Sinistra e PD. Un contributo d’analisi – di Carlo GALLI [relazione presentata alla Riunione delle sinistre Pd 21 marzo 2015]

Quella che un tempo si sarebbe detta la ‘fase’ ci mostra in atto, con le imponenti migrazioni tra gruppi parlamentari, e con lo sbando della destra, la decostruzione del sistema partitico, caratterizzata da un’intensità analoga a quella del biennio 1992-94; e al contempo l’affermarsi di un soggetto quasi post-partitico, il Pd di Renzi, che occupa una posizione centrale nel sistema politico, e vi funge, oltre che da architrave, anche da scambiatore di persone, di carriere, di poteri, in una prospettiva neo-trasformistica. Parallelamente a questo concorrere degli interessi forti, e di parte di quelli diffusi, verso il centro del sistema, si manifestano segnali crescenti di esclusione, sia nell’area istituzionale – dove all’esterno del Pd e delle forze che in vario modo e grado ne dipendono (il centro e il centro-destra; ma anche Sel non ha larghe prospettive autonome) c’è solo una protesta (Lega e M5S) che per la sua mancata spendibilità politica rafforza il Pd stesso – sia fuori dalle istituzioni, dove i cittadini non votanti sono ormai la maggioranza. Non è dunque ancora risolta la questione dei partiti, ovvero della rappresentanza e insieme della partecipazione, apertasi un quarto di secolo fa.

Eppure in questa debolezza della politica – troppo includente e al contempo troppo escludente – c’è evidentemente una forza, resa tale sia dallo stato di necessità, sia dall’abilità politica del leader del Pd e del governo, sia dall’assenza di alternative praticabili – in termini di personale politico e di programma –.
Una forza che fa sì che l’attuale fase veda anche operarsi, sia pure con fatica e in modo non ancora compiuto, una trasformazione della democrazia italiana: l’Italia sta infatti assumendo una nuova forma politica.
Sia chiaro che non si tratta di una forma di per sé autoritaria: l’alternativa fra democrazia e autoritarismo appartiene alla cattiva scienza politica e alla pigra filosofia politica. Fra i due corni di quell’alternativa c’è in realtà un vastissimo spazio di sfumature e di posizioni, in cui l’Italia sta occupando il quadrante di una speciale “democrazia d’investitura rafforzata” – rafforzata, s’intende, da un evento non formalmente costituzionale come l’appoggio quasi plebiscitario che i poteri economici e mediatici (peraltro largamente coincidenti) offrono al leader.

Le riforme in via di approntamento coinvolgono le tre facce dell’unico sistema di potere dei nostri giorni – la tripartizione di Montesquieu fra legislativo, esecutivo, giudiziario è infatti largamente obsoleta –: potere economico (qui si è intervenuti col jobs act sul mercato del lavoro, senza disturbare in alcun modo il capitale e la finanza), potere politico (riforma della costituzione e della legge elettorale), potere formativo e informativo (riforma della governance della Rai e della scuola).

I risultati sono, quanto al primo punto, la privatizzazione e la spoliticizzazione del lavoro (che divenendo affare personale – questo significano infatti la flessibilità e l’ideologia della protezione del lavoratore e non del posto di lavoro –, perde il rango di fondamento primario della democrazia repubblicana) e la sua subalternità reale al potere del capitale; durante la lunga fase delle tutele incomplete il lavoratore non sarà particolarmente combattivo, com’è ovvio supporre.

Quanto al secondo punto, la politicizzazione della Costituzione, che cessa di essere un’arena di istituzioni in cui, all’interno di un antifascismo originario e di un progressismo sistematico (l’art. 3 Cost.), le forze politiche si affrontano alla pari, e che – da una legge elettorale squilibrata e unica nel mondo occidentale – viene invece consegnata senza contrappesi significativi al vincitore delle elezioni politiche, organizzate come un breve duello che ha in palio il comando politico indisturbato fino alla scadenza della legislatura, quando si scatenerà una nuova resa dei conti per la successiva investitura.

