Per una rete di informazione nonviolenta

FONTE PRESSENZA.COM

Per una rete di informazione nonviolenta

29.04.2017 Redazione Italia

Per una rete di informazione nonviolenta
(Foto di Cesare de Stefano via Flickr)

Durante la riunione della redazione di Pressenza, pochi giorni fa, abbiamo dibattuto con vari amici sul tema di come dare risposta a un sistema mediatico (il coriddetto mainstream) che sta diventando in molti casi sempre più orientato dalla propaganda, cercando di imporre un modello basato sul nichilismo, sul profitto, la legge del più forte e, in sintesi, la violenza.

Ci siamo riletti questo materiale che avevamo elaborato tempo fa e che riprodiuciamo qui sotto e che vuol essere una specie di manifesto per costruire, con più forza, quella rete che già esiste tra media, associazioni, comitati di base, gruppi di pressione ecc ecc, diversi ma accomunati dalla volglia di cambiare il mondo con mezzi nonviolenti.

Chi è interessato a lavorare con maggior forza in questo senso ce lo faccia sapere a redazioneitalia@pressenza.com

 

DARE VOCE AD UN NUOVO MONDO

Per una rete di informazione nonviolenta

 

In quest’epoca di caos sistemico e sociale, esiste un mondo che non ha voce e che non trova spazio espressivo. Il vecchio mondo delle violenza (economica, sociale, mediatica, interpersonale) è andato via, lasciando i suoi strascichi; il nuovo mondo si esprime e cresce ma non trova ancora il suo spazio. I media tradizionali credono ancora di essere il famoso quarto potere ma sono sempre più al servizio della speculazione finanziaria e di quel modello socio-culturale costruito da una minoranza accentratrice ed affarista.
In tale scenario, allo stesso tempo, esiste una tendenza informativa e mediatica: un’altra-voce, un nuovo modello che è iniziato dalle prime radio libere, dai fogli di quartiere e da altre forme di divulgazione di prossimità e oggi, è cresciuto consolidando un nuovo concetto di informare e fare informazione, grazie all’avvento di Internet e delle Reti sociali.

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ALESSANDRO ROBECCHI – Le avventure di M. R. il toscano, l’inafferrabile re delle cronache

fonte Blog Micromega

ALESSANDRO ROBECCHI – Le avventure di M. R. il toscano, l’inafferrabile re delle cronache

arobecchiCon tutto quello che succede sul pianeta, dal derby nucleare tra le due persone peggio pettinate del mondo alla manovrina di Padoan, dagli ordini di Trump a Gentiloni, alle primarie del Pd, saranno sfuggite ai lettori alcune notizie di cronaca. Cerchiamo di rimediare con un piccolo riassunto.

Firenze. Gli addetti della Polfer di Firenze hanno sorpreso un uomo intento a cambiarsi in una toilette della stazione. Si tratta di M. R., già noto alle cronache e con numerosi precedenti per trasformismo, che tentava di travestirsi da Emmanuel Macron, incorrendo così in diversi reati, tra cui atti osceni in luogo pubblico e scambio di persona. “Lo abbiamo visto cianotico e siamo intervenuti”, hanno detto gli agenti, accertato che M. R. cercava di sembrare quaranta chili più magro. La vicenda si è chiusa con un verbale e un ammonimento a non riprovarci, a cui M. R. ha risposto con “Bien sûr, au revoir! Vive l’Europe!”. Non è la prima volta che M. R. cerca di travestirsi da vincitore, era già successo in occasione di un défilé con la camicia bianca, insieme a leader in camicia bianca tutti finiti malissimo.

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Populismo 2.0 e populismo oligarchico

Lelio Demichelis

the-new-populism-1482659671-9641Forma politica ambigua e scivolosa, il populismo. Trionfa nei periodi di crisi economica e sociale, quando la democrazia implode su se stessa divenendo non-democrazia e tecnocrazia. Cancella le mediazioni e la società civile, ritenendole inutili e promuovendo una rappresentanza verticale e leaderistica. Non ha un’ideologia se non quella del né di destra né di sinistra (la peggiore).

E allora, qui ci si dichiara subito non populisti, anzi: anti-populisti, anche quando il populismo si propone come di sinistra. Perché il populismo semplifica e verticalizza, mentre abbiamo bisogno di un pensiero complesso e orizzontale. Perché al popolo indistinto ed eterodiretto (folla, massa, moltitudine?) preferiamo una ‘società di cittadini’ e l’idea di cittadinanza (sia pure rivista e corretta). Perché ogni populismo è sempre e strutturalmente massificante e deresponsabilizzante (bisogna rileggere Massa e potere di Elias Canetti e oggi Il capo e la folla, di Emilio Gentile) oltre a essere esso stesso una teologia politica (parafrasando Carl Schmitt: anche tutti i concetti e le pratiche del populismo sono concetti e pratiche teologiche secolarizzate ), portato a omologare e a far sciogliere ciascuno dentro l’Uno/Tutto del popolo – o del leader che lo rappresenta e che lo usa. Perché il populismo, conseguentemente, è una forma di ‘potere pastorale’ (direbbe Michel Foucault) e quindi religioso (nel legare gli esclusi, gli impoveriti e i deprivati al pastore-populista) che da laici è impossibile accettare; perché il populismo – e il neopopulismo di questi ultimi anni – gioca sulla contrapposizione del basso (il popolo) contro l’alto (le caste, il potere, le oligarchie, l’Euro, la globalizzazione), dimenticando che oggi il potere (il biopotere del tecno-capitalismo) è diffuso, orizzontale e trasversale, è diventato una forma di vita, per cui non basta opporsi all’alto in nome del basso (che tende a restare tecno-capitalista), ma occorre un discorso di-verso.

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Jobs Act, aumentano i licenziamenti, giù i contratti stabili

Jobs Act, aumentano i licenziamenti, giù i contratti stabili

284 mila contratti a tempo determinato e 35 mila contratti di apprendistato «trainano» l’occupazione a gennaio-febbraio 2017. 10 milioni e 526 mila voucher venduti in un anno fino al 17 marzo, giorno in cui il governo Gentiloni ha abolito con un decreto i «buoni lavoro» Aumentano i licenziamenti disciplinari nelle aziende con più di 15 dipendenti. Con il taglio degli sgravi contributivi alle imprese per i neo-assunti crollano le assunzioni a tempo indeterminato. I pochi assunti trovano in busta paga un regalo: le retribuzioni inferiori a 1.500 euro sono più basse di quelle, già basse, dei colleghi già assunti. Sono le conseguenze del Jobs Act di Renzi e del Pd riassunte dall’osservatorio sul precariato dell’Inps che ieri ha pubblicato i dati di febbraio 2017.

LA CANCELLAZIONE dell’articolo 18; l’imposizione del contratto a tutele crescenti – dove a crescere è la libertà dell’impresa a licenziare; il regalo di stato alle imprese pari a 11 miliardi di euro in tre anni; il taglio dei salari per il lavoro dipendente nel privato, ovvero i pilastri della dissennata politica dei bonus imposta da Renzi ha portato alla seguente situazione. Nei primi due mesi del 2017 i licenziamenti disciplinari sono aumentati del 30% rispetto ai primi due mesi del 2016: oggi sono 5.437, ieri erano 4.111. E salgono del 64,9% se si considera il periodo analogo del 2015 quando il Jobs act non era ancora in vigore. Questo significa che la «riforma» approvata dal Pd ha aumentato i licenziamenti grazie all’abolizione dell’articolo 18 che ha di fatto cancellato il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo per i lavoratori assunti da marzo 2015 nelle aziende con oltre 15 addetti.

L’ALTRO TOTEM RENZIANO è l’aumento delle assunzioni a tempo indeterminato. Una bufala. Tagliati i costosissimi sgravi, la crescita si riduce drasticamente. Nei primi due mesi del 2017 del 13% rispetto a quelli del 2016 con un saldo positivo tra assunzioni e cessazioni di soli 18 mila contratti, la metà di quelli del 2016 e il 15 per cento di quelli dei primi due mesi del 2015. Senza i soldi pubblici le imprese italiane non assumono. La politica dei bonus ha spostato un’immensa quantità di denaro pubblico nelle tasche dei capitalisti, senza peraltro risultati significativi.

AL CONFRONTO SU SKY con gli altri candidati alle primarie Pd Renzi ha rilanciato anche il dato grezzo sugli oltre 700 mila assunti con il Jobs Act. I dati Inps raccontano un’altra realtà, quella della dinamica del mercato del lavoro che non può essere rappresentata con una somma, ma con un saldo tra assunzioni e cessazioni dei contratti. Il valore va misurato su base annua, e non con la somma del biennio come fa invece Renzi. Per l’Inps il saldo dei primi due mesi del 2017 risulta positivo: +352 mila. Ma bisogna guardare le tipologie dei contratti contenuti in questa cifra. Ci sono i contratti a tempo indeterminato (+33 mila), ma la crescita è trainata dai contratti di apprendistato (+35 mila) e dai contratti a tempo determinato (+284 mila inclusi i contratti stagionali). Questo significa che il Jobs Act, tanto sbandierato, è un altro modo per produrre precarietà per legge.

OLTRE ALLA RIDUZIONE dei salari: 31,8% contro il 35,8% rispetto a gennaio-febbraio 2016 ci sono gli immancabili dati sui voucher che hanno continuato a macinare record su record anche a marzo 2017. Tra il 1 marzo e il 17, data di entrata in vigore del decreto che li ha aboliti (con la possibilità di usare quelli acquistati fino a fine anno) sono stati venduti 10.526.569 voucher in linea con l’intero mese di marzo 2016 (10.922.770). Il presidente dell’Inps Tito Boeri chiede un rilancio degli sgravi alle imprese, anche in mancanza di una domanda di lavoro. «Mi chiedo se non valga la pena di mantenere in piedi forme di decontribuzione per i giovani, con lo Stato che paga per loro i contributi» sostiene. Una forma simile è comunque presente per gli under 35 del Sud. Più critica la Cgil con Tania Scacchetti, segretaria confederale: «Il fallimento del Jobs Act è sotto gli occhi di tutti. Sgravi contributivi a pioggia per le imprese e riduzione delle tutele per i lavoratori non hanno rappresentato la strada giusta».

«IL JOBS ACT è stata una scelta sbagliata» sostiene Francesco Laforgia, capogruppo alla Camera degli scissionisti del Pd – Articolo 1-Mdp. Sul tavolo mettono il ripristino dell’articolo 18 e chiedono di calendarizzare una proposta di legge. L’iniziativa resta nel campo del Pd renziano e del governo Gentiloni che ha abolito i voucher con un decreto per impedire il referendum Cgil. La richiesta di una revisione dell’altro totem renziano è giunta anche dal segretario confederale della Uil Guglielmo Loy che denuncia anche l’aumento del 431% nei licenziamenti da esodo incentivato, cambio di appalto o interruzione di rapporti di lavoro nel settore edile.
«Il Jobs Act è dipendente soltanto dagli sgravi contributivi – afferma Renato Brunetta (Forza Italia) – Una strategia sbagliata che ora si vuole ripetere con sgravi per giovani e donne, di vago stampo elettorale». «I dati dell’Inps confermano le nostre paure. Gli unici effetti del Jobs Act sono precariato e licenziamenti» sostengono i portavoce M5S delle commissioni lavoro Camera e Senato.

Workers Memorial Day – Remembering the dead and fighting for the living

28 Apr 2017, By

 

 

Every year more people are killed at work than in wars. Most don’t die in tragic “accidents”. They die because an employer decided their safety or health just wasn’t that important a priority. The total number of people whose lives are cut short because of an illness or injury that results from work is over 20,000. Most are cancers and lung diseases. Workers’ Memorial Day commemorates those workers.

Workers’ Memorial Day is held on 28 April every year. All over the world workers and their representatives conduct events, demonstrations, vigils and a whole host of other activities to mark the day, which is intended to serve as a rallying cry to “remember the dead, but fight for the living”.

This year International Workers Memorial Day will have the theme “Good health and safety for all workers whoever they are” and will focus on inequalities in occupational health and the role unions play in narrowing the inequalities gap.

This fits in well with what is happening in the UK with the rise of precarious and vulnerable employment, bogus self-employment and the growth of the GIG economy. All of these have the effect of depriving workers of their right to a safe workplace as employers deny responsibility for those who work for them or who operate “under the radar” of the diminishing number of health and safety inspectors and other regulators.

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I banchieri, i fascisti e la società dei due terzi che diventa di uno soltanto di Alfredo Morganti – 26 aprile 2017

FONTE : ATLANTIDE.ORG

Pubblicato il 28 aprile 2017 | di Alfredo Morganti

I banchieri, i fascisti e la società dei due terzi che diventa di uno soltanto

di Alfredo Morganti – 26 aprile 2017

Hanno già pronto il capro espiatorio, tanto per portarsi avanti col lavoro. Nel caso, improbabile, che la Le Pen prevalga, la colpa si riverserà su Mélenchon, che non avrebbe fornito indicazioni di voto per il secondo turno delle presidenziali. Copione facilissimo, quasi banale. Titolo del film: colpa della solita vecchia sinistra. Dopo di che andate a vedere come stanno davvero le cose. Secondo il politologo Henri Vernet (Repubblica di oggi) “molti elettori di Mélenchon provengono dal Front National. Sono quegli ex comunisti che avevano virato nel tempo verso l’estrema destra e che il candidato gauchiste ha saputo sedurre”, sottraendoli di fatto a Le Pen.

La verità è esattamente l’opposto, quindi. Senza l’azione di Mélenchon oggi la destra sarebbe più forte, senza questa sottrazione di consensi a sinistra adesso guiderebbe il primo turno, con effetti psicologici rilevantissimi sulla sfida finale. Certo, i sondaggi dicono che un terzo di elettorato gauchista è pronto a sostenere Le Pen, perché non vuole banchieri (il nuovo!) al potere, ma questa è un’altra storia, o almeno sempre la stessa: in assenza di un argine credibile a sinistra, molti ceti popolari sono suggestionati dalle sirene di destra e dal programma sociale della candidata del Front National.

Qual è la lezione? Che ci sono forze politiche che svolgono compiti essenziali, come quelli di filtrare e trattenere il consenso e la ribellione antisistema che altrimenti si radicalizzerebbe a destra, e così di tenere fuori i ceti popolari dal fronte fascista o razzista, impedendo che si sviluppi una saldatura completa tra popolo e radicalismo anche violento e antidemocratico. È una funzione che in Italia svolge ancora Grillo, per dire, ma che in Francia è compito soprattutto della sinistra radicale. Una funzione ben svolta peraltro da Mélenchon, il cui risultato è stato davvero eccellente. In virtù della semplificazione indotta dal ballottaggio a due, adesso quei voti ritornano però a ‘ballare’, e riconfluiranno in parte verso la Le Pen. D’altra parte di tratta di un sistema, quello del ballottaggio personalistico, che costringe a scegliere il meno peggio oppure richiede voto ‘utile’, spingendo con ciò alla radicalizzazione a destra anche del voto che tale non è.

Più in generale la grande complessità, il grande disagio, la società del due terzi che diventa società di un terzo soltanto, invocando il maggioritario per garantire la ‘governabilità’ con una scelta secca, di spirito comunque plebiscitario, toglie di fatto rappresentanza a vasti certi popolari, li costringe a una modalità di voto che, quando la crisi morde, spinge all’astensionismo oppure al voto rabbioso, antisistema, di destra. La crisi di rappresentanza è frutto di un sistema che ‘sfronda’ il consenso, lo taglia con l’accetta, lo bipolarizza a forza, sperando che ciò basti a far vincere i ‘banchieri’, ottenendo spesso, invece, l’effetto contrario, con i violenti, gli xenofobi, i razzisti, i nazionalisti a prevalere. In un gioco delle parti, sempre più scoperto, che inorridisce.

Il lugubre voto in Francia: l’analisi di Rossana Rossanda

 

 

 

 

di Rossana Rossanda

I risultati del primo turno delle elezioni presidenziali a Parigi sono stati un poco lugubri: al secondo turno accanto a Emmanuel Macron è uscita Marine Le Pen, con sette milioni e mezzo di voti, più deldoppio di quanti ne avesse fatti suo padre nello scontro con Chirac nel 2002. Il risultato finale non è affatto sicuro.

