per molti anni dagli Stati Uniti nei confronti dei rifugiati cubani.

In questo quadro, ciò che manca disperatamente è un’affermazione di principio: crediamo o non crediamo nella libertà di spostamento delle persone? Nel fatto che una persona nata a Lagos abbia lo stesso diritto di trasferirsi in Inghilterra di una persona nata a Milano? Prima di ogni altra discussione capziosa su cosa sia legittimo fare a 12 o 24 miglia dalle coste libiche, occorrerebbe rispondere francamente a questa domanda.

La risposta “ufficiale,” in teoria, distingue tra migranti economici e rifugiati, e accorda soltanto a questi ultimi la libertà di spostarsi dal proprio paese per cercare maggiore sicurezza. Bene: anche in questo caso — nonostante le fragili basi della distinzione — bisognerebbe riconoscere a tutti la possibilità di presentare formalmente almeno una richiesta d’asilo. In entrambi i casi, tutto il dibattito di queste settimane non esisterebbe: non esisterebbero gli scafisti, e le Ong sarebbero a occuparsi d’altro, perché per i migranti africani non sarebbe più necessario attraversare il mare illegalmente nella speranza di ottenere una protezione legale.

A proposito degli scafisti, una precisazione quasi sempre assente dal discorso è che la riprovazione del loro comportamento criminale non deriva dal fatto che permettano il viaggio dei migranti, ma dal fatto che lo facciano in totale spregio della loro incolumità fisica, sottoponendoli a vessazioni di ogni genere, e costringendoli a pagare somme altissime, con cui vengono finanziati altri traffici illeciti. Cédric Herrou, l’agricoltore nizzardo che aiutava i migranti a passare la frontiera italo-francese, non è assimilabile a uno scafista; e così non lo sono gli attivisti di Jugend Rettet, che, secondo lo stesso procuratore di Trapani, hanno agito unicamente per finalità umanitarie — quelle “ideologiche” che “non ci possiamo permettere,” secondo qualche esponente del Pd.

Ma la rimozione costante nella copertura mediatica riguarda in primis i protagonisti stessi di questi spostamenti: i migranti, sempre e colpevolmente trattati come una massa inerte, senza volontà e distinzioni, trasbordati da una sponda all’altra del Mediterraneo e da una nave all’altra dei soccorritori. Anche quando si vorrebbe dare un messaggio positivo, si finisce a parlare di “disperati grezzi da trasformare.”

Molto raramente si parla dei paesi di provenienza, e ancor meno delle rotte seguite prima di raggiungere la Libia — come quella che passa attraverso il Niger, presidiato dai militari francesi che proteggono gelosamente i giacimenti di uranio che alimentano le centrali nucleari d’Oltralpe. Molto raramente si parla dei paesi di destinazione, di cosa vorrebbero fare queste persone e del perché hanno lasciato le proprie case.

Disorientata, una certa opinione pubblica di sinistra si è trovata costretta a rivolgersi alla stampa cattolica, l’unica che, insieme a mosche bianche come il manifesto, ha provato ad alzare un dito contro la nuova vulgata anti-Ong.

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