TTIP: UNA MINACCIA PER LE NORME EUROPEE E NAZIONALI CHE REGOLANO AMBIENTE LAVORO SALUTE

TTIP: UNA MINACCIA PER LE NORME EUROPEE E NAZIONALI CHE REGOLANO AMBIENTE LAVORO SALUTE

Non so quanti lettori conoscano sia pure in superficie cosa è il TTIP e i relativi rischi di azzeramento dei sistemi giuridici degli stati membri dell’Europa che tutelano ambiente, diritti dei lavoratori e salute, intesa come diritto alla salute dei cittadini.

Il fatto che la maggioranza dei cittadini non conosca cosa sia il TTIP, quale sia il merito e il contenuto di questi accordi, quali impatti positivi e negativi potranno avere sulla vita quotidiana, non è un caso, è il risultato di una scelta politica dei governi e della Commissione Europea che ha emarginato il ruolo dello stesso Parlamento europeo rispetto alla trattativa.

La mancanza d’informazione su questo Trattato è inversamente proporzionale alla sua importanza e alla sua capacità di influire sulle nostre vite future.

Il TTIP è un trattato internazionale quadro composto da una serie di negoziati specifici sul commercio che ha lo scopo di de/regolamentare il commercio tra Stati Uniti ed Europa.

Per raggiungere questo risultato il TTIP prevede di ridurre se non eliminare  le barriere regolamentari esistenti e differenti tra USA ed Europa: in particolare, l’Unione Europea dovrà abbassare  le barriere poste per la protezione dell’ambiente, della salute dei consumatori attraverso le politiche di deregolamentazione del cibo e di altri prodotti, limitare la tutela del consumatore, dovrà  riconsegnare al mercato le prestazioni sanitarie erogate dai SSN pubblici, in modo da agevolare gli scambi con gli operatori statunitensi che operano in un regime meno regolamentato.

Il TTIP prevede l’istituto del ISDS (Investor-state dispute settlement) anche noto come “trattato per la risoluzione delle controversie tra investitore e stato” il quale consentirà alle aziende di far causa ai governi citandoli davanti ad un collegio arbitrale costituito da tre avvocati esperti di diritto societario. Si tratterebbe di un collegio arbitrale dove le altre parti in causa non avrebbero alcuna rappresentanza e che non prevede alcuna possibilità di riesame davanti ad un’autorità giudiziaria.

L’inserimento di questa clausola in alcuni trattati commerciali già esistenti (ma d’importanza inferiori a quella del TTIP) ha permesso ad una serie di grandi aziende multinazionali  di opporsi alle decisioni prese da alcuni governi allo scopo di fornire una protezione a beni costituzionamente indisponibili alle logiche di scambio, quali l’ambiente e la salute dei cittadini, citando gli Stati in giudizio.

Alcuni esempi tratti dalla stampa internazionale: la Philip Morris sta già facendo causa ai governi di Uruguay e Australia per le loro politiche dure contro il fumo;  Occidental, un’azienda petrolifera, ha ottenuto un risarcimento di 2,3 miliardi di dollari dall’Ecuador, reo di aver revocato all’azienda la concessione per le trivellazioni in Amazzonia dopo aver scoperto che la stessa aveva infranto la legge. La Vattenfall ha intentato causa al governo tedesco, responsabile di aver rinunciato all’energia nucleare. Un’azienda australiana ha citato in causa il governo di El Salvador che non aveva dato le concessioni di sfruttamento per una miniera d’oro che rischia di inquinare l’acqua potabile.
Con questa  logica  le multinazionali dell’amianto potrebbero promuovere cause di risarcimento per gli investitori chiamando in causa i governi che hanno messo al bando la produzione e il commercio di manufatti in amianto….

I mass media italiani non hanno speso una parola per informare i cittadini sul percorso “occulto” di questi negoziati. Quelli che ne hanno parlato hanno riprodotto le veline della Commissione Europea.

Il governo per voce del Presidente  del Consiglio ha affermato che il TTIP una volta approvato sarà una grande opportunità …. Non ha precisato per chi .

Sabato 10 ottobre u.s. sono stato testimone a Berlino, città dove risiedo per alcuni mesi ogni anno,  di una straordinaria e pacifica manifestazione che ha visto sfilare da HauptBanhof alla stele Siegessaule più di 200 mila persone, uomini donne, famiglie con i figli in carrozzina che aveva come slogan STOP TTIP. La manifestazione è stata promossa da sindacati dei lavoratori dipendenti DGB, VER.DI, IG METALL,  da associazioni di produttori agricoli, da centinaia di associazioni ambientali e di promozione del welfare…

La richiesta più decisa oltre a richiedere lo STOP degli attuali negoziati è quella della trasparenza, del diritto dei cittadini a conoscere con precisione i termini del trattato. Conoscenza che è stata negata agli stessi parlamentari  europei che hanno potuto sbirciare alcuni documenti in una sala speciale senza quaderni o penne per prendere appunti…
Abbiamo parlato di TTIP perche avrà, se non sarà fermato, effetti devastanti  anche sulle legislazioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Per questo motivo invitiamo i lettori a documentarsi e ad essere vigilanti ed esigenti per quanto riguarda la trasparenza.

Gino Rubini, editor

Riferimenti e Documenti

1) TTIP, nessun vincolo su ambiente, clima e lavoro

http://www.vita.it/it/article/2015/10/26/ttip-nessun-vincolo-su-ambiente-clima-e-lavoro/137122/

2) FILTRA LA PROPOSTA EUROPEA SULLO SVILUPPO SOSTENIBILE NEL TTIP: TANTI BUONI PROPOSITI, NESSUN VINCOLO A RISPETTARLI

http://stop-ttip-italia.net/2015/10/26/ttip-e-sviluppo-sostenibile-nessun-vincolo-solo-parole/

3) TTIP: trattato Usa-Ue sul commercio, lati oscuri e rischi che i governi non contino più nulla

http://www.repubblica.it/solidarieta/equo-e-solidale/2015/07/09/news/ttip_il_trattato_della_discordia_sul_commercio_usa-ue-118729492/

4)FERMA IL TTIP

http://www.greenpeace.org/italy/it/Cosa-puoi-fare-tu/partecipa/stop-ttip/

5) Berlin anti-TTIP trade deal protest attracts hundreds of thousands

http://www.theguardian.com/world/2015/oct/10/berlin-anti-ttip-trade-deal-rally-hundreds-thousands-protesters

6) TTIP: Jeremy Corbyn, Nigel Farage, Nicola Sturgeon and Natalie Bennett sign appeal to exempt NHS from trade deal
The organisers, from Unite, say that they approached the Conservatives asking for support but were refused

http://www.independent.co.uk/news/uk/politics/ttip-jeremy-corbyn-nigel-farage-nicola-sturgeon-and-natalie-bennett-sign-appeal-to-exempt-nhs-from-a6708156.html

DRAMMA GRECIA: L’EUROPA “NANO POLITICO”

La crisi greca ha messo in luce il disastro politico dell’Europa che si è presentata per quello che è : un nano politico . L’isteria dei leader di Germania e paesi satelliti è pari alla mancanza di una vision geopolitica che vada al di là della contingenza. L’Europa esce, comunque vada, frantumata e più debole incapace di governo continentale. Saranno ancora una volta USA, Federazione Russa e Cina a giocare la grande partita del futuro: è nelle loro mani il progetto del futuro del continente formato da 28 stati incapaci di darsi una strategia. A causa di questo nanismo politico legato alla fede nelle politiche di austerità l’Europa si prepara a tempi molto difficili, drammatici. Non si può dipendere dalle isterie e dalla miopia del governo tedesco. Un’altra europa può emergere da questa crisi, ma a quale prezzo?

Jobs Act, Garante privacy: “No a controlli invasivi”. Un altro pastrocchio del governo Renzi

 

L’appello alla chiarezza del Garante, Antonello Soro, nella relazione annuale al Parlamento. Si unisce anche la presidente Boldrini: “Mi auguro che ci sia un confronto parlamentare che faccia chiarezza”.
( da Repubblica )

E’palese che gli estensori del testo specifico del Jobs Act in materia di “controlli a distanza” dei lavoratori tramite smartphone, tablets e altri devices elettronici non hanno richiesto pareri preventivi al Garante nella fase della elaborazione, o se li hanno richiesti, non ne hanno tenuto conto.

E’verosimile pensare che altri siano stati i “suggeritori” del testo che dovrebbe tra l’altro eliminare il primo comma dell’art.4 della Legge 300/70 che è l’architrave sul quale appoggiano anche le Linee Guida del Garante della Privacy in materia di lavoro.

Nei fatti le precisazioni del ministro del Lavoro e di Palazzo Chigi per voce della ministra Boschi appaiono sempre più come maldestri tentativi di coprire in qualche maniera un testo scritto male non si sa se per insipienza o per malizia.

Le contraddizioni e le “perversioni” di questo testo sono ben descritte nell’articolo “ Jobs Act: Grande Fratello o Grande Pasticcio ? ” di Guido Scorza apparso su “il Fatto Quotidiano”

Vedremo se nelle Commissioni parlamentari vi sarà la capacità di fare uscire un testo dignitoso che tuteli la personalità e la privacy dei lavoratori dipendenti dagli abusi che con l’utilizzo improprio da parte aziendale dei dati personali che provengono da questi strumenti potrebbero verificarsi. L’attuale testo è un pastrocchio che da una parte lascia ampi spazi per abusi e dall’altra, se fosse approvato così com’è, alimenterà un’ondata di contenziosi i cui costi sono difficili da valutare.
Auspichiamo per davvero che l’attuale testo con l’abolizione del primo comma dell’art.4 della Legge 300/70 sia cassato.
In ogni caso si pone il problema del controllo sociale della “profilazione” possibile che con questi strumenti su aspetti anche privati della vita del lavoratore.
I lavoratori purtroppo sono inermi, come uomini e donne di “vetro”, trasparenti e vulnerabili, rispetto ai nuovi rischi derivanti dalla “profilazione” che può essere fatta minuto per minuto durante l’orario di lavoro e oltre il lavoro.

Occorre costruire una cultura della prevenzione in materia di violazione della privacy in relazione al lavoro che allo stato dell’arte è quasi inesistente.
Le tecnologie disponibili per la “profilazione” dei comportamenti sono sempre più sofisticate e invasive e consentono a coloro che possono raccogliere e organizzare i dati di programmare e influire sulla vita delle persone “profilate” ben oltre quanto previsto dal rapporto di lavoro formale.

Non è sufficiente che il datore di lavoro “informi” il lavoratore sulla tipologia dei controlli che l’azienda potrà effettuare tramite il device elettronico dato in uso. Bisogna che i lavoratori e i loro rappresentanti sappiano valutare queste tipologie di controllo e la loro legittimità e divengano un soggetto contrattuale attivo in grado di interagire con l’azienda per definire e limitare i controlli.

Su questa materia occorre fare crescere una capacità di contrattazione e di controllo sociale da parte dei rappresentanti dei lavoratori e prevedere un ruolo maggiore di vigilanza e di consulenza del Garante della privacy in modo che sia in grado d’intervenire laddove vengano segnalate violazioni e abusi.

Infine occorre sviluppare una cultura preventiva di base che metta in condizione il lavoratore di autotutelarsi, di non offrire un eccesso d’informazioni su di sè che possono essergli usate contro e a suo danno. Sono troppi i giovani e le ragazze che offrono un profilo di sè su facebook che diviene fattore di esclusione rispetto all’assunzione poichè i selettori di HR consultano facebook come primo step del loro lavoro….

Cosa emerge da questa vicenda ?

1) La voglia del Governo di consegnare sempre più potere alle aziende: un eccesso di zelo servile che rischia di fare pure del danno alle imprese più organizzate ed eticamente corrrette che non hanno bisogno di “profilare” e spiare di nascosto i lavoratori in quanto governano le relazioni con i lavoratori con il consenso e con la contrattazione bilanciata dei diritti e dei doveri;

2) L’inaffidabilità del Ministro del Lavoro inconsapevole della delicatezza della materia che tratta e incapace di organizzare il lavoro degli apparati del ministero che hanno prodotto questa proposta “pastrocchio” nei fatti impresentabile e per certi aspetti risibile;

3) Il ritardo del sindacato nella informazione e formazione dei lavoratori su tutta la materia della privacy in relazione allo sviluppo delle tecnologie che consentono la profilazione e sulle pratiche di autotutela dei lavoratori.

Su ognuno di questi aspetti occorre lavorare per uscire dal vicolo cieco del Jobs Act , un sistema di norme tese a svalorizzare il lavoro e a sottrarre dignità ai lavoratori.

Gino Rubini, editor di diario prevenzione

Bologna

L’Europa e l’uso politico delle “riforme” di James K. Galbraith

L’Europa e l’uso politico delle “riforme”

[di James K. Galbraith] Quelle che i creditori chiedono alla Grecia non sono riforme. Sono contro-riforme che mirano a ridurre il ruolo dello Stato nell’economia e a imporre un singolo modello di politica economica in tutta Europa.

di James K. Galbraith

Di ritorno da Berlino, la settimana scorsa, il ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis mi ha fatto notare come l’attuale uso della parola “riforma” abbia origine nel periodo intermedio dell’Unione Sovietica, all’epoca di Kruscev, quando si cercò di introdurre degli elementi di decentralizzazione e di mercato in un sistema pianificato sempre più sclerotico. In quegli anni, quando in America ci si batteva per i diritti civili e in Europa occidentale molti giovani sognavano ancora di fare la rivoluzione, la parola “riforma” non era molto diffusa in Occidente. Oggi, in una curiosa convergenza, è diventata la parola d’ordine delle classi dominanti.

Le riforme sono al centro del braccio di ferro tra la Grecia ed i suoi creditori. Un alleggerimento del debito greco non viene escluso – ma solo se i greci acconsentono a fare “le riforme”. Ma di quali riforme stiamo parlando, e a che fine? La parola è sbandierata quotidianamente dalla stampa, come se il significato del termine fosse scontato.

La verità è che le riforme che vengono oggi richieste alla Grecia dai creditori sono di una variante particolare: mirano tutte a ridurre il ruolo dello Stato nell’economia. In questo senso si possono definire “di mercato”. Ma esse non hanno nulla a che vedere con la promozione della decentralizzazione e del dinamismo. Al contrario, servono a distruggere le istituzioni locali e a imporre un singolo modello di politica economica in tutta Europa, con la Grecia nel ruolo di avanguardia anziché di fanalino di coda. In un altro senso, dunque, non sarebbe esagerato definire queste proposte totalitarie; se il loro padre filosofico è Friedrich von Hayek, il loro predecessore politico si può considerare Stalin, per metterla in maniera un po’ brutale.

Lo “stalinismo di mercato” oggi propagandato in Europa si articola su tre livelli, almeno per quello che concerne la Grecia. Le pensioni, il mercato del lavoro e le privatizzazioni. Poi ci sono le questioni più generali delle tasse, dell’austerità e della sostenibilità del debito, su cui ritorneremo più avanti.

Per quanto riguarda le pensioni, i creditori chiedono già da quest’anno un taglio della spesa pensionistica pari all’incirca all’1% del PIL, in un paese in cui la maggior parte degli esborsi pensionistici sono inferiori alla soglia di povertà. Più precisamente, chiedono un taglio di circa 120 euro a pensioni che si aggirano già sui 350 euro al mese o meno. Da parte sua, il governo riconosce che il sistema pensionistico greco va riformato – l’attuale limite d’età per ricevere il pensionamento anticipato è insostenibile – ma obietta che deve trattarsi di una riforma graduale e associata all’introduzione di un sussidio di disoccupazione effettivo.

Per quanto riguarda il mercato del lavoro, i creditori hanno già ottenuto la quasi totale cancellazione della contrattazione collettiva e la riduzione del salario minimo. Il governo ha fatto notare che questo ha avuto l’effetto di “informalizzare” il mercato del lavoro, allargando il bacino del lavoro sommerso e diminuendo i contributi previdenziali, minando ancora di più la stabilità del sistema pensionistico. La proposta del governo è di creare un nuovo sistema di contrattazione collettiva in linea con gli standard dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL).

Infine, le privatizzazioni: i creditori chiedono la messa in vendita – e in fretta – di porti, aeroporti e imprese elettriche, oltre a tutta un’altra serie di asset pubblici. Ciò che il governo critica non è la possibilità che alcuni asset siano gestiti da privati e/o da stranieri, ma che questi vengano svenduti senza condizioni e senza ritenere alcuna partecipazione statale. Giusto per fare un esempio, nella trattative per la vendita del porto del Pireo al colosso cinese Cosco, il governo insiste affinché l’accordo preveda un piano di investimento e misure a difesa dei diritti dei lavori.

Sul fronte delle tasse, i creditori hanno chiesto un aumento significativo dell’IVA, la cui aliquota massima è già del 23%. Nel mirino dei creditori vi sono in particolare i medicinali (il cui aumento dei costi colpirebbe soprattutto gli anziani) e le aliquote speciali di cui godono le isole greche, dove si concentra il grosso dell’attività turistica e dove i costi sono già più alti che nel resto del paese. La replica del governo è che questo danneggerà la competitività dell’industria turistica greca e avrà l’effetto paradossale di ridurre l’attività economica, peggiorando la situazione debitoria del paese. Ciò che serve è una migliore esazione fiscale: ridurre l’evasione dell’IVA, infatti, permetterebbe tranquillamente di ridurre le aliquote medie.

In definitiva, quello che manca nelle richieste dei creditori sono proprio le riforme. I tagli alle pensioni e l’aumento dell’IVA non sono riforme; non contribuiscono minimamente ad aumentare l’attività economica o la competitività della Grecia. Le privatizzazioni selvagge possono facilmente generare pericolosi monopoli privati, come dimostra l’esempio dell’America Latina. La deregolamentazione del mercato del lavoro non è altro che un crudele – e controproducente dal punto di vista economico – esperimento sociale, come dimostrano anche numerosi studi del Fondo monetario internazionale (FMI). Nessuno può seriamente sostenere che ridurre i salari greci serve a rendere il paese più competitivo nei confronti della Germania o dell’Asia. Al contrario, non farà che spingere proprio coloro che possiedono le competenze più competitive fuori dal paese.

Qualunque riforma che sia degna di questo nome richiede tempo, pazienza, pianificazione e denaro. La riforma del sistema pensionistico e di sicurezza sociale, l’introduzione di standard del lavoro moderni, una politica di privatizzazione oculata, la creazione di un sistema di riscossione delle imposte efficiente: queste sono vere riforme. Così come lo sono le misure relative all’amministrazione pubblica, al sistema giudiziario, all’integrità statistica e così via, su cui il governo sarebbe ben felice di muoversi, se solo i creditori glielo permettessero. Anche un programma di investimenti rivolto al settore dei servizi avanzati – sanità, assistenza agli anziani, istruzione superiore, ricerca, arte – darebbe ottimi risultati in un paese come la Grecia. Persino una ristrutturazione del debito che permetta alla Grecia di tornare sui mercati (sì, si potrebbe fare, e i greci hanno presentato una proposta molto ragionevole in merito) potrebbe a tutti gli effetti considerarsi una riforma.

Il programma dei creditori, al contrario, è una contro-riforma, un semplice programma di recupero crediti, basato sull’assunto secondo cui tagliare pensioni e ai salari, aumentare la pressione fiscale e privatizzare il privatizzazabile aiuterà la ripresa economica invece di ridurre ulteriormente il potere d’acquisto delle famiglie e favorire il rimpatrio all’estero dei proventi delle privatizzazioni, come è ovvio. È una riproposizione della stessa fallimentare “cura” imposta alla Grecia negli ultimi cinque anni, che ha distrutto il 25% del PIL greco e fatto lievitare il debito pubblico dal 100 al 180% del PIL. Ammettere il fallimento del programma greco, però, minerebbe la credibilità di tutta l’architettura economica europea, oltre che dei suoi sponsor politici.

È per questo che i negoziati tra la Grecia e l’UE al momento sono entrati in una fase di stallo. Ovviamente è uno scontro impari: se i greci non accettano le condizioni imposte dai creditori, il sistema bancario greco potrebbe implodere, costringendo il paese a fuoriuscire dall’euro, con conseguenze estremamente destabilizzanti (almeno nel breve termine). Questo i creditori lo sanno bene. Ed è per questo continuano a tenere la Grecia con le spalle al muro: da un lato si rifiutano di fare la benché minima concessione, dall’altro non fanno altro che accusare il governo greco di non voler collaborare. E per ogni passo in avanti fatto dal governo greco, i creditori fanno due passi indietro.

È una dinamica tipica dei negoziati che vedono contrapposti un partito forte e uno debole, per di più sottoposto a forti pressioni. In questo caso, poi, la trattativa è ulteriormente complicata dal fatto che i creditori non hanno una leadership unificata e dunque qualcuno – a parte forse Angela Merkel – che può effettuare delle concessioni per raggiungere un accordo. Per cui il ventaglio delle opzioni è piuttosto limitato. O Syriza accetta le condizioni dei creditori, rischiando di provocare una crisi di governo che spianerebbe la strada ad Alba Dorata o ad un nuovo protettorato europeo. O i greci saranno costretti a prendere in mano il proprio destino, nonostante gli enormi rischi che questo comporta, e sperare che qualcuno sia disposto ad aiutarli.

Pubblicato su Social Europe Journal il 15 giugno 2015.

Ripensare la politica (dal sito Valore Lavoro)

Nota di editor

Questo articolo che fa sintesi delle riflessioni emerse in un seminario di formazione politica del PD ci mostra “l’altra faccia della luna “: non esiste solo un PD compatto e granitico che si fa Partito della Nazione, diretto da un gruppo dirigente cooptato e inserito in una sorta di “cerchio magico” stretto a mò di clan attorno al leader indiscusso Renzi. Esistono forze di pensiero che con lucidità si pongono le domande legittime di dove si stia andando e su come “ripensare la politica”. Come “onde corte” non sappiamo se queste forze di pensiero riflessive riusciranno a introdurre una dialettica seria e democratica all’interno del PD ma è senz’altro positivo e importante il loro lavoro di elaborazione e di proposta. editor

Ripensare la politica
di Maria C. Fogliaro
Pubblicato il 29-04-2015 su VALORE LAVORO
L’articolo raccoglie le riflessioni emerse dal seminario di formazione politica dal titolo «Partiti: modello, leadership, primarie», organizzato a Roma, il 28 marzo 2015, dai dipartimenti «Cultura» e «Formazione politica» del Partito Democratico.
Dire «politica» oggi significa, nel migliore dei casi, dire «impotenza», «inadeguatezza», «debolezza». Delegittimata (per colpe sue proprie e anche grazie a un intenso battage mediatico) agli occhi dei cittadini, che ormai la considerano fonte e origine di ogni male; frequentemente percepita come subalterna agli interessi dei poteri economico-finanziari e piegata al rispetto di logiche sovranazionali spesso riconosciute lontane dall’interesse nazionale, la politica sembra oggi incapace di tracciare un percorso autonomo che configuri una realistica via d’uscita da una situazione i cui esiti appaiono sempre più fluidi e incerti. Di fronte all’attuale crisi economica, al malcontento diffuso e alla disaffezione nei confronti della politica, alla crisi della rappresentanza, dello Stato e dei partiti, allo sbiadire (in realtà solo apparente) del cleavage destra-sinistra, all’impoverimento sempre più massiccio di vasti strati della popolazione, gli studiosi e coloro che fanno politica oggi sono chiamati a interrogarsi su come e perché questa deriva sia avvenuta, e se e come sia possibile uscirne, attraverso quali strumenti e decisioni.