Le cose sono andate finora così: il Partito Socialista aveva indetto le primarie per scegliere il candidato. Ma quando è uscito Benoît Hamon – uno dei leader della sinistra, l’altro era Montebourg, e già defilato Jean-Luc Mélenchon -, il Partito Socialista non è stato contento, a cominciare da Hollande. Credo che sia stato Hollande medesimo a introdurre al governo Emmanuel Macron, giovane brillante economista, allievo della banca Rothschild. Senonché Macron, a un anno delle elezioni presidenziali, ha deciso per conto suo di presentarsi, contando sul fatto che il PS non si sarebbe mobilitato per Hamon.

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ARGENTINA:RIQUEZAS NATURALES OFRECIDAS COMO AVAL DE LA DEUDA EXTERNA. RENUNCIA A LA INMUNIDAD SOBERANA

Commento
Senza limiti, questa classe dirigente argentina non si ferma davanti a nulla: la cessione di beni comuni indisponibili è il primo passo verso il baratro. A quando la vendita degli umani in eccedenza come schiavi ??  editor
FONTE PAGINA12
RIQUEZAS NATURALES OFRECIDAS COMO AVAL DE LA DEUDA EXTERNA. RENUNCIA A LA INMUNIDAD SOBERANA
Denuncian a Macri por abuso de garantías
Por dos decretos de este año, el Ejecutivo habilitó a que las riquezas y recursos naturales puedan ser considerados como garantía del pago de la deuda externa. Tres letrados denunciaron al Presidente por defraudación y abuso de autoridad.Los recursos hidrocarburíferos, el litio, otros recursos minerales estratégicos y las empresas del Estado quedaron fuera de la protección de inmunidad soberana contemplada en las emisiones de deuda externa y, por lo tanto, pasaron a ser pasibles de embargo y ejecución en una hipotética disputa legal con acreedores externos. Los abogados Eduardo Barcesat, Jorge Cholvis y Arístides Corti sostienen que esa posibilidad quedó habilitada por los decretos 29 y 231 de 2017. “Son precisamente esos recursos y riquezas naturales los que resultan la garantía del pago de la deuda externa que se contrae por los decretos impugnados, traicionando la manda de la Ley Suprema de la Nación”, advierten los letrados en el texto de la denuncia que realizaron contra el presidente Macri por defraudación contra la administración pública y abuso de autoridad. La demanda, que recayó en el Juzgado Federal Nº1 a cargo de María Romilda Servini de Cubría, también alcanza al jefe de Gabinete, Marcos Peña, y el titular de Finanzas, Luis Caputo. “Ni la dictadura se atrevió a tanto”, advirtió el bloque de diputados del Frente para la Victoria ayer a través de un comunicado. 

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La spesa militare mondiale: secondo il SIPRI, in aumento negli USA e in Europa e in flessione nei paesi esportatori di petrolio

FONTE PRESSENZA.COM che ringraziamo

26.04.2017 – Stoccolma, Svezia Pressenza Budapest

Quest’articolo è disponibile anche in: Inglese, Spagnolo, Francese, Greco

La spesa militare mondiale: secondo il SIPRI, in aumento negli USA e in Europa e in flessione nei paesi esportatori di petrolio
L’elicottero Black Hawk dell’esercito statunitense staziona sopra il cacciatorpediniere guida missili USS Farragut (Foto di Marina Militare USA)

La spesa militare mondiale totale è salita a 1.686 miliardi di dollari nel 2016, con un incremento dello 0,4 per cento in termini reali a partire dal 2015, secondo i nuovi dati dell’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma (SIPRI). Le spese militari in Nord America hanno visto il loro primo aumento annuo nel 2010, mentre la spesa in Europa occidentale è cresciuta per il secondo anno consecutivo. L’aggiornamento annuale completo del database di spese militari del SIPRI è accessibile da oggi sul sito www.sipri.org.

Le spese militari mondiali sono aumentate per il secondo anno consecutivo per un totale di 1.686 miliardi di dollari nel 2016 – il primo aumento annuale consecutivo dal 2011, quando la spesa ha raggiunto il suo picco di 1.699 miliardi di dollari.* Le tendenze e modelli delle spese militari variano considerevolmente a seconda delle zone. Le spese militari hanno continuato a crescere in Asia e Oceania, Europa centrale e orientale e Nord Africa. Al contrario, sono diminuite in America Centrale e nei Caraibi, in Medio Oriente (sulla base dei paesi per i quali sono disponibili i dati), in Sud America e in Africa sub-sahariana.

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Bologna: difendere l’Xm24 per tornare a respirare

 fonte ILMANIFESTOBOLOGNA.IT

Dal 2013 al 2016 il grande affresco Occupy Mordor, dipinto da Blu sulla parete di Xm24, ha messo in scena una battaglia per la città: le truppe del sindaco Sauron – armate di ruspe, mortadelle e sfollagente – si scontravano con un popolo che suonava, ballava, pedalava, leggeva, hackerava, coltivava e lanciava angurie con le catapulte.

Oggi l’affresco non c’è più, ma la battaglia è in pieno svolgimento. Proprio come in quella raffigurazione, la città ufficiale ha la forza dei partner economici per imporsi ai suoi avversari, ha la forza poliziesca per reprimerli, e ha mezzi enormi – infinitamente più grandi di un muro – per mettersi in scena e magnificarsi.

La Bologna ufficiale è una città boriosa, soffocante, sempre più allergica ai poveri e a marginali. Una città che sogna di sterilizzarsi dai germi del dissenso, e una di queste mattine potrebbe risvegliarsi sterile.

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E’ uscito il numero 83 del Settimanale di Punto Rosso-Lavoro21

Lo potete scaricare qui:
http://www.puntorosso.it/uploads/1/7/0/3/17033228/lav21-sett-n83-s.pdf

In questo numero:

Portella delle ginestre
di Ignazio Buttitta

“Il governo trovi le risorse perché Alitalia continui a volare”.
Pressing di Articolo 1 su Gentiloni e Calenda

“Una sinistra dall’identità forte è in grado di contenere le spinte a destra”
Intervista a Massimo D’Alema

Sciopero generale in Brasile
a cura di Teresa Isenburg

Turchia. La vostra Resistenza ispira la nostra lotta contro la dittatura
Di Hişyar Özsoy

Buona lettura e diffondete!

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E’ uscito il numero 2 della RIVISTA di Punto Rosso – Lavoro 21

http://www.puntorosso.it/uploads/1/7/0/3/17033228/lav21-rivista-numero2-s.pdf

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SUL NUOVO SITO DI PUNTO ROSSO

QUALI DIRITTI PER IL LAVORO IN EUROPA?
Milano, sabato 22 aprile – ore 10-16 – Casa della Cultura

Puoi vedere il convegno e le interviste ai relatori:
http://www.puntorosso.it/convegni.html

Somalia: fermate gli attacchi contro i giornalisti e gli altri sindacalisti

Somalia: fermate gli attacchi contro i giornalisti e gli altri sindacalisti

In collaborazione con il Sindacato nazionale dei giornalisti somali (NUSOJ)

 

Il Governo federale della Somalia ha attaccato negli ultimi quattro anni il Sindacato nazionale dei giornalisti somali (NUSOJ) e la Federazione dei sindacati somali (FESTU), perché questi sindacati si sono rifiutati di farsi controllare dal governo. Il governo ha vietato le riunioni sindacali del NUSOJ a Mogadiscio, imposto membri non appartenenti al sindacato come dirigenti del FESTU e del NUSOJ, intimidito dirigenti e membri sindacali, compresi arresti, restrizioni alla libera circolazione, rifiuto di registrare i sindacati per renderli illegali, licenziato la maggior parte degli alti giudici del paese che avevano adottato decisioni a favore del sindacato nel febbraio del 2016, e negato al FESTU il diritto di rappresentare i lavoratori nelle piattaforme tripartite. La Corte suprema della Somalia e l’OIL hanno appoggiato la richiesta che il governo dichiari legittima la dirigenza del NUSOJ e del FESTU riconosciute a livello internazionale e fermi gli attacchi contro i sindacati.


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La Sanità nelle Primarie del Nulla

fonte saluteinternazionale.info

Autore : Gavino Maciocco

Per far prosperare il welfare aziendale e le assicurazioni private è necessario mettere in ginocchio il servizio sanitario pubblico. È quello che hanno fatto i governi in questi anni. Così si manda in soffitta l’universalismo perché la popolazione – secondo la mozione di Renzi alle Primarie –  è destinata a dividersi tra coloro (i più) che devono accontentarsi di un “pavimento” pubblico sempre più basso e più povero e coloro che – tramite il mercato assicurativo – possono salire ai piani più alti.


La Leopolda del 2011 (la seconda della serie, la prima nel 2010 aveva visto il sodalizio Renzi-Civati, poi sciolto) aveva come slogan “I dinosauri non si sono estinti da soli”. L’evento che si tenne a Firenze dal 28 al 30 ottobre aveva l’ambizioso obiettivo di lanciare 100 idee innovative che avrebbero rivoluzionato la vita del nostro rattrappito paese. Non mancavano le proposte per la sanità collocate, dal 39° al 44° punto, all’interno del capitolo intitolato “Far quadrare i conti per rilanciare la crescita”.

Dopo aver letto quelle proposte scrivemmo un post dal titolo “La sanità brontosaura di Renzi, dato che c’era ben poco d’innovativo in quelle proposte, per lo più vecchie e riciclate. Ma – come ci fece notare un lettore (Franco Carnevale, medico del lavoro) in un suo commento – c’era un’altra idea (la n. 29), al di fuori del paragrafo dedicato alla sanità, questa sì innovativa e sorprendente: una gagliarda proposta liberista, la privatizzazione dell’assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali.

Va anche detto che di quelle idee (insignificanti o poco meditate) non ci sarà alcun seguito, non resterà traccia.  Le Primarie del 2013 per la Segreteria del PD furono stravinte da Matteo Renzi, che si presentò con una mozione dal titolo “Cambiare verso”, che non conteneva neppure un accenno alla sanità.  In quindici pagine di testo la parola “salute” era citata solo due volte, di cui una riferita alla salute del partito e l’altra al PIL.  Anche la parola “welfare” era usata pochissimo – due volte di sfuggita – mentre un intero paragrafo veniva dedicato al Terzo settore, con il significativo ed evocativo titolo: “Terzo settore, anzi il primo”.

Per le Primarie 2017, in programma tra pochi giorni, Matteo Renzi ha proposto una mozione molto più lunga (41 pagine), dal titolo “Avanti, insieme”, inutilmente ma volutamente prolissa, scritta per non essere letta. A differenza della mozione del 2013, questa volta a “Welfare e Salute” sono dedicate più di tre pagine (Capitolo 6). Tuttavia i lettori che cercheranno di appassionarsi alla loro lettura rimarranno delusi. Non una parola, una proposta sui temi più urgenti della sanità italiana: il peso crescente delle malattie croniche e la mancanza di interventi di prevenzione e di contrasto; i milioni di cittadini che rinunciano a curarsi; le diseguaglianze nella salute e nell’assistenza sanitaria che penalizzano soprattutto il Sud; il costo eccessivo dei farmaci innovativi e lo scandalo dei brevetti usati per speculazioni finanziarie, per lucrare sulle malattie (e sulla vita) dei pazienti. Neanche un accenno alla questione delle vaccinazioni e dei vaccini, che pure negli ultimi tempi è stato uno dei principali cavalli di battaglia di Renzi e dei renziani (soprattutto dopo la trasmissione di Report), a dimostrazione della strumentalità della polemica.

Per questo Piero Ignazi ha buone ragioni a denunciare – in un articolo su La Repubblica (dello scorso 23 aprile) dal titolo “PD, le primarie del nulla” –  lo sconcerto per “l’irrilevanza sostanziale dei temi in discussione”, arrivando alla conclusione che “l’ex-premier è rimasto padrone del campo, ma gli spettatori stanno ormai abbandonando gli spalti”.  Del resto non è possibile che la categoria degli “spettatori” progressisti possa digerire ciò che si afferma negli ultimi righi del Capitolo 6 della mozione renziana, che per comodità di esposizione suddividiamo in due parti.

“Tutto questo richiede di ripensare il welfare italiano, fare una scelta contro la categorialità e a favore dell’universalismo: tutti quanti sono in una determinata condizione di bisogno devono avere diritto a forme di protezione, indipendentemente dal fatto se siano lavoratori o lavoratrici dipendenti o autonomi, o se lavorino o meno”.

Ora è vero che Renzi aveva solo 3 anni di età quando nel 1978 il Parlamento approvava la legge 833, ma qualcuno dovrebbe ricordargli che quella legge, che istituisce il Servizio sanitario nazionale, afferma solennemente i principi dell’universalismo e del diritto alla salute (e non a generiche “forme di protezione”), così come recita l’art. 1 (tuttora in vigore):

La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività mediante il servizio sanitario nazionale. La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana. Il servizio sanitario nazionale è costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio”.

Ma è proprio la rimozione più o meno consapevole di questo art.1 della L. 833/78 (che trae origine dall’art. 32 della Costituzione) che porta a negare l’universalismo.  Infatti – secondo la mozione di Renzi – la popolazione è destinata a dividersi tra coloro (i più) che devono accontentarsi di un “pavimento” pubblico sempre più povero e basso e coloro che – tramite il mercato assicurativo – possono salire ai piani più alti.

“Le trasformazioni dell’economia portano alla creazione di un pavimento di diritti sociali accessibili a tutti, sui quali si innestano poi diritti ulteriori, costruiti con la contribuzione, individuale o collettiva, cumulabili nel tempo, portabili tra stati occupazionali, trasferibili nelle fasi del ciclo di vita e utilizzabili per vari scopi a richiesta del cittadino (formazione, periodi di sabbatico, periodi di cura). Solo così saremo in grado di affrontare e governare i cambiamenti che ci attendono, prendendoci cura di ciascuno in base all’effettivo bisogno di protezione”.

L’idea di un secondo pilastro assicurativo, di tipo privato, si trova nel Libro Verde di Maurizio Sacconi del 2008 (IV Governo Berlusconi), ma ha acquistato una forza crescente negli ultimi anni, man mano che da una parte il servizio sanitario nazionale s’indeboliva e veniva reso sempre meno efficiente e accessibile, e dall’altra le forme alternative, private, individuali e collettive, di welfare – come le assicurazioni integrative aziendali – diventavano  sempre più appetibili mediante misure fiscali di vantaggio.

Il Pd, – scrive Ivan Cavicchi – fino a prova contraria, cioè salvo mozioni diverse, è ormaiil partito dell’anti-universalismo, delle mutue e della speculazione finanziaria”. E aggiunge “Renzi per favorire la speculazione finanziaria sta finanziando con soldi pubblici un sistema privato concorrente a quello pubblico, l’welfare aziendale, cioè un welfare sostitutivo di quello pubblico”[1].

Bibliografia

Cavicchi I. La sinistra deve fermare il Renzi-care. Il Manifesto, 31.03.2017

Nella crisi di rappresentanza casca l’asino della politica

fonte  NUOVATLANTIDE.ORG  che ringraziamo

di Alfredo Morganti – 25 aprile 2017

Il suo ghostwriter ha 27 anni. Il suo stratega 29. Il coordinatore della sua campagna appena 24. Macron è l’uomo nuovo, ed è al vertice di una cordata di collaboratori nemmeno trentenni. È bene, è male? Dite voi. Va pure detto che è un uomo senza partito, o almeno con un partito personalissimo, praticamente cucito indosso. Ha un programma molto vasto, di cui si tratterà di capire le priorità, come ha già evidenziato D’Alema. Mettere in un calderone tutto, anche cose buone, non vuol dire nulla, bisogna vedere da dove si parte. Al primo turno ha raccolto meno di un quarto dei voti. Secondo Marc Lazar, si è già trattato di voto utile, prodotto nel timore che la sua avversaria potesse prevalere da subito, anche al primo turno. Pare che sia stato votato in massima parte per il programma, a differenza degli elettori di Le Pen, che hanno scelto lei con convinzione. Macron prende voti nelle grandi città, nei territori più prosperi e coesi, tra le professioni e le eccellenze. Il suo elettorato è soprattutto di centrosinistra, ma, dice sempre Lazar, dovrà cercare voti a destra al secondo turno. Le Pen, al contrario, prende voti nei ceti popolari, nella Francia dove la crisi morde di più, nei territori più svantaggiati. Mélenchon invece ha sfondato tra i giovani di 18-24 anni, dove è stato primo. Se questa è la geografia del voto, donde tanto ottimismo?

