Export di armi italiane, segreti e silenzi di Stato

Autore
Giorgio Beretta

Fonte : Fondazione Sereno Regis 

 

Segreto di Stato. È questo il principio che per quasi 50 anni, ha regolato le esportazioni di sistemi militari dell’Italia. Sancito nel Regio decreto n. 1161 dell’11 luglio 1941 – siamo in piena epoca fascista e guerrafondaia – firmato da Mussolini, Ciano, Teruzzi e Grandi, il principio vietava categoricamente la divulgazione di notizie su movimenti, esportazioni e trasferimenti di armi e materiali militari.

Un principio che gli apparati e l’industria militare hanno sempre apprezzato. Anche per questo la legge n. 185 che il 9 luglio del 1990 ha introdotto in Italia «Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento» è sempre risultata indigesta alle aziende militari.

Come noto, il parlamento approvò la legge, dopo due legislature di intenso confronto parlamentare, grazie alla forte mobilitazione della società civile e dell’associazionismo laico e cattolico che promosse la campagna «Contro i mercanti di morte».

La 185/1990 si caratterizza per tre aspetti. Innanzitutto, richiede che le decisioni sulle esportazioni di armamenti siano «conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia» e vengano regolamentate dallo Stato «secondo i principi della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». E su questo punto si dovrebbe aprire un ampio dibattito politico perché il governo non ha mai spiegato al parlamento come le esportazioni di due fregate Fremm e le trattative in corso per esportare all’Egitto 11 miliardi di euro di sistemi militari – facendo dell’Egitto il primo Paese acquirente di armamenti italiani – siano conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia.

In secondo luogo la legge ha introdotto una serie di specifici divieti e un sistema di controlli da parte del governo, prevedendo specifiche procedure di rilascio delle autorizzazioni prima della vendita e modalità di controllo sulla destinazione finale degli armamenti. Infine, richiede al governo di inviare ogni anno al parlamento una Relazione annuale predisposta dal Presidente del Consiglio dei Ministri che comprenda le relazioni dei vari ministeri a cui sono affidate diverse competenze in materia di esportazioni di armamenti.

La legge riporta numerosi divieti ed in particolare due che attengono direttamente la questione delle esportazioni di sistemi militari all’Egitto. Innanzitutto il divieto ad esportare armamenti «verso i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia o le diverse deliberazioni del Consiglio dei ministri, da adottare previo parere delle Camere».

Ed è proprio a questo articolo che la Rete Italiana Pace e Disarmo ha fatto riferimento per evidenziare che la fornitura delle due fregate militari Fremm all’Egitto è in chiaro contrasto con la norma vigente. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, nella sua risposta al Question Time lo scorso 10 giugno ha infatti affermato che «oltre al vaglio di natura tecnico-giuridica, il governo ha ritenuto di svolgere una valutazione politica, in corso a livello di delegazioni di governo sotto la guida della presidenza del Consiglio dei ministri».

Ai sensi della legge, questa valutazione da parte del governo può essere adottata solo «previo parere delle Camere». Ma in questi mesi – l’annuncio della possibile fornitura delle due Fremm è del febbraio scorso – non risulta alcuna consultazione né parere del parlamento.

Inoltre la legge prevede il divieto ad esportare materiali d’armamento (tutti e non solo le cosiddette «armi leggere» «verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’Ue o del Consiglio d’Europa».

Nei confronti dell’Egitto, c’è una duplice chiara documentazione. Il Rapporto inviato nel maggio del 2017 dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite riporta che in Egitto la tortura è «praticata sistematicamente» ed è «abituale, diffusa e deliberata in un’ampia parte del Paese».

Inoltre la Risoluzione approvata lo scorso 18 dicembre dal Parlamento europeo evidenzia numerose gravi violazioni dei diritti umani in Egitto e che «gli arresti e le detenzioni in corso rientrano in una strategia più generale di intimidazione delle organizzazioni che difendono i diritti umani».

La famiglia Regeni ha annunciato un esposto contro il governo in carica per violazione delle norme delle legge 185/1990. È bene che intervenga la magistratura. Ma è innanzitutto compito del Parlamento richiedere che il governo riferisca alla Camere circa le esportazioni di sistemi militari all’Egitto. Se non vogliamo che il «segreto di Stato» si tramuti nel «silenzio di Stato».