E, quanto al terzo punto, si lascia invariato il dominio mediatico degli oligopoli economici, e anche la tendenza a trasformare la politica in spettacolo – in una logica di sistematico svilimento –, e sarà sottratta la Rai ai partiti e rafforzata la sua dipendenza dal potere politico, mentre la trasmissione scolastica di cultura si incentrerà sulle competenze, sulle abilità e sul problem solving. Come al primo punto si esclude il conflitto, e al secondo la politica in quanto attività complessa prolungata e diffusa, così al terzo punto si limita lo spirito critico: risolvere i problemi è importante, ma lo è ancora di più capire perché e come sono nati, a vantaggio e a svantaggio di chi.

A uno sguardo attento queste trasformazioni sembrano andare verso l’importazione in Italia dell’ideologia dei Trattati Ue, resa esplicita con la formula che vuole l’Europa impegnata a realizzare “un’economia sociale di mercato altamente competitiva” – l’esclusione del conflitto sociale, la costituzionalizzazione dell’equilibrio di bilancio, i parametri di Maastricht, l’orientamento all’esportazione, i bassi salari (gli 80 euro non invertono certo la rotta in modo significativo), vanno tutti in questa direzione -.

Un’ideologia moderata ma non certo autoritaria o antidemocratica, quindi; che si presenta in Italia con una curiosa e importante variante: i corpi intermedi (partiti, sindacati, associazioni economiche, burocrazie, Länder) che nello schema originario sono i perni strutturali della stabilità sistemica, da noi invece sono sotto attacco mediatico e politico, e pare prevalere un modello populista-democratico di leadership intensamente politica che fa appello direttamente al popolo scavalcando ogni mediazione, denigrata come ‘casta’. La differenza è grande, certo; e nasce dal fatto che, nonostante l’opera demolitoria di Berlusconi, per molti versi il lavoro di abbattimento delle strutture e delle mentalità ‘socialdemocratiche’ (partiti e sindacati) e ‘vetero-costituzionali’ (burocrazie e regolamenti) resta ancora da fare, ed ancora esige – agli occhi, ovviamente, di chi si assume l’onere politico di riformare l’Italia nella direzione indicata – un grande investimento di energia politica innovativa (impropriamente spesso elevata al rango di ‘decisionismo’, ma certamente debordante).

Resta da vedere, ed e’ un grande dilemma interpretativo e politico, se questo “quasi-decisionismo” sarà una fase transitoria, un accompagnamento verso la stabilità di un ordine nuovo, o se invece resterà la cifra di una politica restia (o inadatta) a precipitare in soluzioni ordinative, e tutta spostata verso l’attivismo e l’occasionalismo.

Se ci si chiede come si sia arrivati a ciò – al di là delle vicende più recenti, che hanno visto l’insuccesso elettorale del tentativo blandamente socialdemocratico di Bersani –, non si può non fare riferimento alla sconfitta storica della sinistra, maturata fra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, a opera della rivoluzione neoliberista che ha chiuso il ciclo rooseveltiano (o, per dirla all’europea, i Trenta gloriosi); e anche all’introiezione, fortissima, da parte delle sinistre europee, delle logiche e delle categorie analitiche del mercatismo imperante.
Che continua a imperare nonostante le sue contraddizioni (soprattutto due: esige molta più energia politica di quanto abbia mai ammesso, e in nome dell’individualismo riduce i singoli soggetti, e i loro diritti, a irrilevanza sociale ed esistenziale) e nonostante le sue crisi, che si abbattono sulle società occidentali come calamità naturali a cui si fatica molto a rispondere (e particolarmente fatica il modello ordoliberista europeo).