Tant’è che lo stesso Lazar oggi su ‘Repubblica’ avanza qualche dubbio, e a ragione. Non c’entrano il fascismo e l’antifascismo, o almeno non bastano a spiegare la fenomenologia possibile del voto. Le ragioni sono altre, sociali, legate alla crisi, alle divaricazioni sociali, territoriali, al disagio diffuso, alla provincia che guarda in cagnesco i ceti urbani. Insomma, nessuno si porta da casa nulla, tanto più in una situazione di tale marasma politico. Ripetiamolo: i partiti politici cosiddetti tradizionali (ma io direi i partiti politici tout court) in Francia non sono andati al ballottaggio. Si parla esplicitamente di populismo vs europeismo-globalizzazione, non più di destra vs sinistra. E se c’era nel mondo politico un elemento di effettiva stabilità erano proprio i partiti politici e la divisione tra una destra e una sinistra ad assicurarla in massima parte. Non la legge elettorale garantiva maggioranze, ma parlamenti rappresentativi e ben funzionanti. La connessione tra istituzioni e popolo, non altro, contrastava il dissesto politico.

A forza di sparare su tutti questi elementi, nell’unico intento di offrire la strada spianata al neoliberismo e a una società individualizzata e mediatizzata, oggi la concreta rappresentanza politica e la stabilità che ne conseguiva non esistono più. È una società peggiore e meno coesa quella che abbiamo davanti. La politica non fa più 2+2: ci sono gli algoritmi più astrusi a governare il nostro destino di utenti e consumatori. E allora ditemi come potrebbe Macron dormire tra due guanciali? E come fanno a Bruxelles a sentirsi tanto sereni? Ma il punto è un altro: come potrà Macron presiedere il Paese, nel caso, con questa risicata minoranza elettorale e sociale dalla sua parte? Ed è proprio qui, nella debolezza del maggioritario in tempi di crisi come questi, nella mancanza di rappresentanza e legittimazione, e nella sciocca idea della governabilità, che casca l’asino della politica.

“Salvare persone è la nostra legge”: dal Mediterraneo Centrale, la voce di una volontaria di SOS Mediterraneé.

FONTE ADIF 

Stefano Galieni

Esponenti politici e giornalisti stanno in questi giorni dedicando ampio spazio all’operato delle Organizzazioni Umanitarie che salvano chi fugge soprattutto dalla Libia. Le Ong svolgono a nostro avviso un lavoro immenso e generoso che ha già evitato migliaia di ulteriori vittime eppure sono sottoposte ad attacchi, calunnie, insinuazioni in merito al proprio agire a volte lasciano esterrefatti. Nel frattempo c’è chi, come l’Unesco, le premia, chi, come il Papa, incontra in udienza privata coloro che si dedicano in questa maniera agli altri e chi, quotidianamente è in mare e non si lascia intimidire.

Grazie all’Ufficio Stampa di SOS Mediterraneé abbiamo intervistato una operatrice dell’organizzazione, attraverso una conferenza skype. L’abbiamo intervistata mentre era sulla nave Aquarius, in acque internazionali, per la sua seconda missione SAR (Search And Rescue). Non c’è né tempo né voglia per formalismi, ci si dà del tu immediatamente per provare a raccontare. Lei si chiama Benedetta Collini, una cadenza che è un misto di francese e italiano, una voce vivace ma precisa di chi è abituata alla sintesi che in poche parole, accenni, riesce a trasmettere immagini ed emozioni, quell’umanità del e nel mare, che spesso ritorna nel dialogo che si fa cifra etica di un impegno.

«Ora siamo a circa 20 miglia marine dalla costa libica ma durante la notte ci dobbiamo allontanare per ragioni di sicurezza. Faccio parte di un SAR Team che ha come ruolo quello di andare a cercare e soccorrere sia chi vediamo nel nostro raggio d’azione sia chi ci viene segnalato dall’MRCC (Centro Coordinamento di Soccorso Marittimo, di Roma). In caso di nostro avvistamento, contattiamo immediatamente l’MRCC e da quel momento in poi agiamo sotto il loro coordinamento fino allo sbarco delle persone recuperate in mare presso il porto che ci viene assegnato dall’MRCC stesso. A bordo dell’Aquarius per questa missione siamo in 36: 11 persone dell’equipaggio, 9 di MSF e 13 di SOS Mediterraneè. In più ci sono due giornalisti che vogliono poter vedere come operiamo. L’apertura alla stampa per noi è fondamentale, qui possono vedere ogni cosa, non abbiamo segreti. Ogni nostra missione dura 3 settimane e abbiamo, come volontari, unicamente un rimborso delle spese».

E come sei arrivata a fare questo?

«Diverse ragioni. Mi aveva già colpito la sensibilità al tema dei giornali italiani, che è migliore rispetto ad altri paesi, poi ha pesato la mia precedente esperienza marittima. In mare ho imparato che non si lascia morire nessuno. Io da oltre 15 anni faccio anche la volontaria in una scuola di vela francese come istruttrice. Avevo un assegno di ricerca all’università occupandomi di letteratura francese, ma da un anno quella fase si è chiusa e ho iniziato a lavorare nel campo della nautica e della vela. Io sono innamorata perdutamente del mare. Un amico mi ha parlato di una analoga esperienza, e SOS Méditerranée mi è parsa affidabile. Ho spedito il mio CV avvalendomi anche del fatto che da quando avevo 20 anni, per 10 anni, ho prestato servizio sulle ambulanze a Milano e mi hanno scelto. Credo sia stato anche ben considerato il fatto che sono una donna, l’equipaggio misto è migliore, funziona meglio e poi questa esperienza mi ha fatto sentire utile, forse anche per l’educazione familiare che ho ricevuto e l’esperienze con gli scout».

Il primo imbarco?

«È molto recente, sono salita a bordo il 30 marzo scorso e ho cominciato da poco la “seconda rotazione”. Mi sono ambientata subito perché c’è tanta adrenalina che ti si fissano le cose in testa e si capisce bene quelli che sono i tuoi compiti già dopo il primo soccorso. Per me il “battesimo” è stato relativamente tranquillo. Eravamo stati chiamati dall’MRCC in tempo per prepararci e le operazioni si sono svolte durante il giorno. C’erano 4 gommoni, alla giusta distanza l’uno dall’altro quindi l’impatto è stato intenso ma positivo, non traumatico. L’esperienza in ambulanza si è rivelata fondamentale anche se le differenze sono enormi. Senti gli stessi odori quelli del contatto con le persone, odore di persone che hanno paura, oltre che in precarie condizioni igieniche. Ma un conto è sentirlo addosso a una o due persone, un conto è percepirlo su centinaia di persone. Il secondo soccorso è stato più impegnativo, complicato e forte. C’era un morto, persone malate su un gommone che abbiamo incontrato di notte. Poi ne abbiamo intercettati altri, intervenendo in raccordo con altre navi di ONG in zona, sempre sotto il coordinamento dell’MRCC. Ed è stata dura ma ce l’abbiamo fatta».

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La parte più disagiata del ceto medio

di
Giuseppe Dunghi (fonte:  area7.ch che ringraziamo)
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Ong, organizzazione non governativa, cioè indipendente dallo Stato. Come finanziano le loro attività le ong? Generalmente con le donazioni dei privati, i quali possono poi detrarre tali somme dalle imposte perché bisogna pagarne il meno possibile. Anzi, visto che – come ha affermato in questi giorni la Corte dei Conti italiana – un prelievo fiscale troppo alto «non aiuta il contrasto all’economia sommersa e la lotta all’evasione», per combattere l’evasione bisognerebbe ridurre le imposte. O almeno ne andrebbe eliminata la progressività, quell’aumento dell’aliquota in misura più che proporzionale all’aumento del reddito. Insomma le imposte dovrebbero diventare regressive, più sei ricco, meno paghi.

Le prigioni del terzo millennio hanno sbarre fatte di parole. Sono gli aggettivi, i sostantivi, i verbi e le frasi che tengono in ostaggio la società, fanno vivere nella paura e sequestrano il futuro. Mai come oggi mentre si parla di sostenibilità e biodiversità le foreste vengono distrutte a un ritmo forsennato per far posto a monoculture di soia, mais e palma da olio. Mai come quando si leggono servizi sul marchio bio e il chilometro zero i pomodori sono prodotti nello Xinjiang cinese, inscatolati in Italia e venduti in Africa a un prezzo così basso che ai contadini locali non conviene più coltivarli. Mai come quando si nega l’esistenza delle classi sociali (non si scrive più «salariati» o «classe operaia», ma «la parte più disagiata del ceto medio»), esiste la classe dei ricchi, che conduce la sua lotta di classe e la sta vincendo.

Quando il 12 febbraio scorso il popolo svizzero ha respinto gli ennesimi sgravi fiscali concessi alle imprese (e non «l’eliminazione dell’imposizione ridotta» delle multinazionali straniere, come affermato in modo truffaldino dal Consiglio federale), è stato detto che il quesito referendario era troppo complicato e in sostanza non sono state capite le ragioni dell’economia. Invece si sta finalmente comprendendo che l’economia non è quella cosa che intendono il ministro delle finanze Ueli Maurer e quello dell’economia Johann Schneider-Ammann, l’arte di arricchirsi o di fare investimenti redditizi o di rendere concorrenziale la propria nazione, insomma «il mondo delle imprese», ma è l’arte di far star bene il maggior numero possibile di persone al mondo. la lingua non è corvéable à merci da parte di coloro che dopo aver tolto dignità al lavoro stanno ora procedendo a toglierla anche alle parole.

L’oikonómos di Senofonte è il padre di famiglia che amministra saggiamente la casa, provvedendo a che ci sia sempre una scorta di farina e di olio, filo da tessere per le donne, paglia sufficiente per l’asino e una piccola bottega sul lato della casa che dà sulla strada per vendere i prodotti del lavoro domestico. Fra i moderni, chi più si è avvicinato al significato etimologico della parola è stato l’industriale Henry Ford che nel 1914 portò la paga giornaliera dei propri dipendenti da 2,50 a 5 dollari, e a un giornalista che gli domandava perché, rispose: per permettere ai miei operai di comprare le automobili che costruiscono. Scrivendo del lavoro oggi ridotto a merce e della lotta necessaria per riportarlo alla dignità fondativa del vivere civile, Paolo Favilli ha citato Piero Gobetti: «Al di fuori della lotta politica manca il criterio del rinnovamento etico». Non si esce dalla miseria se non attraverso il conflitto. Per scappare dalla prigione non bisogna aspettare che arrivi una ong dei diritti umani, bisogna incominciare a segare le sbarre.
Pubblicato il
12.04.17

L’appalto degli snack ha ucciso l’Alitalia

L’appalto degli snack ha ucciso l’Alitalia

di Giorgio Meletti, da Il Fatto quotidiano, 25 aprile 2017

fonte MICROMEGA

A tutti questi salvatori dell’Alitalia in servizio permanente effettivo (ministri, sindacalisti, manager, capitani coraggiosi, consulenti a gettone e figli di papà con lo stipendione) dei posti di lavoro non gliene frega niente. Salvare l’Alitalia è il business preferito di una classe dirigente (non solo politica) irresponsabile e corrotta dai suoi pensieri ignobili, non dalle tangenti. Nessuno dei medici pietosi che si sono avvicendati al capezzale della “compagnia di bandiera” (titolo abusivo e abusato per dare parvenze vitali a un cadavere) ha il coraggio di dire chi è stato. Chi ha spinto l’Alitalia sempre più in basso, succhiando miliardi di euro pubblici e proclamando che il problema era in via di soluzione? Nessuno lo dice perché l’hanno fatto tutti insieme, per anni, dandosi il turno tra chi faceva e chi fingeva di non vedere.

Sappiano allora i dipendenti Alitalia che stanno per perdere il lavoro che la loro sorte è segnata da 30 anni. Da quando lo scenario del trasporto aereo cambiò radicalmente: dai mercati protetti si passò alla competizione aperta. E nessuno in Italia si pose il problema.

Ci provò Romano Prodi, per la verità. Nel 1988, da presidente dell’Iri, silurò il potentissimo numero uno Umberto Nordio, accusandolo di non aver fatto niente per posizionare l’Alitalia nel nuovo scenario competitivo internazionale. Il plenipotenziario andreottiano Paolo Cirino fulminò Prodi con l’indimenticabile “è finita la stagione dei professori”. Prodi ci riprovò 20 anni dopo, da presidente del Consiglio. Stava per vendere l’Alitalia all’Air France. Ma c’erano le elezioni alle porte, Silvio Berlusconi annunciò le barricate contro lo straniero, e lo straniero disse a Prodi “arrivederci e grazie”.

Turchia: 14 sindacalisti condannati alla prigione

In collaborazione con la Federazione Internazionale dei Lavoratori del Trasporto, , federazione globale di 690 sindacati che rappresentano circa 4.5 milioni di lavoratori del settore del trasporto in 153 Paesi.

 

Quattordici dirigenti sindacali e membri del sindacato turco TÜMTİS di Ankara stanno affrontando la prigione per accuse di natura politica che risalgono al 2007. Chiediamo il loro rilascio incondizionato. I 14 uomini sono tra i 17 uomini travolti da una serie di retate nel 2007, in seguito ad una denuncia presentata da una azienda logistica dove il TÜMTİS aveva da poco portato a termine un’azione di organizzazione sindacale di successo. E’ incredibile come, nonostante le proteste internazionali e le evidenti incongruenze e irregolarità per il loro trattamento e i processi contro di loro, siano stati condannati nel 2012 a pene detentive per l’incredibile reato di “fondare un’organizzazione allo scopo di commettere reati, violando il diritto al lavoro pacifico attraverso la coercizione al fine di ottenere un guadagno pecuniario ingiusto e ostacolando il godimento dei diritti sindacali”. Le condanne e il processo hanno violato il diritto internazionale. Il TÜMTİS e la Federazione Internazionale dei Lavoratori del Trasporto hanno fatto ricorso contro la sentenza, ma nonostante tutte le prove di sviamento di procedura, la corte d’appello ha confermato le sentenze.

 


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Bambini

di Alexik

missili-siriaNessun bambino dovrebbe soffrire come hanno sofferto quelli siriani !

Con queste parole Donald Trump ha esternato, il 5 aprile scorso, la sua incontenibile indignazione davanti alle immagini dei bambini di Idlib. Esternazione seguita dal rituale lancio di missili contro il mostruoso assassino, e dalla corale piaggeria degli alleati europei, estasiati dal tuonar delle cannoniere.
Dalla Merkel alla May, da Hollande all’ex pacifista Gentiloni, tutti si sono affannati a dimostrare a Trump il proprio incondizionato consenso, pronti a spergiurare che dietro tanto amore per l’infanzia non si celi alcun secondo fine e che, questa volta, la faccenda del sarin di Assad non sia un’altra montatura.

Del resto non si può certo affermare che gli USA e i loro alleati non facciano di tutto per evitare ai bambini inutili sofferenze.
Al contrario delle armi chimiche, infatti, le bombe convenzionali lanciate sul Siraq dalla Coalizione a guida americana (CJTF-OIR) sortiscono spesso l’effetto di ucciderli sul colpo, risparmiandogli l’orribile agonia.

Come nella cittadina irachena di Tal Afar (l’areoporto di Mosul), bombardata dalla Coalizione giusto il 4 aprile, il giorno prima che l’inquilino della Casa Bianca si accorasse per le stragi degli innocenti.
A Tal Afar fonti locali hanno denunciato la morte sotto le bombe di 20 civili, bambini compresi, mentre i portavoce della Coalizione recitavano la classica versione di circostanza: “Near Tal Afar, one strike engaged an ISIS tactical unit and destroyed an ISIS-held building”.1

Al Tafar1

4 aprile 2017: Tal Afar, dopo il bombardamento.(Fonte: Iraqi Spring Media Center)

Chi avesse sperato, a Mosul, che tanto interesse presidenziale per la salvaguardia degli infanti fosse il segnale di una svolta umanitaria nella politica statunitense, è certo andato incontro ad una cocente delusione: proprio il 5 aprile – più o meno in contemporanea alle dichiarazioni di Trump – nel quartiere Rifai, la famiglia del barbiere Nizar Mahdi veniva annientata da un bombardamento della Coalizione, con un bilancio di due genitori uccisi assieme ai due figli piccoli.