Una seria riflessione – caratterizzata da una pluralità dei punti di analisi e di indagine – su alcuni dei temi caldi presenti nel discorso pubblico è stata affrontata nel seminario di formazione politica, organizzato dai dipartimenti «Cultura» e «Formazione politica» del Partito Democratico – svoltosi a Roma il 28 marzo del 2015 –, dal titolo Partiti: modello, leadership, primarie. Come già il titolo assegnato all’incontro lasciava presagire, «quello di sabato 28 marzo – ha dichiarato Andrea De Maria, deputato, componente della segreteria nazionale e responsabile del dipartimento «Formazione politica» del Partito Democratico – è stato certamente un momento formativo, ma al tempo stesso lo abbiamo immaginato e costruito con un obiettivo più generale, affinché fosse un contributo al dibattito e alla riflessione politica di tutto il PD».

Seguendo una prospettiva che muove dai tempi lunghi della storia e che è rafforzata dalla riflessione critica della filosofia politica, Carlo Galli, filosofo politico e deputato, ha collocato le gravi questioni che il neoliberismo ha aperto e non chiuso – fra tutti la perdita di potere della politica e dei partiti, e l’aumento esponenziale della disuguaglianza, almeno in Occidente, con grave compromissione del ceto medio – in quello che è lo sfondo teorico del nostro tempo. Se il contesto storico di riferimento è la rivoluzione conservatrice neoliberale inaugurata da Thatcher e Reagan e l’affermarsi in Europa – attraverso i trattati istitutivi dell’Unione Europea – dell’ordoliberalismo, la perdita di potere politico dei partiti è strettamente legata alla sua quasi totale adesione alla autonarrazione neoliberale, che sembra aver mandato definitivamente in frantumi l’idea che «il conflitto sociale possa nominarsi come conflitto politico, attraverso i nomi convenzionali di destra e sinistra». La sfida all’altezza della quale porsi è di superare lo schema nel quale pare essersi arenato il sistema politico italiano – semplificato da Galli nella formula «partito della nazione contro resto del mondo» – e di aprire un nuovo spazio per una politica, caratterizzata tanto dalla leadership quanto dalla partecipazione partitica, in grado di far emergere le contraddizioni che sono alla base delle posizioni antisistema e della voragine partecipativa che si è aperta in questa fase della storia politica d’Italia.

La centralità della dicotomia destra-sinistra attraversa anche la riflessione di Giorgio Tonini, senatore e giornalista. «Dire che sinistra è lotta per l’uguaglianza – afferma Tonini, seguendo in questo la lezione di Norberto Bobbio – significa avere della politica un’idea forte» e «concepirla come forza di trasformazione della società». In questo percorso, che impone la rimozione degli ostacoli che impediscono la concreta riduzione delle disuguaglianze, ci si scontra con tre grandi questioni del nostro tempo: la riduzione del peso della politica nazionale a favore di istituzioni sovranazionali; la fuga del potere dalla politica verso altri luoghi (nello specifico verso i poteri economico-finanziari); la contraddizione, «per un certo tempo feconda ma oggi da superare, tra l’ambizione “rivoluzionaria” della prima parte della Costituzione e la debolezza strutturale della seconda», che ha impedito – nella prospettiva delineata dal senatore – l’affermazione di una leadership forte, in grado – attraverso il consenso democratico – di incidere profondamente sulla realtà del Paese e di consentire una vera trasformazione sociale. Parallelamente alla questione della legittimazione di un governo e di una leadership forti è necessario, però, – prosegue Tonini – «predisporre un nuovo sistema di pesi e contrappesi, che dia al governo la garanzia di poter decidere in tempi certi e assicuri all’opposizione i tempi giusti per poter proporre le sue alternative al Parlamento e al Paese». In questa prospettiva, il partito – inteso come luogo di selezione e di produzione della leadership – rappresenta un forte contrappeso, in grado di bilanciare il peso della leadership e di metterla democraticamente in discussione.

Il tema della leadership e dei pesi e contrappesi ritorna anche nelle riflessioni successive. Nel suo intervento Donato Di Santo, uno dei massimi esperti in Italia dei Paesi latinoamericani, esaminando la situazione politico-istituzionale di alcuni Stati dell’America Latina – che nella maggioranza dei casi hanno adottato il modello presidenziale nordamericano – ha mostrato come essi abbiano trovato delle proprie originali vie per bilanciare il forte potere del leader e del partito che vince le elezioni (come nel caso dell’Argentina, dove è stato istituito un registro dei partiti e dove è lo Stato a organizzare, due mesi prima delle elezioni presidenziali, le primarie). Anthony Renzulli, diplomatico americano, afferma che negli Stati Uniti «i partiti sono istituzioni peculiari, fuori dall’ordine costituzionale, ma fondamentali per il funzionamento della nostra democrazia. Vecchi, ma sempre in evoluzione». I due partiti principali, prosegue Renzulli, condividono gli stessi valori fondamentali e i loro compiti si concentrano sulla selezione dei candidati con primarie aperte, sulla mobilitazione degli elettori e sull’informazione dell’opinione pubblica, sul controllo della maggioranza. Il caso tedesco, infine, – esaminato da Silvia Bolgherini, ricercatrice di Scienza politica presso l’Università Federico II di Napoli – è quello di uno Stato a cancellierato forte (Kanzlerdemokratie), che è stato caratterizzato, per gran parte della sua storia, da una grande stabilità – incentrata sulla dinamica bipolare dei «due partiti e mezzo» [SPD (socialdemocratici) e CDU/CSU (democristiani), con FDP (liberali) come ago della bilancia]. Oggi, afferma Bolgherini, anche a causa della crisi, che alimenta insofferenze e disagi, «cominciano a cambiare le condizioni sistemiche». Questo induce, secondo la ricercatrice, a ipotizzare che siamo all’inizio di una fase nuova nella storia politica tedesca, caratterizzata da sempre maggiore incertezza e fluidità – con i partiti classici sempre più in difficoltà a far fronte alle sfide e alle esigenze messe in moto anche dall’emergere di nuovi partiti (Piraten Partei e Alternative für Deutschland) –, che fa presagire un futuro sistema politico caratterizzato da maggioranze e coalizioni ancora più fluide o difficili.

Questi, in estrema sintesi, sono stati i passaggi principali dell’incontro seminariale, che – nell’intenzione dei suoi organizzatori – doveva costituire un momento di riflessione aperta, interdisciplinare e inclusiva. Come ha dichiarato De Maria, a conclusione dei lavori: «Credo che la formazione politica abbia un compito da svolgere in questo percorso» verso un’idea condivisa di partito e verso una visione comune di società. «La formazione in un partito – ha affermato De Maria – resta sempre e soprattutto la leva principale per condividere una cultura politica e il tema di come nel PD si costruisce una nuova cultura politica condivisa è ancora in buona parte da svolgere».

Bologna 28 aprile 2015

fonte VALORE LAVORO

 

2014-2020 SALUTE E SICUREZZA SUL LAVORO . ESISTE ANCORA UNA STRATEGIA EUROPEA? GLI ATTI

Atti del Convegno in formato audio .wav
 
2014-2020 Salute e sicurezza sul lavoro . Esiste ancora una strategia Europea?
 
Italia ed Europa a confronto: tendenze delle strategie su Salute e sicurezza sul lavoro  fra mercato e diritto alla salute .
 
Convegno promosso dalla Cgil Emilia Romagna – 20 aprile 2015
 
 
– Introduzione di Andrea Caselli  Responsabile Area Salute Sicurezza Lavoro Cgil Emilia Romagna Audio 
 
– Relazione di Laurent Vogel ,  Ricercatore presso l’Unità Condizioni di lavoro, Salute e Sicurezza dell’Istituto Sindacale Europeo ETUI
“Come rilanciare la politica europea di salute e sicurezza dopo dieci anni di paralisi ” AUDIO
 
Interventi preordinati
 
Dott.ssa Lalla Bodini , Società Nazionale degli Operatori della Prevenzione Audio 
 
– Giuseppe Monterastelli – Assessorato politiche per la Salute Regione Emilia Romagna Audio 
 
– Gino Rubini – Rivista on-line “Diario  per la Prevenzione” Audio 
 
– Sebastiano Calleri – CGIL Nazionale  Audio 
 
Dibattito e interventi dal pubblico
 
– Fulvio Ferri , medico del lavoro, Asl Reggio Emilia  Audio 
 
Donatella Ianelli , avvocato  Audio 
 
Luca Lenzi, Rls Basf Pontecchio Marconi  Audio 
Nanda Mantovani , Ambiente Lavoro E.R. Audio 
 Merli , Rls Lamborghini Auto  Audio 
 
Rls Coop Estense  Audio
 
Rappresentante AIAS  Emilia Romagna Audio
 
Dibattito e risposte dei relatori  Audio 
 
– Conclusioni di Antonio Mattioli , Segretario Cgil ER  Audio 

 

Un no all’uomo di vetro !!

Un no all’uomo di vetro !!

I lavoratori non sono uomini e donne di vetro, trasparenti e scrutabili all’interno per misurarne la conformità alle esigenze aziendali . Questo desiderio malsano di potere di controllo è stato in qualche misura bloccato da una raccomandazione del Consiglio d’Europa che pone dei limiti al potere delle aziende di “monitorare” i lavoratori. La disinvoltura del governo nel concedere alle aziende, nel Jobs Act, i controlli a distanza sui lavoratori tramite gli strumenti di lavoro elettronici ( pc, smartphone, sistemi di geolocalizzazione nei trasporti, bracciali elettronici e chip inseriti nelle scarpe da lavoro e …altro ancora ) ha subito, sia pure indirettamene, una censura severa da parte del Consiglio d’Europa

La raccomandazione del Consiglio d’Europa non mette in discussione le strumentazioni di controllo “difensive” ai fini della sicurezza aziendale, mette invece in discussione, come si evince dal documento, tutte quelle azioni di “monitoraggio” che consentono all’impresa di costruire un “profilo” del lavoratore che va ben oltre la relazione di lavoro. Le tecniche di profilazione dei comportamenti sono ora accessibili con software a basso costo e possono divenire strumenti di violazione della privacy della persona per aspetti che poco hanno a che fare con la prestazione lavorativa. Il rischio di una violazione di massa della privacy è stata la preoccupazione che verosimilmente ha mosso il Consiglio dei ministri europei.

Una preoccupazione che ha origine dalla cultura liberale classica ( non neoliberista ) in questo caso è tornata utile ai lavoratori. Una cultura liberale che pare non essere patrimonio dei nostri governanti. L’equazione che i lavoratori italiani sono anche cittadini europei portatori di diritti, tra i quali quello della privacy, non ha neppure sfiorato la mente di Renzi e Poletti e dei loro illustri consulenti giuridici.

Il Jobs Act apriva le porte ad un uso disinvolto delle nuove tecnologie per il controllo a distanza dei lavoratori. Dal Consiglio d’Europa è arrivato uno stop con un chiaro divieto ai datori di lavoro di monitorare e raccogliere dati sensibili dei loro dipendenti. Questo non è l’unico limite che le aziende dovranno rispettare per non invadere la vita privata dei loro dipendenti. Nella raccomandazione del Consiglio dei ministri europei vi sono poi una serie di paletti sia rispetto al controllo della corrispondenza sia rispetto all’utilizzo di queste informazioni raccolte tramite le nuove tecnologie di tracciamento presenti in molte macchine elettroniche.

E’ probabile che i decreti attuativi del Jobs Act in materia di controlli a distanza subiscano un forte ritardo se non un prudenziale accantonamento: sarebbe saggio e sarebbe auspicabile che il governo desse ascolto alla raccomandazione del Consiglio d’Europa.

Oltre il lavoro, su questa tematica dei controlli a distanza o meglio sulle potenzialità di profilazione delle persone tramite i comportamenti in rete, in particolare sui social network, sarebbe opportuna una campagna d’informazione preventiva che suggerisse alle persone di non consegnare inconsapevolmente un insieme di dati che organizzati divengono un profilo che può essere giocato contro di loro.

Sono troppi i giovani che raccontano i propri fatti privati in rete e sono molti gli addetti degli uffici del personale delle aziende che vanno a ricercare informazioni in rete sui candidati ad un’assunzione e a volte qualcuno viene escluso proprio in ragione dell’immagine che ha dato di sè su facebook o twitter.

Gino Rubini

fonte diario prevenzione

Nella cabina di pilotaggio: l’epurazione di malati e malattie

Cabina Airbus A320

di Franco Bifo Berardi

Dicono che il giovane pilota Andreas Lubitz avesse sofferto di crisi depressive e avesse tenuto nascoste le sue condizioni psichiche all’azienda per cui lavorava, la Lufthansa. I medici consigliavano un periodo di assenza dal lavoro. La cosa non è affatto sorprendente: il turbo-capitalismo contemporaneo detesta coloro che chiedono di usufruire dei permessi di malattia, e detesta all’ennesima potenza ogni riferimento alla depressione.

epresso io? Non se ne parli neanche. Io sto benissimo, sono perfettamente efficiente, allegro, dinamico, energico, e soprattutto competitivo. Faccio jogging ogni mattina, e sono sempre disponibile a fare straordinario. Non è forse questa la filosofia del low cost? Non suonano forse le trombe quando l’aereo decolla e quando atterra? Non siamo forse circondati ininterrottamente dal discorso dell’efficienza competitiva? Non siamo forse quotidianamente costretti a misurare il nostro stato d’animo con l’allegria aggressiva delle facce che compaiono negli spot pubblicitari? Non corriamo forse il rischio di essere licenziati se facciamo troppe assenze per malattia?

Adesso i giornali (gli stessi giornali che da anni ci chiamano fannulloni e tessono le lodi della rottamazione degli inefficienti) consigliano di fare maggiore attenzione nelle assunzioni. Faremo controlli straordinari per verificare che i piloti d’aereo non siano squilibrati, matti, depressi, maniaci, malinconici tristi e sfigati. Davvero? E i medici? E i colonnelli dell’esercito? E gli autisti dell’autobus? E i conducenti del treno? E i professori di matematica? E gli agenti di polizia stradale?

Epureremo i depressi. Epuriamoli. Peccato che siano la maggioranza assoluta della popolazione contemporanea. Non sto parlando dei depressi conclamati, che pure sono in proporzione crescente, ma di coloro che soffrono di infelicità, tristezza, disperazione. Anche se ce lo dicono raramente e con una certa cautela l’incidenza delle malattie psichiche è cresciuta enormemente negli ultimi decenni, e il tasso di suicidio (secondo il rapporto del World Health Organization) è cresciuto del 60% (wow) negli ultimi quarant’anni.

Quaranta anni? E che potrà mai significare? Che cosa è successo negli ultimi quarant’anni perché la gente corra a frotte verso la nera signora? Forse ci sarà un rapporto tra questo incredibile incremento della propensione a farla finita e il trionfo del Neoliberismo che implica precarietà e competizione obbligatoria? E forse ci sarà un rapporto anche con la solitudine di una generazione che è cresciuta davanti allo schermo ricevendo continui stimoli psico-informativi e toccando sempre di meno il corpo dell’altro? Non si dimentichi che per ogni suicidio realizzato ce ne sono circa venti tentati senza successo. E non si dimentichi che in molti paesi del mondo (anche in Italia) i medici sono invitati a essere cauti nell’attribuire una morte al suicidio, se non ci sono prove evidenti dell’intenzione del deceduto. E quanti incidenti d’auto nascondono un’intenzione suicida più o meno cosciente?

Non appena le autorità investigative e la compagnia aerea hanno rivelato che la causa del disastro aereo sta nel suicidio di un lavoratore che ha sofferto di crisi depressive e le ha tenute nascoste, ecco che in Internet si è messo in marcia il solito esercito di cospirazionisti. “Figuriamoci se ci credo”, dicono quelli che sospettano il complotto. Ci deve essere dietro la CIA, o forse Putin, o magari semplicemente un gravissimo errore della Lufthansa che ci vogliono tenere nascosto. Un vignettista che si firma Sartori e crede di essere molto spiritoso mostra un tizio che legge il giornale e dice: “Strage Airbus: responsabile il copilota depresso”.

Poi aggiunge: Fra poco diranno che anche l’ISIS è fatta da depressi”. 
Ecco, bravo. Il punto è proprio questo: il terrorismo contemporaneo può avere mille cause politiche, ma la sola causa vera è l’epidemia di sofferenza psichica (e sociale, ma le due cose sono una) che si sta diffondendo nel mondo. Si può forse spiegare il comportamento di uno shaheed, di un giovane che si fa esplodere per uccidere una decina di altri umani in termini politici, ideologici, religiosi? Certo che si può, ma sono chiacchiere. La verità è che chi si uccide considera la vita un peso intollerabile, e vede nella morte la sola salvezza, e nella strage la sola vendetta.

Un’epidemia di suicidio si è abbattuta sul pianeta terra, perché da decenni si è messa in moto una gigantesca fabbrica dell’infelicità cui sembra impossibile sfuggire. Quelli che dappertutto vedono un complotto dovrebbero smetterla di cercare una verità nascosta, e dovrebbero invece interpretare diversamente la verità evidente. Andreas Lubitz si è chiuso dentro quella maledetta cabina di pilotaggio perché il dolore che sentiva dentro si era fatto insopportabile, e perché accusava di quel dolore i centocinquanta passeggeri e colleghi che volavano con lui, e tutti gli altri esseri umani che come lui sono incapaci di liberarsi dall’infelicità che divora l’umanità contemporanea, da quando la pubblicità ci ha sottoposto a un bombardamento di felicità obbligatorio, da quanto la solitudine digitale ha moltiplicato gli stimoli e isolato i corpi, da quando il capitalismo finanziario ci ha costretto a lavorare il doppio per guadagnare la metà.

Questo testo è stato pubblicato su Commonware il 30 marzo 2015

La Fiom sfida Renzi: la partita non è finita

La Fiom sfida Renzi: la partita non è finita
di Loris Campetti ( da area7.ch )

Il segretario lo chiama “il genio di Firenze” e gli consiglia di «stare sereno perché voti di fiducia e varo del Jobs Act non ci fermano». Il delegato vuole essere ancora più esplicito, «è il califfo di Firenze». Il chirurgo in collegamento dalla Sierra Leone dove dirige uno degli avamposti nella lotta contro Ebola dice con la schiettezza che lo contraddistingue: «Ho preso la tessera della Fiom, uno dei pochi rimasugli della democrazia, e ne sono orgoglioso perché è una delle poche organizzazioni che può contrastare la cancellazione dei diritti, la deriva dell’indifferenza, la violenza quotidiana che è entrata nella nostra società come l’Ebola. Condivido l’idea di aggregare intorno al vostro sindacato tutte le persone per bene che vogliono cambiare questo paradigma, per affermare i diritti, il sociale, l’uguaglianza. Io sono con voi».
Il segretario è Maurizio Landini, il delegato uno dei 600 rappresentanti dei lavoratori metalmeccanici riuniti a Cervia per costruire una coalizione sociale in grado di disegnare una nuova primavera della democrazia, contro l’offensiva reazionaria senza precedenti dalla caduta del fascismo guidata dalla coalizione confindustriale di Matteo Renzi, il genio, o forse il califfo di Firenze. Il chirurgo è naturalmente Gino Strada, uno dei principali interlocutori di Landini, insieme con il presidente di Libera e fondatore del Gruppo Abele don Luigi Ciotti, e un bello schieramento di giuristi, giuslavoristi, costituzionalisti della forza di Rodotà, Zagrebelsky, Romagnoli. Ci sono gli studenti di sinistra impegnati contro la trasformazione del sapere in impresa capitalistica, c’è la bombardata costellazione del precariato. Se una fabbrica metalmeccanica chiude e i suoi dipendenti vengono licenziati, quegli operai smettono di essere metalmeccanici? E la Fiom dovrebbe smettere di seguirli e rappresentarli? Così, semplicemente com’è suo costume Landini spiega l’esigenza che il sindacato compia un salto di paradigma aiutando la costruzione di una coalizione sociale di chi lavora, o non lavora più, o non riesce a trovare un lavoro o ad andare in pensione. Di chi è il bersaglio del liberismo all’italiana ed è spinto a individuare il suo nemico tra coloro che dovrebbero essere i suoi compagni, di chi non può più curarsi perché la salute è diventata un lusso per pochi o non può più permettersi di mandare all’università i figli. In poche parole, una coalizione sociale di chi non ha rappresentanza politica nell’Italia renziana, per unire ciò che il renzismo-marchionnismo divide e contrappone.

