La nicchia climatica umana

Fonte: la Rivista Terrestres che ringraziamo

L’emisfero settentrionale (dall’Europa al Nord Africa, passando per Cina e Stati Uniti) questa settimana vivrà un’ondata di caldo senza precedenti, con temperature comprese tra 35 e 50 °C. Se possiamo aggiungere strati per proteggerci dal freddo, quando il caldo diventa insopportabile, non ci resta che togliere la pelle. Ma fino a che punto e per chi il clima può diventare inadatto alla vita umana? Secondo uno studio, è possibile che in questo secolo più di 3 miliardi di persone saranno esposte a un clima invivibile.

Tempo di lettura: 18 minuti

Questo articolo è apparso originariamente il 17 giugno 2022.

Questa primavera, durante i mesi di aprile e maggio, un’ondata di caldo durata diverse settimane ha colpito l’India e il Pakistan . Questo periodo, che precede il monsone, è in genere il più caldo dell’anno, le piogge portano con sé un leggero raffreddamento. Con diversi giorni intorno ai 50°C, molte persone hanno dovuto lavorare durante la notte relativamente fresca. Non mancava solo l’acqua, a volte inquinata, ma anche l’energia: a diverse centinaia di migliaia di persone mancava l’elettricità per alimentare eventuali frigoriferi o condizionatori d’aria, disponibile solo per i più ricchi.Il caldo intenso è anche causa di decine di infarti al giorno, notevole mancanza di sonno, saturazione del sistema sanitario .

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Les véhicules électriques, la bauxite et la destruction de l’écosystème en Guinée

 

Fonte  L’encontre 

Par Rachel Chason et Chloe Sharrock

KAGBANI, Guinée – L’un des pays les plus pauvres de la planète est devenu un acteur essentiel de la dite transition vers l’énergie verte.

La Guinée, pays d’Afrique de l’Ouest de plus de 13 millions d’habitants, abrite les plus grandes réserves de bauxite au monde, une roche brun-rouge qui constitue le minerai de l’aluminium. Ce métal léger est essentiel pour les véhicules électriques, car il leur permet de parcourir une plus grande distance sans être rechargés que s’ils étaient construits en acier. Au cours de la décennie actuelle, alors que les experts s’attendent à ce que les ventes mondiales de véhicules électriques soient multipliées par neuf, la demande d’aluminium augmentera de près de 40%, pour atteindre 119 millions de tonnes par an, selon les analystes de l’industrie.

La Guinée connaît déjà un boom sans précédent de ses exportations de bauxite. Elles ont presque quintuplé entre 2015 et 2020, selon les statistiques du gouvernement états-unien. Les analystes prévoient que la production continuera d’augmenter de façon spectaculaire au cours de la prochaine décennie. La région de Boké, dans le nord-ouest de la Guinée, au centre de la ruée sur la bauxite, a été transformée par un flux incessant de camions et de trains transportant le précieux minerai le long de routes et de voies ferrées nouvellement construites jusqu’aux ports côtiers.

Mais dans la région de Boké, des milliers de villageois paient un lourd tribut, selon des dizaines d’entretiens avec des habitants de six villages, des ONG de surveillance des entreprises extractives et des experts de l’industrie. Le gouvernement guinéen a indiqué que des centaines de kilomètres carrés autrefois utilisés pour l’agriculture ont été acquis par des sociétés minières pour leurs opérations d’extraction et ce qui est associé: les routes, les chemins de fer et les ports. Les villageois n’ont reçu que peu ou pas de compensation, selon les militants des droits de l’homme et les habitants de la région. Selon une étude gouvernementale, l’exploitation de la bauxite détruira, au cours des vingt prochaines années, plus de 200 000 acres de terres agricoles et 1,1 million d’acres d’habitats naturels, soit une superficie presque équivalente à celle du Delaware [soit 6450 km2].