Stesso giorno e stessa sorte per 16 civili, tutti membri della stessa famiglia, ad Al Shafa, un altro quartiere di Mosul ovest, e per 40 civili del villaggio di Mayouf, a nordovest della città, che si erano riuniti nelle loro case in attesa di poter fuggire. Il 6 aprile è stato il turno di una madre e due bambini, uccisi in casa propria nel quartiere di Zanjili.2

Tutti avevano obbedito ai volantini, lanciati a migliaia dagli aerei, che invitavano gli abitanti di Mosul ovest e dintorni a rimanere chiusi in casa, allontanandosi unicamente dai centri di comando del Daesh. ‘Solo quelli‘ – si annunciava – ‘sarebbero stati bombardati3Per questo intere famiglie sono morte tutte insieme nella distruzione delle loro case.

14 aprile 2017. Mosul, bombardamento del quartiere di Mahatta. (Foto: Jérémy André)

14 aprile 2017. Mosul, bombardamento del quartiere di Mahatta. (Foto: Jérémy André)

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Diritti Umani: dall’Italia un ponte verso l’Argentina

Diritti Umani: dall’Italia un ponte verso l’Argentina

fonte PRESSENZA.OM

20.04.2017 Federico Palumbo

Quest’articolo è disponibile anche in: Spagnolo

Diritti Umani: dall’Italia un ponte verso l’Argentina
(Foto di Manuela Pita)

Parte il corso di formazione per Osservatori dei Diritti Umani

A seguito dell’aggravarsi della situazione dei Diritti Umani in Argentina, con l’arresto di militanti dell’organizzazione Tupac Amaru a Mendoza e le ulteriori accuse rivolte alla loro leader indigena Milagro Sala, partirà a Roma un corso di formazione per osservatori di Diritti Umani con il fine di formare un gruppo di lavoro e dar vita ad alcune missioni in Argentina coordinando il lavoro con le organizzazioni locali impegnate sul fronte dei Diritti Umani.

L’iniziativa è sorta durante le riprese del documentario sulla Tupac Amaru “Welcome to the Cantri” girate lo scorso febbraio in Argentina per opera di un gruppo di attivisti del Nuovo Umanesimo.

I realizzatori, insieme al Comitato italiano per la Liberazione di Milagro Sala, promuovono così un corso aperto a tutti gli interessati che si svolgerà ogni lunedì dalle 18 alle 20 in Via degli Equi 45 (San Lorenzo, Roma), presso la sede di Energia per i Diritti Umani.

Durante il corso sono previsti interventi di esperti e giornalisti per i Diritti Umani e la collaborazione dell’agenzia stampa internazionale Pressenza. Verrà presentato il contesto argentino e la sua critica situazione in merito al rispetto dei diritti. Ci saranno anche delle lezioni e degli approfondimenti sulla lingua spagnola e anche della formazione ai partecipanti per muoversi in situazione di conflitto sociale.

L’invio di osservatori dei Diritti Umani in Argentina è quanto mai urgente considerando che organizzazioni come Amnesty International, Human Right Watch e anche il Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria dell’ONU sono intervenute ripetutamente sulla questione.

Per partecipare: fedepalu2@gmail.com – Tel. 3891494050 – Facebook: welcometothecantri

“I Diritti Umani non appartengono al passato, stanno nel futuro attraendo l’intenzionalità, alimentando una lotta che si ravviva ad ogni nuova violazione del destino dell’essere umano. Pertanto, qualunque rivendicazione di tali diritti è sempre valida giacché mostra che gli attuali poteri non sono onnipotenti e che non controllano il futuro…”  (Silo)

La crisi economica non molla la presa, ma per il settore militare è sempre sviluppo a due cifre

FONTE CONTROLACRISI.IRG

I dati forniti dall’odierno rapporto del SIPRI sulle spese militari mondiali nel 2016 confermano l’incremento globale del settore, giunto a 1.686 miliardi di dollari. Dopo diversi anni gli Stati Uniti hanno aumentato le loro spese (611 miliardi di dollari) dell’1,7% rispetto all’anno precedente, seguiti dalla Cina (215 miliardi) con un incremento del 5,4%. Terza è la Russia (69,2 miliardi) con un aumento del 5,9%. Si registra una crescita in alcuni paesi dell’area mediorientale (Iran e Kuwait), mentre in altri una diminuzione (Arabia Saudita e Iraq).

“Diversi paesi produttori di petrolio – non solo mediorientali -, a causa dei suoi prezzi bassi, hanno dovuto contrarre le spese – si legge in una nota firmata da Maurizio Simoncelli Vicepresidente IRIAD. Già si era rilevato a partire dal 2010 sino al 2015 un aumento delle spese militari russe e cinesi, che avevano procurato allarme in Occidente (USA e UE), anche se mediamente le prime rappresentano solo un decimo di quelle occidentali e le seconde solo un quarto. Anche in Europa occidentale, per il secondo anno consecutivo, si riscontra un incremento delle spese per la difesa del 2,6%”.

La nuova amministrazione Trump ha recentemente promesso un significativo incremento di quelle statunitensi con ulteriori 54 miliardi di $ che si andranno ad aggiungere ai 611 dello scorso anno, rappresentando più di un terzo del totale mondiale. “Mentre permane una diffusa crisi economica e si accentua il divario tra paesi ricchi e paesi poveri – continua Simoncelli – sembra che il settore della spesa militare non conosca particolari difficoltà, come è dimostrato anche dall’incremento che si sta registrando nel commercio mondiale di armamenti, corollario della maggiore disponibilità finanziaria nel settore: si è passati infatti dai 19 del 2000 ai 26 miliardi di dollari del 2010 sino ai 31 del 2016. E va ricordato che questo dato non comprende il settore delle armi piccole e leggere (pistole, fucili, mitra, bazooka, lanciarazzi ecc.), più difficile da quantificare, ma stimato intorno al 10-20% del totale mondiale. E il 29% dell’export globale è stato diretto nel quinquennio 2012-2016 proprio verso il Medio Oriente”.

Rana Plaza: Unions can save lives as well as livelihoods

21 Apr 2017, By

fonte strongerunions.org 

As we approach the 4th anniversary of terrible tragedy at Rana Plaza in Bangladesh, it’s important to hold on to the sense of shock we all had when we heard that over a thousand workers, full aware that their building was unsafe, went to work as usual so they wouldn’t lose their jobs, and instead lost their lives.

It’s important to remember because it’s this reality that drives the campaigning from unions around the world for fundamental rights. The fact is, unions can save lives, as well as livelihoods, where workers have the right to join them.

It’s also important because the government of Bangladesh seems to need reminding.

In the aftermath of Rana Plaza, unions both on the ground in Bangladesh and internationally, were involved in the creation of the Bangladesh Accord on Fire and Safety, an agreement between brands sourcing from Bangladesh and trade unions to systematically drive improvements to working conditions, with democratically elected workers’ representatives a key part of the monitoring process and the right for workers to refuse to enter unsafe premises.

As Owen Tudor noted last week, unions and their members now have a stronger voice in confronting unsafe conditions, making Bangladesh safer for workers and a better investment for brands seeking suppliers free of the taint of human rights abuse.

Instead of being rewarded for this, this year Bangladesh’s unions have been persecuted. The government and the country’s employers spent the first few weeks of 2017 sweeping up trade union leaders and activists under a range of flimsy charges, clearly looking to break the growing influence of unions.

The good news is that it soon became clear that they had miscalculated. A concerted international campaign by unions, soon backed by key brands and a threatened boycott of a prestigious employer summit, spooked the government into releasing the trade unionists and pledging to drop the charges against them. It also meant, in order to fix the mess they’d got themselves into, the government found themselves sitting around table with Bangladesh unions, in the country’s first formal tripartite talks. Far from being crushed, the unions are now suddenly formal social partners.

The government, however, is slow to learn, and whispers suggest that it is keen to reduce the scope of the Accord when its remit comes up for review. The next battle will be to keep the full range of powers the Accord can wield in intervening in dangerous workplaces, and its contribution to protecting the role of trade unionists as whistle blowers.

This weekend, a new international effort – again backed by global unions – is launched, looking to make it easier for unions to work with companies to ensure that fundamental workers’ rights are respected in their supply chains. The Transparency Pledge looks to change the secretive and complex nature of international sourcing by persuading companies to publish details of where they get their products, just as those signed up the Accord do. So far 17 companies have agreed to the terms of the pledge, but there’s a long way to go.

However, it’s clear that for all that the government is keen to forget it, the haunting memory of Rana Plaza continues to be a stark reminder of why workers need unions.

Madagascar: Portuali licenziati per aver aderito a un sindacato

In collaborazione con l’International Transport Workers Federation, federazione sindacale globale formata da 690 sindacati che rappresentano circa 4.5 milioni di lavoratori del settore del trasporto in 153 paesi.

 

I portuali del Madagascar si battono per i loro diritti. Sono stati licenziati per aver aderito al sindacato che lotta per porre fine al lavoro precario, al salario basso e a condizioni di lavoro insicure. Nel mese di marzo, i sindacati di tutto il mondo hanno consegnato lettere ai consolati del Madagascar chiedendo giustizia per quei lavoratori ai quali deve essere permesso di ritornare al lavoro. Centinaia di persone hanno consegnato direttamente il messaggio, inviandolo via e-mail al governo del Madagascar nel quale chiedono che siano applicate con urgenza le leggi del lavoro e che siano difesi i diritti dei lavoratori. Il 3 aprile del 2017, l’ITF, l’ITUC, e il sindacato dei lavoratori SYGMMA hanno presentato una denuncia all’OIL a nome dei 43 portuali.

Difenderete i portuali del Madagascar e invierete ora al ministro del Lavoro del Madagascar per assicurare che applichi le leggi locali del lavoro e reintegri questi lavoratori?

Guardate il video

PER ADERIRE ALL’APPELLO VAI ALLA FONTE  ACT NOW!

QUALI DIRITTI PER IL LAVORO IN EUROPA?

QUALI DIRITTI PER IL LAVORO IN EUROPA?

Milano, sabato 22 aprile – ore 10-16
Casa della Cultura
Via Borgogna 3, Milano

Programma

Mattina
“Multinazionali in Europa, delocalizzazioni e industria 4.0”
Matteo Gaddi (Associazione Punto Rosso)

“Sharing Economy e Uberizzazione del lavoro”
Prof. Vincenzo Comito (già Professore di Finanza aziendale nell’Università di Urbino).

Interventi di:
RSU ABB
Enrico Barbanti – delegato ALSTOM
Ugo Cherubini – segretario Filctem Brescia
Lavoratori KFLEX
Giovanni Maggiolo – Taxista (UNICA Taxi CGIL);
Maurizio Dotti – delegato WIND 3G
Sergio Bianco – delegato CEVA
Curzio Maltese
(Eurodeputato Gue/Ngl – L’Altra Europa con Tsipras)

Pausa pranzo con buffet gratuito per i partecipanti

Pomeriggio
Interventi di:
Nanni Alleva
(Avvocato del lavoro, Consigliere Regionale Emilia Romagna)
Ricardo Antunes
(Sociologo, docente all’Università di Campinas)
Heinz Bierbaum
(Economista Università di Saarland, membro di IGM e Die Linke)
Tiziano Rinaldini
(Fondazione Claudio Sabattini)
Moni Ovadia
(Attore, regista e scrittore)
Curzio Maltese
(Eurodeputato Gue/Ngl – L’Altra Europa con Tsipras)

Organizza
Gue-Ngl
Gruppo unitario della sinistra europea – sinistra nordica
al Parlamentop europeo

Droni militari, la minaccia volante

fonte controlacrisi.org

Autore Giacomo Pellini

La stampa a li chiama ‘killer robot’. Sono i droni militari. Per ora usati a scopo civile, ma presto potrebbero essere impiegati anche nel militare. Il tutto in segreto e nonostante la contrarietà dell’opinione pubblica

Quindici anni fa, il 4 febbraio del 2002, nei pressi della città di Khost in Afghanistan, un drone americano lanciava un missile Helfire contro tre uomini, uccidendoli. Si tratta del primo attacco effettuato da un velivolo a pilotaggio remoto. Il drone era sulle tracce di Bin Laden, ma con ogni probabilità le vittime non erano terroristi, ma uomini intenti a recuperare metallo.

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#Io sto con Gabriele. Libertà per il giornalista arrestato in Turchia

di Anna Polo

fonte PRESSENZA.COM

Organizzato in due giorni dal gruppo “Io sto con la sposa”, spostato all’ultimo momento da Piazza Scala a Largo Cairoli, il presidio milanese per la liberazione del documentarista Gabriele del Grande, attualmente in isolamento nel centro di identificazione ed espulsione di Mugla, in Turchia, ha attirato centinaia di persone.

Cartelli colorati posati per terra, striscioni e tanti fogli che riproducono le fattezze della gente che Gabriele ha incontrato nei suoi viaggi e di cui ha raccontato la storia, trasformando le vittime in eroi, esaltandone la bellezza, la forza e la determinazione.

Uno degli organizzatori, amico di Gabriele, ripercorre i giorni seguiti all’arresto al confine con la Siria, la raccomandazione di “tenere un profilo basso” e di “aspettare Pasqua e poi il referendum in Turchia”, la scoperta che Gabriele non sapeva niente dell’interessamento del console italiano, che non è ancora riuscito a incontrarlo e gli interrogatori senza avvocato e senza un capo d’accusa preciso. A quel punto, racconta,  abbiamo deciso di smetterla con il profilo basso e lanciato una mobilitazione che si è diffusa in tutta l’Italia. Cita l’appello per la liberazione di Gabriele, da sottoscrivere scrivendo alla mail iostocongabrielelibero@gmail.com e la visita prevista per domani del console italiano e di un avvocato – un primo successo, ottenuto grazie alla pressione.

Parla poi la sorella della compagna di Gabriele, Alexandra, ringraziando tutti, a nome della famiglia, per la presenza e la solidarietà. Segue l’invito a sollevare i fogli con i visi disegnati e l’hashtag #Iostocongabriele e la zona pedonale si trasforma in una moltitudine di braccia alzate.

Intervengono quindi i rappresentanti delle associazioni che hanno aderito al presidio, tra cui Razzismo brutta storia, la rete Milano senza Frontiere, da anni impegnata nella denuncia delle migliaia di morti nel Mediterraneo e Amnesty International, che ricorda le gravissime violazioni della libertà di stampa in Turchia, con centinaia di giornalisti in carcere. Gli amici di Gabriele si alternano al microfono nella lettura dei suoi scritti, lucide e umane denunce delle ingiustizie di cui è stato testimone nel corso del suo instancabile lavoro di documentazione, delle leggi sbagliate che impediscono di viaggiare in aereo, con un visto e che sono responsabili di migliaia di morti ai confini europei. E’ tempo di disobbedire, di ribellarsi, di dichiarare che nessun essere umano è illegale, concludono.

Poesie e testimonianze di siriani e curdi e poi la Banda degli Ottoni, per un finale musicale che piacerebbe molto a Gabriele. In attesa di rivederlo libero, al più presto possibile.

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Turchia, il sultano azzoppato

FONTE MICROMEGA

di Bernardo Valli, da Repubblica, 18 aprile 2017

Il risultato del referendum turco è rimasto in bilico tra un successo ufficiale e un affronto politico. Convinto di avere carisma e popolarità, Recep Tayyip Erdogan si aspettava di più. Contava su un vero plebiscito di consensi ed è invece per una manciata di voti che ha vinto la consultazione sulla super presidenza. Ha ottenuto una maggioranza risicata (51,4%) ed anche contestata. Per lui l’aritmetica elettorale è severa. L’opposizione chiede che si riconsideri la validità di due milioni e mezzo di suffragi espressi su schede senza timbro ufficiale. Il governo sostiene che già prima dell’elezione era stato riconosciuto il valore di quei bollettini.

La controversia rende ancora più fragile quello che doveva essere un trionfo e che invece ha rivelato la spaccatura quasi netta del Paese. Circa venticinque milioni di turchi hanno votato per i diciotto emendamenti alla Costituzione, cioè un milione e mezzo di più di quelli che li hanno respinti. I due milioni e mezzo di schede contestate rovescierebbero il risultato che Erdogan si è affrettato a definire storico.