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A proposito di merito di Bruno Trentin, 13 Luglio 2006

In quest’epoca nella quale si discute e si polemizza  anche sull’utilizzo della memoria di un grande leader riteniamo opportuno che si studino le carte e le argomentazioni autentiche di Bruno Trentin. La ricerca dei percorsi per l’affermazione della dignità del lavoro non può bypassare i nodi critici irrisolti affrontati da Trentin in quest’articolo del 13 luglio 2006 . editor

 

A proposito di merito di Bruno Trentin,13 Luglio 2006

Era stata respinta come una sostituzione della formazione e dell’educazione, che solo possono essere assunte come criterio di riconoscimento dell’attitudine di qualsiasi lavoratore di svolgere la funzione alla quale era candidato. Già Rousseau e, con lui, Condorcet respingevano con rigore qualsiasi criterio, diverso dalla conoscenza e dalla qualificazione specializzata, di valutazione del «valore» della persona e lo riconoscevano come una mera espressione di un potere autoritario e discriminatorio. Ma da allora, con il sopravvento nel mondo delle imprese di una cultura del potere e dell’autorità il ricorso al «merito» (e non solo e non tanto alla qualificazione e alla competenza accertata) ha sempre avuto il ruolo di sancire, dalla prima rivoluzione industriale al fordismo, il potere indivisibile del padrone o del governante, e il significato di ridimensionare ogni valutazione fondata sulla conoscenza e il «sapere fare», valorizzando invece, come fattori determinanti, criteri come quelli della fedeltà, della lealtà nei confronti del superiore, di obbedienza e, in quel contesto, negli anni del fordismo, dell’anzianità aziendale. Nella mia storia di sindacalista ho dovuto fare ogni giorno i conti la meritocrazia, e cioè con il ricorso al concetto di «merito», utilizzato (anche in termini salariali) come correttivo di riconoscimento della qualificazione e della competenza dei lavoratori. E, soprattutto negli anni 60 del secolo passato, quando mi sono confrontato con la struttura della retribuzione, alla Fiat e in altre grandi fabbriche e ho scoperto la funzione antisindacale degli «assegni» o «premi» di merito, quando questi, oltre a dividere i lavoratori della stessa qualifica o della stessa mansione, finirono per rappresentare un modo diverso di inquadramento, di promozione e di comando della persona, sanzionato, per gli impiegati, da una divisione normativa, che nulla aveva a che fare con l’efficienza e la funzionalità, ma che sancivano fino agli anni 70 la garanzia del posto di lavoro e quindi la fedeltà all’impresa. Un sistema di inquadramento e di organizzazione del lavoro apertamente alternativo alla qualifica definita dalla contrattazione nazionale e aziendale. Ma molto presto questa utilizzazione dei premi di merito o dei premi tout court giunse alla penalizzazione degli scioperi e delle assenze individuali (anche per malattia), quando di fronte a poche ore di sciopero o alla conseguenza di un infortunio sul lavoro (mi ricordo bene una vertenza all’Italcementi a questo proposito), le imprese sopprimevano anche 6 mesi di premio. È questa concezione del merito, della meritocrazia, della promozione sulla base di una decisione inappellabile di un’autorità «superiore» che è stato cancellato con la lotta dei metalmeccanici nel ‘69 e con lo Statuto dei diritti del lavoro che nel 1970 dava corpo alla grande idea di Di Vittorio di dieci anni prima. Purtroppo una parte della sinistra, i parlamentari del Pci, si astennero al momento della sua approvazione, solo perché esclusa dalla partecipazione al Governo. Ma quello che è più interessante osservare è come, alla crisi successiva del Fordismo e alla trasformazione della filosofia dell’impresa, con la flessibilità ma anche con la responsabilità che incombe sul lavoratore sui risultati quantitativi e qualitativi delle sue opere, si sia accompagnato in Italia a una risorgenza delle forme più autoritarie del Taylorismo, particolarmente nei servizi, santificata non solo dal mito del manager che si fa strada con le gomitate e le stock options, ma dalla ideologia del liberismo autoritario. Con gli «yuppies» che privilegiano l’investimento finanziario a breve termine, ritorna così per gli strati più fragili (in termini di conoscenza) l’impero della meritocrazia. A questa nuova trasformazione (e qualche volta degrado) del sistema industriale italiano ha però contribuito, bisogna riconoscerlo, l’egualitarismo salariale di una parte del movimento sindacale, a partire dall’accordo sul punto unico di scala mobile, che ha offerto, in un mercato del lavoro in cui prevale la diversità (anche di conoscenze) e nel quale diventa necessario ricostruire una solidarietà fra persone e fra diversi, una sostanziale legittimazione alle imprese che hanno saputo ricostruire un rapporto diverso (autoritario ma compassionevole) con la persona sulla base di una incomprensibile meritocrazia. Non è casuale, del resto, che, di questi tempi, il concetto di merito, sinonimo di obbedienza e di dovere, abbia ritrovato un punto di riferimento nel sistema di promozione e di riconoscimento delle organizzazioni militari nel confronto del comportamento dei loro sottoposti. Le stesse osservazioni si possono fare per i «bisogni», contrapposti negli anni 60 del secolo scorso, alle domande che prevalgono nel vissuto dei cittadini nella società dei consumi. Era questa anche la convinzione di un grande studioso marxista come Paul Sweezy. Sweezy opponeva i «needs» (i bisogni reali, le necessità) ai «wants» (le domande, i desideri), attribuendo implicitamente ad uno stato illuminato e autoritario la selezione, «nell’interesse dei cittadini» fra gli uni e gli altri. Come se non fossero giunti i tempi in cui le domande e i desideri, pur influenzati dalla pubblicità, di fronte alle dure scelte e alle priorità imposte dalla condizione del lavoro e dalle lotte dei lavoratori si trasformano gradualmente in diritti universali, attraverso i quali, i cittadini, i lavoratori (non un padrone o uno stato illuminato), con il conflitto sociale, riuscirono a far progredire la stessa nozione di democrazia. Meriti e bisogni o capacità e diritti? Può sembrare una questione di vocabolario ma in realtà la meritocrazia nasconde il grande problema dell’affermazione dei diritti individuali di una società moderna. E quello che sorprende è che la cultura della meritocrazia (magari come antidoto alla burocrazia, quando la meritocrazia è il pilastro della burocrazia) sia riapparsa nel linguaggio corrente del centrosinistra e della stessa sinistra, e con il predominio culturale del liberismo neoconservatore e autoritario, come un valore da riscoprire. Mentre in Europa e nel mondo oltre che nel nostro paese, i più noti giuristi, i più noti studiosi di economia e di sociologia, da Bertrand Swartz a Amartya Sen, a Alain Supiot si sono affannati ad individuare e a riscoprire dei criteri di selezione e di opportunità del lavoro qualificato, capaci di riconciliare – non per pochi ma per tutti- libertà e conoscenza, di immaginare una crescita dei saperi come un fattore essenziale, da incoraggiare e da prescrivere, introducendo così un elemento dinamico nella stessa crescita culturale della società contemporanea. La «capability» di Amartya Sen non comporta soltanto la garanzia di una incessante mobilità professionale e sociale che deve ispirare un governo della flessibilità che non si traduca in precarietà e regressione. Ma essa rappresenta anche l’unica opportunità (solo questo, ma non è poco) di ricostruire sempre nella persona le condizioni di realizzare se stessa, «governando» il proprio lavoro. Perché questa sordità? Forse perché con una scelta acritica per la «modernizzazione», ci pieghiamo alla riesumazione – in piena rivoluzione della tecnologia e dei saperi – dei più vecchi dettami di una ideologia autoritaria. Forse qui si trova la spiegazione (ma mi auguro di sbagliare) della ragione per cui malgrado importanti scelte programmatiche del centrosinistra in Italia, per affermare una società della conoscenza come condizione non solo di «dare occupazione» ma anche per affermare nuovi spazi di libertà alle giovani generazioni, la classe dirigente, anche di sinistra, finisce per fermarsi, in definitiva, di fronte alla scelta, certo molto costosa, di praticare nella scuola e nell’Università ma anche nelle imprese e nei territori, un sistema di formazione lungo tutto l’arco della vita, aperto, per tutta la durata della vita lavorativa, come sosteneva il patto di Lisbona, a tutti i cittadini di ogni sesso di ogni età e di ogni origine etnica (e non solo per una ristretta élite di tecnici o di ricercatori, dalla quale è pur giusto partire). Speriamo che Romano Prodi che così bene ha iniziato questo mandato, sia capace di superare questa confusione di linguaggi, e di rompere questo handicap della cultura meritocratica del centro sinistra. Anche un auspicabile convegno sui valori, le scelte di civiltà di un nuovo partito aperto alle varie identità e alla storia dei partiti come della società civile, dovrebbe, a mio parere, assumere il governo e la socializzazione della conoscenza come insostituibile fattore di inclusione sociale.

Sinistra e PD. Un contributo d’analisi – di Carlo GALLI [relazione presentata alla Riunione delle sinistre Pd 21 marzo 2015]

Quella che un tempo si sarebbe detta la ‘fase’ ci mostra in atto, con le imponenti migrazioni tra gruppi parlamentari, e con lo sbando della destra, la decostruzione del sistema partitico, caratterizzata da un’intensità analoga a quella del biennio 1992-94; e al contempo l’affermarsi di un soggetto quasi post-partitico, il Pd di Renzi, che occupa una posizione centrale nel sistema politico, e vi funge, oltre che da architrave, anche da scambiatore di persone, di carriere, di poteri, in una prospettiva neo-trasformistica. Parallelamente a questo concorrere degli interessi forti, e di parte di quelli diffusi, verso il centro del sistema, si manifestano segnali crescenti di esclusione, sia nell’area istituzionale – dove all’esterno del Pd e delle forze che in vario modo e grado ne dipendono (il centro e il centro-destra; ma anche Sel non ha larghe prospettive autonome) c’è solo una protesta (Lega e M5S) che per la sua mancata spendibilità politica rafforza il Pd stesso – sia fuori dalle istituzioni, dove i cittadini non votanti sono ormai la maggioranza. Non è dunque ancora risolta la questione dei partiti, ovvero della rappresentanza e insieme della partecipazione, apertasi un quarto di secolo fa.

Eppure in questa debolezza della politica – troppo includente e al contempo troppo escludente – c’è evidentemente una forza, resa tale sia dallo stato di necessità, sia dall’abilità politica del leader del Pd e del governo, sia dall’assenza di alternative praticabili – in termini di personale politico e di programma –.
Una forza che fa sì che l’attuale fase veda anche operarsi, sia pure con fatica e in modo non ancora compiuto, una trasformazione della democrazia italiana: l’Italia sta infatti assumendo una nuova forma politica.
Sia chiaro che non si tratta di una forma di per sé autoritaria: l’alternativa fra democrazia e autoritarismo appartiene alla cattiva scienza politica e alla pigra filosofia politica. Fra i due corni di quell’alternativa c’è in realtà un vastissimo spazio di sfumature e di posizioni, in cui l’Italia sta occupando il quadrante di una speciale “democrazia d’investitura rafforzata” – rafforzata, s’intende, da un evento non formalmente costituzionale come l’appoggio quasi plebiscitario che i poteri economici e mediatici (peraltro largamente coincidenti) offrono al leader.

Le riforme in via di approntamento coinvolgono le tre facce dell’unico sistema di potere dei nostri giorni – la tripartizione di Montesquieu fra legislativo, esecutivo, giudiziario è infatti largamente obsoleta –: potere economico (qui si è intervenuti col jobs act sul mercato del lavoro, senza disturbare in alcun modo il capitale e la finanza), potere politico (riforma della costituzione e della legge elettorale), potere formativo e informativo (riforma della governance della Rai e della scuola).

I risultati sono, quanto al primo punto, la privatizzazione e la spoliticizzazione del lavoro (che divenendo affare personale – questo significano infatti la flessibilità e l’ideologia della protezione del lavoratore e non del posto di lavoro –, perde il rango di fondamento primario della democrazia repubblicana) e la sua subalternità reale al potere del capitale; durante la lunga fase delle tutele incomplete il lavoratore non sarà particolarmente combattivo, com’è ovvio supporre.

Quanto al secondo punto, la politicizzazione della Costituzione, che cessa di essere un’arena di istituzioni in cui, all’interno di un antifascismo originario e di un progressismo sistematico (l’art. 3 Cost.), le forze politiche si affrontano alla pari, e che – da una legge elettorale squilibrata e unica nel mondo occidentale – viene invece consegnata senza contrappesi significativi al vincitore delle elezioni politiche, organizzate come un breve duello che ha in palio il comando politico indisturbato fino alla scadenza della legislatura, quando si scatenerà una nuova resa dei conti per la successiva investitura.

E, quanto al terzo punto, si lascia invariato il dominio mediatico degli oligopoli economici, e anche la tendenza a trasformare la politica in spettacolo – in una logica di sistematico svilimento –, e sarà sottratta la Rai ai partiti e rafforzata la sua dipendenza dal potere politico, mentre la trasmissione scolastica di cultura si incentrerà sulle competenze, sulle abilità e sul problem solving. Come al primo punto si esclude il conflitto, e al secondo la politica in quanto attività complessa prolungata e diffusa, così al terzo punto si limita lo spirito critico: risolvere i problemi è importante, ma lo è ancora di più capire perché e come sono nati, a vantaggio e a svantaggio di chi.

A uno sguardo attento queste trasformazioni sembrano andare verso l’importazione in Italia dell’ideologia dei Trattati Ue, resa esplicita con la formula che vuole l’Europa impegnata a realizzare “un’economia sociale di mercato altamente competitiva” – l’esclusione del conflitto sociale, la costituzionalizzazione dell’equilibrio di bilancio, i parametri di Maastricht, l’orientamento all’esportazione, i bassi salari (gli 80 euro non invertono certo la rotta in modo significativo), vanno tutti in questa direzione -.

Un’ideologia moderata ma non certo autoritaria o antidemocratica, quindi; che si presenta in Italia con una curiosa e importante variante: i corpi intermedi (partiti, sindacati, associazioni economiche, burocrazie, Länder) che nello schema originario sono i perni strutturali della stabilità sistemica, da noi invece sono sotto attacco mediatico e politico, e pare prevalere un modello populista-democratico di leadership intensamente politica che fa appello direttamente al popolo scavalcando ogni mediazione, denigrata come ‘casta’. La differenza è grande, certo; e nasce dal fatto che, nonostante l’opera demolitoria di Berlusconi, per molti versi il lavoro di abbattimento delle strutture e delle mentalità ‘socialdemocratiche’ (partiti e sindacati) e ‘vetero-costituzionali’ (burocrazie e regolamenti) resta ancora da fare, ed ancora esige – agli occhi, ovviamente, di chi si assume l’onere politico di riformare l’Italia nella direzione indicata – un grande investimento di energia politica innovativa (impropriamente spesso elevata al rango di ‘decisionismo’, ma certamente debordante).

Resta da vedere, ed e’ un grande dilemma interpretativo e politico, se questo “quasi-decisionismo” sarà una fase transitoria, un accompagnamento verso la stabilità di un ordine nuovo, o se invece resterà la cifra di una politica restia (o inadatta) a precipitare in soluzioni ordinative, e tutta spostata verso l’attivismo e l’occasionalismo.

Se ci si chiede come si sia arrivati a ciò – al di là delle vicende più recenti, che hanno visto l’insuccesso elettorale del tentativo blandamente socialdemocratico di Bersani –, non si può non fare riferimento alla sconfitta storica della sinistra, maturata fra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, a opera della rivoluzione neoliberista che ha chiuso il ciclo rooseveltiano (o, per dirla all’europea, i Trenta gloriosi); e anche all’introiezione, fortissima, da parte delle sinistre europee, delle logiche e delle categorie analitiche del mercatismo imperante.
Che continua a imperare nonostante le sue contraddizioni (soprattutto due: esige molta più energia politica di quanto abbia mai ammesso, e in nome dell’individualismo riduce i singoli soggetti, e i loro diritti, a irrilevanza sociale ed esistenziale) e nonostante le sue crisi, che si abbattono sulle società occidentali come calamità naturali a cui si fatica molto a rispondere (e particolarmente fatica il modello ordoliberista europeo).

Di fatto, sia quando funzionava a regime sia quando e’ entrato in crisi, il sistema neoliberista ha prodotto, in Occidente, un grave logoramento del legame sociale, generando disuguaglianza e insicurezza tanto gravi da mettere a rischio l’auto-identificazione democratica della cittadinanza. E per di più sembra oggi che il legame si possa ricostituire intorno alla paura dei conflitti e dei terrorismi che terribili squilibri geo-strategici hanno ormai portato alle soglie di casa. Un contesto di impoverimento e di paura che certo non aiuta la sinistra

Non facile, com’è evidente, individuare se non rimedi, se non un programma, almeno alcune strategie sensate e coerenti da parte di una sinistra che non pare godere, nemmeno a livello europeo, di particolare fortuna e consenso. E che nondimeno dovrà affrontare l’ experimentum crucis dell’identità, ovvero della contrapposizione consapevole allo stato di cose esistente, e della prassi, ovvero della responsabilità governante.

Tutto ciò esige che chi si oppone al ciclo politico in corso, e alle sue scelte qualificanti, sia prima di tutto all’altezza, intellettuale politica comunicativa, del compito. Ovvero che si renda ben conto della posta in gioco, tanto politica (la forma costituzionale del Paese) quanto sociale (l’esigenza di cambiare politiche economiche o inesistenti o finalizzate a parametri che non tengono conto dell’occupazione). E che si ponga apertamente l’obiettivo, l’unico che la sinistra può realisticamente darsi, di ricostruire il legame sociale e la tenuta democratica del Paese a partire dal lavoro, e dall’obiettivo dell’impiego produttivo di massa e, perché no, dalla difesa del sistema industriale italiano.

A tal fine si devono accettare alcune sfide.
La prima e’ quella delle riforme, la cui esigenza prescinde dall’Europa. E’ la storia delle nostre debolezze, della fase terminale della Prima repubblica e di gran parte della Seconda, che ce le impone. Ma se cambiare si deve, non si tratta però di cambiare per il gusto di cambiare (e’ già stato fatto) ne’ per adeguare il Paese a incomprensibili (o comprensibilissimi) diktat transalpini. Il fatto è che ‘riforme’ e ‘innovazione’ sono termini ambigui: ogni riforma può essere impostata secondo direzioni diverse, e ha conseguentemente costi sociali diversamente distribuiti: e finora i costi sono stati pagati dai deboli, che lo sono divenuti ancora di più. La coppia oppositiva vecchio/nuovo non può sostituire quella di destra/sinistra. Quindi, e’ ora di chiedersi apertamente “quali riforme”? “Riforme per chi?”.
La seconda sfida consiste nell’uscire dal concetto di ‘minoranza’, che è solo numerico e aritmetico, e non ha rilievo qualitativo, politico. Devono cessare le ambiguità e le incertezze della politica (delle sinistre) intesa come proclamazione di penultimatum, come posizionamento interno, come contrattazione degli emendamenti (in certi casi utili, non lo si nega, ma confinati per loro natura in un’ottica di riduzione del danno, di male minore). La sinistra deve unirsi, almeno a livello di un tavolo permanente di coordinamento, per prendere l’iniziativa, individuando un diverso orizzonte culturale e sociale. Il reddito di cittadinanza, nelle forme appropriate, può essere un’occasione di nuovo protagonismo. Ma lo dovrà essere anche un’elaborazione sul Ttip, snodo strategico a cui non si riflette a sufficienza, e sulla scuola, altrettanto centrale e urgente. E, non ultimo, una battaglia critica e culturale per ridisegnare linguaggi, concetti e categorie (senza ambire all’egemonia, ma per costruire un pluralismo reale).

La terza sfida consiste nel declinare la necessaria centralità della politica (a ogni pulsione antipolitica che si realizza un esponente dei poteri forti si frega le mani) articolandola su tre livelli. Quello del leader (che a sinistra c’è sempre stato), quello della individuazione di un’area sociale di riferimento (la sinistra non può coincidervi, ma non può prescinderne) e quello del partito.
A proposito del quale ci si deve chiedere come una prospettiva di sinistra possa manifestarsi efficacemente in un partito a vocazione maggioritaria se questo anziché essere una delle due grandi forze in campo (secondo i canoni della democrazia competitiva) e’, come oggi avviene del Pd, l’unica forza politica di rilievo, circondato da partiti anti-sistema sotto il 20%. Il che lo porta appunto alla condizione descritta in apertura, di essere cioè un partito pigliatutti, progressivamente sempre più centrista, che si autoproclama partito della Nazione mentre della Nazione non rappresenta che un quarto.
Alla sinistra, dunque, il compito di includere efficacemente il lavoro e i giovani in un orizzonte più vasto e più connotato.

fonte essereasinistra.it

Florence Jaumotte e Carolina Osorio Buitron (FMI): Declino dei sindacati e aumento nelle disuguaglianze nei redditi

Florence Jaumotte e Carolina Osorio Buitron (FMI): Declino dei sindacati e aumento nelle disuguaglianze nei redditi (da inchiestaonline.it )

La traduzione di questo testo scritto da due economiste senior del Fondo Monetario Internazionale
L’aumento delle disuguaglianze nei redditi è legato al declino dei sindacati. Lo dice il Fondo Monetario Internazionale in un paper in uscita prossimamente e firmato da due senior economists dell’organizzazione, Florence Jaumotte e Carolina Osorio Buitron (http://www.imf.org/external/pubs/ft/fandd/2015/03/pdf/jaumotte.pdf). Le due autrici sostengono che esiste una forte evidenza del fatto che tassi più bassi si sindacalizzazione siano correlati con un aumento della fetta di reddito che va al 10% più ricco della popolazione. Nel periodo 1980–2010 tale quota è aumentata di circa 5 punti percentuali nelle economie avanzate e secondo Jaumotte e Buitron “il calo della sindacalizzazione spiega circa la metà di tale aumento”. Il meccanismo che spiega questa correlazione si basa sulla riduzione del potere dei lavoratori: una riduzione della partecipazione dei lavoratori ai sindacati riduce il loro potere contrattuale e sposta la bilancia della distribuzione del reddito a favore dei più ricchi, ossia i detentori del capitale. Di conseguenza, il reddito prodotto annualmente si concentra ai livelli più alti della scala salariale, aumentando le diseguaglianze.

Non è la prima volta che istituzioni tradizionalmente assai lontani dal movimento operaio riconoscono il ruolo fondamentale giocato dalle organizzazioni sindacali nel promuovere una redistribuzione della ricchezza. Qualche mese fa, Nicholas Kristof, giornalista del New York Times per sua stessa ammissione sospettoso nei confronti dei sindacati, ha affermato di essere stato in errore nella sua visione negativa. In particolare, il giornalista riconosce il ruolo delle organizzazioni sindacali nel ridurre le diseguaglianze nella società americana. Del resto, analisi che evidenziano la relazione fra la riduzione dei tassi di sindacalizzazione e l’aumento delle diseguaglianze non sono certamente mancate negli ultimi anni (si vedano, ad esempio, gli articoli di Bruce Western e Jake Rosenfeld sull’American Sociological Review (http://asr.sagepub.com/content/76/4/513.abstract) o di Jonas Pontusson sul British Journal of Industrial Relations (http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/bjir.12045/abstract)). In un contributo del 2011, la stessa OCSE, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, aveva riconosciuto che la riduzione del numero di lavoratori iscritti al sindacato contribuisce a un aumento delle diseguaglianze (http://www.oecd.org/els/soc/dividedwestandwhyinequalitykeepsrising.htm). La rilevanza di questo contributo, tuttavia, non sta solo nell’organizzazione da cui tale contributo emana, quel Fondo Mondiale Internazionale, promotore di quelle politiche neoliberali tanto ostili alle organizzazioni sindacali, ma anche nelle conclusioni politiche che le due autrici traggono dalle proprie analisi. Secondo le due economiste, infatti, una delle politiche da adottare per ridurre le diseguaglianze riguarderebbe proprio la “riaffermazione di quelle norme che permettono ai lavoratori che vogliono di contrattare collettivamente”. Detto in altri termini, il rafforzamento delle organizzazioni sindacali.