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Saggio del venerdì: perché i soldati commettono crimini di guerra e cosa possiamo fare al riguardo

Friday essay: why soldiers commit war crimes – and what we can do about it

Mia Martin Hobbs, Deakin University

The following essay contains disturbing images and language.


In 2020, the Inspector-General of the Australian Defence Force released the Afghanistan Inquiry into Australian Defence Force Special Forces atrocities in Afghanistan. The report – commonly known as the Brereton Report – resulted in a flurry of analysis debating how and why Australian soldiers could have committed war crimes.

Some commentators focused on “high operational tempos” that increased soldiers’ dependence on their teams. Others emphasised how operational independence among “elite” forces allowed “charismatic leaders” to influence teams with a “warrior hero” culture. A common thread was that counterinsurgency warfare made it difficult to differentiate allies, civilians and enemies among the local population.

While these factors are important, analyses focusing on unit problems tend to treat culture as a static and internal problem, rather than an ongoing practice influenced by broader society. Similarly, the stress on counterinsurgency warfare negates the fact that similar crimes are also well documented in trench warfare and in occupations in conventional wars.

For policymakers, military leaders and the general public, a deeper understanding of the nature of war crimes is crucial if we want to prevent them from happening again.

War crimes reflect social prejudices. They are shaped around wartime laws and policies, and are facilitated by cultural veneration of the military. Historical comparisons between general infantry forces in Vietnam and special forces in Afghanistan show that atrocities have at least as much to do with broader social, political and cultural fabrics as they do with tempo, leadership and internal culture.

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Contattati e contagiati contro volontà

Fonte Unimondo che ringraziamo

Ci sono almeno 110 popolazioni indigene volontariamente isolate in tutto il mondo. La maggior parte di loro vive nel bacino amazzonico, tra Bolivia, Brasile e Perù e da decenni devono far fronte alla deforestazione e alle violenze provocate dal land grabbing e dallo sfruttamento delle risorse presenti nei loro territori, oltre che alla minaccia rappresentata dalle malattie infettive. In particolare in Brasile, dove, come avevamo già ricordato, oltre a sottovalutare il Covid-19 aumentando in tutto lo Stato il rischio di infezione, il presidente Jair Bolsonaro (anch’esso risultato positivo lo scorso mese) ha legittimato l’esproprio dell’Amazzonia limitando notevolmente le competenze e le capacità delle agenzie brasiliane di protezione ambientaleIl risultato è che le popolazioni indigene in Brasile soffrono ancora di più che in passato a causa degli invasori illegali che estraggono l’oro, disboscano le foreste per il legname o bruciano la foresta pluviale per l’allevamento del bestiame e la coltivazione della soia. Per questo lo scorso mese su richiesta dei popoli Yanomami e Ye’kwana, la Commissione per i diritti umani dell’Organizzazione degli Stati americani (OSA) chiede ora al governo brasiliano che intervenga con misure adeguate.

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Stuprate, abusate e molestate: storie di donne migranti in Marocco

 

fonte Meltingpot
Faras Ghani, Al Jazeera – 3 dicembre 2018

Una ricerca dimostra che un terzo delle donne migranti ha subito abusi durante il viaggio. Le sofferenze non finiscono quando le donne raggiungono il Marocco.

Traduzione a cura di: Francesca Castelli

 

Rabat, Marocco. Seduta fuori dall’ufficio di una ONG nella capitale marocchina Rabat, c’è la 18enne Juliet (non il suo vero nome), che guarda le macchine correre via.

Juliet ha negli occhi la disperazione e nessuna speranza. Ha capelli scompigliati, jeans sporchi e strappati, le unghie rotte. Il suo sguardo, assente, senza nemmeno mai spostarsi, racconta una storia buia e triste.

Juliet non parla con la sua famiglia in Nigeria da dicembre; dietro c’è una motivazione terribile.

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D’inverno il mare è gelido

 Autore:  Mario Cataldi

Ancora corpi che annaspano, che affondano, che cadono da gommoni di cartone che si sfaldano e si sgonfiano. Si ricominciano a contare i corpi cominciando da quelli vivi, dalle mani che sbracciano sull’acqua gelida del mare d’inverno. I morti si contano solo se galleggiano ancora.