Di fatto, sia quando funzionava a regime sia quando e’ entrato in crisi, il sistema neoliberista ha prodotto, in Occidente, un grave logoramento del legame sociale, generando disuguaglianza e insicurezza tanto gravi da mettere a rischio l’auto-identificazione democratica della cittadinanza. E per di più sembra oggi che il legame si possa ricostituire intorno alla paura dei conflitti e dei terrorismi che terribili squilibri geo-strategici hanno ormai portato alle soglie di casa. Un contesto di impoverimento e di paura che certo non aiuta la sinistra

Non facile, com’è evidente, individuare se non rimedi, se non un programma, almeno alcune strategie sensate e coerenti da parte di una sinistra che non pare godere, nemmeno a livello europeo, di particolare fortuna e consenso. E che nondimeno dovrà affrontare l’ experimentum crucis dell’identità, ovvero della contrapposizione consapevole allo stato di cose esistente, e della prassi, ovvero della responsabilità governante.

Tutto ciò esige che chi si oppone al ciclo politico in corso, e alle sue scelte qualificanti, sia prima di tutto all’altezza, intellettuale politica comunicativa, del compito. Ovvero che si renda ben conto della posta in gioco, tanto politica (la forma costituzionale del Paese) quanto sociale (l’esigenza di cambiare politiche economiche o inesistenti o finalizzate a parametri che non tengono conto dell’occupazione). E che si ponga apertamente l’obiettivo, l’unico che la sinistra può realisticamente darsi, di ricostruire il legame sociale e la tenuta democratica del Paese a partire dal lavoro, e dall’obiettivo dell’impiego produttivo di massa e, perché no, dalla difesa del sistema industriale italiano.

A tal fine si devono accettare alcune sfide.
La prima e’ quella delle riforme, la cui esigenza prescinde dall’Europa. E’ la storia delle nostre debolezze, della fase terminale della Prima repubblica e di gran parte della Seconda, che ce le impone. Ma se cambiare si deve, non si tratta però di cambiare per il gusto di cambiare (e’ già stato fatto) ne’ per adeguare il Paese a incomprensibili (o comprensibilissimi) diktat transalpini. Il fatto è che ‘riforme’ e ‘innovazione’ sono termini ambigui: ogni riforma può essere impostata secondo direzioni diverse, e ha conseguentemente costi sociali diversamente distribuiti: e finora i costi sono stati pagati dai deboli, che lo sono divenuti ancora di più. La coppia oppositiva vecchio/nuovo non può sostituire quella di destra/sinistra. Quindi, e’ ora di chiedersi apertamente “quali riforme”? “Riforme per chi?”.
La seconda sfida consiste nell’uscire dal concetto di ‘minoranza’, che è solo numerico e aritmetico, e non ha rilievo qualitativo, politico. Devono cessare le ambiguità e le incertezze della politica (delle sinistre) intesa come proclamazione di penultimatum, come posizionamento interno, come contrattazione degli emendamenti (in certi casi utili, non lo si nega, ma confinati per loro natura in un’ottica di riduzione del danno, di male minore). La sinistra deve unirsi, almeno a livello di un tavolo permanente di coordinamento, per prendere l’iniziativa, individuando un diverso orizzonte culturale e sociale. Il reddito di cittadinanza, nelle forme appropriate, può essere un’occasione di nuovo protagonismo. Ma lo dovrà essere anche un’elaborazione sul Ttip, snodo strategico a cui non si riflette a sufficienza, e sulla scuola, altrettanto centrale e urgente. E, non ultimo, una battaglia critica e culturale per ridisegnare linguaggi, concetti e categorie (senza ambire all’egemonia, ma per costruire un pluralismo reale).