Questa inedita presa di posizione da parte dell’FMI è una novità che smentisce clamorosamente le posizioni avanzate da molti economisti (e condivise dalla maggior parte degli opinionisti) secondo cui le organizzazioni sindacali sarebbero un ostacolo alla crescita economica e, in ultima istanza, anche alla redistribuzione della maggior ricchezza prodotta. L’analisi si aggiunge alla precedente autocritica dell’FMI (http://www.imf.org/external/pubs/cat/longres.aspx?sk=40200.0) in tema di politiche di austerity che aveva mostrato gli effetti deleteri di tali politiche sull’economia. Come anche in quel caso, resta tuttavia alquanto improbabile che una nuova e differente analisi produca un cambio di linea politica. Osservazione, questa, che ci deve ulteriormente far interrogare sulle condizioni che sostengono quella che Colin Crouch ha definito la “strana non-morte” del neoliberismo.

Traduzione del testo ( http://www.imf.org/external/pubs/ft/fandd/2015/03/pdf/jaumotte.pdf)

La disuguaglianza è aumentata in molte economie avanzate a partire dagli anni Ottanta, soprattutto a causa della concentrazione del reddito ai livelli più alti della distribuzione. Le misure della disuguaglianza sono aumentate in maniera considerevole, ma lo sviluppo più eclatante è il grande e costante aumento della quota di reddito totale che va al 10 per cento più ricco della popolazione che guadagna di più – un fenomeno solo parzialmente catturato dalla più tradizionale misura della disuguaglianza, il coefficiente di Gini (vedi figura 1). Il coefficiente di Gini è una misura riassuntiva che stima la differenza media di reddito fra gli individui nella distribuzione della ricchezza. Prende il valore zero se la ricchezza di un Paese è egualmente distribuita fra i suoi abitanti e di 100 (o 1) se una persona dispone di tutto il reddito.

Mentre un po’ di disuguaglianza può aumentare l’efficienza, rafforzando gli incentivi a lavorare e investire, ricerche recenti suggeriscono che alti livelli di disuguaglianza sono associati a livelli più bassi di crescita economica e a una crescita economica meno sostenibile nel medio termine (Berg e Ostry, 2011; Berg, Ostry, e Zettelmeyer, 2012), anche nelle economie avanzate (OCSE, 2014). Inoltre, una crescente concentrazione del reddito nella parte superiore della distribuzione può ridurre il benessere di una popolazione, se permette alle persone che guadagnano di più di manipolare il sistema economico e politico in loro favore (Stiglitz, 2012).

Le spiegazioni tradizionali dell’aumento della disuguaglianza nelle economie avanzate fanno riferimento a fattori quali il cambiamento tecnologico (il cosiddetto skill biased technological change, ndr) e la globalizzazione, che hanno aumentato la domanda relativa di lavoratori qualificati, beneficiando chi guadagna di più rispetto alla media. Ma la tecnologia e la globalizzazione favoriscono la crescita economica e c’è poco che i politici possono o sono disposti a fare per invertire queste tendenze. Inoltre, mentre i Paesi ad alto reddito sono stati colpiti in modo simile dal cambiamento tecnologico e dalla globalizzazione, la diseguaglianza in queste economie è cresciuta a diverse velocità e ordini di grandezza.

Di conseguenza, la ricerca economica si è recentemente concentrata sugli effetti dei cambiamenti istituzionali, con la deregolamentazione finanziaria e la diminuzione dell’aliquota marginale massima sul reddito personale spesso citati come i più importanti contributi alla crescita della disuguaglianza. Al contrario, il ruolo svolto dalle istituzioni del mercato del lavoro – come la riduzione del tasso di sindacalizzazione e del salario minimo rispetto al reddito mediano – ha caratterizzato in maniera meno prominente i dibattiti più recenti. In un documento di prossima pubblicazione guardiamo proprio a questa parte dell’equazione.

Esaminando le cause della crescita delle disuguaglianze, ci focalizziamo sul rapporto tra le istituzioni del mercato del lavoro e la distribuzione del reddito, analizzando l’esperienza delle economie avanzate a partire dal 1980. La visione più comunemente accettata è che i cambiamenti nella sindacalizzazione o nel salario minimo interessano i lavoratori a basso e medio salario, ma è improbabile che essi abbiano un impatto diretto sui percettori dei redditi più alti.

Mentre i nostri risultati sono coerenti con precedenti affermazioni sugli effetti del salario minimo, abbiamo trovato forte evidenza che la riduzione della sindacalizzazione è associata all’aumento della quota di reddito ai più ricchi nelle economie avanzate durante il periodo 1980-2010 (per esempio, si veda Tabella 2), mettendo quindi in discussione le idee sui canali attraverso i quali la densità sindacale influenza la distribuzione del reddito. Questo è l’aspetto maggiormente innovativo della nostra analisi, che pone le basi per ulteriori ricerche sul legame fra l’indebolimento dei sindacati e l’aumento della disuguaglianza.

Cambiamenti al vertice

La ricerca economica ha messo in luce diversi canali attraverso i quali i sindacati e il salario minimo possono influenzare la distribuzione dei redditi a livelli bassi e medi, fra cui la dispersione

dei salari, la disoccupazione e la redistribuzione. Nel nostro studio, tuttavia, consideriamo anche la possibilità che sindacati più deboli possono portare a quote maggiori di ricchezza per i percettori di redditi più alti e formuliamo ipotesi per spiegare questo fenomeno.

I principali canali attraverso cui le istituzioni del mercato del lavoro possono influenzare le diseguaglianze di reddito sono i seguenti.

Dispersione salariale

si crede che sindacalizzazione e salari minimi possano ridurre la disuguaglianza aiutando a equalizzare la distribuzione dei salari, e la ricerca economica lo conferma.

Disoccupazione

Alcuni economisti sostengono che, mentre sindacati più forti e un salario minimo più elevato riducono la disuguaglianza dei salari, essi possono anche aumentare la disoccupazione mantenendo i salari al di sopra dei livelli consoni al mercato e portando quindi a una maggiore disparità di reddito. Ma il sostegno empirico per questa ipotesi non è molto forte, almeno per quanto si osserva nelle economie avanzate (vedi Betcherman, 2012; Baker et al., 2004; Freeman, 2000; Howell ed altri, 2007; OCSE, 2006). Per esempio, in una review di 17 studi, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico ha trovato che solo 3 di questi confermano l’associazione tra densità sindacale (o copertura della contrattazione) e aumento della disoccupazione complessiva.

Ridistribuzione

sindacati forti possono indurre i politici a impegnarsi per una maggiore redistribuzione mobilitando i lavoratori a votare per i partiti che promettono di ridistribuire il reddito o spingendo tutti i partiti politici a farlo. Storicamente, i sindacati hanno svolto un ruolo importante nell’introduzione di fondamentali diritti sociali e del lavoro. Al contrario, l’indebolimento dei sindacati può portare a meno redistribuzione e maggiore disuguaglianza di reddito netto (cioè, la disuguaglianza di reddito dopo le imposte e trasferimenti).

Potere contrattuale dei lavoratori e quote di reddito ai livelli superiori

Una riduzione della sindacalizzazione può aumentare la quota di reddito ai livelli superiori, riducendo il potere contrattuale dei lavoratori. Naturalmente, la quota di reddito ai livelli superiori è meccanicamente influenzata da ciò che accade nel parte inferiore della distribuzione del reddito. Se la riduzione della sindacalizzazione riduce i guadagni per i lavoratori, aumenta necessariamente la quota del reddito dei dirigenti aziendali e i rendimenti per gli azionisti. Intuitivamente, l’indebolimento dei sindacati riduce il potere contrattuale dei lavoratori relativamente ai detentori di capitale, aumentando la quota di ricchezza che va al capitale – che è più concentrato nella parte superiore della distribuzione del reddito rispetto a quella derivante da salari e stipendi. Inoltre, sindacati più deboli possono ridurre l’influenza dei lavoratori sulle decisioni aziendali che beneficiano i percettori dei redditi più alti, come la dimensione e la struttura delle retribuzioni dei dirigenti.

Per studiare il ruolo della sindacalizzazione e del salario minimo nella crescita della disuguaglianza, abbiamo usato tecniche econometriche su un campione che comprende tutte le economie avanzate per le quali sono disponibili dati relativi agli anni dal 1980 al 2010. Abbiamo esaminato il rapporto tra le varie misure di disuguaglianza (quota di reddito al 10% più ricco, indice Gini dei redditi lordi, indice Gini dei redditi netti) e le istituzioni del mercato del lavoro, introducendo diverse variabili di controllo. Le variabili di controllo riguardano altri importanti fattori che influenzano la disuguaglianza, come la tecnologia, la globalizzazione, la liberalizzazione finanziaria e le aliquote marginali sul reddito personale.

I nostri risultati confermano che il declino della sindacalizzazione è fortemente associato con l’aumento della quota di reddito per i livelli superiori. Nonostante sia difficile stabilire l’esistenza di nessi causali, il calo della sindacalizzazione sembra essere un fattore chiave per spiegare questo fenomeno. Questa constatazione vale anche dopo aver tenuto conto dei cambiamenti nel potere politico, delle variazioni nelle norme sociali in materia di disuguaglianza, dei cambiamenti nella distribuzione settoriale del lavoro (come la deindustrializzazione e il crescente ruolo del settore finanziario), e degli aumenti dei livello d’istruzione. La relazione tra la densità sindacale e il coefficiente Gini sui redditi lordi è parimenti negativa, ma un po’ più debole. Questo potrebbe essere causato dal fatto che l’indice Gini sottostima gli aumenti delle disuguaglianze nella parte superiore della distribuzione del reddito.

Abbiamo anche trovato che la riduzione della sindacalizzazione è associata con meno redistribuzione del reddito e che le riduzioni dei minimi salari aumentano la disuguaglianza complessiva in maniera notevole.

In media, il calo della sindacalizzazione spiega circa la metà dell’aumento di 5 punti percentuali della quota di ricchezza per il 10 per cento più ricco. Analogamente, circa la metà dell’aumento dell’indice Gini relativo ai redditi netti è guidato dalla riduzione della sindacalizzazione.

Nuove piste di ricerca

Il nostro studio si concentra sulla sindacalizzazione come misura del potere contrattuale dei lavoratori. Al di là di questa semplice misura, più ricerca è necessaria per indagare quali aspetti della sindacalizzazione (per esempio, la contrattazione collettiva, l’arbitrato) hanno maggiori effetti e se alcuni aspetti possono essere più dannosi per la produttività e la crescita economica.

Se l’aumento della disuguaglianza causato dall’indebolimento dei sindacati è un bene o un male per la società rimane poco chiaro. Mentre l’aumento della quota del reddito ai redditi più alti potrebbe riflettere un aumento relativo della loro produttività (diseguaglianza buona), la retribuzione dei top earners potrebbe essere maggiore del loro contributo alla crescita economica, riflettendo ciò che gli economisti chiamano “estrazione di una rendita” (disuguaglianza cattiva). La disuguaglianza potrebbe anche danneggiare la società, consentendo ai redditi più alti di manipolare il sistema economico e politico.

In questi casi, ci sarebbero buoni motivi per un’azione da parte dei governi. Tale azione potrebbe includere una riforma nel sistema di corporate governance che dia a tutte le parti interessate (lavoratori, dirigenti e azionisti) voce nelle decisioni sulla retribuzione dei manager; una migliore definizione delle retribuzioni legate ai risultati, soprattutto nel settore finanziario; e una riaffermazione di quelle norme del lavoro che permettono ai lavoratori che lo vogliono di contrattare collettivamente.

Disastro ambientale abusivo: è come dare una licenza per inquinare

Disastro ambientale abusivo: è come dare una licenza per inquinare

Inquinamento - Immagine dell'Istituto Calvinodi Gianfranco Amendola
“Fuori dai casi previsti dall’articolo 434, chiunque abusivamente cagiona un disastro ambientale è punito con la reclusione da 5 a 15 anni”. Questo è il testo del nuovo articolo 452-quater del codice penale contenuto nella proposta sui delitti ambientali che sta per essere definitivamente approvata alla Camera.Avremo, così, unico Paese al mondo, il delitto di disastro ambientale “abusivo”, e cioè un disastro che può essere punito solo se commesso “abusivamente”. Altrimenti, il fatto non sussiste e l’imputato viene assolto. È evidente, infatti, che punire solo chi cagiona abusivamente un disastro ambientale o un inquinamento rilevante, significa, al contrario, accettare che possa essere lecito o, addirittura, autorizzato un disastro ambientale (con morti, devastazioni, eccetera). Purché non sia “abusivo”.

La realtà è che questa è la risposta dei poteri forti alle varie vicende Ilva, Eternit e così via con la chiara scelta di estromettere la magistratura da qualsiasi possibile intervento. Basta che una attività industriale abbia avuto dalla pubblica amministrazione un’autorizzazione e si può fare di tutto, anche a rischio della incolumità pubblica. Insomma, non evitare il disastro ma legittimarlo.

Se qualcuno è interessato, mi permetto di segnalare un mio articoletto appena uscito su Lexambiente a questo link. Se siete indignati quanto me, vi prego, cerchiamo di fare qualcosa finchè è ancora possibile. Facciamo un appello, una raccolta di firme, un dibattito pubblico.

Io tra poco vado in pensione ma ci sono i nostri figli e nipoti. E, francamente, sarei orgoglioso se la magistratura italiana facesse diventare una sua battaglia prioritaria quella contro il disastro ambientale abusivo. Nell’interesse dei cittadini tutti.

La coalizione sociale e i serpenti a sonagli

 

 

Un sistema mediatico in larga parte asservito al potente del momento scatta come un serpente a sonagli appena spunta all’orizzonte qualcosa che sembra un’aggregazione fuori del coro che parla di cose concrete che vivono ogni giorno le persone normali.

Questo è ciò che sta succedendo appena è apparsa sulla scena la proposta di Maurizio Landini di costruire   “Coalizione Sociale ” per  dare  rappresentanza sociale  a chi non ha  voce nè rappresentanza dopo la trasformazione che hanno subito i partiti tradizionali della sinistra.

I lavoratori poveri, le false partite IVA, precari e disoccupati sono lasciati senza rappresentanza nè sociale nè politica, una grande massa di persone senza riferimenti, senza un’offerta associativa di rappresentanza sociale e politica.

Senza sindacato di riferimento, senza un partito di riferimento migliaia di persone debbono arrangiarsi a difendere uno straccio di dignità nel lavoro, nella ricerca del lavoro  e nella vita.

Coalizione Sociale appare come un nuovo soggetto  politico e sociale che si propone di rimettere insieme i frammenti delle esperienze di vita e i bisogni di una moltitudine di persone condannate alla emarginazione sociale e alla povertà.

Il progetto politico post democratico portato avanti nell’intera Europa dalle nuove leadership è invece quello di trasformare questa massa di persone in plebe, senza progetti di vita e consapevolezza dei propri diritti.

Nessun problema per il potere se queste migliaia di nuovi paria non partecipano alla vita attiva, se non votano, tanto si può governare con il 40% dei consensi sulla base di una partecipazione al voto di poco superiore al 50 % degli aventi diritto.

Il pericolo che una moltitudine di soggetti che ora  non partecipano alla vita politica e sociale si mobilitino per propri obiettivi sociali e trovino  anche nuove leadership politiche che li rappresentino è insostenibile per questa classe dirigente un pò parassitaria che ha conquistato il potere usurpando la reputazione di vecchie forme di partito già del movimento operaio.

Questa è la grande paura, la paura che qualcuno colmi il vuoto che sta tra il PD ed una moltitudine di donne e uomini che sono ora senza rappresentanza.

Hanno capito benissimo tutto questo il Renzi e i suoi sodali e il cerchio magico dei poteri di sempre che utilizzano i media come clave contro qualsiasi proposta che possa incrinare il sistema .

Per questo il tentativo generoso di Landini e della Fiom ha un valore in sè come banco di prova per costruire un orizzonte diverso da quello prospettato da Renzi & C

L’accettazione della linea Renzi significa per la Cgil la fine del sindacato confederale, ovvero la fine della Cgil. Speriamo che Camusso e compagni lo capiscano in tempo se non vogliono essere confinati dal governo in una “riserva indiana” verso un’estinzione lenta e inesorabile .

Va dato atto a Maurizio Landini di avere intuito questo pericolo e di avere reagito. Non va lasciato solo.

Gino Rubini

 

 

 

 

Podcast Notizie Ambiente Lavoro Salute Diario Prevenzione 19/03/2015

 

In questo numero :

– Vogel (Etui), l’Unione Europea ha abbandonato la sicurezza sul lavoro

– La ricorrenza della MecNavi, una storia tragica da non dimenticare perchè ci parla del mondo di oggi

– MORTI BIANCHE 2015: NON CAMBIA NULLA. 50 VITTIME REGISTRATE A GENNAIO, ERANO 51 NEL 2014.

– Svizzera. Turni di lavoro al limite per i macchinisti da AREA7.CH

– LA STORIA DELLA PREVENZIONE : Inchiesta 1980 – La programmazione nei servizi territoriali di medicina del lavoro

– LA STORIA DELLA PREVENZIONE : INCHIESTA N°43 – 1980 – La nuova soggettività operaia nella prevenzione

– NOTIZIE IN BREVE

IL NOTIZIARIO AUDIO  (31 minuti, wav )

 

 

Appunti su Coalizione Sociale

L’iniziativa di Landini ha smosso le acque melmose dello stagno della politica italiana ormai assuefatta allo schema “Renzi pigliatutto e tutti gli altri zitti e pedalare..”
Opinionisti un pò ignoranti si sono messi a discettare di “autonomia sindacale” senza conoscere ciò che conosce un delegato sindacale che ha fatto un corso di base di formazione al ruolo di delegato. Portavoce del PD come Serracchiani e Guerrini sproloquiano di confini e di recinti entro i quali dovrebbe stare il sindacato, una specie di “riserva indiana” da rifornire periodicamente con wisky all’alcol metilico. Costoro non sanno nulla di movimento sindacale: anche Guzzoni, un delegato un pò tontolone che ha seguito corsi di formazione di base sul ruolo del delegato non dice le stupidaggini che ho sentito da Serracchiani e Guerrini…

Una coalizione per la difesa dei diritti fondamentali e per dare rappresentanza e voce ai lavoratori è anche compito del sindacato. Confindustria la “sua” coalizione d’interessi l’ha già fatta cooptando anche una rilevante quota parte dei partiti , PD incluso.

L’autonomia del sindacato è stata già compromessa con gli accordi separati alla Fiat: le bandiere del “sindacato” sono già state usate nella sostanza da Bonanni e Angeletti a suo tempo per sostenere il Patto per l’Italia di Berlusconi e Sacconi e l’accordo separato alla Fiat. Purtroppo si fa molta confusione sulla parola autonomia sindacale. Autonomia dai partiti (tutti, anche dal PD), autonomia dal governo ( anche quello di Renzi), autonomia dai padroni… In molti interventi si vuole impedire un’alleanza tra soggetti associativi che non sono dei partiti in nome dell’autonomia sindacale e si dimenticano i gravi sfregi all’autonomia sindacale provocati da chi ha firmato accordi subalterni con Marchionne o chi sbava per ottenere uno strapuntino nel cerchio magico di Matteo Renzi….
La riconquista da parte del nuovo sindacato dell’autonomia dai partiti , dal governo e dai padroni per uno strano destino della storia, è verosimile che passi tramite un’alleanza sui problemi concreti con associazioni come Emergency e Libera piuttosto che da piazza del Nazareno e dintorni …..

RAVENNA 13 MARZO 1987. UNA TRAGEDIA SUL LAVORO DI IERI CHE CI PARLA DEL MONDO DI OGGI

RAVENNA 13 MARZO 1987. UNA TRAGEDIA SUL LAVORO DI IERI CHE CI PARLA DEL MONDO DI OGGI
di Gino Rubini

Porto di Ravenna, cantiere navale MecNavi, 13 marzo 1987, alcuni operai stanno ripulendo le stive della motonave Elisabetta Montanari, una gasiera adibita al trasporto GPL, altri operai tagliano e saldano lamiere con la canna ossidrica, una scintilla provoca un incendio.Le fiamme si propagano e tredici uomini che stanno ripulendo le stive muoiono asfissiati dai gas di combustione.

Tredici uomini muoiono come topi nelle stive più profonde.

Ci fu un sommovimento di sentimenti di rabbia e d’indignazione popolare nei giorni che seguirono la tragedia . La parola d’ordine scritta e gridata che venne portata in corteo da giovani generosi di Ravenna era :” MAI PIU’ ”

Lo choc era enorme. Le autorità e molti cittadini mostrarono sorpresa: non era possibile che in un territorio evoluto e civile come quello di Ravenna vi potessero essere condizioni di lavoro così precarie, in nero e prive delle più elementari tutele di sicurezza … Come era potuto succedere tutto questo senza che vi fossero state avvisaglie e interventi preventivi ?

Il mercato sotterraneo del lavoro in nero che si svolgeva in qualche bar nei dintorni del porto pareva essere sconosciuto ai più. Anche a coloro che dovevano esserne a conoscenza per le responsabilità istituzionali e/o associative che ricoprivano.

L’interpretazione che venne data dalle autorità locali sui determinanti di questa tragedia: la Mecnavi era un’azienda che operava al di fuori legge (vero), un residuo di una concezione imprenditoriale retriva e del passato, un’anomalia da eliminare dal tessuto produttivo sano ed evoluto del territorio.

Quell’interpretazione tesa ad isolare il caso Mecnavi come estraneo al tessuto produttivo ravennate era purtroppo errata e consolatoria. Le modalità d’uso del lavoro irregolare, in nero e malpagato, il risparmio sulle procedure di organizzazione del lavoro bypassando la gestione della sicurezza non erano un residuo del passato ma in qualche misura anticipavano la visione postmoderna tesa a svincolare l’impresa dalla responsabilità rispetto al diritto dei lavoratori di lavorare in sicurezza e con salari dignitosi.

Il comportamento criminoso della Mecnavi fu letto solo dal punto di vista del codice penale ma non dal punto di visto della sua “potenzialità negativa” come modello precursore, ancora rozzo e primitivo, di deresponsabilizzazione sociale e civile dell’impresa rispetto ai diritti fondamentali dei lavoratori.