Giorgio Beretta fa parte dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal)


Fonte: il manifesto, EDIZIONE DEL 02.01.2021

Droni militari, l’Italia spende 20 milioni per armarli

FONTE MILEX

di LORENZO BAGNOLI

Lo ha scoperto l’Osservatorio Mil€x da documenti del ministero della Difesa. Una svolta epocale nella storia militare italiana: per i droni militari sarà possibile attaccare, non solo fare missioni di ricognizione. A questo si aggiunge il costo per rinnovare il parco droni con nuovi esemplari. Un investimento da 700 milioni di euro

L’Italia sta spendendo quasi 20 milioni di euro per armare i propri droni. Dal 2015, il Pentagono ha autorizzato il ministro della Difesa italiano ad armare i propri velivoli a controllo remoto, di produzione statunitense. Finora sembrava che il progetto di trasformarli in delle vere e proprie armi da guerra non dovesse andare in porto.

Invece, come rivela Mil€x, l’Osservatorio sulle spese militari italiane, nel suo rapporto Droni, Dossier sul APR militari italiani, sul piatto ci sono già 19,3 milioni di euro, di cui 0,5 spesi nel 2017 e 5 da spendere nel 2018. La voce, contenuta in documenti ufficiali del ministero recuperati da Mil€x, è definita stanziamento per sviluppare «capacità di ingaggio e sistema Apr Predator B». Tradotto dal gergo militare, significa che i droni italiani (Apr, aerei a pilotaggio remoto) Predator B hanno cominciato la procedura per l’armamento.

Il costo dei droni militari italiani

Finora l’Italia ha stanziato 668 milioni di euro in droni, principalmente allo scopo di acquistare mezzi da ricognizione. Duecentoundici milioni sono stati spesi all’interno del programma Nato Alliance ground surveillance (Ags), attraverso cui si sono acquistati in tutto 15 velivoli (uno costa circa 187 milioni di euro).

Altri 142 milioni di euro sono stati spesi per sei Reaper prodotti dalla statunitense General Atomics. Sono questi i famosi Predator B che l’Italia sta armando, visto che il loro scopo, oltre alla ricognizione, è l’attacco. Terza voce di spesa la partita di nove Predator A (di cui due precipitati) acquistati tra il 2004 e il 2015: 95 milioni di euro.

I droni militari americani che partono da Sigonella

«Il Parlamento dovrebbe urgentemente affrontare questo tema, poiché la detenzione di droni armati implicherebbe dal punto di vista tecnico e politico una flessibilità di impiego bellico infinitamente maggiore rispetto ai tradizionali cacciabombardieri pilotati, che comporterebbe una rivoluzione copernicana della postura militare italiana», scrive Mil€x nel rapporto.

Le vecchie missioni di ricognizione potranno infatti diventare delle missioni di attacco.

La questione droni in Italia finora è sempre passata sotto silenzio. Anche quando a settembre dello scorso anno la Repubblica ha dato la notizia di attacchi missilistici effettuati da droni americani in Libia partiti dalla base Nato di Sigonella, in Sicilia. Per alcuni si sospetta un uso belligerante, non solo per ricognizioni.

Italia: i nuovi droni militari della Piaggio Aerospace

Fin qui lo stato dell’arte, con le spese già effettuate. Il bilancio della difesa però potrebbe raddoppiare. L’ex ministro della Difesa Roberta Pinotti, a febbraio, ha presentato al Parlamento una richiesta per 20 nuovi droni militari P2HH, armabili, per sostituire il vecchio parco velivoli (Predator A e B). Li produce Piaggio Aerospace, azienda con sede ad Albenga, in Liguria, dal 2014 controllata al 100% dal fondo d’investimento Mubadala degli Emirati Arabi Uniti.

La società ha passato anni travagliati sul piano economico. La sua crisi, che ha fatto sfiorare il fallimento al comparto Aerospace, si è acuita con lo sviluppo del primo prototipo di droni Piaggio, i P1HH, uno dei quali scomparso misteriosamente nel Mediterraneo.

Lo scorso anno, il fondo Mubadala ha iniettato nell’azienda 700 milioni di euro per prendere un minimo di ossigeno. La commessa dell’Aeronautica italiana potrebbe essere la spallata per farla uscire dalla crisi.