La terza sfida consiste nel declinare la necessaria centralità della politica (a ogni pulsione antipolitica che si realizza un esponente dei poteri forti si frega le mani) articolandola su tre livelli. Quello del leader (che a sinistra c’è sempre stato), quello della individuazione di un’area sociale di riferimento (la sinistra non può coincidervi, ma non può prescinderne) e quello del partito.
A proposito del quale ci si deve chiedere come una prospettiva di sinistra possa manifestarsi efficacemente in un partito a vocazione maggioritaria se questo anziché essere una delle due grandi forze in campo (secondo i canoni della democrazia competitiva) e’, come oggi avviene del Pd, l’unica forza politica di rilievo, circondato da partiti anti-sistema sotto il 20%. Il che lo porta appunto alla condizione descritta in apertura, di essere cioè un partito pigliatutti, progressivamente sempre più centrista, che si autoproclama partito della Nazione mentre della Nazione non rappresenta che un quarto.
Alla sinistra, dunque, il compito di includere efficacemente il lavoro e i giovani in un orizzonte più vasto e più connotato.

fonte essereasinistra.it

Florence Jaumotte e Carolina Osorio Buitron (FMI): Declino dei sindacati e aumento nelle disuguaglianze nei redditi

Florence Jaumotte e Carolina Osorio Buitron (FMI): Declino dei sindacati e aumento nelle disuguaglianze nei redditi (da inchiestaonline.it )

La traduzione di questo testo scritto da due economiste senior del Fondo Monetario Internazionale
L’aumento delle disuguaglianze nei redditi è legato al declino dei sindacati. Lo dice il Fondo Monetario Internazionale in un paper in uscita prossimamente e firmato da due senior economists dell’organizzazione, Florence Jaumotte e Carolina Osorio Buitron (http://www.imf.org/external/pubs/ft/fandd/2015/03/pdf/jaumotte.pdf). Le due autrici sostengono che esiste una forte evidenza del fatto che tassi più bassi si sindacalizzazione siano correlati con un aumento della fetta di reddito che va al 10% più ricco della popolazione. Nel periodo 1980–2010 tale quota è aumentata di circa 5 punti percentuali nelle economie avanzate e secondo Jaumotte e Buitron “il calo della sindacalizzazione spiega circa la metà di tale aumento”. Il meccanismo che spiega questa correlazione si basa sulla riduzione del potere dei lavoratori: una riduzione della partecipazione dei lavoratori ai sindacati riduce il loro potere contrattuale e sposta la bilancia della distribuzione del reddito a favore dei più ricchi, ossia i detentori del capitale. Di conseguenza, il reddito prodotto annualmente si concentra ai livelli più alti della scala salariale, aumentando le diseguaglianze.

Non è la prima volta che istituzioni tradizionalmente assai lontani dal movimento operaio riconoscono il ruolo fondamentale giocato dalle organizzazioni sindacali nel promuovere una redistribuzione della ricchezza. Qualche mese fa, Nicholas Kristof, giornalista del New York Times per sua stessa ammissione sospettoso nei confronti dei sindacati, ha affermato di essere stato in errore nella sua visione negativa. In particolare, il giornalista riconosce il ruolo delle organizzazioni sindacali nel ridurre le diseguaglianze nella società americana. Del resto, analisi che evidenziano la relazione fra la riduzione dei tassi di sindacalizzazione e l’aumento delle diseguaglianze non sono certamente mancate negli ultimi anni (si vedano, ad esempio, gli articoli di Bruce Western e Jake Rosenfeld sull’American Sociological Review (http://asr.sagepub.com/content/76/4/513.abstract) o di Jonas Pontusson sul British Journal of Industrial Relations (http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/bjir.12045/abstract)). In un contributo del 2011, la stessa OCSE, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, aveva riconosciuto che la riduzione del numero di lavoratori iscritti al sindacato contribuisce a un aumento delle diseguaglianze (http://www.oecd.org/els/soc/dividedwestandwhyinequalitykeepsrising.htm). La rilevanza di questo contributo, tuttavia, non sta solo nell’organizzazione da cui tale contributo emana, quel Fondo Mondiale Internazionale, promotore di quelle politiche neoliberali tanto ostili alle organizzazioni sindacali, ma anche nelle conclusioni politiche che le due autrici traggono dalle proprie analisi. Secondo le due economiste, infatti, una delle politiche da adottare per ridurre le diseguaglianze riguarderebbe proprio la “riaffermazione di quelle norme che permettono ai lavoratori che vogliono di contrattare collettivamente”. Detto in altri termini, il rafforzamento delle organizzazioni sindacali.