Il primo naufragio dell’anno. La conta ricomincia come se nulla fosse, quello che è stato fa parte di una dimensione temporale che non c’è più, si spinge il tasto reset a beneficio delle statistiche che servono ad accompagnare gli slogan di questa lunghissima campagna elettorale iniziata da tempo. Il successo si sottolinea nei soli tremila morti, una buona percentuale in meno rispetto allo scorso anno. Il successo prende forma nel 30 percento in meno di arrivi. Con il meno davanti ai numeri si conquista consenso, si determina il grado di popolarità.

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Les catastrophes climatiques se multiplient tandis que l’infrastructure hydrométéorologique africaine se détériore

NEWS

In this photo taken on 20 October 2015, volunteers replant mangroves outside the Saloum Delta, Diamniadio Island in Senegal. Like millions of others across the continent, these women live on the frontline of climate change.

(AP/Jane Hahn)

Alors que les pays des Caraïbes se heurtent aux effets dévastateurs des récents ouragans (Irma et Maria) qui ont ravagé la région en septembre, les experts tirent la sonnette d’alarme : le sous-développement persistant des technologies et services hydrométéorologiques en Afrique entraîne un grave manque de préparation face aux catastrophes climatiques sur le continent.

L’hydrométéorologie, la science et le mécanisme d’observation du comportement météorologique de l’eau, est un domaine important de la prévision météorologique, car un excès de pluie peut être aussi dommageable que son absence.

Selon les experts, pas moins de 54 % des stations météorologiques en surface d’Afrique et 71 % de ses stations aérologiques (ballons lancés dans l’atmosphère pour recueillir des données météorologiques) sont obsolètes et incapables de collecter des données météorologiques précises.

Selon la Banque mondiale, en raison de cette infrastructure vétuste, les pays africains perdent des milliards de dollars des suites des catastrophes météorologiques et climatiques qui affectent chaque année des millions de personnes à travers le continent.

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MIGLIAIA DI ARMI “PERSE” DAI PEACEKEEPERS

RAPPORTO SMALL ARMS SURVEY

Fucili, pistole, mortai, mitragliatrici e lanciagranate. Sono migliaia le armi “perdute” negli ultimi 24 anni dalle tante missioni di pace che hanno operato nel continente. Lo rivela un rapporto, secondo il quale le perdite reali potrebbero essere anche molto maggiori.

di Bruna Sironi

 

La scioccante notizia emerge da una ricerca dell’organizzazione internazionale Small Arms Survey, che si occupa del monitoraggio della diffusione delle armi leggere, ed è pubblicata nel rapporto “Making a Tough Job More Difficult” (Rendere un lavoro duro ancora più difficile). Infatti le armi “perse” finiscono poi per essere usate contro i legittimi possessori e contro i civili che dovrebbero proteggere.

La ricerca si è occupata delle missioni di pace a partire dal 1993 ad oggi, dopo la fine della guerra fredda che ha di fatto determinato il proliferare dei conflitti locali e perciò delle missioni di peacekeeping, condotte dall’Onu, da altre coalizioni o organizzazioni – come l’Unione africana che opera in Somalia con l’operazione Amisom -, o miste Onu e Unione africana – come l’Unamid che lavora in Darfur -, e ancora l’Ecowas che nei paesi dell’Africa Occidentale ha agito in Sierra Leone.

I ricercatori hanno trovato che in almeno una ventina di queste operazioni si sono verificate perdite di armi. E non solo armi leggere, come fucili e pistole, ma anche armi pesanti come mortai, mitragliatrici e lanciagranate, che possono cambiare l’esito di una battaglia. Il direttore della ricerca, Eric Berman, ha dichiarato in un’intervista ad Al Jazeera che sono andate perse “migliaia di armi e milioni di cartuccere”.