I dubbi intorno al programma, però, sono molteplici. La commessa vale 15 anni e 766 milioni di euro: 51 milioni all’anno. Non solo: i primi prototipi si vedranno nel 2022. Per altro, il progetto rischia di sovrapporsi al più ambizioso progetto europeo Male 2025 (Medium altitude long endurance), a cui partecipano consorziate le più grandi compagnie che si occupano di sistemi di difesa in Europa, compresa l’italiana Leonardo. L’Italia ha investito nel progetto 15 milioni di euro.

Altre spese inutili per gli F35: prezzo medio 190 milioni

Il ministero della Difesa non è nuovo a investimenti discutibili per rinnovare la flotta aerea. L’esempio più clamoroso sono gli F-35: il volo inaugurale degli esemplari acquistati dalla Royal Air Force (Raf) britannica, avvenuto a giugno, è stato definito dal «imbarazzante» e «patetico» dal Times di Londra. Gli aerei sono prodotti da Lockheed Martin e assemblati in Italia da Leonardo.

Dieci di questi cacciabombardieri sono stati già consegnati, al prezzo medio di 150 milioni di euro l’uno, a cui si aggiungeranno altri 40 milioni di euro di “ammodernamento” di ogni singolo aereo, nato già vecchio. La Corte dei conti, l’estate scorsa, nella relazione sulla Partecipazione italiana al Programma Joint Strike Fighter – F35 Lightning II, il programma di sviluppo dei nuovi cacciabombardieri, ha detto:

«Il programma è oggi in ritardo di almeno cinque anni rispetto al requisito iniziale. Se è vero che lo sviluppo si avvicina al completamento, il passaggio ai lotti di produzione piena è stato rinviato più volte (i lotti di produzione ridotta, inizialmente previsti in numero di 12, sono ormai 14 e si protrarranno fino al 2021), e per riconoscere la piena capacità di combattimento sarà necessario attendere il termine della fase detta di “ammodernamento successivo”, previsto per il 2021».

Si poteva fare meglio, anche perché ai ritardi hanno fatto seguito aumenti dei costi.

Mil€x ha scoperto che al già costoso programma la ministra Pinotti ha aggiunto un’ulteriore commessa di otto F-35, arrivando a un totale di 26 nuovi aerei. L’ultimo Documento programmatico pluriennale del ministero della Difesa redatto sotto la ministra Pinotti, prevedeva un esborso di 727 milioni per quest’anno, 747 milioni nel 2019 e 2.217 milioni tra il 2020 e il 2022.

Ridurre del 10% la spesa militare può salvare il nostro Pianeta!

Martedì, 24 Aprile 2018

Foto: Disarmo.org

Il cambiamento climatico e il riscaldamento del pianeta causato dall’uomo sono problemi giganteschi che avranno effetti devastanti su gran parte della popolazione mondiale. Le strategie politiche che stanno distruggendo il nostro pianeta alla ricerca di benefici solo per pochi possono essere sostenute solo dalla violenza, e la violenza è solitamente condotta attraverso gli eserciti e rafforzata dal militarismo e dalle spese militari. Gli affari di guerra, alimentati dai molti complessi militari-industriali, si basano sul commercio di armi e sulle strutture di potere che portano a morti civili e conflitti devastanti, depredando il pianeta e contribuendo attivamente al cambiamento climatico. Le azioni per ridurre gli effetti dei cambiamenti climatici richiedono una massiccia riduzione delle spese militari e rinnovati sforzi per utilizzare per risolvere i conflitti attraverso negoziati. 