La subcultura imprenditoriale che ancora ricerca il vantaggio competitivo nel lavoro illegale e insicuro e malpagato non è stata certo sconfitta. Dal tempo del “modello Mecnavi” si è evoluta, si è trasformata e ora opera “border line” con maggiore abilità utilizzando le porosità che le attuali norme del mercato del lavoro consentono.

La legislazione sulla gestione della sicurezza è assai migliorata rispetto agli anni ’80 ma vi è un punto fodamentale sul quale occorre fare luce: senza la partecipazione attiva dei lavoratori è assai difficile una gestione efficace della sicurezza. La partecipazione attiva da parte dei lavoratori purtroppo in quest’epoca è in diversa misura paralizzata dalla paura di perdere il lavoro e da una legislazione che può fornire strumenti impropri al datore di lavoro per mettere a tacere chi richiede maggiore sicurezza: la minaccia di demansionamento e/o di licenziamento per “ragioni economiche” possono diventare armi formidabili per silenziare i lavoratori e anche i loro rappresentanti…

L’agibilità dei lavoratori per partecipare tramite loro rappresentanze alla gestione gli aspetti della sicurezza è ora, nei fatti, affidata al senso etico e di responsabilità sociale dell’impresa …. E’ sufficiente ? Questa è la domanda legittima e non retorica cui è necessario rispondere anche nella celebrazione di domani.

Rammentiamo e segnaliamo l’evento di domani 13 marzo a Ravenna per commemorare i lavoratori caduti e segnaliamo altresì “IL COSTO DELLA VITA. Storia di una tragedia operaia ” di Angelo Ferracuti 1), uno dei lavori migliori per capire quello che successe a Ravenna il 13 marzo 1987 e dopo . Gino Rubini

1) Il costo della vita. Storia di una tragedia operaia
Autore Ferracuti Angelo

http://www.ibs.it/code/9788806211059/ferracuti-angelo/costo-della-vita-storia.html

Ivan Cicconi: Expo 2015 e la corruzione negli appalti pubblici

Diffondiamo da “Inchiesta 181 aprile-giugno 2014 questo testo di Ivan Cicconi, intervistato da Tommaso Cerusici

 

Tommaso Cerusici In queste settimane è esploso lo scandalo per gli appalti di Expo 2015. Ci descrivi – dal tuo punto di vista – cosa sta succedendo nel mondo degli appalti, proprio a partire da questa ennesima vicenda di tangenti e corruzione che vede implicati politici, imprenditori e affaristi?

Ivan Cicconi Il 17 aprile 2014 sono state pubblicate in Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea tre nuove direttive: le numero 23, 24 e 25, che vanno ad aggiornare le precedenti direttive europee sugli appalti pubblici; si tratta dell’aggiornamento delle regole del governo della spesa e degli investimenti pubblici. Stiamo parlando di un settore che riguarda circa il 25-30% del Pil europeo e, per quanto riguarda l’Italia, un valore che si aggira sui 300-350 miliardi di euro. Qualsiasi discorso che punti alla spending review, all’ottimizzazione della spesa e degli investimenti pubblici, non può prescindere dalle regole definite dall’ordinamento europeo con queste tre direttive. Il 25 maggio abbiamo votato: non c’è stato alcun partito politico e nessun candidato che abbia minimamente accennato a queste tre direttive europee.

Lo scandalo di Expo 2015 è il figlio di questa assoluta disattenzione rispetto alle regole che governano la spesa pubblica. Oltre a questo si somma anche la scarsa consapevolezza o – se si vuole – la totale ignoranza della classe dirigente del nostro Paese delle modifiche profonde, che sono intervenute in questi ultimi anni negli apparati produttivi, nel sistema politico dei partiti, nell’assetto organizzativo e istituzionale e nella gestione dell’amministrazione pubblica.

Questo nuovo scandalo ci viene offerto con una lettura che è condita soprattutto da banalità e luoghi comuni. Uno dei principali – bipartisan in questo caso – è che “tangentopoli” continua come prima e non è cambiato niente. In realtà, il rapporto tra politica e affari è cambiato radicalmente: sta investendo in maniera strutturale la relazione e ci presenta una situazione nella quale “tangentopoli” è radicalmente mutata. Infatti, i magistrati l’avevano definita come il “sistema della corruzione”, quindi un sistema con delle regole precise. A governare il sistema della corruzione era la cupola dei partiti e la cupola della grande impresa. Si trattava di sistemi solidi, ben strutturati, che per finanziare in maniera occulta la politica avevano determinato delle regole precise. In sostanza, le regole degli appalti venivano rispettate e, dietro le quinte, si stabilivano le regole di questa transazione occulta dalle imprese verso i partiti politici, per facilitare l’esecuzione dei contratti. I magistrati hanno parlato, oltre che di sistema, anche di “triangolazione”: cioè un sistema triangolare che era caratterizzato dalla cupola dei partiti e dalla cupola degli imprenditori, che definivano le regole, e un terzo soggetto – il tecnico interno ed esterno all’amministrazione – che validava le modificazioni dei contratti per determinare l’aumento del prezzo dell’appalto di lavoro o di servizio e così costruire, all’interno del bilancio dell’impresa, il finanziamento occulto ai partiti politici. Quello che è successo in questi ultimi venti anni è che tutti questi soggetti sono mutati radicalmente. È mutato il partito politico, è mutata l’impresa ma è mutato anche l’ordinamento statale, le regole con le quali si realizza il rapporto fra il pubblico e il privato, quindi, fra la politica e gli affari.

“Mani pulite” ebbe un relativo successo nei confronti del sistema di “tangentopoli” perché contestava il reato di corruzione nel rapporto tra il pubblico e il privato, cioè l’esito positivo di quelle indagini fu determinato anche dalla limitatezza del reato contestato. Non venivano contestati illeciti amministrativi o contabili, che sicuramente erano connessi con la gestione dell’appalto pubblico, ma veniva contestato esclusivamente il reato di corruzione e altri due reati molto spesso collegati, cioè l’abuso d’ufficio per il corrotto – l’amministratore o il tecnico infedele che sforava le procedure – e il falso in bilancio per il corruttore, che costruiva all’interno del proprio bilancio la copertura per il pagamento delle tangenti alla politica.

 

Tommaso Cerusici Cos’è cambiato negli ultimi anni nel mondo degli appalti e nella relazione tra pubblico e privato?

Ivan Cicconi Quello che è successo in questi anni è che sia il reato di falso in bilancio che l’abuso d’ufficio sono stati, sostanzialmente, depenalizzati. C’è però anche qualcosa che non è successo – ed è l’elemento più determinante – cioè che l’Italia è rimasto l’unico Paese europeo a non aver recepito le indicazioni del Trattato di quindici anni fa, con il quale si invitavano gli Stati membri a introdurre il reato di corruzione nel rapporto tra privati. Oltre al depotenziamento degli strumenti giuridici – con la depenalizzazione del reato del falso in bilancio e dell’abuso d’ufficio – i magistrati oggi si trovano, nelle indagini sul rapporto illegale fra politica e affari, tra settore pubblico e settore privato, senza uno strumento fondamentale come la contestazione del reato di corruzione tra privati. Fra le modifiche profonde, che sono intervenute nella relazione fra pubblico e privato in questi ultimi vent’anni, ci sono, da un lato, i processi di privatizzazione e, dall’altro, l’introduzione d’istituti contrattuali che trasferiscono nella relazione privatistica la gestione del denaro pubblico.

Ad esempio, non esiste più la situazione dell’inizio degli anni Novanta, cioè prima di “tangentopoli”, nella quale la gestione dei servizi pubblici erano in capo ad aziende di diritto pubblico. Queste erano regolate da leggi dello Stato che definivano la nomina dei Consigli di Amministrazione e fissavano le indennità percepite, vi era poi la presenza diretta della Corte dei Conti che attuava un controllo preventivo degli atti e delle delibere di tali soggetti. La stessa condizione l’avevamo a livello territoriale con le aziende municipalizzate, anche esse aziende di diritto pubblico, regolate per legge, con Cda nominati da organi elettivi e che prevedevano addirittura sistemi di votazione a garanzia di tutta la rappresentanza. I Consigli comunali votavano i cinque consiglieri delle aziende municipalizzate, con la possibilità di indicare un solo nominativo. Quindi, la maggioranza del Consiglio comunale poteva catturare la maggioranza del Cda – 3 su 5 – solo se preventivamente indicava ai singoli consiglieri tre nominativi. Comunque, questo metodo garantiva all’opposizione di nominare uno o due consiglieri, secondo la rappresentanza che esprimeva nel Consiglio comunale.

Negli ultimi anni, passiamo da circa 1.500 società di diritto pubblico a circa 20.000 Spa o Srl, sotto il controllo diretto o indiretto dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali. Questo significa, da un lato, 20.000 Presidenti, Cda e Collegi sindacali – nominati da questo sistema dei partiti – e, dall’altro, 20.000 Spa e Srl che, nel diritto privato, governano una fetta consistente della spesa pubblica. Il tutto avviene in un contesto in cui si perde spesso il limite tra cosa è pubblico e cosa è privato, con una buona possibilità che si creino dei ruoli intercambiabili: il politico che diventa manager, l’imprenditore che partecipa alle decisioni, il tecnico che diventa presidente, eccetera.

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L’APATIA DELLA DEMOCRAZIA di Barbara Spinelli

Barbara Spinelli, Il Sole 24 Ore, 27 febbraio 2015

Nel 1998 il presidente della Bundesbank Hans Tietmeyer descrisse i due «plebisciti» su cui poggiano le democrazie: quello delle urne, e il «plebiscito permanente dei mercati». La coincidenza con l’adozione di lì a poco dell’euro è significativa.

La moneta unica nasce alla fine degli anni ’90 senza Stato: per i mercati il suo conclamato vizio d’origine si trasforma in virtù. Le parole di Tietmeyer e i modi di funzionamento dell’euro segnano l’avvio ufficiale del processo che viene chiamato decostituzionalizzazione – o deparlamentarizzazione – delle democrazie.

Il fenomeno si è acutizzato con la crisi cominciata nel 2007, ma già nel 1975 un rapporto scritto per la Commissione Trilaterale denunciava gli «eccessi» delle democrazie parlamentari postbelliche e affermava il primato della stabilità e della governabilità sulla rappresentatività e il pluralismo, giungendo sino a esaltare l’apatia degli elettori: «Il funzionamento efficace di un sistema democratico necessita di un livello di apatia da parte di individui e gruppi. In passato ogni società democratica ha avuto una popolazione di dimensioni variabili che stava ai margini, che non partecipava alla politica. Ciò è intrinsecamente anti-democratico, ma è stato anche uno dei fattori che ha permesso alla democrazia di funzionare bene».

Oggi viviamo all’ombra di quel plebiscito dei mercati mondiali, che non conosce scadenze o prove di falsificazione. Un po’ come la guerra permanente al terrorismo. Ambedue producono un continuo stato di eccezione, dove gli equilibri delle democrazie costituzionali saltano per ricomporsi in maniera accentrata. Dominano gli esperti monetari, le élite finanziarie internazionali, i grandi istituti di credito, i complessi militari-industriali, e pochi Stati a torto considerati onnipotenti. L’efficienza e la rapidità delle decisioni economiche prevalgono su processi democratici ritenuti troppo lenti e incompetenti.

Gli effetti di questa decostituzionalizzazione li tocchiamo con mano in Italia. Il Piano di rinascita democratica di Gelli (redatto forse non a caso in concomitanza con il rapporto della Trilaterale) è stato fatto proprio da Craxi, poi da Berlusconi, infine da Matteo Renzi. Conta più che mai la governabilità, a scapito della rappresentatività e degli organi intermedi che aiutano la società a non cadere nell’apatia e nell’impotenza. È rivelatore anche l’uso di certe terminologie. Le riforme strutturali o di “efficientamento”, si tratta non di deliberarle attraverso discussioni democratiche, ma di “portarle a casa”. Portare a casa le riforme rimanda all’immagine di una caccia predatoria. Si parte verso territori infestati da nemici che possono intralciare la scorreria (contropoteri, organi intermedi, sindacati, spazi pubblici) per mettere in salvo il bottino nel fortilizio chiuso, e soprattutto privato, che è la “casa”. (Notiamo en passant che economia nei primordi è proprio questo: la legge, nòmos, della casa, oîkos. Saranno la politica e poi la democrazia a oltrepassare il perimetro casalingo.)

Sotto il plebiscito permanente dei mercati globali, la politica di per sé non scompare; si adatta, mutando natura. Ma scompare l’essenza della democrazia costituzionale, e cioè l’obbligo di separare le decisioni, nella consapevolezza che qualsiasi potere, se non controbilanciato da poteri altrettanto forti e autonomi, tende a divenire assoluto.

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Passaggio a Nord Est per il fascio-leghismo di Salvini

di Aldo Bonomi (da il manifesto)

La Lega torna in scena. Con due spet­ta­coli non da poco: la mani­fe­sta­zione di Roma e il con­flitto aspro al suo interno nei ter­ri­tori del Nord Est. Roma che con­sa­cra defi­ni­ti­va­mente Sal­vini come il Le Pen ita­lico, il Veneto che rimanda alla tra­di­zione leghi­sta del sin­da­ca­li­smo di ter­ri­to­rio seces­sio­ni­sta o regio­na­li­sta a seconda della alleanze sociali e politiche.

Gli ana­li­sti poli­tici giu­sta­mente col­lo­cano l’ascesa e i toni del sal­vi­ni­smo den­tro la crisi del cen­tro­de­stra. I più attenti, si veda la cro­naca ragio­nata della mani­fe­sta­zione di Gad Ler­ner su Repub­blica, segna­lano l’evoluzione di chi si è sem­pre carat­te­riz­zato come l’imprenditore poli­tico delle paure e del ran­core verso il fascio-leghismo dichia­ra­ta­mente razzista.

Per capire sarà il caso di chie­dersi anche se que­ste feno­me­no­lo­gie poli­ti­che non riman­dano anche al fran­tu­marsi di quel blocco sociale e pro­dut­tivo che, soprat­tutto al Nord, era la base socio-politica del forza-leghismo del ven­ten­nio di Ber­lu­sconi. Qui ci aiuta guar­dare a Nord Est. Al fran­tu­marsi di quella società locale dei pro­dut­tori, di capi­ta­li­sti mole­co­lari che si divi­deva in un’armonia com­pe­ti­tiva tra indi­vi­dua­li­smo pro­prie­ta­rio ber­lu­sco­niano e riven­di­ca­zioni ter­ri­to­riali di autonomia/secessione del ran­core del Nord. Sosten­gono da tempo che, nel soc­com­bere sotto i colpi selet­tivi della crisi, dai mole­co­lari iden­ti­fi­cati ben prima del 2008 con euro e fine della sva­lu­ta­zione com­pe­ti­tiva, il blocco sociale del «Casan­none», la casa, il capan­none, il cam­pa­nile del post­for­di­smo ita­lico della sub­for­ni­tura, delle vil­lette a schiera e dei cen­tri com­mer­ciali dila­ganti nei ter­ri­tori pede­mon­tani, ha attra­ver­sato la meta­mor­fosi antropologica.

La fami­glia tutta messa al lavoro per fare impresa non bastava più a reg­gere modelli pro­dut­tivi sem­pre più segnati dall’innovazione com­pe­ti­tiva. Nella società del benes­sere con­qui­stato a fatica, l’eredità impren­di­to­riale dell’impresa ai figli dif­fi­cil­mente riu­sciva. Non ci si è resi conto che l’immigrazione porta sì brac­cia, ma anche per­sone, cul­ture, reli­gioni, stili di vita che com­por­ta­vano il rico­no­scere e il riconoscersi.

È sal­tato così quel col­lante comu­ni­ta­rio per cui l’impresa era un pro­getto di vita che teneva assieme fami­glia, paese, figli al lavoro e mano­do­pera abbon­dante e fles­si­bile con le sana­to­rie per gli immi­grati fun­zio­nali in con­te­sto geo­me­di­ter­ra­neo da esodo per lavoro e non pro­fu­ghi da un Medi­ter­ra­neo in ebol­li­zione. Se poi ci si aggiunge il pro­cesso di finan­zia­riz­za­zione dell’economia e il venire meno delle ban­che locali sim­bio­ti­che con le imprese dif­fuse, il ritro­varsi inde­bi­tati nel fare impresa e «uomo inde­bi­tato» con Equi­ta­lia, ben si capi­sce il trauma del sen­tirsi spae­sati nella metamorfosi.

Dal 2007 il Pil del Nord Est è calato del 8%, la domanda interna del 9% e si sono persi 138mila posti di lavoro. Non è andata solo così. Chi ha attra­ver­sato la crisi cam­biando si trova aggan­ciato a filiere pro­dut­tive di medie imprese inter­na­zio­na­liz­zate che hanno reti lun­ghe verso la Cina, la Rus­sia, gli Usa, oltre che il tra­di­zio­nale mer­cato tede­sco ed euro­peo. Molti dei figli “stu­diati” dei capi­ta­li­sti mole­co­lari di un tempo sono makers che fanno nuova mani­fat­tura e si dise­gnano piat­ta­forme pro­dut­tive e aree metro­po­li­tane oltre il loca­li­smo dei cam­pa­nili per com­pe­tere nella glo­ba­liz­za­zione. Pro­blemi che inte­res­sano poco al sal­vi­ni­smo, molto più inte­res­sato, a pro­po­sito di aree metro­po­li­tane, a rin­fo­co­lare tra Roma e Milano la guerra tra gli ultimi per la casa e le paure nella crisi non solo eco­no­mi­che ma delle forme di convivenza.

Per con­ti­nuare in que­sto eser­ci­zio di ragio­na­mento par­tendo dal fran­tu­marsi del blocco sociale e il leghi­smo oggi, si può azzar­dare l’ipotesi che la dia­triba Tosi-Salvini più che que­stione di potere tra veneti e lom­bardi nasconde il fatto che il sin­daco di Verona ha come ipo­tesi poli­tica il ria­ni­mare ciò che resta del Veneto dei cam­pa­nili pro­dut­tivi cer­cando di aggan­ciare quelli che ce l’hanno fatta con l’adagio poli­tico di un tempo forza-leghista e ancora più in pro­fon­dità facendo rife­ri­mento a quella tran­si­zione dolce tutta demo­cri­stiana che ha por­tato il Nord Est nella moder­niz­za­zione. In mezzo ci stanno Maroni e Zaia, con il loro refe­ren­dum per l’autonomia di antica memo­ria e le nuove ipo­tesi di macro regione come parola chiave per col­lo­care i loro ter­ri­tori nello stress di una moder­niz­za­zione di sistema neces­sa­ria per competere.

Sal­vini più che dia­let­tiz­zarsi con le fibril­la­zioni ter­ri­to­riali di un blocco sociale in crisi di iden­tità e visione, che aveva pro­dotto il ran­core del voler con­tare di più, par più essere inte­res­sato ad essere polo di attra­zione del ran­core da rab­bia e rin­ser­ra­mento con­tro pro­fu­ghi, immi­grati, euro, usando i biso­gni dei tanti nella crisi con­tro l’impianto dei diritti uni­ver­sali in nome della tra­di­zione local-familista con un po’ di salsa nazio­na­li­sta anti-europea. È come se dicesse «arrab­biati e for­coni unitevi».

Sta­remo a vedere. Anche per­ché alla fin fine la poli­tica è sem­pre anche que­stione sociale. Il ran­core corre nell’orizzontalità della nuova que­stione poli­tica data dai 16 milioni di poveri cen­siti dall’Istat. E la sini­stra? A Nord Est pare con­tare sullo stel­lone della moder­niz­za­zione dall’alto del ren­zi­smo, accat­ti­vante per quelli che ce la fanno a com­pe­tere. Più in gene­rale, guar­dando anche Sal­vini, mai come oggi si sente la man­canza di una sini­stra sociale in grado di svuo­tare il disa­gio che si coa­gula in forme di ran­core rin­ser­rato e cattivo.

Pietà l’è morta. E anche l’onestà intellettuale del giornalismo italiano.

di Nico Macce

Schermata 2015-03-03 a 23.47.22Per comprendere il ruolo di disinformazione che hanno i nostri media prendo due esempi freschi freschi.

Il primo è un raffronto tra gli attacchi brutali della polizia messicana contro gli insegnanti in lotta (qui e qui le informazioni del caso) e l’omicidio di Nemtsov a Mosca, un presunto oppositore di Putin.
 Se digitate “Messico e insegnanti” su Google, appaiono pagine della sinistra radicale. Ciò significa e conferma ciò che ho potuto constatare in questi giorni, ossia che sui media, di un fatto così importante e di sangue non c’è traccia. O molto, molto poco e senza alcuna riflessione politica, quasi fosse un fatto di cronaca, di delinquenza comune in un paese democratico a prescindere.

l’articolo segue su fonte carmillaonline.it

Dove vola l’avvoltoio

di Alessandra Cecchi

PAH-Blackstone2“Questo è un messaggio dalla Spagna per Blackstone. Noi siamo gli abitanti delle vostre nuove case, case che erano il nostro focolare. Può darsi che voi non ci conosciate… ma ci conoscerete! Il governo spagnolo e la banca, salvata dal fallimento, vi stanno vendendo le nostre case con uno sconto enorme, uno sconto che a noi è stato negato. Ora state alzando i prezzi, ponendoci tutti a rischio di sgombero. Può darsi che vi riteniate intoccabili, nascosti nei vostri uffici a Manhattan. Ma non lo siete. Voi non sapete di cosa siamo capaci… lotteremo per le nostre case, per i nostri diritti, per la nostra dignità, per i nostri figli e figlie, per i nostri nipoti. Lotteremo contro i vostri interessi economici, contro tutto quello che rappresentate. Noi ci impegnamo affinché tutto il mondo sappia chi siete e cosa fate. Tenetevi pronti ! Noi lo siamo !”

segue su fonte carmillaonline.it

 

Rapporto 2014-2015 di Anmesty International sui diritti umani.

E’ stato presentato il 25 febbraio il Rapporto 2014-2015 di Anmesty International sui diritti umani. Nel rapporto il 2014 sarà ricordato per i violenti conflitti e l’incapacità di tanti governi di proteggere i diritti e la sicurezza dei civili.

Un anno catastrofico – lo definisce Amnesty –per milioni di persone intrappolate nella violenza di stati e gruppi armati. Di fronte ad attacchi barbarici e repressione, la comunità internazionale è rimasta assente”.