Questa inedita presa di posizione da parte dell’FMI è una novità che smentisce clamorosamente le posizioni avanzate da molti economisti (e condivise dalla maggior parte degli opinionisti) secondo cui le organizzazioni sindacali sarebbero un ostacolo alla crescita economica e, in ultima istanza, anche alla redistribuzione della maggior ricchezza prodotta. L’analisi si aggiunge alla precedente autocritica dell’FMI (http://www.imf.org/external/pubs/cat/longres.aspx?sk=40200.0) in tema di politiche di austerity che aveva mostrato gli effetti deleteri di tali politiche sull’economia. Come anche in quel caso, resta tuttavia alquanto improbabile che una nuova e differente analisi produca un cambio di linea politica. Osservazione, questa, che ci deve ulteriormente far interrogare sulle condizioni che sostengono quella che Colin Crouch ha definito la “strana non-morte” del neoliberismo.

Traduzione del testo ( http://www.imf.org/external/pubs/ft/fandd/2015/03/pdf/jaumotte.pdf)

La disuguaglianza è aumentata in molte economie avanzate a partire dagli anni Ottanta, soprattutto a causa della concentrazione del reddito ai livelli più alti della distribuzione. Le misure della disuguaglianza sono aumentate in maniera considerevole, ma lo sviluppo più eclatante è il grande e costante aumento della quota di reddito totale che va al 10 per cento più ricco della popolazione che guadagna di più – un fenomeno solo parzialmente catturato dalla più tradizionale misura della disuguaglianza, il coefficiente di Gini (vedi figura 1). Il coefficiente di Gini è una misura riassuntiva che stima la differenza media di reddito fra gli individui nella distribuzione della ricchezza. Prende il valore zero se la ricchezza di un Paese è egualmente distribuita fra i suoi abitanti e di 100 (o 1) se una persona dispone di tutto il reddito.

Mentre un po’ di disuguaglianza può aumentare l’efficienza, rafforzando gli incentivi a lavorare e investire, ricerche recenti suggeriscono che alti livelli di disuguaglianza sono associati a livelli più bassi di crescita economica e a una crescita economica meno sostenibile nel medio termine (Berg e Ostry, 2011; Berg, Ostry, e Zettelmeyer, 2012), anche nelle economie avanzate (OCSE, 2014). Inoltre, una crescente concentrazione del reddito nella parte superiore della distribuzione può ridurre il benessere di una popolazione, se permette alle persone che guadagnano di più di manipolare il sistema economico e politico in loro favore (Stiglitz, 2012).

Le spiegazioni tradizionali dell’aumento della disuguaglianza nelle economie avanzate fanno riferimento a fattori quali il cambiamento tecnologico (il cosiddetto skill biased technological change, ndr) e la globalizzazione, che hanno aumentato la domanda relativa di lavoratori qualificati, beneficiando chi guadagna di più rispetto alla media. Ma la tecnologia e la globalizzazione favoriscono la crescita economica e c’è poco che i politici possono o sono disposti a fare per invertire queste tendenze. Inoltre, mentre i Paesi ad alto reddito sono stati colpiti in modo simile dal cambiamento tecnologico e dalla globalizzazione, la diseguaglianza in queste economie è cresciuta a diverse velocità e ordini di grandezza.

Di conseguenza, la ricerca economica si è recentemente concentrata sugli effetti dei cambiamenti istituzionali, con la deregolamentazione finanziaria e la diminuzione dell’aliquota marginale massima sul reddito personale spesso citati come i più importanti contributi alla crescita della disuguaglianza. Al contrario, il ruolo svolto dalle istituzioni del mercato del lavoro – come la riduzione del tasso di sindacalizzazione e del salario minimo rispetto al reddito mediano – ha caratterizzato in maniera meno prominente i dibattiti più recenti. In un documento di prossima pubblicazione guardiamo proprio a questa parte dell’equazione.

