La rabbia dei poveri sfruttata dai ricchi – Francesco Ciafaloni

poverty usa 1

Donald Trump, magnate immobiliare e dei media, conduttore televisivo, uomo di spettacolo, famoso per il suo rapporto problematico con la verità e per le suo opinioni oltraggiose, è stato eletto presidente degli Stati Uniti. Non è stata una elezione travolgente. Come è noto Hillary Clinton ha avuto molti più voti popolari, anche se ne ha presi vari milioni meno di Obama, mentre Trump ha avuto, più o meno, i voti di McCain, diversamente distribuiti tra gli Stati. A questo proposito si può solo sottolineare la (crescente) patologia del sistema elettorale americano, che, oltre al resto, esclude circa 6 milioni di pregiudicati, rende difficile il voto dei poveri e dei neri (senza più la possibilità di un controllo federale perché la Corte suprema lo ha dichiarato non più necessario), riduce il numero delle sezioni nelle aree ritenute avverse al Governo locale (da cui le code), ridisegna, con lo stesso fine, le circoscrizioni.

La vittoria di Trump è la conferma di tendenze note, non limitate agli Stati Uniti. Le elezioni non si vincono più al centro, adagiandosi sulla continuità, perché la continuità è insopportabile per la maggioranza; si vincono schierandosi. Obama si era schierato. Sanders si sarebbe schierato. Trump si è schierato. E’ determinante, negli Stati Uniti e nei paesi a bassa partecipazione, a cui il nostro si è aggiunto di recente, il voto di chi in genere non vota; il voto di protesta; la mobilitazione degli astenuti.

La vittoria di Trump è però di rottura, genera allarme, anche perché segna una svolta nel populismo americano, che tradizionalmente ha avuto leader popolari, poveri, che hanno vinto su piattaforme di destra dal punto di vista dei diritti civili, dell’universalismo, ma di sinistra dal punto di vista sociale, per una parte dei poveri. E perché prefigura una politica estera nuova, forse pericolosa.

Un commentatore del “New Yorker” ha scritto di Trump: “He is no Huey Long.

Huey Long è stato un populista alla vecchia maniera, governatore della Louisiana dal ’28 al ’32, con un vice cajun, cioè francofono, senatore dal ’32, possibile candidato alla Presidenza degli Usa, ammazzato a Baton Rouge nel ’35. Aveva frequentato con profitto scuole locali ma non il college, per cui aveva vinto l’ammissione, per mancanza di soldi. Commesso viaggiatore ed agitatore democratico, aveva un’oratoria caricaturale, più di Trump, anche per la gestualità esagerata, che si vedeva da lontano anche senza i megaschermi di adesso (guardatelo in rete). Tassò duramente la Standard Oil per pagare assistenza medica, scuole pubbliche, libri, disoccupazione ai poveri bianchi, anglofoni o francofoni che fossero. Anche Wallace, democratico, segregazionista, oppositore di Martin Luther King, fu sostenuto da una parte dei poveri. Eletto governatore dell’Alabama nel ’62, tentò di bloccare fisicamente l’accesso dei neri all’Università. Fu ammazzato nel 1987.

Trump ha fatto un passo di più. Non ha una piattaforma sociale in senso proprio. E’ stato eletto contro gli immigrati, i messicani, gli islamici, gli attori ricchi e famosi, contro chi ha chiuso le miniere e blocca gli oleodotti. Ma ai ricchi vuole ridurre le tasse. Fa un governo di ricchi per i ricchi. Per trovare qualche proposta di destra ma con un contenuto sociale bisogna leggere i programmi di alcuni collaboratori (vedi il link su Sessions). Dice di non voler fare le guerre degli altri gratis in cambio del potere, del monopolio mondiale della forza.

Le cause della rabbia dei poveri

Purtroppo la situazione economica, sanitaria, sociale dei poveri e di quello che è stato il ceto medio negli Stati Uniti è più simile a quello a tinte fosche, con definizioni imprecise, tracciato da Trump (e da Sanders, con più precisione) che a quello migliorabile ma solido tracciato da Hillary Clinton, malgrado le aperture a sinistra. La disoccupazione negli Stati Uniti è bassa, sotto il 5%; ma il tasso di partecipazione alle forze di lavoro è anch’esso basso e in caduta tendenziale; ai livelli di quello italiano, anche per le donne. Il tasso di attività femminile in Canada, in un decennio, è cresciuto una quindicina di punti sopra quello degli Usa. L’attesa di vita alla nascita delle donne è in caduta da un decennio (in Italia c’è stato un arresto della crescita per le donne; poi un anno di caduta per uomini e donne nel 2015). Chi voglia, può leggere (secondo link) il saggio di Alan Krueger, già chairman dei consulenti economici di Obama, Where have all the workers gone?, il cui titolo richiama quello di una notissima canzone pacifista (Where have all the flowers gone?, di Pete Seeger) che è veramente allarmante anche perché, usando una ricerca su un campione di non attivi, correla l’inattività al pessimo stato di salute, alla bassa istruzione, alla mancanza di SSN.

La violenza, misurata dal tasso di omicidi e di ferimenti, dalle sparatorie, dalle rapine, è alta. Il numero di carcerati è altissimo, fuori misura, senza uguali al mondo. Un libro recente (Marie Gottschalk, Caught), in commercio, con recensioni scaricabili, traccia un quadro, noto a grandi linee ma impressionante nelle quantità e nei dettagli, del sistema carcerario americano. La Russia di Putin, in compagnia di qualche minuscolo paese caraibico, segue a distanza. Gli altri paesi, tutti gli altri, sono enormemente al di sotto, fuori scala. La Gottschalk, per includere nel quadro il male assoluto, riporta che negli Usa, in proporzione, ci sono più carcerati che nell’URSS di Stalin, dopo il ’50. Se si prova a controllare in rete, da increduli, si può precisare: inclusi i condannati ai lavori forzati. In URSS, certo, non erano liberi neppure i liberi. Ma un po’ colpiti si resta.

La politica della tolleranza zero di Rudolph Giuliani, ora di nuovo in auge, ha ripulito le strade, per un po’, ma ha riempito le galere. E non solo di neri, come fa notare la Gottschalk, che parla di colour blind racism, razzismo nei confronti dei poveri, indifferente al colore. La crescita dei carcerati era già cominciata con Bill Clinton.

Leggi tutto