Ma il 2014 è stato anche un anno che ha visto significativi progressi nella difesa e nella garanzia di alcuni diritti umani. Ha segnato date importanti, quali l’anniversario della fuoriuscita di gas a Bhopal nel 1984, la commemorazione del genocidio in Ruanda del 1994 e l’analisi, a 30 anni dalla sua adozione, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. Ha visto l’entrata in vigore del Trattato sul commercio di armi. Momenti che ci fanno riflettere sui passi avanti compiuti ma anche su quanto resti ancora da fare per garantire giustizia alle vittime di gravi violazioni.

“Questo rapporto testimonia il coraggio e la determinazione di donne e uomini che si battono per difendere i diritti umani, spesso in circostanze difficili e rischiose”.

 

Per approfondire la notizia: www.rapportoannuale.amnesty.it

Vincenzo Comito: Quando la Germania era un debitore flessibile

Diffondiamo da www.sbilanciamoci.info del 23 febbraio 2015

 

 

 

Tra l’Ottocento e il Novecento dello scorso millennio lo stato tedesco ha fatto default o ha ottenuto degli alleggerimenti dei suoi debiti ben otto volte

È ben noto come la Germania abbia assunto un atteggiamento intransigente sulla questione del debito pubblico all’interno dell’eurozona e come essa tenda a spingere duramente perché i vari paesi adottino, per risolverlo, delle strette politiche di austerità, politiche che peraltro rischiano di uccidere il malato. Ne abbiamo avuto ancora una riprova con l’attuale crisi greca; nel corso dei negoziati i responsabili del paese teutonico sono stati i capifila e i portabandiera del partito dell’intransigenza, sino ad arrivare all’insulto verso un governo democraticamente eletto.

Ma da diverse parti, negli ultimi tempi, si tende a sottolineare come in passato il paese non sia stato quel campione di virtù che oggi cerca di apparire; in effetti, alcuni studiosi si sono chiesti quale sia stato in concreto, nel corso del tempo, il curriculum di tale paese sulla stessa questione ed hanno trovato degli elementi interessanti.

Si può cominciare ricordando come, certo, la gran parte dei paesi in tutte le regioni del globo sia passata attraverso una o più fasi di default, o comunque di ristrutturazione del proprio debito, nei confronti dei prestatori esteri, ma anche come la Germania sia stata tra i più assidui ad incappare in tale problema.

Apprendiamo così (Reinardt & Rogoff, 2009) che tra l’Ottocento e il Novecento dello scorso millennio lo stato tedesco, in effetti, ha fatto defaulto ha ottenuto degli alleggerimenti dei suoi debiti ben otto volte nel periodo, come del resto la Francia e contro una sola volta per l’Italia e cinque per la Grecia. Va peraltro riconosciuto che i campioni europei in questo sport sono stati gli spagnoli, con ben tredici volte. I tedeschi hanno comunque conquistato un brillante secondo posto a pari merito con il paese transalpino.

La rivalità franco-tedesca e le riparazioni dopo la grande guerra

In un certo senso, la Germania ha cercato di sottoporre la Grecia allo stesso trattamento inflitto alla Francia dopo la guerra franco-prussiana del 1870, quando i cittadini transalpini, dopo la veloce sconfitta, furono obbligati a pagare un grande volume di danni di guerra, 5 miliardi di franchi, pari al 20% del pil di allora del paese; esso dovette inoltre cedere l’Alsazia, una parte della Lorena e dei Vosgi, ai vincitori, che comunque occuparono una vasta area della Francia sino a che non fu effettuato l’intero pagamento del debito, ciò che avvenne, con molta solerzia, nel 1873. Sempre i francesi furono inoltre obbligati a concedere ai nemici la clausola della nazione più favorita.

E viene la prima guerra mondiale. Come è noto, questa volta, alla fine, si rovesciano le parti, la Francia si trova nel rango dei vincitori e la Germania invece in quella degli sconfitti.

L’obiettivo fondamentale del primo ministro francese del tempo, Georges Benjamin Clemenceau, fu allora quello di vendicarsi della sconfitta del 1870 e di annullare praticamente i progressi economici fatti dalla Germania dopo quella data. Egli riuscì ad imporre rilevanti perdite territoriali al paese nemico e cercò parallelamente, nella sostanza, di distruggere, o quantomeno di danneggiare al massimo, il suo sistema economico.

Ecco che lo statista francese riesce ad imporre alla Germania anche il pagamento di danni di guerra molto ingenti. La Gran Bretagna e gli Stati Uniti si accodarono alla fine alle richieste dell’alleato.

Il problema finanziario che si poneva era comunque abbastanza complesso. Da una parte stavano i prestiti interalleati fatti prevalentemente per acquistare le armi e gli equipaggiamenti relativi (la Gran Bretagna aveva preso a prestito dagli Stati Uniti, la Francia dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti), dall’altra il problema delle riparazioni tedesche a Francia e Inghilterra. Le somme in gioco erano enormi: i debiti interalleati erano stimati in circa 26,5 miliardi di dollari, la gran parte dei quali dovuti agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna, mentre la commissione per le riparazioni del 1921 fissò in maniera definita, dopo vari summit preliminari che andavano più o meno nello stesso senso, il debito della Germania in 33 miliardi di dollari, la gran parte dovuti a Francia ed Inghilterra (Aldcroft, 1993). Tali riparazioni avrebbero dovuto essere regolate in rate trimestrali a cominciare dal gennaio del 1922.

Mentre la Francia legava le due questioni, dichiarando che il paese avrebbe ripagato i suoi debiti quando gli sarebbero stati versati i proventi delle riparazioni, la Gran Bretagna e gli Usa avevano chiaro che gli indennizzi non potevano superare certi limiti.

I dubbi di Keynes e i vari tentativi di ristrutturazione del debito

Nel 1919 Maynard Keynes aveva 36 anni e aveva partecipato alla conferenza di pace come rappresentante del governo inglese per le questioni finanziarie. Ma egli si dimise presto, essendosi trovato in totale disaccordo con l’impostazione che gli alleati stavano dando alla sistemazione dell’Europa dopo la guerra.

Egli pubblicò così subito dopo “Le conseguenze economiche della pace”, un saggio molto polemico contro la follia della “pace cartaginese” che i vincitori della guerra stavano, a suo dire, imponendo alla Germania. Le riparazioni avevano un onere finanziario, affermò l’autore, che la Germania non era in grado di sostenere (egli calcolò a questo proposito che il paese avrebbe potuto restituire, grosso modo, solo un quarto della somma stabilita) e previde lucidamente che le conseguenze del trattato di pace sarebbero state molto dannose per il futuro del continente.

I tedeschi cominciarono a versare le prime rate, ma nel corso del 1922 la situazione economica del paese si deteriorò rapidamente, con l’accelerazione dei processi di inflazione e di svalutazione della moneta; i tedeschi chiesero dunque una moratoria dei pagamenti, ma essa fu loro negata. Ma la Germania non era più in grado di pagare (Aldcroft, 1993) e, comunque, non fece nessuno sforzo per tentare.

Nel gennaio del 1923, i francesi e i belgi, di fronte al fatto che i tedeschi non pagavano le somme richieste, decisero di occupare la Ruhr. Ma tale mossa concorse a completare il collasso economico e finanziario della Germania.

Si stabilì, a questo punto, di convocare una conferenza internazionale, che si tenne a Londra nel 1924 e che diede origine al piano Dawes, dal nome del presidente della conferenza, un banchiere americano. Secondo questo piano, la moneta tedesca avrebbe dovuto essere stabilizzata dopo l’enorme livello raggiunto dall’inflazione e le truppe francesi avrebbero dovuto essere ritirate dalla Ruhr. Un flusso di aiuti americani alla Germania avrebbe permesso a quest’ultima di rimborsare i suoi creditori. L’importo totale dei debiti della Germania veniva lasciato quale fissato nel 1921, ma venivano allungati i tempi di pagamento.

Così nel periodo 1924-1930 la Germania prese a prestito soprattutto dagli Stati Uniti circa 28 miliardi di marchi e ne restituì ai paesi alleati come danni di guerra circa 10,3 (Aldcroft, 1993).

Ma, quando nei tardi anni venti, i prestiti statunitensi smisero di arrivare e molte banche straniere richiesero la restituzione di prestiti precedenti, la situazione si fece di nuovo difficile.

Un ulteriore accordo venne così negoziato nel 1929; era il piano Young, dal nome di un altro plenipotenziario statunitense. Il piano proponeva ormai una riduzione del totale del debito tedesco e degli importi da pagare annualmente.

La situazione economica internazionale intanto non fece funzionare l’accordo che per due anni. Nel 1931 la moratoria Hoover sospese per un anno i pagamenti, ma di fatto si trattò di una moratoria definitiva.

Alla fine gli Stati Uniti avevano ricevuto in restituzione dagli alleati circa 2,6 miliardi di dollari, contro crediti per prestiti ed interessi di 22 miliardi. La Francia a sua volta aveva ricevuto in pagamento dalla Germania circa un terzo dell’importo stimato dei danni di guerra (Aldcroft, 1993).

Le riparazioni dopo la seconda guerra mondiale

E viene poi la seconda guerra mondiale. Anche in questo caso, dopo la fine delle ostilità, si trattava di sistemare la questione delle riparazioni.

La conferenza di Postdam nell’agosto del 1945 fissò subito il principio delle restituzione dei danni di guerra e un accordo di base in proposito venne ipotizzato per le zone occidentali del paese nel 1950. Intanto era stato avviato il piano Marshall, con il quale gli Stati Uniti concessero al paese rilevanti somme di denaro per far ripartire la loro economia.

Furono gli Stati Uniti a guidare tutta l’operazione dei risarcimenti nel 1953, consci che fosse necessario aiutare la ripresa della Germania e dell’Europa dopo una guerra devastante, evitando di commettere gli stessi errori del primo dopoguerra. Pesava fortemente, peraltro, anche la volontà degli Stati Uniti di fare della Germania Occidentale un baluardo contro il blocco sovietico.

Così nell’agosto del 1953, dopo trattative durante diversi mesi, ventuno paesi firmarono a Londra un trattato, noto come London Debt Agreement, che consentì alla Germania di suddividere la questione in due parti. La prima corrispondeva ai debiti accumulati fino al 1933, stimati in 16 miliardi di marchi; fu consentito di rateizzare il loro pagamento in 30 anni, a tassi di interesse molto bassi, ciò che equivaleva alla pratica cancellazione dello stesso. L’altra parte, corrispondente ad altri 16 miliardi di marchi e che faceva riferimento ai debiti dell’epoca nazista e della guerra, avrebbe dovuto essere ripagata, secondo modalità da concordare, dopo l’eventuale riunificazione del paese. Ma nel 1990, a processo di unificazione concluso, il governo tedesco si oppose alla rinegoziazione dell’accordo, a ragione in particolare dei costi che sarebbero stati necessari per risollevare economicamente la parte est del paese.

In ambedue le occasioni tra i creditori c’era anche la Grecia, che dovette accettare molto a malincuore tali decisioni.

La stessa Grecia ha sollevato a più riprese, ma invano, la questione dei danni di guerra subiti da parte della Germania. Tra l’altro, in effetti, nel corso delle vicende belliche il paese, occupato dai tedeschi, era stato costretto a prestare al Reich 476 milioni di reichsmark senza interessi. Tale somma corrispondeva ormai nel 2012, secondo alcuni calcoli, a circa 14 miliardi di dollari e a circa 95 miliardi se si calcolavano anche degli interessi al tasso molto ragionevole del 3% annuo. A fine 2014 la cifra totale dovrebbe aver superato i 100 miliardi di dollari.

La Germania si rifiuta a tutt’oggi di prendere in considerazione l’intera partita.

 

Testi citati nell’articolo

-Reinardt C. M., Rogoff K. S., This time is different, Eight centuries of financial follies, Princeton University Press, Princeton, N. J., 2009

-Aldcroft D. H., The european economy 1914-1990, Routledge, Londra, 3a ed., 1993

 

Podcast Audio Diario Prevenzione – Ambiente Lavoro Salute – 27 febbraio 2015 – puntata n° 26

 
 
In questa puntata parliamo di:
 
– Guariniello e la sentenza Eternit: quando si consuma il reato di disastro? una intervista a Punto Sicuro
 
 
– JOBS ACT : COSA CAMBIA NELLA GESTIONE SALUTE E SICUREZZA NEL LAVORO 
 
 
– Primi risultati della seconda indagine Osha Eu su scala europea sulle imprese 12/02/2015
 
 
– Le iniziative programmate il 13 marzo 2015 a Ravenna  in occasione dell’anniversario della tragedia della Mecnavi
 
 
– Jobs act, Poletti: “Smantellare articolo 18? Un anno fa non lo avrei immaginato”
 
 
– Frittura mista – notizie in breve
 
 

 

Prima dell’art.18 (parte quarta)

di Alexik

[A questo link il capitolo precedente.]

I licenziamenti barbieri_casa del popolo3collettivi alla Doppieri rivelano la dimensione femminile dell’espulsione dalle fabbriche bolognesi negli anni ’50. È questo un aspetto poco noto, nascosto fra le righe del linguaggio asessuato che caratterizza anche la stampa operaia e comunista di quel periodo, segno della scarsa considerazione attribuita alla contraddizione di genere che si voleva del tutto riassunta nella contraddizione di classe. Un errore, sia sul piano teorico che su quello dell’analisi di una realtà che la guerra mondiale aveva violentemente ribaltato, mutando la divisione sessuale del lavoro, con gli uomini al fronte a far da carne da cannone e le donne a sostituirli in produzione.

Richiamate al lavoro “per il bene della patria”, dopo essere state ricacciate fra le mura domestiche nel corso del ventennio, le casalinghe erano tornate operaie. La resistenza le aveva rese combattenti, non solo nei ranghi delle organizzazioni partigiane, ma come avanguardie della resistenza sociale, nella preparazione di scioperi, manifestazioni, sabotaggi, diffusione della propaganda antinazista, assistenza ai perseguitati politici e razziali 1.

Le donne furono in prima fila negli scioperi della primavera del ’44, con fermate alla Ducati, Calzoni, Weber, SASIB, ACMA, Giordani, OMA, calzaturificio Montanari, SAMA, Baroncini, SALM, Pecori, Hatù. A Castelmaggiore, cento operaie fermarono la VITAM 2, mentre alle Saponerie Italiane (Panigal) di Bologna lo sciopero compatto delle donne impedì la deportazione in Germania di 14 compagne3. A Corticella le operaie bloccarono per tre giorni il pastificio, e negli stessi giorni ad Imola i fascisti spararono su una manifestazione di donne per il pane, uccidendo Maria Zanotti e Livia Venturini4.

Erano queste donne, che avevano affrontato la fame, scavato macerie, seppellito i 2.481 morti dei bombardamenti alleati su Bologna5, quelle che dopo il 21 aprile ’45 una nuova vulgata propagandistica pretendeva di rimandare a casa, come “rimedio” alla disoccupazione dei reduci di guerra.

Fonderia Calzoni: addetta alle staffe per piccole fusioni (1951)

Nel 1951 il 34,6 % della manodopera industriale bolognese era formata da lavoratrici, che erano maggioranza nel tessile/abbigliamento, calzaturiero, tabacco, nella cartotecnica, chimica e gomma,  ma con una presenza significativa anche nella metalmeccanica e metallurgia. Per loro la condizione operaia era più dura. A loro erano riservate le qualifiche inferiori, senza sconti sui lavori di fatica, e con salari notevolmente più bassi (anche del 60%) di quelli dei maschi a parità di mansione. Interminabili gli straordinari non pagati, frequentissime le ammonizioni e le multe, numerosi gli infortuni e le malattie professionali6.

“Vi sono periodi nei quali vengono imposte 15/16 ore di lavoro giornaliero e si resta fino a 6-7 ore senza prendere cibo e guai a chi è sorpreso a mangiare un pezzo di pane. Quando si arriva verso le ore piccole e per la stanchezza, le operaie non reggono più, vengono apostrofate con parole triviali che vanno ad offendere anche la loro moralità. Al mattino, dopo aver cessato il lavoro alle 24 o all’ 1, se il proprietario ritiene che le operaie non lavorino in fretta, sono redarguite con frasi come questa “Cosa fate alla notte, invece di dormire andate in giro per le mura”. (Rapporto sulla ditta Rapalli)

Il padrone, in un primo tempo, pretendeva da cinque operaie la pulitura di 250 paia di scarpe al giorno. Oggi da quattro ne pretende 300, e quando un’operaia non raggiunge questa cifra è insultata con frasi come queste: “Sei una cretina buona a nulla, io ti pago per lavorare e non per tirarti le dita”. Molto spesso, oltre a questo, le operaie vengono multate per lo stesso motivo. Tutto questo è fatto per imporre un ritmo più veloce alla produzione”. (Rosa, licenziata dal calzaturificio Biemme)

Le lavoratrici sono costrette a lavorare a contatto con le sostanze nocive e già alcuni casi gravi di intossicazione si sono verificati … “è sofferente di un notevole grado di astenia con ipotensione arteriosa spiccata, accompagnata da anemia e da disturbi del sistema endocrino. Fra questi ultimi è da notare soprattutto la mancanza dello sviluppo sessuale per ciò che riguarda le mestruazioni, sia per quelli dei caratteri sessuali secondari. Tutti i disturbi sopraelencati sono da ascriversi, potendo scartare con sicurezza altre cause, all’influenza dannosa esercitata dalle sostanze organiche usate nel lavoro”. (Rapporto sulla ditta Deisa)

Weber Carburatori: addetta la trapano (anni '50)

Andai sotto con un dito, perché ci facevano lavorare fino alle dieci della sera senza pause. Al sabato fino a sera, alla domenica fino a mezzogiorno… faceva in maniera di fare un bel magazzino pieno di roba. Poi dopo tre o quattro mesi ci licenziava”. (Bruna, licenziata da La Bolognese).

Era più frequente per le donne la precarietà dei contratti a termine. Le “clausole di nubilato” nei contratti individuali permettevano il licenziamento all’atto del matrimonio, mentre la lettera di dimissioni, fatta firmare in bianco al momento dell’assunzione riappariva dal cassetto della Direzione in caso di sciopero o maternità.

Lavoriamo in 75 donne: la minaccia di licenziamento è uno di quei mezzi che ci mantiene in uno stato di preoccupazione continua, in particolare per quella parte di lavoratrici che sono assunte con contratto a termine. Un’impiegata è stata licenziata perché ritenuta responsabile di aver organizzato uno sciopero delle sue colleghe per il rispetto del Contratto di lavoro. Oggi, solo se una lavoratrice rivolge una parola ad un’altra, viene multata di L. 100”. (Rapporto sulla ditta Deisa)

San Giovanni in Persiceto: manifestazione contro i licenziamenti alla Filatura Zoni (1948)

Le donne erano le prime nella lista dei licenziamenti, perché la loro espulsione veniva ritenuta meno problematica da una mentalità che considerava il loro status di lavoratrici un’anomalia, un’eccezione temporanea al ruolo di mogli e madri a tempo pieno. Erano le prime della lista perché confinate nelle qualifiche più basse, perché potenzialmente madri, ma anche perché molto politicizzate e combattive. A metà degli anni ’50 in provincia di Bologna si contavano circa 70.000 iscritte alla CGIL, 63.000 iscritte al PCI, 4.000 al PSI, 79.000 all’UDI. Solo dentro la Ducati, 800 operaie avevano la tessera del Partito Comunista7. Per questo si cercò di colpirle particolarmente: dei 960 licenziamenti tentati  alla Ducati nel ’53, 660 erano rivolti alle donne. Come vedremo in seguito, furono molto determinate nel ricacciarglieli indietro.

Il protagonismo delle donne dentro le fabbriche si rifletteva solo in parte nelle piattaforme rivendicative. Si denunciava il superfruttamento, si richiedevano le camere di allattamento e gli asili aziendali, ma il sindacato rimaneva vergognosamente arretrato sul piano salariale, battendosi per “l’avvicinamento” dei salari femminili,  e non per l’eguaglianza a parità di mansione.

Fuori dalle fabbriche le compagne erano attivissime negli “scioperi a rovescio”8 e nelle lotte per i servizi. Come nell’occupazione, dal 25 novembre del ’50,  di un terreno ai Prati di Caprara per rivendicare la costruzione di un grande ospedale che desse lavoro ai disoccupati e assistenza medica alla gente. È grazie a quell’occupazione, che resistette per sei mesi alle cariche della celere di Scelba, se oggi ai Prati di Caprara abbiamo l’Ospedale Maggiore di Bologna9.

Bologna: una carica del 1953.

Fra il 1951 e il ’54, 1.982 attiviste vennero processate a Bologna per motivi politico sindacali, e 1.212 subirono condanne per un totale di 182 anni di carcere e 6.503.900 lire di multe. Per siffatte donne la discriminazione di genere sui luoghi di lavoro correva in parallelo alla rappresaglia politica e sindacale.

Hai dato retta alla Camera del Lavoro … adesso vai a mangiare da loro ! Tu qui non entri più. A me era morto il babbo … io sono svenuta là per terra. Delle ragazzine mi hanno presa su, e poi pian piano sono andata a casa. L’ho detto con la mia mamma, allora lei, che si sapeva perché non ero l’unica licenziata, la mattina volle venire a sentire se era così o se avevamo fatto qualcosa… Mia madre si è presentata e lui le ha detto “No, no, come operaia mi va bene, ma lei oltre a fare sciopero, lei fa in maniera di convincere anche delle altre”. (Bruna, figlia di antifascisti, licenziata da La Bolognese).

Poi riguardo alla fabbrica, io sono stata lì fino al ’55, quando ho chiesto la licenza matrimoniale. Lì per lì mi hanno detto: “Bene, bene!”. Ma quando sono andata per prendere la carta, mi hanno dato la lettera di licenziamento. Ho chiesto perché: “Perché abbiamo finito tutte le storie, e per vedere se nella Commissione Interna ci mettono un’altra come te … Perché così. Poi ti sposi e avrai dei bambini”. (Triestina, licenziata Marchesini).

Bologna: le operaie della Gazzoni ascoltano un comizio dietro i cancelli.

Certo che ho tirato un tiro mancino alla Sasib, perché non lo sapevo, ma il giorno di ricevimento della lettera di licenziamento ero incinta di quindici giorni. Così dopo gli accertamenti hanno dovuto riassumermi. Non potevano licenziarmi. Però non mi hanno fatto entrare, allora io tutte le settimane mi presentavo il lunedì mattina, mi vedevano, mi salutavano, e io tornavo indietro. Io non sono più entrata”. (Laura, licenziata Sasib).