Esaminando le cause della crescita delle disuguaglianze, ci focalizziamo sul rapporto tra le istituzioni del mercato del lavoro e la distribuzione del reddito, analizzando l’esperienza delle economie avanzate a partire dal 1980. La visione più comunemente accettata è che i cambiamenti nella sindacalizzazione o nel salario minimo interessano i lavoratori a basso e medio salario, ma è improbabile che essi abbiano un impatto diretto sui percettori dei redditi più alti.

Mentre i nostri risultati sono coerenti con precedenti affermazioni sugli effetti del salario minimo, abbiamo trovato forte evidenza che la riduzione della sindacalizzazione è associata all’aumento della quota di reddito ai più ricchi nelle economie avanzate durante il periodo 1980-2010 (per esempio, si veda Tabella 2), mettendo quindi in discussione le idee sui canali attraverso i quali la densità sindacale influenza la distribuzione del reddito. Questo è l’aspetto maggiormente innovativo della nostra analisi, che pone le basi per ulteriori ricerche sul legame fra l’indebolimento dei sindacati e l’aumento della disuguaglianza.

Cambiamenti al vertice

La ricerca economica ha messo in luce diversi canali attraverso i quali i sindacati e il salario minimo possono influenzare la distribuzione dei redditi a livelli bassi e medi, fra cui la dispersione

dei salari, la disoccupazione e la redistribuzione. Nel nostro studio, tuttavia, consideriamo anche la possibilità che sindacati più deboli possono portare a quote maggiori di ricchezza per i percettori di redditi più alti e formuliamo ipotesi per spiegare questo fenomeno.

I principali canali attraverso cui le istituzioni del mercato del lavoro possono influenzare le diseguaglianze di reddito sono i seguenti.

Dispersione salariale

si crede che sindacalizzazione e salari minimi possano ridurre la disuguaglianza aiutando a equalizzare la distribuzione dei salari, e la ricerca economica lo conferma.

Disoccupazione

Alcuni economisti sostengono che, mentre sindacati più forti e un salario minimo più elevato riducono la disuguaglianza dei salari, essi possono anche aumentare la disoccupazione mantenendo i salari al di sopra dei livelli consoni al mercato e portando quindi a una maggiore disparità di reddito. Ma il sostegno empirico per questa ipotesi non è molto forte, almeno per quanto si osserva nelle economie avanzate (vedi Betcherman, 2012; Baker et al., 2004; Freeman, 2000; Howell ed altri, 2007; OCSE, 2006). Per esempio, in una review di 17 studi, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico ha trovato che solo 3 di questi confermano l’associazione tra densità sindacale (o copertura della contrattazione) e aumento della disoccupazione complessiva.

Ridistribuzione

sindacati forti possono indurre i politici a impegnarsi per una maggiore redistribuzione mobilitando i lavoratori a votare per i partiti che promettono di ridistribuire il reddito o spingendo tutti i partiti politici a farlo. Storicamente, i sindacati hanno svolto un ruolo importante nell’introduzione di fondamentali diritti sociali e del lavoro. Al contrario, l’indebolimento dei sindacati può portare a meno redistribuzione e maggiore disuguaglianza di reddito netto (cioè, la disuguaglianza di reddito dopo le imposte e trasferimenti).

Potere contrattuale dei lavoratori e quote di reddito ai livelli superiori

Una riduzione della sindacalizzazione può aumentare la quota di reddito ai livelli superiori, riducendo il potere contrattuale dei lavoratori. Naturalmente, la quota di reddito ai livelli superiori è meccanicamente influenzata da ciò che accade nel parte inferiore della distribuzione del reddito. Se la riduzione della sindacalizzazione riduce i guadagni per i lavoratori, aumenta necessariamente la quota del reddito dei dirigenti aziendali e i rendimenti per gli azionisti. Intuitivamente, l’indebolimento dei sindacati riduce il potere contrattuale dei lavoratori relativamente ai detentori di capitale, aumentando la quota di ricchezza che va al capitale – che è più concentrato nella parte superiore della distribuzione del reddito rispetto a quella derivante da salari e stipendi. Inoltre, sindacati più deboli possono ridurre l’influenza dei lavoratori sulle decisioni aziendali che beneficiano i percettori dei redditi più alti, come la dimensione e la struttura delle retribuzioni dei dirigenti.

