Il ‘fardello della storia’ lo stanno portando i popoli non la poltica. Ma il potere questo non lo riconoscerà mai, anzi”

FONTE CONTROLACRISI.ORG

POLITICA INTERNAZIONALE

Autore: Fabio Sebastiani

 

Bypassando il nauseabondo trash che il sistema politico-mediatico ogni volta ci propone dopo fatti come drammatici come quello di Barcellona, forse è arrivato il momento di attivare quel po’ di riflessione di cui siamo capaci. Riflessione utile a tentare di capire in che mondo stiamo vivendo e non in quale mondo “ci riflettiamo”.

Questa è già una prima distinzione importante. Perché finché lasceremo al potere la disponibilità a manovrare il complesso “sistema di specchi” il risultato che otterremo sarà “l’alternativa della paura”. Una paura giocata dentro campi di significato funzionali al consenso di un potere dannoso, inutile, senza prospettive. Se il potere è questo, allora, per dirla con le parole di Hannah Arendt, è arrivato il momento per i popoli di “portare il fardello della storia”, capire che la lettura della modernità non può essere delegata ai professionisti della politica o, peggio che mai, ai tecnocrati.

E la modernità ci dice che dalla bombe atomiche americane sganciate sul Giappone il coinvolgimento della popolazione civile nei teatri di guerra è stato sempre più massiccio. Come cambia questo la politica, le istituzioni, lo stesso concetto di democrazia e partecipazione?

Secondo uno studio dell’associazione privata Council on Foreign Relations (riportato dal Fatto Quotidiano), solo nel 2016 il premio Nobel per la Pace, Obama, ha permesso che fossero sganciate ben 26.172 bombe su ben sette Paesi sovrani (Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, Yemen, Somalia e Pakistan). Si tratta di tre bombe ogni ora per 24 ore al giorno che hanno ucciso migliaia e migliaia di civili innocenti come coloro che passeggiavano sulla Rambla a Barcellona.
Secondo un rapporto del 2014 dell’Ong britannica Reprive, per ogni “terrorista” ucciso nella guerra dei droni combattuta dagli Usa, le vittime civili sono state 28. In dieci anni, su 41 terroristi assassinati i droni hanno ucciso 1.147 innocenti. Questi sono i fatti.

E’ un’eredità storico-culturale che ci portiamo dietro dalla prima guerra mondiale in realtà. Quell’evento segnò il mondo. E segnò anche la ribellione universale contro la guerra. La rivoluzione sovietà fu possibile proprio grazie a questa spinta. E se in europa ebbe una battuta d’arresto fu solo perché la sinistra mancò di coraggio. La politica non lo capì né allora né dopo e né oggi che il mondo stava diventando un’entità internazionale. Ci si nascose, allora, dietro il concetto di “Nazione”. Alla riproposizione del problema nello scenario della seconda guerra mondiale già qualsiasi ragionamento sui confini appariva debole, ma finché serviva al capitalismo allora doveva passare come un principio giusto e utile. La contraddizione era palese: le cosiddette nazioni potevano “esistere” solo dentro una struttura imperiale.

Oggi che la fine dei confini è, ancora una volta, simbolicamente rappresentata in quelle trentaquattro nazionalità di appartenenza delle vittime di Barcellona, il potere, ha bisogno di altre categorie e mistificazioni. Ed ecco tirar fuori un vecchio arnese, quello della religione. Dico il potere in senso reale, perché sono stati gli Usa a inventare Al-Qaeda e l’Isis, e anche in senso politico ed economico: quel potere che ha bisogno della guerra e del controllo attraverso la paura come fattore vitale della sua riproducibilità. La scala è quella imperiale, appunto, perché il capitalismo non ne conosce né ne tollera un’altra.

Sento di esplicitare un interrogativo, chiaro, e anche un po’ provocatorio, negli elementi di base ma incerto nelle possibili risposte: perché la società civile, il popolo, gioca ancora un ruolo da suddito in una realtà storica in cui dovrebbe essere protagonista assoluto? In poche parole, perché se il singolo cittadino, in quanto tale, si trova a pagare un così alto tributo di sangue non ha a dispozione quegli strumenti reali per decidere di politica e di istituzioni? Non è un’entità, è la risposta. Può darsi, ma quanto pensiamo di andare avanti con un potere (e quindi “politica”, “istituzioni”, “economia”) che è fino in fondo parte del problema e da cui non potrà venire, quindi, alcuna soluzione?

Quando il potere parla di sicurezza in realtà sta comprando tempo nella speranza che su tutto vinca la paura e quindi lo scenario, dal suo punto di vista possa farsi più semplice e più gestibile. La guerra a cui stiamo assistendo e che paghiamo direttamente non sarà vinta o persa ma solo “riprodotta” all’infinto.