Le spese militari nel 2016 sono arrivate ad un totale di 1.680 miliardi di dollari.Molti Governi stanno pianificando aumenti nei bilanci militari in contemporanea a tagli per la sanità, l’istruzione e la cooperazione allo sviluppo. Le notizie sul potenziamento del budget militare proposto negli Stati Uniti sono allarmanti: il Congresso ha recentemente approvato un aumento di 165 miliardi di dollari nelle spese militari nei prossimi due anni. Nel frattempo molti altri stati come Australia, Nuova Zelanda, Francia, Regno Unito, Germania, Camerun, Kenya, Nigeria, Spagna, Italia e altri stanno seguendo le linee guida degli Stati Uniti senza alcuna discussione. Le guerre in Siria e nello Yemen sono alimentate dal commercio di armi mentre la Corea del Nord viene utilizzata per giustificare una nuova corsa agli armamenti. Il Primo Ministro giapponese Abe sta tentando di emendare l’articolo 9 Costituzione giapponese che rinuncia esplicitamente alla guerra. L’Unione Europea (per la prima volta nella sua storia) investirà a breve ingenti fondi per sviluppare nuovi sistemi d’arma. Ciò potrebbe anche innescare una corsa agli armamenti in regioni come l’Africa e il Medio Oriente, dove sono dirette importanti esportazioni europee. Stiamo assistendo a massicci aumenti delle spese militari (incluse le armi nucleari, nonostante il recente Trattato per la messa al bando votato all’ONU) da parte delle grandi potenze, aumentando il pericolo di guerre disastrose. Ciò avviene in un momento in cui il “Bullettin of Atomic Scientist” ha spostato le lancette del “Doomsday Clock” a 2 minuti a alla mezzanotte, il punto più vicino all’annientamento globale dal momento dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki.

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Il nuovo Parlamento sospenda l’invio di armi che alimentano il conflitto in Yemen

fonte Pressenza.com

27.03.2018 Rete Italiana per il Disarmo

Il nuovo Parlamento sospenda l’invio di armi che alimentano il conflitto in Yemen
(Foto di Pressenza London)

A tre anni esatti dall’inizio della conflitto, richiediamo con fermezza alle istituzioni italiane, ai Paesi membri ed all’Unione Europea di sospendere l’invio di armamenti alle parti in conflitto in Yemen e di sollecitare una iniziativa di pace a guida ONU

Non possiamo più chiudere gli occhi davanti alla catastrofe umanitaria che da tre anni si sta perpetrando in Yemen anche con armi italiane. Per questo chiediamo che la prima iniziativa del Parlamento italiano sia quella di conformarsi alle risoluzioni, votate ad ampia maggioranza nel Parlamento europeo, che chiedono di promuovere un embargo di armamenti verso l’Arabia Saudita e i suoi alleati in considerazione del coinvolgimento nelle gravi violazioni del diritto umanitario in Yemen accertate dalle autorità competenti delle Nazioni Unite. Chiediamo inoltre al prossimo Governo di farsi promotore della medesima istanza in sede di Consiglio europeo e di avviare un’iniziativa multilaterale per promuovere la fine del conflitto e il processo di pace in Yemen.

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“Gli economisti non sanno più contare”: intervista a Christian Marazzi

Dietro la modesta ripresa economica interrotta dal susseguirsi di flash crash dei mercati finanziari, si nasconde l’incapacità dei modelli economici dominanti di leggere la realtà. Sullo sfondo, la svolta autoritaria del neoliberismo

Dopo un lungo periodo di relativa stabilità dei mercati finanziari a inizio febbraio si sono manifestate delle nuove turbolenze. Sono state fornite diverse spiegazioni contrastanti sull’origine di questo flash crash. I più pessimisti parlano dell’inizio di una nuova ondata di crisi, altri dicono che è il risultato di una ‘eccesiva autonomia’ degli algoritmi che controllano oltre il 60% delle transazioni nelle borse mondiali e sono capaci di determinare vere e proprie profezie auto-avveranti, altri analisti invece – e questo è il dato più interessante – spiegano la volatilità dei mercati con la ripresa dei salari in Usa e con l’accordo salariale che l’IG Metal ha raggiunto in Germania. Ne abbiamo parlato con Christian Marazzi, economista, docente presso la Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana.

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Rapporto MIL€X 2018: spese militari italiane in aumento, soprattutto per nuove armi, ma anche per il nucleare. Il commento del Nobel per la Pace Daniel Högsta (ICAN)

FONTE  MILEX.ORG

QUI IL PDF DEL RAPPORTO MIL€X 2018

ROMA, 1 febbraio 2017 – Il Rapporto MIL€X 2018 — presentato oggi alla Sala Stampa della Camera dei Deputati alla presenza di Daniel Högsta, coordinatore della campagna ICAN (International Campaign to Abolish Nuclear Weapons) insignita del Premio Nobel per la Pace 2017 —  mostra un’ulteriore incremento della spesa militare italiana: 25 miliardi di euro nel 2018 (1,4% del PIL), un aumento del 4% rispetto al 2017 che rafforza la tendenza di crescita avviata dal governo Renzi (+8,6 % rispetto al 2015) e che riprende la dinamica incrementale delle ultime tre legislature (+25,8% dal 2006) precedente la crisi del 2008.