La maggior parte si è verificata in missioni che hanno operato, o ancora operano, nell’Africa sub-sahariana e in particolare in Congo, Somalia, Sudan, Burundi, Costa d’Avorio, Sierra Leone, Mali e nella Repubblica Centrafricana. Talvolta le perdite non erano evitabili, perché i peacekeeper sono caduti in imboscate o sono stati sopraffatti in altri modi, ma molto più spesso hanno consegnato le armi piuttosto che difendersi e rischiare di rimanere vittime in uno scontro armato.

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Libia, nei campi di detenzione si tortura: lo dice il tribunale Accertate violenze nei centri gestiti da fazioni con cui Minniti ha fatto accordi.

fonte >>> Radio Città Fujiko»Notizie

Libia, nei campi di detenzione si tortura: lo dice il tribunale

Accertate violenze nei centri gestiti da fazioni con cui Minniti ha fatto accordi.

di Alessandro Canella
Categorie: Migranti, Giustizia
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Un’immagine del film “L’ordine delle cose” di Andrea Segre sui centri di detenzione in Libia

Storica sentenza del Tribunale di Assise di Milano, che ha condannato l’autore di sequestro di persona con conseguente morte, violenze sessuali e torture ai danni di migranti somali rinchiusi nei campi di de tenzione libici, prima della tratta verso l’Italia sui barconi. Il pm: “Come lager nazisti”. Minniti ha stipulato accordi con le fazioni che si sono macchiate di quei crimini. Asgi: “Ora il governo italiano cambi le politiche”.

Nei centri di detenzione per migranti in Libia avvengono le stesse cose che avvenivano nei lager nazisti. Il paragone non è stato fatto da una radicale associazione antirazzista, ma dal pubblico ministero, durante la propria requisitoria nel processo a carico di un torturatore libico, che è poi stato condannato dal Tribunale di Assise di Milano.
Una sentenza storica“, secondo l’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, che era parte civile nel processo e che ora chiede al governo italiano di cambiare le proprie politiche, in particolare l’accordo con una parte delle autorità libiche stipulato dal ministro dell’Interno Marco Minniti.

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Perché meno gommoni dalla Libia, mentre in mare si muore di più

Safe aboard MSF's Dignity I sea rescue vessel this man prays as the rescue of others from a dingy continues behind him (photo: Anna Surinyach)

FONTE  OPENIMMIGRATION  CHE RINGRAZIAMO

Perché meno gommoni dalla Libia, mentre in mare si muore di più

 

21 settembre 2017FRANCESCA ROMANA GENOVIVA

 
Se è stato il codice di condotta per le Ong la ragione del calo nelle partenze dalla Libia, allora come mai erano già calate a luglio prima che il codice esistesse? E se il merito è dell’accordo economico con il governo Serraj, allora perché le partenze a settembre stanno riprendendo? E dove sta la vittoria se adesso nel Mediterraneo si muore molto di più? Francesca Romana Genoviva analizza i numeri e smonta alcuni luoghi comuni.

A luglio e agosto del 2017, il numero di migranti arrivati in Italia via mare è drasticamente diminuito: rispetto alla scorsa estate (luglio-agosto 2016), il calo è del 65 per cento.

Difficile trovare una spiegazione: normalmente l’estate rappresenta il periodo più “caldo” per via delle condizioni meteo favorevoli. Mentre ci si chiede se una tale diminuzione sarà permanente o se si tratti di una tregua estiva, sui media nazionali e internazionali si rincorrono le ipotesi: colpa delle condizioni del mare, troppo agitato per effettuare partenze; merito del governo italiano, e del suo piano di contrasto all’immigrazione – in questa direzione vanno le parole del presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, secondo cui “il codice delle Ong è un pezzo fondamentale” della strategia per ridurre i flussi migratori (l’altro pezzo sarebbe costituito dalcontestatissimo accordo tra l’Italia e Fayez al-Serraj, presidente del Governo di accordo nazionale di Tripoli, per delegare alla Guardia costiera libica il blocco dei barconi in partenza dalle coste nordafricane); un’altra, allarmante lettura ritiene invece che all’origine del calo ci siano le milizie armate che controllano il nord della Libia, principale punto di partenza dei barconi. Qui facciamo luce sui numeri degli arrivi e verifichiamo le diverse ipotesi.