Invece di esibirne la compattezza come lui sperava, l’esito della consultazione ha offerto l’immagine di un Paese insubordinato, tutt’altro che rassegnato a rinunciare di propria volontà allo Stato di dirittto e a conferire al rais il controllo dell’esecutivo e di larga parte del legislativo e del giudiziario. Erdogan non ha dunque avuto l’incoronazione solenne su cui puntava, promuovendo una Repubblica superpresidenziale fatta su misura per lui.

La nuova Costituzione entrerà in vigore entro due anni e gli dovrebbe garantire il potere fino al 2029. Ma il percorso non sarà tanto agevole dopo l’esito di domenica, che può appunto essere letto anche come un affronto politico, o perlomeno come il ridimensionamento dell’uomo forte, giudicato invincibile. Il carattere di Erdogan è in apparenza più incline alla collera che alla delusione. In questa occasione ha tenuto i due sentimenti per sé e ha esaltato una vittoria zoppa.

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E’ uscito il numero 82 del Settimanale di Punto Rosso-Lavoro21

E’ uscito il numero 82 del Settimanale di Punto Rosso-Lavoro21

Lo potete scaricare qui:
http://www.puntorosso.it/uploads/1/7/0/3/17033228/lav21-sett-n82-s.pdf

In questo numero:

Giorni di festa ma non per tutti. L’illusione del commercio senza limiti
di Enrico Rossi

Pensioni in Brasile
a cura di Teresa Isenburg

“Il mondo al tempo dei quanti”. Perché il futuro non è più quello di una volta
Recensione del libro di Mario Agostinelli e Debora Rizzuto di Luigi Mosca,
direttore laboratorio Fisica delle Particelle di Modane (France)

Disoccupati di tutto il mondo, unitevi

 

FONTE ALFAPIU.  che ringraziamo

Disoccupati di tutto il mondo, unitevi
Pubblicato il 20 aprile 2017 · in alfapiù, libri ·
Autore della recensione G.B. Zorzoli

È un atto di accusa, fondato sul compendio della storia della disoccupazione attraverso i secoli (e i millenni). Domenico De Masi scrive come parla. Affabulatore abile e informato, il virtuosismo della sua narrazione rende la lettura fluida, malgrado l’accavallarsi di dati, citazioni, stringate analisi del pensiero di autori monumentali, come Keynes, o dei socialisti utopistici (Fourier, Owen, Saint-Simon). La descrizione dettagliata dei meccanismi che attualmente provocano la distruzione progressiva di posti di lavoro è inframezzata da sintesi a volte illuminanti – «il profitto va perseguito e corteggiato, mai nominato; così pure non vanno mai nominate le classi (che non esistono più), la lotta di classe (estinta per sempre), la rivoluzione (sconfitta dalle riforme), lo sfruttamento (assorbito dalla crisi generale), i padroni (che sono la buona «parte viva» del Paese”)» -, altre volte inclini a forzature. È indiscutibile che «l’economia prende il sopravvento sulla politica, la finanza prende il sopravvento sull’economia», ma subito dopo affermare che «le agenzie di rating prendono il sopravvento sulla finanza» assomiglia a una triplo salto carpiato concluso da una rovinosa caduta.

Sono 190 pagine per introdurre la parte propositiva, intitolata appunto «Che fare», con un pizzico di civetteria senza punto interrogativo. In un excursus così dettagliato, la fine della golden age, avviata dal New Deal rooseveltiano e consolidatasi nei primi decenni del dopoguerra in tutto l’Occidente con il compromesso keynesiano tra capitalismo e lavoratori, è però spiegata in modo spiccio, ma soprattutto incredibilmente riduttivo. « Il mondo accademico europeo, che quel dogma [il liberismo] aveva formulato e imposto a mezzo mondo, reagì con una virulenza inaudita in difesa del capitalismo, gravemente compromesso nel suo prestigio [dal successo del welfare state]. Ben due scuole di economisti si mobilitarono: quella austriaca, capeggiata da Friedrich von Wieser e Ludwig von Mises, e quella di Friburgo, capeggiata da Wilhelm Röpke e Walter Eucken. Più tardi si svegliò anche la Scuola di Chicago con Frank Knight, Gary S. Becker e Milton Friedman … l’ordine liberale, facendo leva sull’alleanza tra mondo accademico e mondo finanziario, è riuscito a imporsi all’intero pianeta condizionandone, attraverso l’economia, la vita intera». Tutto qui.

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Neo-mercantilismo, la svolta di Trump

fonte SBILANCIAMOCI
Autore: Giovanni Balcet
Il neo-mercantilismo di Trump segna la fine della globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta negli ultimi decenni. È il sintomo più profondo del declino della potenza americana in campo economico
La politica protezionista annunciata il 31 marzo da Donald Trump fa seguito a una lunga serie di misure puntuali di ritorsione commerciale, e non è immediatamente operativa: è tuttavia un messaggio politico molto chiaro e molto grave, e rappresenta una svolta sostanziale. Annuncia la fine di un’epoca, quella degli Stati Uniti motore del liberoscambio, iniziata ai tempi di Franklin Delano Roosevelt e sviluppatasi durante la seconda guerra mondiale e nel dopoguerra, fino al nuovo secolo. In tutti questi decenni, l’opzione a favore della liberalizzazione del commercio internazionale ha accompagnato costantemente l’ascesa degli Stati Uniti come superpotenza mondiale, economica e politica. Il cambiamento di rotta è tale da non poter essere in alcun modo sottovalutato.

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Le autorità del Kazakhstan hanno lanciato di recente una repressione su vasta scala contro dirigenti e attivisti dei sindacati indipendenti nella parte occidentale del paese.


Nel mese di gennaio, funzionari delle autorità locali e la direzione della società per servizi petroliferi, OCC, hanno cercato di soffocare una pacifica protesta di massa dei lavoratori. Questa società fa parte della KazMunaiGas, la più grande società petrolifera e di gas del Kazakhstan.

Hanno arrestato due dirigenti sindacali Amin Yeleusinov e Nurbek Kushakbayev. Sono stati accusati in base al codice penale repressivo di aver indetto uno sciopero.

Agli inizi di aprile,  Kushakbayev è stato condannato a due anni e mezzo di lavori correttivi in una colonia.

Il giudice ha, inoltre, sostenuto la richiesta di indennizzo della società per un valore di circa 80.000 dollari per presunti danni.

L’OCC ha avviato licenziamenti di massa dei lavoratori che hanno partecipato alle proteste.

Questo è scandaloso e dobbiamo denunciarlo.

Insieme alla Confederazione Internazionale dei Sindacati e al sindacato globale, IndustriaALL, abbiamo lanciato una campagna online con la quale chiediamo che la società ritiri le sue richieste di indennizzo, fermi la repressione e avvii il dialogo con i lavoratori.

Per favore, dimostrate il vostro sostegno cliccando qui:

https://www.labourstartcampaigns.net/show_campaign.cgi?c=3425

Per favore, condividete questa campagna con i vostri amici, parenti e colleghi del sindacato.

Grazie

Eric Lee

Bruno Giorgini: Elezioni francesi. Aiuto tornano i comunisti!

FONTE INCHIESTAONLINE

Au secours, les communistes reviennent !

Alors que Mélenchon concentre les attaques depuis sa percée dans les sondages, la peur du rouge fait toujours recette en campagne, écrit Yves Bordenave, journaliste au service politique du « Monde », dans sa chronique.

 

E’ un titolo rubato a Le Monde del 14 aprile, semironico ma non del tutto, di un pezzo che con altri riempie due pagine con vicende e gesta di Mélenchon, leader del Front de Gauche e candidato dell’estrema sinistra o sinistra radicale che dir si voglia [vedi in alto foto di Mélanchon e titolo di  “Le Monde” del 14 aprile]. Queste due pagine, dedicategli dal prestigioso giornale francese, costituiscono una investitura che va oltre i pur lusinghieri risultati dei sondaggi. E’ la prima volta nella storia della V Repubblica che un esponente a sinistra del PS (Partito Socialista) potrebbe arrivare al ballottaggio. E per di più, se accadesse contro Marine Le Pen, Mélenchon vincerebbe alla grande (60% a 40%) , e con la stessa percentuale batterebbe Fillon, perdendo invece se il ballottaggio fosse con Macron (45% a 55%). Tra i giornali quelli di destra strepitano assai e il capostipite Le Figarò quasi cita la famosa frase del Manifesto di Marx e Engels che recita: Uno spettro s’aggira per l’Europa –lo spettro del comunismo. Al posto dell’Europa mettiamoci Parigi e il gioco è fatto.

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Franco Di Giangirolamo: L’isola sul fiume

Era la fine di Maggio quando salivo sullo strano ponte (appresi piu´tardi che era opera dei prigionieri della prima guerra mondiale) che collegava Treptow Park con l`isoletta dove avrei vissuto con mia moglie per un anno e mezzo. La fermata del bus, davanti alla sede del Comune mi aveva offerto una prima sorpresa: diversi cartelli indicavano i nomi e le relative distanze kilometriche dei paesi e citta´gemellate e, in caratteri blu, scorsi la scritta „ Albinea“ (prov. di Reggio Emilia). Lo presi per un segno benaugurante, come dire: gira gira sei sempre a casa.

Ormai avevo alle spalle gran parte della mia vita: attivita´ pubblica, quasi tutta la rete familiare, gli amici; insomma, si potrebbe dire tutto, tranne la pensione, la valigia che mi trascinavo appresso e mia moglie che mi attendeva. Di segnali beneauguranti ne avevo proprio bisogno ed ero disposto anche ad inventarmeli.

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Eolico offshore: Germania punta decisa sull’energia del vento

fonte  GREENSTYLE   che ringraziamo

di Cristiano Ghidotti

 

Arriva dalla Germania una notizia importante nell’ottica di sviluppo delle soluzioni relative all’eolico offshore: l’ente Bundesnetzagentur ha pubblicato l’esito della gara indetta dal governo tedesco e finalizzata alla realizzazione di nuovi impianti nel Mare del Nord. Quattro i progetti che ne sono usciti vincitori, per una potenza totale pari a 1.490 MW e con un costo   medio dell’energia previsto in soli 0,04 euro/kWh, di gran lunga inferiore alle aspettative.
Due dei progetti fanno capo a DONG Energy: si chiamano OWP West e Borkum Riffgrund West 2 ed entrambi produrranno 240 MW. Un terzo è costituito da una centrale da 900 MW a cura di EnBW. Questi non richiederanno l’erogazione di alcun incentivo. Discorso differente, invece, per il quarto impianto: Gode Wind 3, sempre di DONG Energy, al quale invece verrà riconosciuto un sussidio quantificato in 0,06 euro/kWh.

Gli operatori hanno scelto di avanzare proposte non incentivate grazie a una serie di fattori favorevoli: in primis l’esclusione dei costi di connessione alla rete di distribuzione elettrica, che andrà a ricadere sulle bollette delle utenze, poi il termine fissato per le operazioni di costruzione fissato con un ampio margine, al 2024.

Tutti i dettagli degli investimenti dovranno invece essere stabiliti e comunicati entro il 2021: le due aziende avranno dunque tempo altri quattro anni per beneficiare delle continue innovazioni tecnologiche, in particolare quelle legate al grado di efficienza delle turbine. Gli impianti saranno poi operativi per un periodo previsto di 25-30 anni e sfrutteranno venti che in quota soffieranno a una velocità di oltre 10 m/s.

In altre parole, secondo DONG Energy e EnBW, assicurarsi oggi le aste significa poter far fruttare al meglio gli investimenti nel prossimo periodo, complice una progressiva riduzione delle spese legate all’installazione e alla manutenzione delle turbine. Questo dovrebbe favorire, in prospettiva, il processo di transizione della Germania verso l’approvvigionamento energetico da fonti rinnovabili, contribuendo così all’abbandono del carbone.

Turchia: referendum, chiusi i seggi, irregolarità e primi risultati

FONTE PRESSENZA.COM   che ringraziamo

16.04.2017 Murat Cinar

Turchia: referendum, chiusi i seggi, irregolarità e primi risultati
(Foto di Bianet)

Oggi in Turchia si vota per un cambiamento costituzionale molto radicale. I cittadini sono chiamati alle urne per approvare, solo con un sì o con un no,  un pacchetto composta da 18 punti. La maggior parte dei punti si concentra sull’aumento del potere del Presidente della Repubblica dal punto di vista legislativo, giuridico ed amministrativo.

La prima parte della votazione si è conclusa l’8 aprile tra i cittadini  residenti all’estero. Secondo i primi dati non ufficiali sono circa tre milioni di persone. Invece a livello nazionale si è votato solo in un giorno, ossia oggi, il 16 aprile. Alle ore 17:00 locali i seggi si sono chiusi ed è partito lo scrutinio. Secondo i dati sempre non ufficiali diffusi dalla Rete dei Giornalisti Indipendenti (BiaNet) l’affluenza è stata abbastanza alta: 84%, quindi sono circa 58 milioni e 400 mila voti.

E’ stata una giornata di voto piena di incidenti, irregolarità e brogli,  iniziata con la notizia dell’uccisione di tre persone nella città di Diyarbakir-Amed. Secondo la prima versione dei fatti sembra che si tratti di uno scontro a fuoco tra partigiani del sì e del no al referendum.

Verso la chiusura dei seggi l’Associazione per la Difesa dei Diritti Umani (IHD) ha comunicato una serie di violazioni registrate e documentate. Secondo questo rapporto dell’IHD, nonostante il divieto elettorale, in quasi tutto il paese erano presenti ancora i materiali di propaganda. L’Associazione specifica che, nonostante la regola dei 15 metri di distanza dai seggi, soprattutto nel sud est del paese la polizia e la gendarmeria erano fortemente presenti. L’IHD elenca diverse città in cui alcune persone hanno votato più di una volta, diverse schede si sono trovate già col timbro sul “Sì” pronte per essere imbucate; in diversi casi non  è stato permesso ai suoi membri di svolgere l’attività ufficiale di osservatorio indipendente.

Secondo diverse fonti si sono registrate alcune irregolarità. Il giornalista del quotidiano nazionale conservatore Yeni Safak, Ali Bayramoglu, famoso per la sua posizione a favore del “No” è stato malmenato dagli osservatori del partito al governo (AKP). Questo fatto è stato documentato con una video-ripresa. Uno dei parlamentari dell’AKP, Samil Tayyar, dopo aver votato ha fotografato la sua scheda e l’ha postata sul suo account Twitter. Secondo l’Agenzia di notizia russa Sputnik in un seggio è stato ripreso il caso di un volontario che ha messo il timbro su numerose schede al posto del “Sì”. Nel mentre Ersal Koç, il vice presidente della distretto di Afsin nella città di Maras, appartenente al Partito del Movimento Nazionalista(MHP), si è fatto fotografare mentre metteva il timbro sull’opzione “Sì” fuori dalla cabina elettorale e poi ha diffuso la foto in rete. Attraverso gli account Twitter e Facebook diversi volontari hanno fotografato e diffuso le lettere di denuncia ufficiali delle irregolarità. Quindi già con le prime notizie e prove sembra che si tratti di un voto pieno di irregolarità e violazioni.

Tuttavia la decisione più scandalosa è stata comunicata dall’Ente Superiore per le Elezioni (YSK). Durante la giornata ci sono stati numerosi casi di denuncia in cui sono state identificate varie schede prive di timbro ufficiale dell’Ente; quindi si tratterebbe di un lavoro di copisteria improvvisato all’ultimo momento. A proposito di queste denunce lo YSK ha deciso di contare comunque il parere del cittadino espresso sulle schede anche non ufficiali.

In questo momento secondo l’agenzia di stampa di Stato, Anadolu Ajansi, gli scrutini si sono conclusi quasi del tutto ed il risultato è del 51% a favore del Sì. Tuttavia nasce un grande dubbio su come si è riusciti a contare quasi tutti i 58 milioni di voti in meno di tre ore. Dunque sia il Partito Democratico dei Popoli (HDP) sia il Partito Repubblicano del Popolo (CHP) invitano gli osservatori a non abbandonare i seggi perché secondo loro si tratta di un risultato falso.