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Padroni del mondo di Bernie Sanders

FONTE FIOM.CGIL.IT 

 

 

Ecco a che punto siamo come pianeta nel 2018: dopo tutte le guerre, le rivoluzioni e i summit internazionali degli ultimi cento anni, viviamo in un mondo dove un gruppo minuscolo di individui incredibilmente ricchi può esercitare un controllo spropositato sulla vita economica e politica della comunità globale.

Nonostante sia difficile da capire, la verità è che le sei persone più ricche del mondo adesso possiedono più ricchezza della parte più povera della popolazione mondiale – 3,7 miliardi di persone. Inoltre, l’1% più benestante adesso ha più soldi del restante 99%. Nel frattempo, mentre i miliardari ostentano la loro ricchezza, quasi una persona su sette cerca di sopravvivere con meno di un dollaro e 25 al giorno e – orribile – circa 29.000 bambini muoiono ogni giorno per cause totalmente prevedibili come la diarrea, la malaria e la polmonite.

Al contempo, in tutto il mondo élite corrotte, oligarchi e monarchie anacronistiche spendono miliardi nelle stravaganze più assurde. […] In Medio Oriente, che vanta cinque dei dieci monarchi più ricchi al mondo, giovani reali fanno la bella vita in giro per il mondo mentre la regione soffre per il tasso di disoccupazione giovanile più alto del mondo e almeno 29 milioni di bambini vivono in povertà senza avere accesso ad alloggi decenti, acqua pulita e cibo nutriente. Inoltre, mentre centinaia di milioni di persone vivono in condizioni terribili, i mercanti d’armi diventano sempre più ricchi mentre i governi spendono migliaia di miliardi in armi.

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Affari di guerra, riparte la corsa agli armamenti. Autore: Enrico Piovesana

Articolo pubblicato su MicroMega il 19 dicembre 2017

Il fatturato dell’industria della guerra torna a crescere grazie alla ripresa della corsa globale agli armamenti iniziata dopo l’11 Settembre ma frenata dalla crisi economica. Dopo cinque anni consecutivi di flessione, il giro d’affari dei produttori di armi è tornato a salire nel 2016 raggiungendo i 375 miliardi di dollari, quasi il due per cento in più rispetto all’anno precedente e – dato forse più indicativo – il 38 percento in più rispetto al 2002.

Lo certifica il prestigioso Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma (SIPRI), sottolinenando come ciò sia dovuto non solo all’aumento del commercio internazionale di armamenti verso le aree di tensione, ma anche alla crescita della spesa militare in armi dei Paesi produttori.

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ABP, il più grande fondo pensioni olandese, disinveste dalle armi nucleari

FONTE PRESSENZA.COM

14.01.2018 – Amsterdan, Paesi Bassi PAX

Quest’articolo è disponibile anche in: Inglese

ABP, il più grande fondo pensioni olandese, disinveste dalle armi nucleari

Il più grande fondo pensionistico olandese, il fondo dei dipendenti pubblici ABP, ha deciso di porre fine ai suoi investimenti nelle società produttrici di armi nucleari. ABP ha “finalmente preso la decisione giusta”, dice l’attivista di PAX, Krista van Velzen. Dopo anni di campagne contro gli inaccettabili investimenti, da parte di ABP, in aziende produttrici di armi nucleari, il fondo pensione si è reso conto che si tratta di investimenti inaccettabili. È positivo vedere che ABP ora porrà fine a questi investimenti.