I numeri

Che un calo negli arrivi, e netto, ci sia stato, lo dicono i numeri. Se nel periodo gennaio-agosto 2016 in Italia sono arrivati 115.068 migranti, nello stesso periodo del 2017 il numero scende a 99.127 (fonte Unhcr). Un calo del 13,85 per cento.

Considerando solo i mesi di luglio e agosto, nel 2016 sono sbarcati in Italia 44.846 migranti, mentre nel 2017 sono stati 15.375: il 65,72 per cento in meno. Il calo, registrato già a luglio (-50 per cento su luglio 2016), è diventato più marcato ad agosto (-82 per cento). Quello che non cambia è il punto di partenza delle imbarcazioni: il 95 per cento di quelle dirette in Italia parte ancora dalla Libia. Cosa è cambiato negli ultimi mesi? Alcuni fanno notare come le condizioni meteorologiche nel mese di luglio siano state particolarmente sfavorevoli, impedendo ai barconi di partire. Un’ipotesi, a dire il vero, debole: perché mai i trafficanti che stipano centinaia di persone su un gommone di pochi metri dovrebbero preoccuparsi di effettuare viaggi in sicurezza? Secondo quanto dichiarato all’agenzia Reuters da Chris Catrambone, co-fondatore di Moas, anche quando il mare si presentava “piatto come un lago” c’erano poche barche pronte alla partenza.

Una prima spiegazione: il codice di condotta delle Ong

Per il premier Gentiloni, il massiccio calo negli arrivi sarebbe conseguenza diretta dell’applicazione del codice di condotta delle Ong voluto dal ministro dell’Interno, Marco Minniti, e sottoscritto (ai primi di agosto) da cinque organizzazioni umanitarie che effettuano salvataggi nel Mediterraneo: Proactiva Open Arms, Save the Children, Moas, Sea-Eye e, da ultimo, Sos Mediterranée; qui la nostra intervista al direttore di Msf Italia sulle ragioni del “no” della sua organizzazione. Questo codice, si ragiona in ambienti di governo, previene le Ong dall’effettuare operazioni non autorizzate, quali recuperare i migranti in acque territoriali libiche, e pone il coordinamento delle operazioni di ricerca e soccorso sotto un controllo più stringente. Le conclusioni del governo (più controllo sulle Ong = meno arrivi) sembrano accreditare l’equazione tra la presenza delle organizzazioni umanitarie nel Mediterraneo e l’aumento degli arrivi (e dei morti) nel 2016, criminalizzando l’operato delle Ong contro ogni evidenza.

Il discorso non regge: il codice è stato approvato a fine luglio, quando il trend degli arrivi aveva già iniziato a cambiare segno. A ben vedere, poi, il famoso e strategico codice contiene pochi interventi rilevanti (o nessuno): le novità principali, molto contestate, sono state poi ridimensionate grazie all’addendum proposto da Sos Mediterranée. Questa Ong, all’atto di sottoscrivere il codice, ha ribadito che “il codice di condotta non è legalmente vincolante e prevalgono le regolamentazioni e le leggi nazionali ed internazionali”. Il codice, a questo punto, è praticamente inutile.

A ridurre l’attività delle Ong, più che il codice, è stata invece l’improvvisa decisione della Libia di estendere la sua zona di ricerca e soccorso ben oltre il limite delle sue acque territoriali, di fatto escludendo le Ong (anche a colpi di mitraglietta) dall’attività di salvataggio in acque internazionali. Ed è proprio alla mancanza di sicurezza in mare che alcune Ong (Msf, Sea-Eye e Save the Children) hanno imputato la sospensione delle loro attività di ricerca e soccorso in mare.