Spesso bastava poco per essere buttate fuori: la sottrazione, ai tempi della fame, di un pacco di pasta al Pastificio Pardini di Corticella, o il rifiuto di uno straordinario:

“L’orario di lavoro giornaliero è di 9 ore e mezza, e si lavora anche la domenica, chi non vuole fare lo straordinario viene licenziato. Io stessa ho dovuto fare questa amara esperienza. Una domenica, dopo aver lavorato per settimane senza riposo, chiesi di poter rimanere a casa il mattino, perché dovevo studiare. Mi apostrofò con parole volgari, e la mia ferma decisione di rimanere a casa mezza giornata, mi fu risposto con un licenziamento in tronco”. (Rosa, licenziata dal Calzaturificio Biemme)

L’operaia venne in discussione con la proprietaria per motivi di lavoro. Il motivo fu di venire la sera dopo a lavorare, dove tutte noi avevamo una riunione… La proprietaria allora prese una soluzione o quella sera lì o tutta la settimana a casa … e venne a diverbio alla fine della discussione … si disse “se non le vado bene mi licenzi”. La proprietaria la prese in parola e le disse: vieni a prendere i libretti sabato”.

In sciopero alla Casaralta (anni '50).

A volte, prima del licenziamento, le operaie più combattive dovevano subire il demansionamento, l’isolamento dalle compagne e il reparto confino: “Dunque, la cosa si svolse così. Intanto mia madre venne spostata, cosa che per lei fu un’offesa mortale, dalla produzione dove faceva la smerigliatura, a fare i pacchettini in magazzino, lavoro isolato, di nessuna qualificazione. E questo fu per lei una cosa amara, poi un giorno la chiamano in direzione, ed era chiaro che questa chiamata era fatta per dirgli che sarebbe stata licenziata.” (Marta, figlia di Velia, licenziata dalla ICO).

Storie di altri tempi ? Potremmo chiederlo alle 800.000 donne “dimissionate” perché incinta, censite dall’Istat nel 201010. O magari alle prossime vittime del Jobs Act, che si troveranno di nuovo inermi di fronte ai licenziamenti arbitrari11, costrette, di conseguenza, ad accettare di tutto.  (Continua)

Nell’immagine in alto: La difesa della Casa del popolo di Crevalcore-1954 (particolare), di Aldo Barbieri.

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  1. Prossimamente consultabile in rete: Roberta Mira, Geografia e storia della Resistenza delle donne a Bologna. Un progetto di ricerca e divulgazione storica dell’Anpi provinciale di Bologna e del Dipartimento di Storia Culture Cività dell’Università di Bologna, Percorsi storici, n. 2, 2014 
  2. I fatti si svolsero così: la Lina Pederzani fece suonare il campanello che segnava la fine del lavoro e le operaie scesero in cortile in segno di protesta. In seguito allo sciopero i fascisti entrarono nella fabbrica e, avvalendosi delle delazioni delle loro spie che erano tra di noi, arrestarono due operaie che si erano particolarmente distinte per la loro attività, la Iolanda Goretti e la Giulia Maccagnani”, in: Roberto Fregna, Castelmaggiore 1943-45. Documenti e testimonianze della lotta contro il nazifascismo, Edizioni A.P.E., Bologna, 1974. 
  3. Alessandro Albertazzi, Luigi Arbizzani, Nazario Sauro Onofri, Dizionario biografico D-L, Bologna, 1986. Alla voce “Fornasari Jolanda” si legge “da Dante e Maria Palmieri; n. il 6/11/1921 a Molinella. Nel 1943 residente a Bologna. Licenza elementare. Operaia. Militò nella 7a brg GAP Gianni Garibaldi. Il 7/4/44, insieme con altri 13 operai, fu precettata per il lavoro in Germania, benché dipendente dallo stabilimento militarizzato Saponerie Italiane. Fu questa lʼoccasione attesa dal comitato di fabbrica diretto da Giorgio Damiani e Vittorina Tarozzi per organizzare il primo sciopero attuato nellʼaprile 1944 con unanime adesione degli operai. La loro ferma protesta, risolse positivamente la vertenza. Il comando tedesco fu costretto a revocare le precettazioni”. Nonostante la forma al maschile, le candidate alla deportazione e la maggioranza delle maestranze in sciopero erano donne. 
  4. Luigi Arbizzani, La Costituzione negata nelle fabbriche. Industria e repressione antioperaia nel bolognese (1947-1957), Grafiche Galeati – Imola, 1991, pp.26/27. 
  5. Bombardamenti aerei subiti da Bologna, 15 luglio 1943 – 23 aprile 1945
  6. Tutti i corsivi che seguono sono tratti da: Eloisa Betti, Elisa Giovannetti, Senza giusta causa. Le donne licenziate per rappresaglia politico sindacale a Bologna negli anni ’50, Editrice socialmente, 2014, p.252 
  7. Relazione sulla ricerca: Senza giusta causa. Le donne licenziate per rappresaglia politico sindacale negli anni ’50, Audio su Radio Radicale, 24 ottobre 2012 
  8. Gli “scioperi a rovescio” erano una forma di lotta dei disoccupati, appoggiati da lavoratori e cittadini, per imporre l’esecuzione di opere pubbliche. I disoccupati cominciavano a costruire strade, argini, canali di irrigazione, tratti ferroviari, e ne chiedevano la retribuzione. Le iniziative coinvolsero fino a 18.000 lavoratori, e subirono spesso una dura repressione. 
  9. Azienda Unità Sanitaria Locale di Bologna, L’Ospedale Maggiore, da Frate Riniero alle lotte popolari del dopoguerra. 
  10. Istat/ 800mila donne licenziate o ‘dimissionate’ perchè incinta, Wall Street Italia, 23 maggio 2011. 
  11. Per approfondire: Clash City Workers, Il Jobs Act si svela: se vi ammalate vi licenziamo, Enzo Pellegrin, I primi colpi del jobs act e il tramonto del principio di eguaglianza

LE RAGIONI DI LANDINI

 

di Paolo Ciofi – 25 febbraio 2015

Ricapitoliamo i fatti. Il segretario della Fiom Maurizio Landini, in un’intervista rilasciata al Fatto Quotidiano, dichiara che siamo alla «fine di un’epoca» e che pertanto «è venuto il momento di sfidare democraticamente Renzi». Per questo, precisa, «il sindacato si deve porre il problema di una colazione sociale più larga e aprirsi a una rappresentanza anche politica». Il quotidiano diretto da Marco Travaglio traduce e strilla un titolo a tutta pagina «Landini: ora faccio politica». Si scatena una indecente bagarre mediatica. E sebbene lo stesso Travaglio riconosca che quelle parole messe tra virgolette Landini non le ha mai pronunciate, il capo del governo le brandisce come un’arma impropria per mettere fuori gioco il segretario del principale sindacato operaio di questo paese, con l’obiettivo di delegittimarlo anche moralmente. Come se fare politica sia diventato un peccato mortale: per gli altri naturalmente, non per chi il potere politico lo detiene.

Il repertorio di frasi ad effetto del governante di Rignano, che come al solito si spoglia di ogni responsabilità pubblica, è abbondante. Ma la qualità è nettamente al di sotto del livello medio di alfabetizzazione politica: «Landini sceglie la politica perché ha perso con Marchionne»; «non è Landini che abbandona il sindacato, è il sindacato che ha abbandonato Landini»; «sul Jobs Act ognuno può avere l’opinione che vuole (bontà sua), ma è difficile pensare che tutte le manifestazioni non fossero propedeutiche all’entrata in politica». E così via. Senza alcun riferimento ai contenuti della materia del contendere. Perché, essendo stati imposti da colui che comanda, i contenuti sono per definizione giusti e «di sinistra». Dunque, indiscutibili.

In questa logica è addirittura inconcepibile che un sindacalista possa organizzare la protesta popolare e di massa contro l’eliminazione di diritti fondamentali come quelli sanciti dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Se lo fa non è per difendere un principio costituzionale, e perché crede nella giustizia sociale, nella solidarietà e nella democrazia, ma perché motivi loschi lo spingono a «entrare in politica». E se i sindacati protestano contro una patente violazione dei diritti del lavoro che moltiplica la precarietà, vanno ricondotti all’ordine. Meglio ancora se diventano una protesi dell’impresa, cioè del capitale, eliminando qualsivoglia rappresentanza generale e cancellando la contrattazione collettiva.

Insomma, un inguacchio retrogrado che guarda al passato. E che però è la dimostrazione inconfutabile della validità delle ragioni di Landini, quando denuncia che oggi il lavoro non ha rappresentanza politica, e che il sindacato deve coinvolgere tutti coloro che «per vivere devono lavorare». Dal sistema dei media l’attenzione viene invece strumentalmente concentrata sul dilemma se il segretario della Fiom scenderà o no in politica, nel tentativo finora riuscito di oscurare la sostanza del problema. In verità sono ormai molti anni che la classe operaia tradizionalmente intesa, i nuovi lavoratori generati dalla rivoluzione digitale, i precari e le partite iva, donne e uomini, giovani e anziani, non dispongono di un’autonoma e libera rappresentanza politica, che ne tuteli i diritti e la dignità, la condizione materiale e morale di fronte allo strabordante potere del capitale.

In questa area largamente maggioritaria sta la massa crescente degli elettori che non si sente più rappresentata dal sistema politico nel Parlamento della repubblica democratica fondata sul lavoro. Come dimostrano, tanto per stare ai dati più recenti, il successo di Grillo nelle elezioni politiche e l’astensione di oltre il 60 per cento degli elettori nel voto regionale dell’Emilia-Romagna. Landini dunque, sebbene con ritardo, enuncia una verità solare quando dice che in Italia il lavoro non ha rappresentanza politica. È un problema che dovrebbe agitare il sonno e turbare la coscienza di ogni democratico, perché il lavoro senza rappresentanza equivale a un’amputazione della democrazia. E proprio in questa amputazione risiede la causa più profonda della crisi democratica che stiamo vivendo, dalla quale certo non si esce con le (contro)riforme sociali e costituzionali del governo.

Non aiutano a chiarificare il quadro le filosofiche bubbole di Scalfari, per usare un termine a lui caro. Il quale prima ci fa sapere che «la definitiva attuazione del Jobs Act è un elemento molto positivo della politica economica renziana, anche se la fisionomia “classista” non sfugge a nessuno». E poi si rammarica osservando che se «la democrazia partecipata […] è in forte declino», «la causa si chiama indifferenza, soprattutto dei giovani». Come a dire: chi ti dovrebbe rappresentare non lo fa e anzi ti bastona, ma per non essere indifferente tu lo devi comunque votare.

Nel vuoto di rappresentanza che dura da anni, e che genera crescente indifferenza, c’è oggi però una novità rispetto al passato che Landini descrive così: «Renzi ha preso il programma di Confindustria e lo sta applicando», perdipiù «senza che nessun italiano abbia potuto votarlo». In altre parole, Renzi, che si proclama di sinistra, sta attuando il programma della destra e sta facendo ciò che neanche Berluscuni, il padre-padrone della destra, era riuscito a fare. Il massimo del trasformismo, che da una parte umilia il Parlamento esautorato della sua funzione legislativa, e dall’altra adotta un linguaggio menzognero e insultante degradando la politica a pura irrisione dell’avversario. Chi è Landini, se non uno sfigato, un povero perdente che vuole entrare in politica per scopi poco chiari? È dunque del tutto legittimo esporlo al pubblico ludibrio.

Nella sostanza si delinea una forma dura di autoritarismo, che punta al massimo di personalizzazione della politica, e quindi all’ascesa non effimera dell’uomo solo al comando. Con l’intento di consolidare un nuovo sistema di potere, conformando a questo fine l’insieme delle istituzioni e dei corpi dello Stato, dal parlamento alla magistratura. Su un aspetto Scalfari coglie nel segno: dal punto di vista sociale, questa è una fisionomia tipicamente classista, senza virgolette. In altre parole, siamo di fronte a un tentativo di modernizzazione capitalistica feroce, che cerca di farsi largo nella dimensione europea puntando tutto su un consenso trasformistico e mediatico. Ed è contemporaneamente la sepoltura senza onore della sinistra che sarebbe dovuta nascere dalla svolta della Bolognina di Occhetto.

Se ancora con Bersani l’ideologia prevalente nel Pd tendeva a conciliare il conflitto tra capitale e lavoro, fino a negarlo in una immaginaria visione buonista del liberismo dominante, con Renzi l’incantesimo si rompe. Lui sta con Marchionne contro Landini senza se e senza ma, vale a dire dalla parte del capitale contro il lavoro. E ci sta in modo ostentatamente dichiarato. Così il conflitto, che è organico al capitale come rapporto sociale, e che perciò non era mai scomparso in presenza di una la lotta di classe condotta con spietatezza dall’alto verso il basso, riappare alla luce del sole in una dimensione dichiaratamente politica. Fino a diventare un asse portante del governo e a mettere in discussione i principi della Costituzione, che fonda sul lavoro l’Italia democratica

da paolociofi.it

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JOBS ACT : COSA CAMBIA NELLA GESTIONE SALUTE E SICUREZZA NEL LAVORO


Cosa cambiano le nuove norme in materia di diritto del lavoro per quanto riguarda la qualità della gestione dei rischi per la salute e la sicurezza nel lavoro?  Dal punto di vista formale, per il momento, al di là della complessa vicenda dell’istituzione dell’Agenzia unica delle ispezioni sembrerebbe non cambiare nulla.

Ma non è vero. Jobs Act nei fatti ridisegnerà nei prossimi mesi e più in profondità nei prossimi anni i sistemi di relazione e potere  tra lavoratori e impresa, tra lavoratori e lavoratori e tra lavoratori e rappresentanza sindacale (Rsu e Rsa) e di scopo (Rls). Cercheremo di prefigurare in questo primo breve articolo e successivamente in profondità quali sono gli scenari attesi dell’impatto che avrà Jobs Act sulla  gestione della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro.

Il primo aspetto che subirà una trasformazione profonda e radicale sarà la possibilità e agibilità dei lavoratori e delle lavoratrici  di esprimere con la partecipazione il proprio punto di vista su aspetti critici della gestione della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro.

La storia della crescita della partecipazione dei lavoratori nei luoghi di lavoro, dagli anni ’70 in poi,  ha coinciso con un feed back continuo tra lavoratori e impresa  che è servito in molte  imprese per migliorare le modalità di gestione della sicurezza e delle condizioni di lavoro. La partecipazione dei lavoratori nelle imprese più illuminate è stata favorita dalla continuità dei rapporti di lavoro, dalla consapevolezza dei lavoratori che con il loro contributo di conoscenza sul campo aiutavano l’impresa a migliorare il lavoro e le condizioni di lavoro.

I lavoratori hanno fatto esperienze di partecipazione e hanno contribuito a migliorare la qualità del lavoro e della gestione degli aspetti critici riguardanti anche salute e sicurezza.

Le persone partecipano quando sanno di essere ascoltate e che in qualche misura il loro contributo di partecipazione conta e serve a migliorare la condizione complessiva del lavoro.

Tutto questo sarà ancora possibile dopo la ventata di cultura autoritaria e dirigista contenuta in filigrana nel dispositivo del Jobs Act ? I fattori negativi che taglieranno le gambe a qualsivoglia processo partecipativo sono intrinseci alla filosofia della norma.

Immaginiamo il vissuto non detto che passa per la testa di tante persone in queste ore. Sei un lavoratore anziano con esperienza e con qualità nel lavoro ma sei fuori “moda” in tempi della  “rottamazione”, non sei più un target sul quale l’azienda investirà. Eccoti pronto, se rompi le scatole, una bella procedura legale di autentico mobbing: il demansionamento con relativa riduzione del salario…
Il demansionamento è una delle esperienze più devastanti l’identità  e l’autostima della persona.
Se poi si vuole andare oltre c’è sempre il licenziamento per ragioni economiche ….

Questo potrebbe essere, purtroppo,  il  Jobs Act per voi,  cari ragazzi e ragazze nati negli anni ’50 …

Questo vale anche per i quarantenni e cinquantenni. Se questo sarà il clima in molte  aziende nei prossimi mesi, speriamo di sbagliare, si accrescerà nel silenzio la sofferenza e il rancore sociale che in genere non ha mai prodotto lavoro in qualità nè nulla di buono, neanche per i padroni.

Il peggio sarà la competizione silente tra colleghi nella triste gara di compiacere chi ha un pò più di potere sul tuo futuro di lavoratore, sul permesso per assistere il genitore anziano, sulla miriade di piccole cose della vita quotidiana nel lavoro e oltre. Chi conosce gli ambienti di lavoro sa di cosa parlo.

Sei un lavoratore giovane o una ragazza new entry, assunta con l’incentivo degli sgravi fiscali, ti faranno assaggiare per un pò un lavoro a tempo indeterminato … in alcuni casi soltanto fino all’esaurimento del beneficio fiscale… Il rinnovo del contratto, il passaggio concreto alle “tutele crescenti” sarà collegato alla sottomissione e adattamento passivo a ogni richiesta della gerarchia di prossimità, il team leader, il caporeparto. Sfortunati coloro che capiteranno sotto un team leader o caporeparto cattivello e un pò sadico.

La speranza per ciascuno di questi giovani e ragazze è quella  di capitare in un’azienda eticamente corretta che non intenda abusare dell’eccesso di potere che il Jobs Act ha attribuito all’impresa togliendo molti paletti rispetto agli abusi possibili da parte delle gerarchie intermedie e di prossimità.

Tutto questo rende molto più complessa la gestione dei rischi per la salute e la sicurezza: la partecipazione dei lavoratori in molte realtà sarà debole o totalmente subalterna. I rischi “psico-sociali” verosimilmente non saranno visualizzati e affrontati. Le nuove patologie da lavoro attese, oltre a quelle tradizionali saranno quelle “psicosociali”. [Vedi Rapporto Eisener 2 in questa stessa newsletter]

Ci sarà un clima diverso nelle aziende, con più silenzio, il non detto da parte dei lavoratori sarà la “comunicazione” prevalente, la prevenzione e la tutela della salute saranno più difficili in mancanza della partecipazione attiva dei soggetti interessati.

Questo scenario che prospetto è anche un’ipotesi di ricerca : sarei felice di essere smentito, tra qualche tempo,  come incorreggibile pessimista. In ogni caso i sindacati dei lavoratori si trovano di fronte ad una formidabile sfida su come, con la ricerca, riapprendere ad essere animatori di partecipazione in un contesto ancora sconosciuto come lo fu per qualche tempo il sistema produttivo dopo la ristrutturazione degli anni ’60. Allora le OO.SS  riuscirono a individuare il nuovo soggetto trainante la partecipazione che animò straordinarie lotte per il miglioramento della salute  e della sicurezza e delle condizioni di lavoro, l’operaio della linea di montaggio. Ora quel soggetto non è più trainante e le nuove serialità innovative sono tutte da scoprire.  Senza ricerca per una adeguata conoscenza del lavoro di oggi non c’è la speranza d’innovare il modo di lavorare del sindacato e il sindacato e migliorare le condizioni di lavoro , in salute e sicurezza.

Gino Rubini, editor di diario prevenzione

Jobs act, Poletti: “Smantellare articolo 18? Un anno fa non lo avrei immaginato”

 

“Abbiamo bisogno di cambiare radicalmente” “Quando siamo partiti c’era un ragionamento che diceva abbiamo bisogno di cambiare radicalmente. Non avevamo puntualmente definito tutti i punti su cui intervenire e i singoli problemi”, continua il ministro. “Non era possibile andare avanti” “La situazione di oggi – aggiunge – non è quella di 20 anni fa: era maturata la consapevolezza in Italia che c’era la necessità di un cambiamento radicale. I cittadini hanno realizzato che così non era possibile andare avanti”. fonte rainews

Come dire, questo signore dall’aria mansueta un anno fa non si immaginava neppure che avrebbe “smantellato” l’art.18. Come giustificazione allo scippo di diritti dei lavoratori,  la cui mancanza si comincerà a vedere a livello sociale e molecolare nelle fabbriche e in tutti i luoghi di lavoro tra non molto, afferma ” non era possibile andare avanti…” i cittadini hanno realizzato che così non era possibile andare avanti…”

A quali cittadini si riferisce il nostro amabile conterraneo ? Ai lavoratori precari che rimarranno precari ? A quei lavoratori che saranno “demansionati” perchè non sono simpatici al padrone ? Ai genitori con figlioli trentenni che non trovano lavoro , che sanno che non avranno mai un lavoro vero se non precario e malpagato magari in una delle fantasiose cooperative sociali romane che tanto  piacevano al nostro ministro…

Questo ministro signorsì, mansueto e obbediente pilastro del leader autoritario e avventuriero Signor Renzi, si comporta come un apprendista stregone che manipola senza troppa contezza miscele umane, sociali e professionali pericolose.

Il risultato di queste misure sarà quello di rendere inappetibile in tutte le sue forme il lavoro dipendente: un giovane o una ragazza con talento non avranno di certo nel loro orizzonte la meta di un lavoro dipendente, senza diritti e demansionabile a piacimento del padrone, licenziabili ad nutum con una manciata di spiccioli.

Cercheranno altro, faranno altro con micro aziende di servizi, piccoli bar e trattorie, con la fuga all’estero. Sarà l’impresa ad elevata tecnologia e complessa che farà fatica a trovare tecnici e operai specializzati, ma questi scenari non sono nella mente del nostro mansueto e obbediente ministro.

Gli effetti del Job Acts nel ricambio generazionale dei lavoratori si vedranno tra qualche anno quando avremo un paese pieno di resturant e bettole e le aziende ad alta vocazione specialistica e tecnologica se ne saranno andate a cercare lavoro di elevata qualità altrove.

Sia pure agnostici non ci resta che dire : ” Perdonali perchè non sanno quello che fanno”

 

La Ditta PD ha cambiato azionista di riferimento ……

Ci capita di vedere Taddei per tv con lo sguardo fisso e un pò allucinato che recita un sermoncino propagandistico decantando le magnifiche qualità delle condizioni di lavoro post Jobs Act. Una nuova ideologia, quella tardoliberista ha trovato uno zelante novizio ….

Da marzo vedremo i primi impatti di questa operazione che consegna il futuro di migliaia di lavoratori al potere unilaterale delle imprese di tenerli o di metterli alla porta. Lavoratori anziani non più prestanti ma ancora lontani dalla pensione, ammalati o con ridotte capability lavorative saranno in testa alle liste “Jobs Act” dei licenziamenti economici collettivi.
Qualche dirigente del Partito della nazione, già PD, si dirà amareggiato per questi “effetti collaterali” spiacevoli ma necessari come sacrificio per il bene della nazione.
Vedremo tra non molto ancora Taddei con lo sguardo fisso e un pò allucinato in tv affermare che …. le imprese non sono state ai patti ?