Per studiare il ruolo della sindacalizzazione e del salario minimo nella crescita della disuguaglianza, abbiamo usato tecniche econometriche su un campione che comprende tutte le economie avanzate per le quali sono disponibili dati relativi agli anni dal 1980 al 2010. Abbiamo esaminato il rapporto tra le varie misure di disuguaglianza (quota di reddito al 10% più ricco, indice Gini dei redditi lordi, indice Gini dei redditi netti) e le istituzioni del mercato del lavoro, introducendo diverse variabili di controllo. Le variabili di controllo riguardano altri importanti fattori che influenzano la disuguaglianza, come la tecnologia, la globalizzazione, la liberalizzazione finanziaria e le aliquote marginali sul reddito personale.

I nostri risultati confermano che il declino della sindacalizzazione è fortemente associato con l’aumento della quota di reddito per i livelli superiori. Nonostante sia difficile stabilire l’esistenza di nessi causali, il calo della sindacalizzazione sembra essere un fattore chiave per spiegare questo fenomeno. Questa constatazione vale anche dopo aver tenuto conto dei cambiamenti nel potere politico, delle variazioni nelle norme sociali in materia di disuguaglianza, dei cambiamenti nella distribuzione settoriale del lavoro (come la deindustrializzazione e il crescente ruolo del settore finanziario), e degli aumenti dei livello d’istruzione. La relazione tra la densità sindacale e il coefficiente Gini sui redditi lordi è parimenti negativa, ma un po’ più debole. Questo potrebbe essere causato dal fatto che l’indice Gini sottostima gli aumenti delle disuguaglianze nella parte superiore della distribuzione del reddito.

Abbiamo anche trovato che la riduzione della sindacalizzazione è associata con meno redistribuzione del reddito e che le riduzioni dei minimi salari aumentano la disuguaglianza complessiva in maniera notevole.

In media, il calo della sindacalizzazione spiega circa la metà dell’aumento di 5 punti percentuali della quota di ricchezza per il 10 per cento più ricco. Analogamente, circa la metà dell’aumento dell’indice Gini relativo ai redditi netti è guidato dalla riduzione della sindacalizzazione.

Nuove piste di ricerca

Il nostro studio si concentra sulla sindacalizzazione come misura del potere contrattuale dei lavoratori. Al di là di questa semplice misura, più ricerca è necessaria per indagare quali aspetti della sindacalizzazione (per esempio, la contrattazione collettiva, l’arbitrato) hanno maggiori effetti e se alcuni aspetti possono essere più dannosi per la produttività e la crescita economica.

Se l’aumento della disuguaglianza causato dall’indebolimento dei sindacati è un bene o un male per la società rimane poco chiaro. Mentre l’aumento della quota del reddito ai redditi più alti potrebbe riflettere un aumento relativo della loro produttività (diseguaglianza buona), la retribuzione dei top earners potrebbe essere maggiore del loro contributo alla crescita economica, riflettendo ciò che gli economisti chiamano “estrazione di una rendita” (disuguaglianza cattiva). La disuguaglianza potrebbe anche danneggiare la società, consentendo ai redditi più alti di manipolare il sistema economico e politico.

In questi casi, ci sarebbero buoni motivi per un’azione da parte dei governi. Tale azione potrebbe includere una riforma nel sistema di corporate governance che dia a tutte le parti interessate (lavoratori, dirigenti e azionisti) voce nelle decisioni sulla retribuzione dei manager; una migliore definizione delle retribuzioni legate ai risultati, soprattutto nel settore finanziario; e una riaffermazione di quelle norme del lavoro che permettono ai lavoratori che lo vogliono di contrattare collettivamente.