Nel mentre il sito web ufficiale dell’Ente Superiore per le Elezioni (YSK) è down. Secondo Erdal Aksunger, vice segretario generale del CHP, lo YSK ha registrato per ora circa il 15% dei voti. quindi i dati comunicati dall’Anadolu Ajansi non sarebbero veritieri. Alle ore 19:00 italiane nelle città di Istanbul ed Ankara, a differenza dei primi dati, sembra che il “No” stia crescendo notevolmente.

Secondo i primi dati alcuni numeri interessanti vengono dalle città fortezza dell’AKP come Bayburt, Aksaray, Rize, Konya, Cankiri dove ha vinto fortemente il “Sì”. Invece nelle città dove sono forti l’HDP e il CHP – Dersim, Kirklareli, Edirne, Sirnak, Hakkari – vince notevolmente il “No”.

LA “LEGGE-MINNITI”: DIRITTI NEGATI PER I MIGRANTI

fonte AVVENIRE.IT  che ringraziamo

 

13/04/2017  La Camera ieri ha approvato il decreto: “Ingiustizia è fatta”. Da ieri non tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. Ecco perché

Ieri la Camera dei Deputati ha sancito che non siamo tutti uguali davanti alla legge. Gli italiani sono una cosa, gli stranieri migranti un’altra. Loro, gli immigrati, evidentemente figli di un dio minore, non hanno diritto a ricorrere in appello, qualora non venga accolta la domanda per il riconoscimento dello status di rifugiati o di protezione umanitaria. Il ministro Minniti ha chiarito che l’articolo 3 della Costituzione vale solo per gli italiani. Ma non solo, secondo l’Asgi (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione), anche l’articolo 111 (il diritto a un giusto processo) e l’articolo 24 (il diritto di difesa). Idem per l’articolo 6 della Convenzione europea sui diritti umani (che prevede il diritto al contraddittorio): infatti, il richiedente asilo perde il diritto a essere sentito in Tribunale. Spetta al giudice valutare se sarà necessario o meno ascoltarne le ragioni. Se questi diritti venissero negati a qualunque cittadino italiano si parlerebbe di “giustizia ingiusta” e di “giustizia negata”. E invece 240 parlamentari, che hanno votato il decreto, non hanno avuto nulla da ridire (176 i contrari, 12 gli astenuti).

Ha prontamente reagito l’organizzazione non governativa Intersos: «Con l’approvazione del decreto Minniti e le nuove norme sull’esame delle richieste d’asilo, che eliminano la possibilità di ricorrere in appello in caso di diniego, si comprimono pesantemente i diritti dei rifugiati presenti nel nostro Paese. Fino ad oggi oltre la metà dei giudizi di diniego espressi da parte delle prefetture, venivano ribaltati in appello. Da oggi questa possibilità viene cancellata».

 

«Si tratta di un grave passo indietro», prosegue Intersos, «purtroppo in scia con una serie di decisioni, dall’accordo con la Libia al decreto sulla sicurezza nelle città, che vanno nella direzione della restrizione dei diritti e dell’esasperazione del tema della sicurezza, a scapito delle politiche dell’accoglienza e dell’integrazione».

Qui e in copertina: il ministro dell'Interno Marco Minniti.

Qui e in copertina: il ministro dell’Interno Marco Minniti.

Il provvedimento viene messo sotto la luce dello “snellimento delle procedure” per renderle più rapide. Ma “snellire” conculcando un diritto(quello a opporre appello contro una decisione che, appunto, otteneva ragione in oltre la metà dei casi) non è un passo avanti, è una riduzione dei diritti, quindi di democrazia.

 

Non c’è solo questo. Il decreto che oggi diventa legge contiene anche una camaleontica trasformazione (ma solo nel nome) dei famigerati Cie: d’ora in poi non saranno più “Centri di identificazione e di espulsione”, ma Cpr, ossia “Centri di permanenza per il rimpatrio”. Gli immigrati, d’ora in poi, non avranno nulla di cui preoccuparsi, perché tali nuove prigioni – assicura il decreto – dovranno essere «di capienza limitata (100-150 posti al massimo)» e dovranno garantire «condizioni di trattenimento che assicurino l’assoluto rispetto della dignità della persona». Difficile immaginare come, vista l’esperienza di questi anni.

Giusto per completare il (fosco) quadro di questa norma, si parla anche dell’identificazione dei migranti: lo straniero che giunge «in modo irregolare» in Italia viene condotto «per le esigenze di soccorso e di prima assistenza» presso appositi «punti di crisi». Ma qui cosa accade? Insieme al soccorso e all’assistenza viene fatto il «rilevamento foto dattiloscopico e segnaletico», ossia la schedatura. Se il migrante si rifiuta di sottoporvisi, secondo la nuova legge si «configura il rischio di fuga» e quindi viene internato nei Centri di permanenza per il rimpatrio. Un altro articolo che fa a pugni col diritto e col principio per cui “la legge è uguale per tutti”.

Questi gli aspetti più rilevanti del “decreto-Minniti”. A quando, invece, una seria politica dell’immigrazione?

Geopolitica : le intenzioni della Serbia di acquistare S-300

Il portavoce del presidente russo Dmitry Peskov ha commentato i piani della Serbia di comprare dalla Russia i sistemi missilistici S-300; ha dichiarato che il tema della cooperazione tecnico-militare (VCO) appare nell’agenda delle comunicazioni di alto livello.

“Il tema della cooperazione tecnico-militare è legato ad una serie di questioni molto sensibili. Certamente esso si trova all’ordine del giorno nelle comunicazioni di alto livello” ha risposto Peskov alla domanda se la questione delle consegne degli S-300 sia stata discussa con il presidente serbo.

La scorsa domenica il Premier serbo Aleksandr Vucic ha dichiarato che Belgrado ha bisogno di due divisioni di sistemi missilistici antiaerei S-300 e un reggimento di comando, e il loro acquisto è in corso di valutazione con la Russia e la Bielorussia. Il presidente serbo ha personalmente parlato con il presidente russo Vladimir Putin e il presidente bielorusso Alexander Lukashenko.
FONTE SPUTNIK

Commento di Editor
Inquietante questa volontà del governo serbo di acquistare missili S-300 russi. Chi sono nell’immaginario del governo serbo i nemici da cui difendersi con questo sistema d’arma ?
Sulle concrete motivazioni per un acquisto importante di un sistema d’arma così potente da un paese economicamente modesto sarebbe opportuno avere maggiori conoscenze. Cosa dice in merito  la rappresentante dell’Europa Mogherini ? La crescita delle tensioni proprio nell’area balcanica, zona faglia tra occidente e medio oriente è motivo di seria preoccupazione. 

Alcune caratteristiche di questo sistema d’arma.

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LA SCRITTRICE ASLI ERDOGAN: ‘LA TURCHIA? UN REGIME KAFKIANO’

fonte ANSA.IT

LA SCRITTRICE ASLI ERDOGAN: ‘LA TURCHIA? UN REGIME KAFKIANO’

136 giorni passati nelle prigioni della Turchia per “terrorismo”. Colpi sparati? Zero: del resto, si dichiara anti-militarista e professa l’obiezione di coscienza, vietatissima da queste parti. Azioni clandestine? Nessuna, secondo i suoi stessi accusatori. Parole? Di quelle, a fiumi: come si conviene a una scrittrice. Asli Erdogan, cinquant’anni appena compiuti, autrice pluripremiata e tradotta in 17 lingue (in Italia con Il mandarino meraviglioso, ed. Keller), è diventata il simbolo delle centinaia di intellettuali colpiti dalla repressione nella Turchia post-golpe. “Un paradosso per una scrittrice esistenzialista”, come si definisce in un’intervista all’ANSA. Parla senza quasi mai smettere di gesticolare, agitando spesso la sigaretta spenta, tra pile di libri ammucchiati all’ultimo piano di un’importane casa editrice nel centro di Istanbul: “Non mi considero una figura politica. Ma adesso non mi tiro indietro. Non posso tacere, perché la mia esposizione serve a parlare di tutti gli oppressi”.

Al presidente Erdogan, la lega solo un’omonimia. Non potrebbero essere più diversi. “So di rappresentare tutto quello da cui è ossessionato: provengo dalle cosiddette élites laiche, sono una donna indipendente, e soprattutto una turca che si batte per i diritti di tutti, anche dei curdi, pur non essendo curda. Per questo mi considerano ancora più pericolosa”.

Per i magistrati che l’accusano, e per lei chiedono l’ergastolo, il corpo del reato di Asli Erdogan è il suo nome stampato sulla gerenza e sugli articoli di Ozgur Gundem, quotidiano filo-curdo chiuso dopo il golpe, di cui è stata per anni tra i consulenti. Su questa base, le rimproverano legami con i “terroristi” del Pkk. “Il giornale era sotto pressione, così è stata avviata una campagna di solidarietà per la libertà di stampa. Molti intellettuali hanno fatto simbolicamente il direttore per un giorno. Anche loro ne hanno pagato le conseguenze. In quel caso è stato un abuso della legge, ma nel mio una punizione totalmente illegittima: tutti gli avvocati mi hanno assicurato che un semplice consulente non può essere considerato legalmente responsabile”.

Un mese dopo il putsch andato a vuoto il 15 luglio, Asli Erdogan è finita in manette: “Hanno fatto irruzione in casa mia e mi hanno arrestata con la più grave delle accuse: quella di far parte di un’organizzazione terroristica”. Da lì, è iniziato il suo incubo. “Mi hanno lasciata in una cella di isolamento per 5 giorni. La prigione di Bakirkoy, dove ero detenuta, ospita per lo più prigioniere comuni. Ma io potevo solo decidere se stare nella sezione delle detenute del Pkk o con quella di estrema sinistra”. Ha scelto le prime.

Giorno dopo giorno, è stata costretta a fare i conti con la nuova vita in carcere. La sua casa è diventata la cella numero 16, condivisa con una giovane militante curda. Quella stessa stanza di pochi metri quadrati, prima di lei l’aveva occupata Esra Mungan, nota docente di psicologia cognitiva alla prestigiosa università del Bosforo di Istanbul, arrestata perché promotrice dell’appello degli ‘Accademici per la Pace’, che chiedevano la fine delle operazioni militari contro il Pkk. Il presidente Erdogan li aveva definiti “traditori della patria”, invocando per loro una dura punizione. E la professoressa, puntualmente, è finita in prigione. In quella cella è rimasta per oltre un mese, prima di poter riabbracciare – letteralmente – i suoi studenti, che l’aspettavano emozionati fuori dal carcere. Da lei, Asli ha ereditato uno di quei rituali che sembrano dare un senso alle lunghe giornate in prigione: “Oltre le sbarre della finestra, c’era un piccione a cui dava da mangiare ogni giorno. Era così abituato alla sua presenza che continuava a tornare anche quando non c’era più. Allora me ne sono presa cura io”.

Come si vive oggi in un carcere turco, “neppure tra i più duri”, Asli Erdogan lo racconta nel dettaglio: “Prima dello stato d’emergenza si potevano avere 3 visitatori esterni, ora è permesso solo ai familiari più stretti, e io ho solo mia madre. Ti permettono di fare una telefonata di 10 minuti a una sola persona ogni 2 settimane. Puoi avere al massimo 15 libri. Io ho dovuto abbandonarne molti che la gente mi mandava. La carta per scrivere? Quella potevamo comprarla al negozio della prigione, ma io spendevo quasi tutto in sigarette”, ammette sorridendo.

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Per una critica dell’ideologia neoliberista di Internet

da MICROMEGA che ringraziamo

 

Possono i cittadini riconquistare la sovranità sulla tecnologia? Sì, ma solo a patto di riconquistare prima la sovranità sull’economia e la politica, andando oltre le favolette fabbricate dal contemporaneo capitalismo tecnologico. Per gentile concessione di Codice edizioni, proponiamo stralci dalla prefazione alla nuova edizione di “Silicon Valley: I signori del silicio” di Evgeny Morozov.

di Evgeny Morozov

La sinistra non è mai stata un asso nel creare eccitanti narrazioni a sfondo tecnologico, e infatti anche in questo caso non ha alcuna eccitante narrazione da offrirci. Peggio ancora: non ne avrà mai una se non riscriverà la storia di internet – l’humus intellettuale della Silicon Valley – come una storia di capitalismo e imperialismo neoliberista.

Già come concetto, internet non è una nitida fotografia della realtà. Somiglia più alla macchia d’inchiostro del test di Rorschach, e di conseguenza chi la guarda ne trarrà una lezione diversa a seconda della sua agenda politica o ideologica. Il problema di internet come concetto regolativo su cui basare una critica alla Silicon Valley è che la rete è così ampia e indeterminata – può contenere esempi che portano a conclusioni diametralmente opposte – che lascerebbe sempre alla Silicon Valley una facile via di fuga nella pura e semplice negazione. Dunque qualsiasi sua critica efficace dovrà anche sbarazzarsi del concetto stesso.

Persino progetti come Wikipedia si prestano a questa lettura duplice e ambigua. Nel sinistrorso ambiente accademico americano la tendenza dominante è leggere il suo successo come prova che le persone, lasciate a se stesse, sono in grado di produrre beni pubblici in modo del tutto altruistico e fuori dal contesto del mercato. Ma da una lettura liberista (o di destra) emerge un’interpretazione diversa: i progetti spontanei come Wikipedia ci dimostrano che non serve finanziare istituzioni perché producano beni pubblici come la conoscenza e la cultura quando qualcun altro – la proverbiale “massa” – può farlo gratis e per giunta meglio. […]

La nostra incapacità di smettere di vedere ogni cosa attraverso questa lente internet-centrica è il motivo per cui un concetto come la sharing economy risulta così difficile da decifrare. Stiamo assistendo all’emergere di un autentico post-capitalismo collaborativo o è sempre il buon vecchio capitalismo con la sua tendenza a mercificare tutto, solo elevata all’ennesima potenza? Ci sono moltissimi modi di rispondere a questa domanda, ma se partiamo risalendo agli albori della storia di internet – è stata avviata da una manica di geni intraprendenti che smanettavano nei garage o dai generosi fondi pubblici delle università? – difficilmente troveremo una risposta anche solo vagamente precisa. Vi do una dritta: per capire l’economia della condivisione bisogna guardare – indovinate un po’… – all’economia.

Da una prospettiva culturale, la questione non è se internet favorisca l’individualismo o la collaborazione (o se danneggi o agevoli i dittatori); la questione è perché ci poniamo domande così importanti su una cosa chiamata internet come se fosse un’entità a sé stante, separata dai meccanismi della geopolitica e dal contemporaneo capitalismo iperfinanziarizzato. Finché non riusciremo a pensare fuori da internet, non potremo tracciare un bilancio corretto e attendibile delle tecnologie digitali a nostra disposizione.

[…]Ci siamo fossilizzati sulla tesi della centralità di internet per spiegare la realtà (a seconda delle volte fosca o edificante) attorno a noi, e così continuiamo a cercare aneddoti che confermino la correttezza della nostra tesi; il che non fa che convincerci ancora di più che la nostra tesi preferita debba essere centrale in qualsiasi spiegazione dei nostri problemi attuali.

Ma cosa significa in pratica pensare fuori da internet? Be’, significa andare oltre le favolette fabbricate dal complesso industrial-congressuale della Silicon Valley. Significa prestare attenzione ai “dettagli” economici e geopolitici relativi al funzionamento di molte società hi-tech. Scopriremmo così che Uber – grande promotore della mobilità e della lotta alle élite – è un’azienda che vale più di 60 miliardi di dollari, in parte finanziata da Goldman Sachs. Allo stesso modo, ci renderemmo conto che l’attuale infornata di trattati commerciali come il TiSA, il TTIP e il TPP, nonostante siano ormai falliti, mira a promuovere anche il libero flusso di dati – scialbo eufemismo del ventunesimo secolo per “libero flusso di capitali” –, e che i dati saranno sicuramente uno dei pilastri del nuovo regime commerciale globale. […]

Una simile lente post-internet potrebbe far sembrare il mondo un posto assai deprimente, ma non più di quanto già lo sia la realtà stessa del capitalismo di oggi. Questo nuovo modo di vedere ci offrirebbe anche un’idea di quello che bisogna fare e dei soggetti a cui si potrebbe affidare un eventuale programma di emancipazione. Una discussione adulta e matura sulla costruzione di un solido futuro tecnologico deve iniziare dal riconoscimento che dovrà essere anche un futuro tecnologico non liberista.

