America Latina, primi effetti della linea Trump . Cile esce da ATP

Ap, Afp, Reuters y Xinhua
Periódico La Jornada
Miércoles 25 de enero de 2017, p. 26

Santiago.

El canciller chileno, Heraldo Muñoz, anunció este martes que su país dejará el Acuerdo Transpacífico (ATP), luego de que el presidente de Estados Unidos, Donald Trump, ordenó la salida de su país del proyecto, por lo que buscará su integración con países de Asia-Pacífico, informaron medios locales. Mientras, el presidente de Perú, Pablo Kuczynski, dijo que la región Asia-Pacífico debe buscar otro tratado de libre comercio que incluya a China.

Muñoz explicó que Chile va a persistir en la apertura al mundo y en la integración con distintas modalidades, como lo hemos hecho en el pasado, con acuerdos bilaterales, subregionales y regionales, y agregó que la cancillería evalúa organizar un encuentro con algunos de los países que forman parte del ATP.

Además de Chile y Estados Unidos, el ATP fue firmado por Japón, Australia, Malasia, Brunei, Nueva Zelanda, Singapur, Vietnam, Canadá, México y Perú.

El acuerdo de 2015, que Estados Unidos había suscrito pero no había ratificado, era un pilar del ex presidente Barack Obama en materia comercial. Sin embargo, Donald Trump retiró a su país del acuerdo.

En su tercer día en la Casa Blanca, el magnate afirmó que la salida de Estados Unidos del mayor convenio comercial de las últimas dos décadas es algo grande para el trabajador estadunidense.

L’ARTICOLO SEGUE ALLA FONTE  JORNADA.MX.COM

Comincia l’era di Trump: il rapporto Cina-Usa e il rischio di una guerra

fonte  analisidifesa.it  che ringraziamo

 

di Wei Jingsheng

Washington (AsiaNews) – L’Ufficio di propaganda del Partito comunista cinese ha ordinato ai media della Cina di “maneggiare con cura” ogni articolo legato all’inaugurazione della presidenza di Donald Trump, che avverrà oggi. “Ogni articolo su Trump – si legge nella direttiva – deve essere maneggiato con cura e non è permessa alcuna critica non autorizzata delle sue parole o azioni”.

La cautela espressa in questi ordini fa a pugni con l’ironia e le critiche riversate settimane fa, dopo che Trump ha accusato la Cina di essere “un manipolatore di valuta” e di voler tassare i prodotti cinesi da export, che distruggono i posti di lavoro negli Usa. In più vi è stata la battuta sul non sentirsi obbligati a mantenere la politica dell’unica Cina, accettando una conversazione telefonica con la presidente di Taiwan.
Il timore di una guerra commerciale – e forse anche una guerra reale per il controllo del mar Cinese meridionale – è espresso da molti analisti dell’Asia, i quali concludono – come George Yeo, ex ministro degli esteri di Singapore – che è meglio per le due superpotenze non scontrarsi.
Va aggiunto che diversi dissidenti cinesi negli Stati Uniti, come Yang Jianli, si sentono onorati di partecipare alla cerimonia di inaugurazione a Washington. Essi sperano che Trump sostenga la causa dei diritti umani in una maniera più forte di quanto abbia fatto Hillary Clinton e Barack Obama, sempre ricattati dalle lobby economiche.
Per Wei Jingsheng, il “padre della democrazia” in Cina, ora esule negli Usa, ci sarà una guerra fra Cina e Stati Uniti e la Cina sarà costretta a cambiare molti aspetti della sua economia e società. Presentiamo qui una sua riflessione. Sulla presidenza di Donald Trump siamo sicuri di alcune cose:

1) Donald Trump è il prossimo presidente degli Usa, ciò significa che una politica estera debole, come quella dell’amministrazione Obama è giunta a termine.
2) La politica fondamentale di Trump sarà quella di correggere relazioni commerciali irragionevoli e lo sforzo maggiore sarà di trasformare i rapporti di “libero scambio” in rapporti di “scambio equo”.
3) L’obbiettivo è fermo sulla nazione che ha il commercio più ingiusto, la Cina.
4) Donald Trump è pronto a evitare gli strumenti di negoziato usati in passato usando invece il blocco del mercato, cioè attuando una guerra commerciale, per forzare la Cina e altre nazioni ad accettare regole più eque.
5) La sua strategia internazionale si muove verso un alleggerimento del rapporto con la Russia per focalizzarsi sull’espansione della Cina.
6) Unirsi in alleanza con le nazioni in Asia e con l’India per sopprimere l’espansione strategica della Cina e per forzare o indurre le nazioni del Sudest asiatico a ritornare all’abbraccio con gli Stati Uniti.

Quanto elencato sopra è ciò che succede anche dapprima che Trump prenda possesso della casa Bianca. Per riassumere, possiamo vedere che il principale obbiettivo è il regime comunista in Cina. E vi sono due scopi fondamentali: uno è il rapporto commerciale Cina-Usa; l’altro è il controllo del mar Cinese orientale e meridionale. Donald Trump ha la possibilità di vincere queste due battaglie? Oppure Xi ha qualche possibilità di vincere una di queste? Proviamo a fare un’analisi un po’ rozza.
Trump deve riformare le relazioni commerciali fra Cina e Stati Uniti. L’esperienza del passato mostra che i negoziati con il governo cinese non cambiano il teppismo di quest’ultimo. Perfino il pacifista Mohandas Gandhi ha detto che quando una banda armata di ladri penetra nel villaggio, non c’è modo di negoziare, ma occorre buttarli fiori con la forza. E questo lo fa la polizia. Ora gli Stati Uniti sono in qualche modo la polizia mondiale.

Qual è l’arma degli Stati Uniti? È il mercato Usa. In passato la Cina metteva blocchi al proprio mercato invadendo gli Usa con i suoi prodotti. Ciò ha permesso ai capitalisti di Cina e Stati Uniti di avere profitti eccezionali, mentre negli Usa si perdevano un mucchio di posti di lavoro. Lo scopo finale di Trump è di equilibrare il commercio fra Cina e Stati Uniti e di accrescere il tasso di occupazione negli Usa.

Quale sarà la strategia di Trump? Premettendo che la Cina gode dei vantaggi del commercio, ma non è pronta ad aprire il suo mercato, Trump è pronto a guidare il lancio di una guerra commerciale, proteggendo il mercato Usa e bloccando gli economici prodotti cinesi dal raggiungere tale mercato. Qualunque sia la reazione della Cina, questa misura dovrebbe vincere, essa porterà a un accrescimento dell’industria manifatturiera Usa e a una crescita dell’occupazione.
Quale sarà la reazione di Xi Jinping?

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Per una sociologia della bufala

FONTE ALFABETA2 che ringraziamo

Fabrizio Tonello

Se si cerca in rete alla voce “Hillary Clinton arrested” compaiono 439.000 occorrenze, per la maggior parte legate a un video dell’ottobre scorso presente su YouTube nel quale una voce molto professionale scandisce quello che si presenta come un comunicato della polizia di New York che avrebbe annunciato l’imminente fermo della candidata democratica perché coinvolta in un giro di pedofilia e tratta di esseri umani. Una rete di criminali la cui esistenza sarebbe stata rivelata dalle famose email di Hillary scambiate con i suoi collaboratori usando un indirizzo privato e non quello ufficiale assegnatole dal Dipartimento di Stato.

Naturalmente questa è solo una delle mille storie fantastiche circolate nei mesi precedenti alle elezioni dell’8 novembre, tra cui la bufala che Papa Francesco aveva dato il suo sostegno a Trump (un milione di condivisioni su Facebook) o quella che Obama voleva vietare il giuramento di fedeltà alla bandiera americana (due milioni tra commenti e condivisioni). Da questo a trarre la conclusione che i russi avevano influenzato le elezioni presidenziali americane a vantaggio di Donald Trump non c’era che un passo, allegramente varcato dai grandi media americani ed europei. Scandalo e orrore, seguiti da editoriali a valanga sulla “democrazia inghiottita dalle fake news”.