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Lo sporco baratto italo-libico e il neo-genocidio liberista dell’UE – di Salvatore Palidda

FONTE EFFIMERA CHE RINGRAZIAMO

Dopo la scelta europea del 2015, la tragedia dei migranti in Grecia, poi i 6 miliardi offerti al neo-sultano fascista e affarista Erdogan per trattenerli a prescindere dalla schiavizzazione assicurata anche dei bambini tramite i circa 100 mila neo-padroni siriano-turchi, era apparso chiaro che si andava verso il massacro. Come si evince ora dalla “brillante” operazione realizzata dal fulgido ministro Minniti “tutto si tiene”: il demagogico stop degli arrivi in Italia passa per il “reclutamento” di una nota banda criminale che così diventa forza legittima dello stato libico e che –soprattutto- promette di garantire gli interessi e attività dell’ENI-Agip in Libia –fra cui lo stop dei furti e del contrabbando del petrolio e le minacce di sequestro di tecnici italiani- e anche di Finmeccanica e il mercato degli armamenti italiani. In altri termini siamo davanti alla stessa logica che governa la riproduzione delle guerre permanenti, dei disastri sanitari, ambientali ed economici, delle neo-schiavitù e lo sprezzo totale dei migranti disperati, siano essi scampati alle guerre, alla fame, alle epidemie, al disastro economico e a ogni sorta di violenza e dominio (tranne una piccola parte affidata al business di ONG embedded cioè dell’umanitario neoliberista[1]).

La documentazione che illustra i diversi aspetti e anche i dettagli dell’escalation è ampia e articolata. La sequenza comincia nel 1990 cioè dopo il crollo del socialimperialismo sovietico che evidentemente non regge la competizione neo-liberista giostrata dai think tanks statunitensi; ma va ricordato che la premessa è nel Fiscal Year di Weimberger nel 1979[2] quando afferma che gli USA non possono più tollerare la crisi della loro egemonia mondiale non tanto per opera del mondo “comunista”, ma soprattutto a causa dell’autonomizzazione di diverse aree nei Sud del mondo. E per giustificare il lancio delle guerre contro questi Sud i think tanks usa incitano alla guerra ai narcotrafficanti e a tutte le mafie, e agli “stati canaglia”. La pseudo bonifica delle terre dei narcos scalfisce poco questi mentre devasta la Colombia e fa sprofondare il centro America e parte dell’America latina nel disastro grazie alla guerra finanziaria e l’imposizione di misure che aumentano l’impoverimento[3]

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RAPPORTO IOM SUI MIGRANTI MORTI “VIAGGI FATALI” SULLE ROTTE DELLA SPERANZA

 

FONTE NIGRIZIA CHE RINGRAZIAMO

Oltre 22.500 persone sono scomparse o decedute negli ultimi tre anni e mezzo, secondo gli analisti dell’Organizzazione per le migrazioni, ma nessuno conoscerà mai il numero reale, che è molto più alto. Un esercito di uomini, donne e bambini, destinati a restare senza nome e, spesso, senza nemmeno una degna sepoltura.

di Marco Cochi

 

L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM) ha pubblicato un nuovo rapporto sulle morti e le sparizioni di migranti in tutto il mondo. Nella relazione di 136 pagine intitolata “Viaggi Fatali” emerge che «dall’inizio del 2014 ai primi sei mesi del 2017, oltre 22.500 migranti sono deceduti o scomparsi nel tentativo di fuggire dalla guerra o dalla miseria».

Un tragico resoconto che potrebbe diventare molto più alto, perché «il reale numero del totale di morti e dispersi non può essere calcolato con certezza», come sottolineano gli analisti del Global Migration Data Center (Gmdac) dello Iom, che hanno realizzato lo studio insieme ai ricercatori dell’Università di Bristol.

Il report rileva pure che dal 2000 al 2016 sono morti almeno 60mila migranti e che 15mila di essi sono scomparsi sulla rotta del Mediterraneo, balzata alle cronache internazionali per il tragico naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013.