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L’inferno dei profughi in Libia: diventano un’auto-accusa le giustificazioni dell’Italia di fronte alla denuncia Onu

Fonte Pressenza.com

21.11.2017 – Redazione Italia

L’inferno dei profughi in Libia: diventano un’auto-accusa le giustificazioni dell’Italia di fronte alla denuncia Onu
(Foto di Medici senza Frontiere)

“Cos’è oggi la Libia si sapeva già…”. O, ancora: “Sono cose terribili, ma in fondo già note”. E via di questo tono. E’ con dichiarazioni di questo genere che vari esponenti del Governo e del Parlamento italiano hanno reagito alla dura presa di posizione di Zeid Raad Al Hussein, il commissario Onu per i diritti umani il quale, evidenziando l’orrore dei lager libici, ha contestato la politica migratoria dell’Unione Europea, condannando in particolare l’accordo tra Roma e Tripoli per fermare gli sbarchi. “E’ disumana – ha detto testualmente Zeid Raad – la scelta Ue di assistere le autorità libiche nell’intercettare i migranti nel Mediterraneo e riportarli nelle terrificanti prigioni in Libia. La sofferenza dei migranti detenuti in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità”. La conferma di questo inferno è arrivata, in quelle stesse ore,  da un reportage della Cnn che ha documentato la vendita all’asta di alcuni profughi come schiavi, esattamente nei modi che diversi richiedenti asilo sbarcati in Italia hanno raccontato negli ultimi mesi a varie Ong e operatori umanitari. Ma la reazione alle immagini sconvolgenti della Cnn da parte della politica italiana è stata sostanzialmente la stessa: “Già si sapeva…”. Ovvero, nessuna presa di distanza ma, anzi, quasi una auto-assoluzione e un ulteriore supporto alla Libia. Non a caso i principali giornali libici – ad esempio il Libya Herald o il Libyan Express – hanno titolato: “L’Italia difende la Libia contro l’Onu dall’accusa di accordo inumano sui migranti”.

Allora, “si sapeva”. Certo che si sapeva. A parte tutti i dossier e le denunce alla stampa che si susseguono da anni ad opera di Ong come Medici Senza Frontiere, Amnesty, Medici per i Diritti Umani, Human Rights Watch, sono numerosi i rapporti fatti anche da istituzioni internazionali. Qualche esempio, solo negli ultimi 12 mesi.

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MIGLIAIA DI ARMI “PERSE” DAI PEACEKEEPERS

RAPPORTO SMALL ARMS SURVEY

Fucili, pistole, mortai, mitragliatrici e lanciagranate. Sono migliaia le armi “perdute” negli ultimi 24 anni dalle tante missioni di pace che hanno operato nel continente. Lo rivela un rapporto, secondo il quale le perdite reali potrebbero essere anche molto maggiori.

di Bruna Sironi

 

La scioccante notizia emerge da una ricerca dell’organizzazione internazionale Small Arms Survey, che si occupa del monitoraggio della diffusione delle armi leggere, ed è pubblicata nel rapporto “Making a Tough Job More Difficult” (Rendere un lavoro duro ancora più difficile). Infatti le armi “perse” finiscono poi per essere usate contro i legittimi possessori e contro i civili che dovrebbero proteggere.

La ricerca si è occupata delle missioni di pace a partire dal 1993 ad oggi, dopo la fine della guerra fredda che ha di fatto determinato il proliferare dei conflitti locali e perciò delle missioni di peacekeeping, condotte dall’Onu, da altre coalizioni o organizzazioni – come l’Unione africana che opera in Somalia con l’operazione Amisom -, o miste Onu e Unione africana – come l’Unamid che lavora in Darfur -, e ancora l’Ecowas che nei paesi dell’Africa Occidentale ha agito in Sierra Leone.

I ricercatori hanno trovato che in almeno una ventina di queste operazioni si sono verificate perdite di armi. E non solo armi leggere, come fucili e pistole, ma anche armi pesanti come mortai, mitragliatrici e lanciagranate, che possono cambiare l’esito di una battaglia. Il direttore della ricerca, Eric Berman, ha dichiarato in un’intervista ad Al Jazeera che sono andate perse “migliaia di armi e milioni di cartuccere”.

La maggior parte si è verificata in missioni che hanno operato, o ancora operano, nell’Africa sub-sahariana e in particolare in Congo, Somalia, Sudan, Burundi, Costa d’Avorio, Sierra Leone, Mali e nella Repubblica Centrafricana. Talvolta le perdite non erano evitabili, perché i peacekeeper sono caduti in imboscate o sono stati sopraffatti in altri modi, ma molto più spesso hanno consegnato le armi piuttosto che difendersi e rischiare di rimanere vittime in uno scontro armato.

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