Quindi, invece di continuare a discutere all’infinito su quanto emancipante possa essere il consumo o su come dobbiamo adattarci all’ultima calamità imparando a codificare la nostra soluzione individuale, dovremmo chiederci quale effetto hanno le politiche di austerity sugli stanziamenti per la ricerca. Dovremmo indagare sul fatto che l’evasione fiscale delle società tecnologiche impedisce alle alternative pubbliche di emergere. Dovremmo ammettere che l’incapacità delle persone di arrivare a fine mese a causa della crisi economica rende la sharing economy, con la possibilità che offre di mettere sul mercato tutto ciò che si possiede, non solo allettante ma anche inevitabile.

[…] Per tornare a una delle prime domande che ci siamo posti: possono i cittadini riconquistare la sovranità sulla tecnologia? Sì, ma solo a patto di riconquistare prima la sovranità sull’economia e la politica. Se la maggior parte di noi crede in qualche specie di “fine della Storia” – perché non ha voglia o non è capace di indagare la possibilità di una genuina alternativa sia al capitalismo globale sia al ruolo dominante del mercato nella vita sociale –, allora davvero non c’è speranza. Qualsiasi nuovo valore internet abbia potuto contenere al suo interno sarà schiacciato dall’attrattiva del soggettivismo neoliberista.

Tuttavia, se si pensa allo stato disastroso in cui versa oggi il capitalismo – dalla crisi finanziaria alle guerre in Medioriente al possibile sgretolamento dell’Unione Europea –, è difficile non dare per scontata una simile teoria della “fine della Storia”.

Insomma, la cattiva notizia è che, se vogliamo che internet esprima fino in fondo il suo potenziale, il capitalismo deve finire. La buona notizia è che questo potrebbe succedere prima di quanto pensiamo.

(14 aprile 2017)

“Lo chiamano amore” Note sulla gratuità del lavoro

fonte SINISTRAINRETE
di Anna Curcio

Da AA.VV, Salari rubati. Economia, politica e conflitto ai tempi del salario gratuito, Ombre Corte, 2017

gratis“Lo chiamano amore, noi lo chiamiamo lavoro non pagato”. Questo l’esergo che Silvia Federici sceglie per un testo fondativo della campagna internazionale Salario al lavoro domestico1. Erano gli anni Settanta e il femminismo marxista era impegnato in un duro confronto critico con Marx, per portare in primo piano la produzione di valore del lavoro riproduttivo. Si intendeva in particolare denunciare la gratuità del lavoro domestico e della cura, svelando le forme intrinseche dello sfruttamento del lavoro delle donne2.

La suggestione di Federici, tutt’altro che datata, ritorna pressoché intatta nel presente, mentre il lavoro gratuito dilaga imponendosi quale nuova frontiera dell’accumulazione capitalistica. Stage, tirocini, esperienze di praticantato, straordinari non pagati, volontariato, le innumerevoli forme di gratuità del lavoro intellettuale e artistico e ogni altra sorta di lavoro non retribuito fino alla lavorizzazione del consumo (si pensi soprattutto alle attività che quotidianamente svolgiamo nel web 2.0) stanno ridisegnando la geografia del lavoro contemporaneo. E il lavoro in quanto tale, sganciato dal rapporto salariale, diventa un atto d’amore. È precisamente un atto d’amore quello che oggi il capitale domanda quando chiede di lavorare senza il compenso di un salario, proprio come ha storicamente chiesto alle donne di svolgere gratuitamente e per amore la cura e il lavoro domestico.

Provando a riflettere in parallelo tra la gratuità della riproduzione (naturalizzata al ruolo femminile) e le più recenti esperienze di de-salarizzazione del lavoro, queste brevi note attingono dall’archivio del femminismo marxista, per leggere le trasformazioni produttive e del lavoro in atto, svelarne il contenuto mistificatorio, immaginare i (possibili) percorsi di lotta e le strategie di resistenze alle forme dell’accumulazione capitalistica nella crisi. Perché se, data l’iniqua redistribuzione del plusvalore, il lavoro è sempre sfruttamento, il lavoro fuori dal rapporto salariale finisce per rassomigliare alla schiavitù (benché il non essere coattivo ne costituisce una importante differenza) che si sa, è un formidabile spazio di accumulazione.

Questo scritto, nel contesto della perdurante crisi del neoliberismo, tratteggia dapprima le forme dell’accumulazione contemporanea considerando i dispositivi di cattura del lavoro (§§ 1 e 2) per riflettere poi sulla disposizione soggettiva e sui possibili spazi di resistenza da aprire e coltivare; ovvero con quali armi combattere il dilagare del lavoro gratuito (§ 3).

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Pugno duro sui migranti. Per una manciata di voti

Pugno duro sui migranti. Per una manciata di voti

A cura di Gavino Maciocco che ringraziamo

Per trovare consenso a buon mercato al giorno d’oggi la carta vincente sembra essere quella di prendersela con i migranti e con i più poveri.  Con due Decreti legge – n. 13 e n. 14 – emanati lo scorso febbraio (e ora approvati dal Parlamento con la fiducia) il Governo mette in riga chi fugge da guerra e fame, nonché chi mendica nelle città mettendo a repentaglio il decoro urbano.   Ma molte associazioni – tra cui ASGI, Magistratura Democratica, SIMM, ARCI, Comunità di S. Egidio, ACLI, Oxfam, CGIL, CISL, UIL – si oppongono a ciò che a loro parere rappresenta un passo indietro sul piano dei diritti e della civiltà giuridica del nostro Paese.


 

Con l’emanazione del Decreto Legge 17 febbraio 2017, n. 13 (Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale), – sostiene il documento di Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) e Magistratura Democratica , (vedi risorse) –   il Governo ha scelto di operare mediante lo strumento della legislazione di urgenza introducendo modifiche di sistema che presentano profili di estrema delicatezza per la salvaguardia di principi costituzionali ed internazionali, e che non appaiono idonee a risolvere le attuali problematiche del sistema di protezione internazionale italiano.

Nel merito le previsioni relative ai procedimenti in materia di protezione internazionale appaiono avere l’effetto di allontanare il cittadino straniero dal Giudice, limitando le possibilità di contraddittorio, anche mediante l’utilizzo della videoregistrazione dell’audizione del richiedente asilo, strumento che può essere considerato utile alla verifica e all’integrazione istruttoria solo se viene garantita la comparizione delle parti e la presenza di un mediatore linguistico-culturale.

L’uso della videoregistrazione dell’audizione del richiedente potenzialmente sostitutivo dell’audizione dello straniero da parte del giudice non è conforme all’obiettivo indicato dalle disposizioni previste dal legislatore dell’Unione europea, orientate a rafforzare i diritti dei richiedenti protezione internazionale. A tal proposito occorre osservare che il diritto dell’Unione valorizza la valutazione piena e diretta del giudice ex nunc di tutte le fonti di prova. A tal fine appare essenziale l’ascolto diretto e personale del richiedente, essendo spesso le dichiarazioni rese dallo stesso gli unici elementi su cui si basa la domanda (art. 46 della Direttiva 2013/32/UE).

Lo stesso risultato di obiettiva riduzione delle garanzie processuali viene prodotto dall’eliminazione del grado di appello, come denunciato dalla stessa Associazione nazionale magistrati – sezione Cassazione che, nel proprio comunicato [PDF: 180 Kb] del 14.02.2017, ha evidenziato l’irragionevolezza di tale scelta in un ordinamento processuale come il nostro in cui la garanzia del doppio grado di merito è prevista anche per controversie civili di ben minor valore rispetto all’accertamento se sussista o meno in capo allo straniero un fondato rischio di persecuzione o di esposizione a torture, trattamenti disumani e degradanti o eventi bellici in caso di rientro nel proprio Paese, e l’inevitabile trasferimento nel giudizio dinanzi alla Corte di cassazione delle criticità e delle disfunzioni che si dichiara di voler eliminare. La previsione di sole 14 sezioni specializzate per trattare i principali procedimenti aventi come interlocutori le persone straniere renderà inoltre più difficoltoso il diritto di difesa della parte, che si troverà lontana dal Foro di discussione della propria controversia, ostacolando sotto il profilo logistico la concreta possibilità di accesso alla giurisdizione. L’accentramento dei procedimenti in pochi Tribunali rischia di accentuare le attuali difficoltà degli Uffici giudiziari coinvolti, che vedranno ulteriormente aumentare il carico di lavoro.

In relazione alle novità in tema di prima identificazione e di rimpatrio degli stranieri irregolari, si osserva che appare persistere una prevalente ottica repressiva del fenomeno, con l’accentuazione degli strumenti di rimpatrio forzoso, attraverso alcune modifiche di dettaglio della disciplina del rimpatrio (come la previsione del trattenimento anche per gli stranieri non espulsi ma respinti, o l’allungamento del termine di trattenimento per coloro che hanno già scontato un periodo di detenzione in carcere), ma, soprattutto, con la decisione di dare inizio all’apertura di numerosi nuovi centri di detenzione amministrativa in attesa del rimpatrio (ora chiamati Centri di permanenza per i rimpatri, invece che CIE).

Su questo punto si concentra la critica al Decreto legge n. 13 da parte della Società Italiana Medicina delle Migrazioni (SIMM), dove nel suo documento(a) (vedi risorse) si legge:

Esprimiamo notevole preoccupazione per l’introduzione di nuovo centri di detenzione, denominati Centri di Permanenza per i Rimpatri (in luogo di Centri di Identificazione e Espulsione – CIE, secondo la legge vigente). Il cambio di denominazione non ne cambia le funzioni, ma le estende ai richiedenti asilo che abbiano presentato ricorso contro un primo diniego.  Nelle raccomandazioni finali del XIV Congresso SIMM nel 2016 [PDF: 197 Kb] avevamo già reiterato la nostra forte preoccupazione per gli effetti dannosi dei CIE, e ne avevamo auspicato la chiusura. La detenzione di uno straniero richiedente asilo – perché tale è fino al giudizio definitivo – collide drammaticamente con il dettato delle norme internazionali e nazionali e costituisce un vulnus gravissimo e potenzialmente irrecuperabile per la salute delle persone che si erano affidate alla Repubblica per avere protezione. A fronte dei significativi stanziamenti previsti per l’apertura di nuovo centri di detenzione, sarebbero essenziali, invece, interventi di miglioramento della qualità dell’accoglienza per i richiedenti protezione.
Tra questi vanno comprese azioni di supporto al lavoro del personale impegnato a vario titolo nella gestione del percorso (componenti le commissioni, giudici, forze dell’ordine, etc.), attraverso un impiego di risorse proporzionate al carico di lavoro ed un costante supporto in termini formativi e di sostegno, quando necessario.  Adeguati investimenti in questo senso, oltre che ad abbreviare i tempi di attesa di valutazione (ad oggi eccessivamente prolungati) limiterebbe il tasso di decisioni erronee e tutelerebbe il personale stesso. Verrebbe ridotto inoltre lo stress aggiuntivo prodotto sui richiedenti asilo, minimizzando il rischio di fenomeni di nuova traumatizzazione. Il decreto, al contrario, devolve alla formazione dei magistrati delle “sezioni specializzate” poche migliaia di euro, mentre 13 milioni sono destinati alla realizzazione dei centri di espulsione”.

Ancora la SIMM:

“Non si ravvisa la necessità di istituire un ‘diritto speciale’ per gli stranieri richiedenti protezione, poiché si trovano, all’interno delle norme previste dal nostro ordinamento, procedure adeguate e coerenti con le garanzie relativamente ai diritti soggettivi della persona: il diritto alla protezione internazionale e il diritto alla salute. Ravvisiamo invece la necessità di dare piena attuazione allo spirito e alla lettera della legislazione laddove prevede percorsi di inclusione per i richiedenti protezione internazionale.
In particolare, per quanto riguarda l’assistenza sanitaria, è ineludibile la piena applicazione dell’Accordo della Conferenza Stato-Regioni del 20.12.2012 ‘Indicazioni per la corretta applicazione della normativa per l’assistenza sanitaria alla popolazione straniera da parte delle Regioni e Province Autonome italiane’, il quale disciplina la tempestiva iscrizione della persona richiedente asilo al sistema sanitario nazionale con piena inclusione nelle cure”.

Un gruppo di associazioni (A Buon Diritto, ACLI, ANOLF, Antigone, ARCI, ASGI, CGIL, Centro Astalli, CILD, CISL, Comunità Nuova, Comunità Progetto Sud, Comunità di S.Egidio, CNCA,  Focus – Casa dei Diritti Sociali, Fondazione Migrantes, Legambiente, Lunaria, Oxfam Italia, SEI UGL, UIL) hanno firmato un appello che critica duramente sia il decreto legge del 17 febbraio, n. 13, (Contrasto all’immigrazione illegale) che  quello immediatamente successivo del 20 febbraio 2017, n. 14, (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città).  Si legge in particolare nel loro comunicato (vedi risorse):

Il Decreto Legge Minniti-Orlando e il Decreto ‘Sicurezza’, entrati recentemente in vigore ed in fase di conversione in Parlamento, rappresentano un passo indietro sul piano dei diritti e della civiltà giuridica del nostro Paese. Attraverso un uso improprio della legislazione di urgenza, i due decreti, anziché intervenire sulle tante contraddizioni e i limiti dell’attuale legislazione, introducono nuove norme di discutibile efficacia, senza peraltro migliorare l’efficienza del sistema. Ad esempio si rilancia il ruolo dei Centri Permanenti per il Rimpatrio, nuova denominazione per gli attuali CIE, senza che ne venga modificata la funzione e assicurato il pieno rispetto dei diritti delle persone trattenute.

Gestire e governare in modo efficace e lungimirante il fenomeno migratorio non significa – noi crediamo – limitarsi ad irrealistiche azioni di deterrenza. Occorrono, invece, norme che favoriscano i flussi d’ingresso e la permanenza regolare dei cittadini stranieri, contrastando così il lavoro nero e lo sfruttamento. Ribadiamo inoltre l’urgenza di aprire corridoi umanitari e aumentare considerevolmente i reinsediamenti, per consentire alle persone che fuggono da guerre, persecuzioni, fame e povertà di entrare in Italia e in Europa senza mettere in pericolo la loro vita.

Riteniamo inaccoglibile la pretesa di ricondurre la materia del “decoro urbano” al tema della sicurezza, avallando una concezione dell’ordine pubblico che non produce vera sicurezza ma, al contrario, rischia di creare maggiore insicurezza criminalizzando la marginalità sociale senza preoccuparsi di intervenire per combattere la povertà e la marginalità di un numero crescente di cittadini”.

 

Risorse

Nota

  • a) SIMM ed il Coordinamento dei GrIS fanno proprio il comunicato presentato dal GrIS Liguria, condividendone i contenuti e la ferma condanna del Decreto.

All’erta: stanno criminalizzando i diritti

fonte PRESSENZA.COM

10.04.2017 Riccardo Petrella

All’erta: stanno criminalizzando i diritti

La criminalizzazione dei migranti, degli impoveriti ed esclusi, dei cittadini manifestanti è la fine della giustizia, della democrazia della libertà.

Alcuni giorni fa, a Ventimiglia, diverse persone sono state condannate per aver dato del cibo agli immigranti. In certi comuni italiani, agire con carità è diventato un atto criminale. Gli immigranti sono persone non grate. Da anni anche la criminalizzazione degli impoveriti, degli esclusi, della “gente di viaggio” (specie i Rom) è un fenomeno diffuso, non solo nel nostro paese. I “senza casa”, per esempio,  sono sistematicamente rigettati dal “soggiorno” in luoghi pubblici accusati di insudiciare il decoro delle nostre città. Infine, ora, la semplice intenzione, di partecipare ad una manifestazione pubblica autorizzata può, addirittura, “giustificare” l’interdizione di manifestare in pubblico e l’ingiunzione di un ritorno obbligatorio (il foglio di via) al proprio luogo di residenza. Incredibile, eppure ciò è accaduto il 25 marzo scorso in occasione delle manifestazioni per il 60° anniversario dei trattati di Roma. Tre pullman di manifestanti sono stati fermati per controlli di polizia e successivamente condotti presso il centro di Tor Cervara dove i manifestanti sono stati trattenuti per ore inibendo cosi loro la partecipazione al corteo. Nel corso delle perquisizioni sarebbe stato rinvenuto un coltellino da formaggio. A ventitre “manifestanti intenzionali” trattenuti erano stati preventivamente notificati fogli di via per il periodo di 3 anni; trattasi di persone incensurate a cui non è stato contestato alcun comportamento illegale.