Ma quella mediterranea, che comprende ben 11 itinerari, è solo una delle 14 principali rotte migratorie, identificate nello studio, dove si registrano numerose perdite ogni anno. Tra queste, oltre al Mediterraneo, è risultata particolarmente pericolosa quella che dall’Africa occidentale e dal Corno d’Africa conduce verso Egitto e Libia. Mentre, dal 2014, migliaia di persone sono morte nel tentativo di attraversare il deserto del Sahara.

Il rapporto di Iom si focalizza anche su come migliorare la fruizione dei dati sui migranti scomparsi, per prevenire ulteriori decessi e consentire alle famiglie di conoscere il destino dei loro parenti. Molte famiglie, infatti, trascorrono anni in un limbo di incertezza senza sapere se i loro cari siano vivi o morti, poiché i corpi che riescono ad essere identificati sono una ristretta minoranza.

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Paghi Sarraj che paga i trafficanti che ora fermano i migranti

  

Foto: Remocontro.it

«Secondo un accordo sostenuto dall’Italia (‘backed by Italy’, sostenuto in senso diretto dall’Italia), il governo di Tripoli ha pagato le milizie che una volta erano coinvolte nel contrabbando di migranti ad impedire agli immigrati di attraversare il Mediterraneo verso l’Europa, una delle ragioni della drastica diminuzione del traffico, secondo milizie e funzionari della sicurezza». La conferma di quanto riferito ieri da Remocontro, nel riprendere un reportage del Times di Londra da Roma. Meno infiorettata e limitata ai fatti riscontrati, la cronaca del Washinghton Post.

Manca ad esempio il dettaglio dei 5 milioni di dollari che avrebbe pagato l’Italia, i suoi servizi segreti, per trasformare i trafficanti di esseri umani in neo sceriffi al servizio di chi li paga. Notizia che sarebbe stata smentita da una «Spokeswoman for the Italian intelligence services», che nessuno sapeva neppure che esistesse. Provate a trovare voi un telefono di Aise o Aisi, se ci riuscite. Per il resto, solo ulteriori dettagli rispetto alla cronaca di ieri.

Ad esempio, la notizia dei soldi italiani arrivati in qualche modo a trafficanti e scafisti per la loro ‘conversione’, hanno creato scontento tra alcune forze di sicurezza libiche e attivisti che si occupano di migranti.  ‘Attenti ad arricchisce le milizie, consentendo loro di acquistare più armi e diventare più potenti’, ammoniscono. «In the country’s chaos, the militias can at any time go back to trafficking or turn against the government, they say». Nel caos del paese, le milizie possono in qualsiasi momento tornare alla tratta o rivolgersi contro il governo, dicono. L’accordo continua a cementare il reale potere delle milizie, che dalla caduta di Gadhafi  hanno minato i governi successivi della Libia.

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Italia-Africa. Il nostro «aiuto» è la vendita di armamenti

FONTE: Francesco Vignarca,  IL MANIFESTO

Nel distorto e problematico dibattito pubblico italiano e non solo sull’epocale fenomeno migratorio il tentativo principale della politica è quello di allontanare dalla vista dell’elettorato i problemi e le responsabilità.Nelle poche occasioni in cui si è allargato lo sguardo verso i luoghi di provenienza delle migrazioni (in particolare penso all’Africa) lo si fa richiamando un retorico e qualunquista «aiuto a casa loro» che non ha nulla di concreto o fattivo.

LA ORMAI VECCHIE  promesse, sottoscritte a livello internazionale anche dall’Italia, di destinare almeno lo 0,7% del Pil all’aiuto pubblico allo sviluppo (diretto, indiretto e multilaterale) sono rimaste lettera morta. Nel 2015 l’Italia, pur con un trend in crescita, ha raggiunto solo lo 0,22% del Pil e una buona fetta dei quasi 4 miliardi impiegati è comunque rimasta nei nostri confini proprio per gestire il fenomeno migratorio.

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