Sì perche la strategia del Renzi è quella della scommessa basata sul fatto che una volta spogliati i lavoratori dei diritti di base indispensabili per una condizione dignitosa di vita nel luogo di lavoro ( dal licenziamento facile al demansionamento ) le imprese dovrebbero rispondere con la ripresa delle assunzioni.

In questo caso il Presidente del Consiglio si sta comportando come quei broker che si fanno dare tutti i risparmi dai poveracci a volte un pò creduloni con la promessa di guadagni strepitosi per bruciarli in operazioni di borsa disastrose…
Questa è la “Ditta” che storicamente aveva come azionisti di riferimento i lavoratori ora ha le associazioni dei padroni, Confindustria in testa. Spiace che una persona perbene come Bersani stia a questo gioco: la “Ditta” ha cambiato padrone e amministratore delegato e Bersani e Cuperlo che non contano più nulla se ne stanno ancora lì ad aspettare Godot. Ma non per molto, dopo il Job Act i licenziamenti saranno più facili anche dentro la Ditta PD 🙂

Rimarranno invece alcuni zelanti novizi come Taddei che recitano con lo sguardo rivolto al cielo sermoncini apologetici sul Job Acts in tv: ecco i nuovi ideologi del pensierino tardo liberista

“il diritto del lavoro torna agli anni ’50. Oggi è il giorno atteso da anni…dalla Troika”.

 

“Straordinaria operazione propagandistica del governo sul lavoro. I contratti precari rimangono sostanzialmente tutti”. A bocciare senza appello il jobs act è Stefano Fassina, secondo cui “il diritto del lavoro torna agli anni ’50. Oggi è il giorno atteso da anni…dalla Troika”.

“La sbandierata rottamazione dei co.co.co è avvenuta da anni – rimarca Fassina – mentre i co.co.pro di fatto restano e si estende l’ambito di applicazione dei vouchers. Ammortizzatori sociali e l’indennità di maternità non vengono estese. Insomma, i decreti attuativi della delega lavoro approvati oggi dimostrano come l’unico vero obiettivo dell’intervento fosse cancellare la possibilità di reintegro per i licenziamenti senza motivo”. In sintesi, “non è una riforma. E’ una regressione”, secondo l’esponente della minoranza dem.

segue su fonte adn kronos

Libia, Prodi: “No alla guerra, nulla avvenga senza l’Onu”

 

“Prima di ricorrere alla forza, bisogna esperire ogni tentativo di mediazione. Il problema è che all’Onu oggi manca una guida”. L’ex presidente della Commissione Ue Romano Prodi interviene così sull’avanzata Isis in Libia

15 febbraio 2015″La questione libica è il prodotto della mancanza di dialogo tra popoli. Molti protagonisti, come gli esuli libici a Il Cairo, non sono mai stati sentiti”. Queste le parole dell’ex premier Romano Prodi sull’avanzata dell’Isis in Libia e sugli scenari di intervento da parte della comunità internazionale.
L’ex presidente della Commissione Ue dice subito “no alla guerra”, a meno che non sia esperito “ogni tentativo di dialogo”.
“Quando si vuole agire in un Paese, bisogna conoscere tutta la complessità della situzione e le conseguenze delle azioni”, scandisce Prodi, nell’intervista di Enrica Agostini di Rai News 24. “Non so perché sulla richiesta del governo libico di essere io il mediatore con la comunità internazionale, non sia stato effettivamente coinvolto”, chiarisce l’ex presidente della Commissione Ue.
“Io sono sempre stato a disposizione del mio Paese e della pace”, aggiunge Prodi.

“Nulla si può fare senza l’Onu, ma alle Nazioni Unite manca una guida” E sugli scenari della situazione in Libia, l’ex premier avverte: “Nulla si può fare senza l’Onu, ma l’Onu ha poche armi, e il problema di oggi è che nelle Nazioni Unite nessuna Potenza ha un ruolo catalizzatore, di guida”. “In questo caso, però – prosegue il fondatore dell’Ulivo – siamo nella situazione ideale per l’intervento delle Nazioni Unite, perché tutte le grandi potenze hanno paura dell’Isis”. Ucraina,

“Gli accordi questa volta possono essere rispettati” Sulla tregua in Ucraina, Romano Prodi definsce “efficaci” gli accordi di Minsk e ritiene che le parti in gioco, questa volta “possano rispettarli”. E la questione ucraina viene inquadrata dall’ex presidente Ue nel processo di “definizione delle zone cuscinetto tra le grandi potenze”. “Tsipras è un problema che può diventare un’occasione” “Tsipras è un problema che può diventare un’occasione per l’Europa. Se si andrà verso la mediazione, si allungheranno i tempi, ma i problemi potrebbero restare. Ai tempi dell’unificazione, la Germania fu aiutata e tutti ne beneficiammo”. Commenta così, Romano Prodi, la mediazione sul debito greco tra Atene e la Troika.

“L’approvazione delle riforme a maggioranza non mi convince” “Non mi piace l’approvazione delle riforme costituzionali con l’Aula mezza Vuota”, afferma Romano Prodi, sulla recente approvazione in prima lettura da parte della Camera, del Ddl Boschi. “Io concepisco la democrazia come alternanza. Il Partito della Nazione fa alternanza con se stesso? Potrebbe essere una contraddizione. Posso accettare il partito della Nazione come larga rappresentanza di interessi”. Questo il suo giudizio, sulla “centralità” del Pd nello scacchiere politico e sul progetto di Partito della Nazione. Sulla dialettica politica stimolata dal premier Matteo Renzi, Prodi dice: “L’accumulo di nemici a livello nazionale e internazionale alla lunga può non pagare”.

fonte RAINEWS24

Romano Prodi scuote la Germania: la Grecia non pagherà mai i suoi debiti

dal Blog di  Gad Lerner
sabato, 14 febbraio 2015

Romano Prodi ha concesso un paio di giorni fa un’intervista al quotidiano berlinese Tagesspiegel in merito alla Grecia e alle difficoltà dell’eurozona. Visto il suo interesse, riproduciamo integralmente questo dialogo dell’ex presidente della Commissione europea, che ha generato una significativa eco sui media tedeschi. Il sito del “Sole 24 Ore” tedesco, Handelsblatt, l’ha ripresa integralmente, mentre il più diffuso quotidiano in Germania, Bild Zeitung, ha dedicato un approfondimento dedicato all’intervista di Romano Prodi.

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Varoufakis: il mio marxismo “riformista”


-YANIS VAROUFAKIS-

Quando cominciai a insegnare economia, le autorità accademiche volevano che Marx non trovasse posto nelle mie lezioni, e all’Università di Sidney fui addirittura licenziato in quanto “militante dell’estrema sinistra”. Ed anche se in realtà non c’è molto marxismo nei miei libri attuali, continuo ad avere la fama di pericoloso marxista (sia pure “irregolare”): non contesto la definizione, perché continuo io stesso a sentirmi un marxista, benché critico.

Marx cominciai a leggerlo all’età di 12 anni. Fin da giovanissimo ero attratto dall’idea del progresso umano, del trionfo della ragione sulla natura, con tutti i vantaggi e gli svantaggi: questa concezione del mondo mi ha fortemente avvicinato a Marx, che ha fatto di ciò una narrazione drammatica ed insuperabile. La sua straordinaria dialettica, per cui ogni concetto è gravido del suo opposto (come le immense ricchezze e le spaventose povertà che il capitalismo produce, o la contraddizione tra proprietari che non lavorano e lavoratori senza proprietà), mi ha sempre affascinato, insieme all’occhio d’aquila con cui Marx vede le condizioni del cambiamento all’interno di strutture economico-sociali apparentemente immutabili. E credo che la validità del materialismo storico trovi continue conferme nella storia, nei modi più diversi. Forse che l’attuale montagna dei debiti sovrani non si spiega con la crisi di realizzazione descritta nel Capitale?

Ho sempre considerato quello di Marx, e lo considero tuttora, come il più grande contributo alla scienza economica, a partire dall’analisi della mercificazione del lavoro umano, che è l’affresco di un mondo disumanizzato, senza più pensiero critico né “sovversione”, quasi come in quel film di fantascienza che parlava dell’invasione della Terra da parte di replicanti senza sentimenti né creatività né libera volontà, automi che si limitano a lavorare, produrre e consumare, in una società che non sarebbe null’altro che il freddo meccanismo di un orologio o di un computer. Film come quello, o anche come Matrix, non sono fantascienza ma la fedele rappresentazione della società in cui viviamo, all’epoca del capitalismo avanzato, in cui i lavoratori sono ridotti a mera energia al servizio del sistema e della sua accumulazione. E per contrasto l’idea che il lavoro umano non debba essere mercificato perché radicalmente diverso da ogni altro fattore produttivo (in quanto soggetto e non oggetto della produzione), e che dunque l’umanità debba riprendere il controllo dei rapporti sociali da essa stessa creati liberandoli dalla alienazione, rappresenta ai miei occhi il più grande contributo di Marx al pensiero economico moderno.

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Podcast Audio Diario Prevenzione – Ambiente Lavoro Salute – 10 febbraio 2015 – puntata n° 25

 


In questa puntata parliamo di:

La grande prevenzione. l’Europa è in fibrillazione per il rischio che la guerra “a bassa intensità” che si sta consumando in Ucraina si trasformi in guerra globale che potrebbe coinvolgere l’intera Europa. La “grande prevenzione è “smontare” le dinamiche che rischiano di portare al “punto di non ritorno” della guerra … Speriamo anche questa volta di cavarcela…

RSPP – Rassegna Stampa sulla Prevenzione e Protezione dai rischi e danni da lavoro
Newsletter mensile contenente materiali su temi ergonomici e di prevenzione dei rischi e danni da lavoro, oltre una rassegna stampa di materiali pubblicati sui maggiori siti dedicati alla materia. Uno strumento di lavoro di grande utilità ….

– FONDAZIONE DON CARLO GNOCCHI – ONLUS  IRCCS S. Maria Nascente
DISABILITA’  E   ACCOMODAMENTO   RAGIONEVOLE:   DAGLI  AMBIENTI  DI  VITA   AI  LUOGHI DI LAVORO Convegno,  Milano, 6 marzo 2015

L’EMILIA ROMAGNA E LE MORTI BIANCHE.UN TRAGICO BOLLETTINO DIETRO IL QUALE SI CELA L’IMMANE DOLORE PER LA PERDITA DI 93 LAVORATORI.
A BOLOGNA SONO 16 LE VITTIME REGISTRATE. SEGUONO: MODENA (13), REGGIO EMILIA (12), FERRARA E FORLI’ –CESENA (11), RAVENNA (9), PARMA (8), PIACENZA (7) E RIMINI (6).QUASI LA META’ DEI LAVORATORI ERANO QUARANTENNI E CINQUANTENNI. IL SETTORE MANIFATTURIERO QUELLO PIU’ COLPITO. 15 LE DONNE MORTE SUL LAVORO. 19 I LAVORATORI STRANIERI COINVOLTI NEL DRAMMA.

– Emilia Romagna: l’obbligo di installazione di linee vita in edilizia

Dal 31 gennaio 2015 in Emilia Romagna vige l’obbligo dell’installazione di dispositivi permanenti di ancoraggio sulle coperture. Focus sulle indicazioni della Delibera
149/2013 e sulle linee di indirizzo per la prevenzione delle cadute dall’alto.


– La sicurezza dei pedoni: un manuale sulla sicurezza stradale per decisori e professionisti

Il rischio chimico per i lavoratori nei siti contaminati  MANUALE OPERATIVO

Pubblicazione realizzata da INAIL
Dipartimento Innovazioni Tecnologiche e Sicurezza degli Impianti, Prodotti e Insediamenti Antropici
Progetto: Gruppo di Lavoro INAIL su “Salute, ambiente e sicurezza nelle attività di bonifica dei siti contaminati”, Linea di ricerca P18L03 “Salute e sicurezza nelle attività di bonifica dei siti contaminati” (Piano di attività 2013-2015)

– Notizie in breve 

Documenti e  notizie di cui parliamo nel Podcast  sono pubblicate su
http://www.diario-prevenzione.it

 

 

E’ QUESTA LA NUOVA CIVILTA’ DEL LAVORO DEL JOBS ACT ?


Questi sono primi effetti del Jobs Act, lettere minacciose a lavoratori e lavoratrici che si sono assentati/e a causa di patologie gravi. Una platea vasta di uomini e donne, in particolare persone che si sono ammalate anche a causa del lavoro stanno ricevendo in questi giorni lettere intimidatorie di questo tipo. Alcuni di questi lavoratori sono ancora sotto chemioterapia o in convalescenza dopo interventi chirurgici … E’ questa è la nuova civiltà del lavoro permessa dal Jobs Act ?   editor

LA LETTERA

“Caro lavoratore”,
Dalle verifiche effettuate, a fronte di un tasso di assenteismo complessivo rilevato nel sito di ***** significativamente più elevato rispetto a quello riscontrabile presso gli altri siti produttivi del Gruppo **** e, in generale, tra le aziende del settore, e’ emersa un sua presenza al lavoro del tutto discontinua, caratterizzata da ripetute assenze di breve periodo, imputate a titoli diversi, potenzialmente tali da determinare un oggettivo impedimento alla possibilità di un utile impiego della sua prestazione lavorativa.
Più specificatamente, nel corso del periodo analizzato (dal xx/xx/xxxx al xx/xx/xxxx)
Ella e’ stata assente dal lavoro per un totale di xx giorni lavorativi, maturati in xx episodi di assenza per causali diverse, con una media dunque di x,x giorni a episodio.
Il difficile contesto economico che caratterizza i mercati in cui opera la nostra azienda impone l’adozione di adeguate misure di correzione degli abusi di istituti (di per se’ legittimi), ove si trasformino in periodi di assenza abnormi: la discontinuità della sua prestazione lavorativa, come sopra dettagliata, rappresenta un elemento di vanificazione dell’impegno posto in essere dalla collettività dei nostri dipendenti per superare le difficoltà dell’attuale momento.

Alla luce di ciò, desideriamo pertanto raccomandarle per il futuro un attivo impegno per assicurare una maggiore assiduità della prestazione lavorativa.
Le segnaliamo altresì che, laddove non constatassimo cambiamenti, fermo il diritto della nostra società di verificare l’effettiva giustificazione di ciascuna sua assenza, ci vedremo costretti a trarre tutte le conseguenze derivanti dalla mancanza di utilità e/o interesse per una prestazione caratterizzata da modalità siffatte.

Distinti saluti

segue firma del responsabile “risorse umane”

RENZI A EXPO15 UN DISCORSO DA MODESTO PROPAGANDISTA MENTRE IN EUROPA SI RISCHIA LA GUERRA

RENZI A EXPO15 UN DISCORSO DA MODESTO PROPAGANDISTA MENTRE IN EUROPA SI RISCHIA LA GUERRA

Mentre l’Europa è in fibrillazione per il rischio che la guerra “a bassa intensità” che si sta consumando in Ucraina si trasformi in guerra globale che potrebbe coinvolgere l’Europa il premier Matteo Renzi dal podio dell’Hangar Bicocca esordisce con queste frasi : ” Il 2015 è un anno felix per l’Italia” , “un anno” –  continua il premier ” nel quale ci sono tutte le condizioni per tornare a correre….”

Un intervento quello del Presidente del Consiglio di basso profilo, propagandistico,  avulso dalla realtà del momento. Mentre Merkel e Hollande erano al Cremlino per ricercare di allacciare un esile filo di comunicazione e medazione per evitare il baratro della guerra in Europa il nostro Presidente del Consiglio si prodigava a spargere ottimismo e a dipingere un mondo che non c’è o che rischia di non esserci più a breve.

Un richiamo ai rischi per la pace, un segnale che manifestasse attenzione e preoccupazione per la gravità della situazione in Europa avrebbe reso più credibile il discorso di lancio di EXPO 15.

Purtroppo la levatura politica modesta a livello internazionale del Presidente Renzi è apparsa anche oggi quando ha preferito rivolgere più attenzione ad un eventuale rischio di sciopero alla Scala  il primo maggio prossimo venturo che al rischio di una guerra sul suolo d’Europa.

La foga del propagandista non sostituisce l’inconsistente spessore politico a livello internazionale del Presidente del Consiglio italiano. Di ben altro spessore e complessità è stato il video messaggio del Papa che lanciato un messaggio importante  all’altezza della drammaticità della situazione internazionale che l’Europa e il mondo stanno vivendo.

Miracolo: hanno eletto Presidente un uomo perbene !!!

Le elezioni del Presidente della Repubblica si sono già svolte. E’ stato eletto un uomo perbene, competente che potrà rappresentare bene la Repubblica italiana. Il fatto che sia stato un democristiano poco conta. Nessuno è perfetto.
Scriviamo questi appunti per mettere in luce un fenomeno che ci ha impressionati. I mass media, giornali e tv si sono prodigati  con articoli di colore, servizi  sul campo apologetici e qualche volta sdolcinati.

Ciò che ho avvertito con fastidio è stato lo stupore per il fatto che è stato eletto Presidente della Repubblica un uomo perbene, competente, equilibrato ed affidabile nel rispetto della Costituzione. Questo è lo stato dell’arte del sentire la politica da parte di molti cittadini. Un fatto normale, la elezione di una persona normale, perbene e competente appare a molti quasi un miracolo, ad altri uno “scampato pericolo”…
E’ andata bene, ora tornano in agenda i grandi problemi che il Presidente ha richiamato nel suo intervento. E’ sulla soluzione di questi problemi che si misurerà il percorso per diventare un paese normale. Per ora l’Italia è ancora lontano dall’esserlo.

I greci si sono stufati di fare le cavie da laboratorio dell’Europa

 

I greci si sono stufati di fare le cavie da laboratorio dell’Europa

Autore: Argiris Panagopoulos
fonte area7.ch
Con una storica vittoria il leader della sinistra radicale greca Alexis Tsipras è diventato in Europa il primo Primo ministro contro l’austerità, la Troika – l’organismo di controllo informale costituito da rappresentanti della Commissione europea, della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale – e i Memorandum nel paese che è stato usato come cavia di laboratorio dalla Germania e il neoliberismo per travolgere gli equilibri sociali postbellici nel vecchio continente. Tsipras ad Atene punta su nuove alleanze aspettando la vittoria di Podemos in Spagna e di Sinn Fein in Irlanda mentre dalla parte della socialdemocrazia europea e dai paesi governati da socialisti e democratici, come la Francia e l’Italia, alcuni di loro pensano di salire nel carro del vincitore.

Intanto Tsipras aspetta di incontrare Matteo Renzi nella riunione del prossimo Consiglio Europeo, dopo che l’Italia e la Grecia avranno eletto rispettivamente il loro nuovo presidente della Repubblica, e punta al sostegno del leader italiano nella battaglia contro l’austerità.
I greci hanno licenziato il governo di Antonis Samaras e Evangelos Venizelos, i leader del partito di centrodestra Nuova Democrazia e dei socialisti di Pasok, lasciando però Tsipras a due passi dalla maggioranza assoluta, visto che Syriza ha avuto 149 sui 300 seggi del parlamento greco.
La formazione del nuovo governo con il sostegno dei moderati Greci Indipendenti di Panagiotis Kammenos non ha sorpreso nessuno in Grecia. I Greci Indipendenti provengono da una scissione della Nuova Democrazia quando Samaras ha sposato le tesi dell’austerità imposta da Angela Merkel.
Tsipras fino all’ultimo giorno della campagna elettorale aveva dichiarato che non andava a governare con partiti o persone che avevano collaborato con la Troika e che voleva la maggioranza assoluta. Con coerenza ha seguito questa linea anche dopo il voto declinando le voci delle sirene che volevano vederlo governare con il Pasok o con i populisti di Potami (Fiume). Tsipras e Syriza hanno cercato, come hanno fatto anche prima delle elezioni, la collaborazione del Partito Comunista ortodosso Kke, che ha dichiarato però che voterà tutte le leggi che non saranno antipopolari.
Il leader della sinistra greca ha fatto il primo strappo con un giuramento laico, abbandonando la tradizionale Bibbia che in Grecia simboleggia per tanti la sottomissione dello stato alla chiesa ortodossa e il nazionalismo greco. Esempio che ha seguito il giorno dopo la maggior parte del suo governo, esclusi quattro ministri e i rappresentanti dei Greci Indipendenti, che con Kammenos come ministro della Difesa hanno avuto solo cinque incarichi tra ministri, viceministri e sottosegretari.
La verità è che il governo di Tsipras è fortemente un governo di sinistra, che va dal vicepresidente del governo, l’economista Giannis Dragasakis, fino ai “ragazzi della generazione di Genova”, dallo stesso Tsipras o dal portavoce del governo Gabriil Sakelaridis e il braccio destro del leader greco, Nikos Pappas.
Le aspettative dal governo di Tsipras in Grecia sono tante, come dimostra il quasi 10 per cento in più che ha avuto il suo partito rispetto alle elezioni per il Parlamento europeo del maggio scorso. Ci si aspetta che con le prime decisioni di Tsipras e dei suoi ministri che occupano i ministeri del Lavoro e dello Stato Sociale partirà una raffica di leggi che ripristinerà: il salario minimo a 751 euro (i livelli prima della crisi), i contratti collettivi e la contrattazione collettiva (abolita dalla Troika), l’entrata nel sistema sanitario nazionale di quasi un terzo della popolazione, che grazie ai Memorandum non ha diritto ad un medico e alle medicine.
Ma la partita più importante si giocherà con la Commissione Europea, la Troika e naturalmente Merkel. Il “partito dell’austerità”, con la cancelliera tedesca in testa, avvisa Tsipras che non ci saranno concessioni e si dovranno rispettare le firme e gli accordi con i precedenti governi.
Il chiaro messaggio dei cittadini greci contro l’austerità offre a Tsipras e Syriza la forza di insistere sui loro tre obiettivi più importanti per ricostruire il loro paese: una Conferenza Europea per il Debito, con la cancellazione della maggior parte dello stesso, l’abolizione del Patto di Stabilità e un New Deal europeo per la creazione dei posti di lavoro fisso attraverso gli interventi pubblici per far ripartire un’economia ecosostenibile.
Da parte sua Tsipras la lasciato un chiaro messaggio dopo il suo giuramento e prima di insediarsi nella residenza del primo ministro visitando il campo di tiro di Kaisariani a due passi dal centro di Atene lasciando dei fiori in memoria dei centinaia di partigiani e comunisti fucilati dai nazisti durante l’occupazione tedesca.

fonte area7.ch