Lo stesso sta accadendo in queste settimane ai cittadini del Salento che manifestano, insieme ai loro sindaci, contro la costruzione del gasdotto TAP (Trans-Adriatic Pipeline). Questa prevede lo sradicamento di centinaia di ulivi secolari e la perforazione del terreno lungo spiagge non ancora devastate e in zone agricole, con grave pregiudizio per il patrimonio paesaggistico e naturale e le attività turistiche ed agricole del salentino.

Opporsi ad una decisione governativa, usando il diritto di libertà di pensiero e di opinione non per rigettare gli altri, non per far violenza contro i più deboli, i più fragili, non per praticare l’odio e la guerra economica competitiva fra i popoli, ma per difendere i diritti umani e della natura, la giustizia e la democrazia, è considerato oramai un atto criminale. Come nel caso delle manifestazioni anti-TAV, i cittadini che manifestano rispettando la democrazia e i diritti sono minacciati di condanne per atti “sovversivi” contro lo stato in nome del denaro, dietro l’alibi mistificatore dello “sviluppo” e del “benessere economico” (dei pochi e per i potenti).

I tre fenomeni di criminalizzazione descritti sono una dimostrazione gravissima della violenza sempre più senza limiti operata contro i cittadini dalle oligarchie che hanno preso il potere in Italia ed in Europa nel corso degli ultimi trent’anni. È urgente lottare affinché i nostri giovani non debbano gridare fra alcuni anni, come dovette fare il popolo francese nel 1792 contro gli oppressori interni ed esterni, “Aux armes citoyens”. La rivolta armata, la guerra civile, non sono il nostro futuro né debbono diventarlo.

PIERFRANCO PELLIZZETTI – Disintermediazione: come sbaraccare 150 anni di lotte del lavoro

PIERFRANCO PELLIZZETTI – Disintermediazione: come sbaraccare 150 anni di lotte del lavoro

fonte MICROMEGA

ppellizzettiI pappagalli modernisti, quelli che ti ripetono la giaculatoria per sentito dire sulla potenza della rete, spiegandoti che non sei sufficientemente aggiornato in materia di rivoluzione grillina del web, bisognerebbe che venissero a loro volta informati di una verità sconvolgente: i vettori del cambiamento non sono solo tecnologici ma anche organizzativi. Difatti, se tale messaggio fosse arrivato a destinazione, ci saremmo risparmiati l’ennesimo tormentone lessicale d’appartenenza, ad opera delle pedisseque casse di risonanza del Verbo di Sant’Ilario (rimaneggiato dallo staff di linguisti asserragliati nella milanese via Gerolamo Morone): vaffa… rosiconi… click-democrazia… Ora “disintermediazione”.

Un secolo e mezzo di lotte del lavoro gettate impunemente e con disprezzo nel cassonetto della storia. Estrema superficialità o spurgo di umori reazionari?

Quanto gli ideologi a Cinquestelle chiamano “disintermediazione”; ossia taglio delle bardature burocratiche che condussero all’asfissia l’età socialdemocratica-welfariana (preparando l’avvento della controrivoluzione neo-liberista che oggi fornisce l’orizzonte culturale dei managerial-efficientisti alla Davide Casaleggio; quelli per cui “o ti adegui precarizzandoti oppure ti becchi stipendi da fame cinese”), trascura un particolare non da poco: l’atomizzazione delle moltitudini, all’insegna del thatcheriano “la società non esiste”, non è altro che l’abile tattica con cui si è messo fuori gioco il movimento operaio novecentesco. Ossia la consapevolezza che il rapporto squilibrato, in termini di risorse a disposizione e forza contrattuale, tra datore di lavoro e lavoratore poteva essere sanato nella sua prevaricatoria asimmetria soltanto grazie all’aggregazione dei molti senza potere. Un processo storico che ha incivilito la società attraverso quelle che Luigi Einaudi chiamava “le lotte del lavoro”, prima nella fase del mutualismo proletario e poi della sindacalizzazione.

Ma a Beppe Grillo e i suoi ghost-writer il sindacato non piace, come non piaceva a Matteo Renzi, confermando la matrice piccoloborghese della loro cultura. Dunque, non critica della rappresentanza nelle sue patologie (sacrosanta per via delle derive professionali a tendenza castale che infestano le strutture organizzative del lavoro, producendo intollerabili e costosissimi privilegi), bensì sbaraccamento dell’idea stessa di un contropotere che tragga forza dal consenso dei ceti più deboli; di quel lavoro che continua a essere una colonna portante della società, anche se la restaurazione plutocratica di questo quarantennio tende a oscurarlo come soggetto politico collettivo. Ma che terrorizza soprattutto i neoborghesi, il ceto che si è arricchito nelle praterie deregolate dell’Italia a partire dagli anni Ottanta (la stagione del CAF, il concerto Craxi-Andreotti-Forlani, del saccheggio del pubblico denaro), che se ne sentono minacciati dalle sue aspirazioni egualitarie. D’altro canto se si era tamarri allora, si resta sempre tamarri, anche se ripuliti (e magari con villa sulla collina VIP ai confini di Genova).

Visto che si continua a parlare e sproloquiare di democrazia, si dovrebbe avere ben chiaro il concetto liberale che questo modo di “fare società” si basa sulla dinamica (spesso conflittuale) della competizione tra soggetti e interessi. Il suo contrario è l’autocrazia, in cui qualcuno – Uomo Forte o Garante – decide per le moltitudini ridotte a greggi di pecoroni. All’insegna del “fidatevi”. Un diktat subliminale che si accompagna allo sbaraccamento di ogni corpo intermedio; anche stavolta in singolare simmetria con il fallimentare riformismo renziano (e i maldestri tentativi di normalizzazione del ventennio berlusconiano). In un paese dove l’egemonia della cafonaggine neo-borghese diventa devastazione civile.

Pierfranco Pellizzetti

(11 aprile 2017)

Chomsky: “Stati Uniti la più grande minaccia per la pace nel mondo, non l’Iran”

Fonte : Nuovatlantide.org

di Cristina Amoroso – 7 aprile 2017

Il mondo è concorde. Non è l’Iran la più grande minaccia per la pace nel mondo, ma gli Stati Uniti. Da tempo lo sostiene Noam Chomsky, il dissidente politico di fama mondiale, linguista, autore di un centinaio di libri, professore emerito presso il Massachusetts Institute of Technology, dove ha insegnato per più di mezzo secolo. Nel corso dei primi 75 giorni dell’Amministrazione Trump, la Casa Bianca ha imboccato più passaggi per aumentare la possibilità di una guerra degli Stati Uniti con l’Iran. Trump ha incluso il Paese del Golfo in entrambi i divieti di viaggio per i Paesi musulmani. Come candidato alla presidenza, Trump ha minacciato di smantellare l’accordo nucleare con l’Iran.

A settembre del 2015, in un discorso alla New School di New York, Noam Chomsky, spiegando il motivo per cui egli riteneva gli Stati Uniti la più grande minaccia alla pace nel mondo, parlava degli Usa come di “uno Stato canaglia, indifferente al diritto e alle convenzioni internazionali, con il diritto a ricorrere alla violenza a volontà”.  In questi giorni in uno show televisivo, Democracy Now, condotto dal giornalista Juan González, Chomsky ha ripreso il tema dei rapporti statunitensi con l’Iran, sulla questione: “Perché gli Stati Uniti insistono su come impostare le potenziali cause di guerra con l’Iran?”.

E’ una vecchia questione che va avanti da molti anni. Proprio nel corso degli anni di Obama, l’Iran è stato considerato come la più grande minaccia alla pace nel mondo. “Tutte le opzioni sono aperte”, frase di Obama, che significa, se vogliamo usare le armi nucleari, siamo in grado, a causa di questo terribile pericolo per la pace. I motivi di preoccupazione vengono articolati molto chiaramente e ripetutamente da alti funzionari e dai commentatori negli Stati Uniti.

Ma esiste un mondo là fuori che ha le sue opinioni, che sono facilmente rintracciabili da fonti standard, come la principale agenzia di sondaggi statunitense; la Gallup che raccoglie sondaggi regolari di opinioni internazionali. Alla domanda: quale Paese pensi sia la più grave minaccia per la pace nel mondo? La risposta è inequivocabile: gli Stati Uniti con un margine enorme, rispetto agli altri Paesi. Molto distanziato il Pakistan, gonfiato sicuramente dal voto indiano. Ancora più distanziato l’Iran, appena accennato. Questa è una di quelle cose che non vanno dette, infatti i risultati che si trovano nella principale agenzia di sondaggi statunitense, non vengono riportati in quella che chiamiamo stampa libera.

Allora, perché l’Iran viene considerato la più grande minaccia alla pace nel mondo?

La risposta ci viene – afferma Chomsky – da una fonte autorevole di un paio di anni fa, la comunità di intelligence che fornisce valutazioni periodiche al Congresso sulla situazione strategica globale. Al centro del loro rapporto, naturalmente, c’è sempre l’Iran con relazioni abbastanza coerenti. Riferiscono che Teheran ha spese militari molto basse, anche per gli standard della regione, molto più basse dell’Arabia Saudita, di Israele e di altri Paesi. La sua strategia è di difesa. Vogliono scoraggiare gli attacchi abbastanza a lungo, perché siano trattati dalla diplomazia. La conclusione dell’intelligence, che è di un paio di anni fa, é la seguente: “Se si stanno sviluppando armi nucleari, che noi non conosciamo, sarebbero parte della loro strategia di dissuasione”.

Ora, quale è il motivo per cui gli Stati Uniti e Israele sono ancora più preoccupati per un deterrente?

Chi è preoccupato per un deterrente? Coloro che vogliono usare la forza. Coloro che vogliono essere liberi di usare la forza sono profondamente preoccupati per un potenziale deterrente. Quindi, “Sì, l’Iran è la più grande minaccia alla pace nel mondo, potrebbe scoraggiare il nostro uso della forza”, conclude Chomsky.

di Cristina Amoroso

 

Spese militari, l’Italia in prima fila

 

 

FONTE SBILANCIAMOCI.INFO

Il nostro paese spende ogni anno per le sue forze armate oltre 23 miliardi di euro (64 milioni di euro al giorno). E oltre a spendere molto, l’Italia spende male, in modo irrazionale e inefficiente

Secondo i dati contenuti nel primo rapporto annuale sulle spese militari italiane presentato dall’Osservatorio MIL€X, presentato alla Camera dei Deputati lo scorso 15 febbraio, l’Italia spende ogni anno per le sue forze armate oltre 23 miliardi di euro (64 milioni di euro al giorno), di cui oltre 5 miliardi e mezzo (15 milioni al giorno) in armamenti.

Una spesa militare in costante aumento (+21% nelle ultime tre legislature), che rappresenta l’1,4% del PIL nazionale: esattamente la media NATO (USA esclusi), ma ancora troppo poco per l’Alleanza Atlantica, che chiede di arrivare al 2% in base a una decisione (mai sottoposta al vaglio del Parlamento) che incoraggia a spendere di più, invece che a spendere meglio, secondo una logica distorta che arriva al paradosso quando la NATO si congratula con la Grecia per la sua spesa militare al 2,6% del PIL, ignorando la bancarotta dello Stato ellenico. 

Oltre alla “virtuosa” Grecia, in buona compagnia del Portogallo (1,9% del PIL), gli Stati europei che spendono in difesa più dell’Italia sono le potenze nucleari francese e inglese (intorno al 2% del PIL) e le nazioni dell’ex Patto di Varsavia con la paranoia della minaccia russa come Polonia (2,2%) ed Estonia 2%. Altre grandi nazioni europee come Germania, Olanda e Spagna spendono molto meno di noi (intorno all’1,2% del PIL).

Oltre a spendere molto in difesa, l’Italia spende male, in modo irrazionale e inefficiente.

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Sanità, oggi la protesta europea contro la privatizzazione. Tante le iniziative in Italia. Intervista (audio) a Chiara Bodini

fonte controlacrisi.org

Nel 2016 11 milioni di italiani hanno dovuto rinviare o rinunciare a prestazioni sanitarie a causa di difficoltà economiche, ben 2 milioni in più rispetto al 2012. Nello stesso tempo i cittadini vengono spinti a rivolgersi al privato per prestazioni sanitarie che il sistema pubblico non viene messo in condizione di erogare.Oggi si terrà la giornata europea di azione contro la commercializzazione della salute “Our Health Is Not For Sale” – “La nostra Salute non è in vendita”.

Clicca qui per ascoltare intervista a Chiara Bodini, che coordina le iniziative italiane.

Una prima edizione si è già tenuta nel 2016. Allora la partecipazione fu limitata a tre/quattro paesi. Nel 2017, l’obiettivo è quello di avere azioni significative e visibili in 7 o 8 paesi europei. In Italia ci saranno almeno una ventina di appuntamenti, tra cui un incontro a Bologna. Questi i punti salienti della piattaforma dal punto di vista del metodo: mobilitare gli operatori sanitari; raforzare la fiducia sulle vittorie possibili, così come proporre alternative; essere il più vicino possibile lotte/esigenze locali; sfruttare l’occasione per fare educazione popolare.

Il Comitato per il No nel referendum costituzionale e il Comitato contro l’Italicum, tra gli altri, hanno deciso di aderire alla giornata europea, nella convinzione che occorra «arrestare i tagli al sistema pubblico ed anzi invertire la tendenza per garantire un livello accettabile e moderno di tutela della salute a tutte e a tutti, che dovrebbe essere uno dei parametri essenziali di attuazione dei principi fondamentali della Costituzione».

I due comitati ritengono invece che «difendere ed estendere il Sistema sanitario pubblico in Italia sia un punto essenziale per la realizzazione del diritto alla salute sancito dall’art. 32 della Costituzione italiana che impegna tutti gli organi dello Stato a tutelare la salute “come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, garantendo cure gratuite agli indigenti».

Nel manifesto italiano di convocazione delle iniziative al primo punto c’è scritto: “Non è vero che la sanità pubblica è insostenibile. Un sistema sanitario è tanto sostenibile quanto si vuole che lo sia. Secondo le valutazioni dell’OMS degli ultimi dieci anni, gli indicatori di salute dimostrano che il sistema sanitario in Italia è stato efficace e meno costoso che nella maggior parte dei Paesi occidentali ad alta industrializzazione. Un sistema sanitario sostenibile non prevede l’utilizzo illimitato delle risorse ma persegue il fine di determinare la migliore e più adatta risposta ai differenti bisogni”.

L’ammissione della tortura: il governo risarcisce sei detenuti di Bolzaneto

da PRESSENZA.COM

06.04.2017 Riccardo Noury

L’ammissione della tortura: il governo risarcisce sei detenuti di Bolzaneto
(Foto di Ares Ferrari)

La Corte Europea dei Diritti Umani ha accettato la proposta dell’Italia di risarcire con 45.000 euro ciascuno sei delle oltre 60 persone che, dopo aver subito torture nel centro di detenzione genovese di Bolzaneto nel 2001, si erano rivolte alla giustizia europea. Con la scelta del patteggiamento, la Corte ha accettato la “risoluzione amichevole” di quei casi.

A orientare l’accettazione della Corte è stato l’impegno del governo italiano che ha accompagnato la proposta di risarcimento. Il governo italiano ha “riconosciuto i casi di maltrattamenti simili a quelli subiti dagli interessati a Bolzaneto come anche l’assenza di leggi adeguate. E si impegna a adottare tutte le misure necessarie a garantire in futuro il rispetto di quanto stabilito dalla Convenzione europea dei diritti umani, compreso l’obbligo di condurre un’indagine efficace e l’esistenza di sanzioni penali per punire i maltrattamenti e gli atti di tortura”.

Manca un’indicazione temporale. Suona anche strano che il governo italiano prenda un impegno con la Corte europea mentre in Parlamento continua a non venir calendarizzata la discussione sul reato di tortura, il cui testo è fermo al Senato dopo l’approvazione della Camera. E resta il fatto che, a 16 anni di distanza dalle torture del G8 di Genova, solo un torturato su 10 dei ricorrenti alla Corte di Strasburgo ha accettato il risarcimento.

Dunque, quella di oggi è una buona notizia solo a metà.