E’ esattamente a questo che dobbiamo cominciare a ribellarci per sperare di reinventare un lessico di pace e convinvenza nell’uguaglianza e nella giustizia. Se da una parte è vero che la società civile non è ancora pronta a diventare protagonista dall’altra, appare evidente che sta elaborando gli strumenti culturali per intraprendere questo cammino difficoiltoso. Ma la prima “dissociazione” da produrre è nei confronti di chi vuole parlare al posto nostro. E’ forse un caso che proprio a Barcellona si è tenuta la più grande manifestazione di “solidarietà costituente” che l’Europa abbia mai regisrato?
Finché non sapremo riprodurre altre “iniziative costiuenti” saremo vittime del trucco di un potere che in realtà sta lavorando per i propri bassi interessi. Il capitalismo ha gettato definitivamente la sua maschera. Non è interessato ad alcun “equilibrio”. La guerra permanente è il solo scopo che realmente persegue.

L’errore delle masse nella prima guerra mondiale fu quello di non credere fino in fondo nelle proprie possibilità. L’Europa finì irretita nella litania delle nazioni. Oggi quella falsa coscienza è definitivamente saltata. Oggi, che anche le lingue sono diventate accessorie per la comunicazione tra i popoli, dobbiamo, esattamente come allora, sottrarci al ricatto. Proclamarsi cittadino del mondo non è più la carta d’identità per frequentare ameni “non luoghi” ma per parlare il solo linguaggio possibile che ci consentire di sopportare il fardello della modernità.

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Fattispecie di reato: la tortura di Armando Lancellotti

di Armando Lancellotti

FONTE CARMILLAONLINE

Marina Lalatta Costerbosa, Il silenzio della tortura. Contro un crimine estremo, DeriveApprodi, Roma, 2016, pp. 136, € 15,00

Tra pochi giorni, a fine giugno, la legge sull’introduzione del reato di tortura nell’ordinamento penale italiano arriverà a Montecitorio, per concludere, forse, l’iter di approvazione parlamentare. Si potrebbe pensare che stia per essere scritta una pagina positiva della storia legislativa e politica del nostro paese, ma la realtà delle cose è ben diversa e per almeno due grandi ordini di ragioni: innanzi tutto perché il ritardo con cui il codice penale italiano riconosce la fattispecie del reato di tortura è a dir poco epocale, visto che la stessa Italia ratificò la Convenzione internazionale contro la tortura (Onu, 1984) nel gennaio 1988, insomma una trentina di anni fa; in secondo luogo perché il testo approvato al Senato il 17 maggio scorso è talmente rabberciato e contraddittorio da tradire lo spirito stesso di una legge che dovrebbe in modo netto e senza equivoci riconoscere la tortura come fattispecie di reato e delle peggiori. Un “tradimento” che lo stesso Luigi Manconi, che nel maggio del 2013 aveva presentato il progetto di legge in qualità di presidente della commissione parlamentare sui diritti umani, non ha esitato a definire inaccettabile, avanzando le stesse critiche e perplessità espresse da associazioni quali Amnesty International ed Antigone o dalle vittime della tortura di Stato italiana e dai parenti delle stesse. Vittime, che nel paese dei fatti di Genova 2001, di Cucchi e di Aldrovandi tra gli altri, sono numerose e ancora in attesa (vana) che venga fatto un minimo di giustizia e venga loro restituita quella dignità di uomini e cittadini che è stata a loro negata dai violenti abusi di potere di uomini dello Stato, dell’arbitrio dei quali sono caduti in balia.

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Riccardo Petrella: La tragedia della lotta al terrorismo

Riccardo Petrella: La tragedia della lotta al terrorismo

 

Quanto più gli Stati, soprattutto Usa e Ue, intensificano e ampliano le proprie azioni di guerra contro il terrorismo – in particolare di matrice islamica, jihadista – all’interno dei paesi considerati i focolai principali del terrorismo globale, più si assisterà alla distruzione di vite umane, alla devastazione economica e ambientale, senza neanche riuscire ad eliminare le cause del problema. Anzi, il contrario.

La tragedia si è consumata di nuovo durante il G7 a Taormina (26 e 27 maggio) in cui l’unico risultato di cui possono rallegrarsi i capi di Stato e di governo partecipanti è la “Dichiarazione comune sulla lotta contro il terrorismo”. Cosi, la prima ministra britannica May si è scapicollata a tornare nel suo paese per vendere come un gran successo la firma della dichiarazione. Gli attentati di Manchester e le elezioni politiche di giugno dettano le priorità. Dal canto suo, il guerrafondaio presidente americano Trump, ha riportato a casa non solo quella firma, ma anche numerosi contratti di vendita di armi all’Arabia Saudita, siglati il 21 maggio, per un valore di 110 miliardi di dollari. Secondo i firmatari, le costose armi sono assolutamente necessarie per aiutare l’Arabia saudita a sconfiggere il terrorismo nella regione e difendersi dalle “minacce” dell’Iran. Va tutto bene pure per gli altri capi di Stato e primi ministri europei, membri Nato, che hanno votato il 25 maggio a Bruxelles (ivi compreso il dittatore turco) per l’entrata della Nato nella “coalizione mondiale contro Daesh”, contravvenendo alle regole dello Statuto. Quante “iniziative” militari in soli cinque giorni! Ma tutto è permesso se fatto nel nome della lotta globale al terrorismo, per la “nostra” sicurezza.

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