Il problema di questo storytelling è che assomiglia un po’ troppo a un caso di panico morale, come definito a suo tempo dal sociologo Stanley Cohen, per essere credibile. La caratteristica delle ondate di panico morale, infatti, è un’esagerazione della gravità della questione portata all’attenzione dell’opinione pubblica, come quando nel 1964 i giornali inglesi crearono il mito dei giovani come nemico pubblico sfruttando le risse di poche decine di motociclisti annoiati e turbolenti nelle fredde stazioni balneari del sud dell’Inghilterra.

I rockers e i mods ovviamente non stavano minacciando di dare l’assalto al Parlamento di Westminster, ma Cohen comprese che l’isteria giornalistica era un fenomeno più profondo di quanto non potesse sembrare a prima vista. Il panico morale si scatena quando “una condizione, episodio, persona o gruppo di persone viene definito come una minaccia ai valori e agli interessi della società; la loro natura viene presentata in modo stilizzato e stereotipato dai mass media; il pulpito morale viene affollato da direttori di giornali, vescovi, politici e altri benpensanti; esperti socialmente riconosciuti pronunciano le loro diagnosi e le loro soluzioni; si ricorre a vari modi di affrontare la situazione; la condizione poi scompare, o degenera e diviene più visibile. Talvolta l’oggetto del panico è assai nuovo mentre in altri momenti si tratta di qualcosa che esisteva da tempo, ma improvvisamente sale alla ribalta”.

In altre parole, la percezione della minaccia si trasforma nella scelta di capri espiatori che vengono resi responsabili di problemi ben più grandi di loro, com’è il caso oggi con le bufale in rete, rese responsabili della vittoria di Donald Trump. Che le fake news siano una spiegazione assai comoda lo si capisce leggendo il rapporto ufficiale delle varie agenzie di intelligence americane, dove sostanzialmente si ammette che non c’è stata alcuna interferenza materiale dei russi nelle operazioni elettorali e quindi tutto si riduce alla propaganda anti-Clinton di media e politici legati al Cremlino.

Soprattutto, ciò che il rapporto non spiega (e gli editoriali dei giornali liberal ignorano) è per quale meccanismo la confusione creata dalle menzogne in rete avrebbe danneggiato Clinton più di Trump. Certo, quest’ultimo era a sua volta un produttore instancabile di frottole cosmiche ma allora sarebbe più esatto dire che le false notizie erano propaganda dei repubblicani (spesso ripresa da media “seri” come Fox News e Wall Street Journal) e non complotti di Putin. Com’è ovvio, tutte le presunte notizie legate alle email di Clinton, ai suoi scandali, crimini e misfatti, venivano da siti o individui legati all’area dei suprematisti bianchi, in particolare a quello Steve Bannon che Trump si è affrettato ad assumere prima come direttore della campagna elettorale e ora come consigliere speciale della presidenza.

I difensori più sofisticati della teoria che le fake news sono una minaccia per la democrazia puntano il dito sulla confusione e sull’impossibilità, per il cittadino, di formarsi un’opinione corretta dei candidati e delle politiche se tutto viene ridotto al livello di pettegolezzi scandalistici. In questa forma la tesi ha una sua plausibilità ma si dimentica che il problema è tutt’altro che nuovo: come scriveva 50 anni fa Hannah Arendt, “nessuno ha mai dubitato del fatto che verità e politica siano in rapporti piuttosto cattivi l’una con l’altra e nessuno, che io sappia, ha mai annoverato la sincerità tra le virtù politiche. Le menzogne sono sempre state considerate dei necessari e legittimi strumenti non solo del mestiere del politico o del demagogo, ma anche di quello dello statista”. E la Arendt continuava speigando che, per sua natura, la facoltà umana del linguaggio consente di comunicare infiniti “stati del mondo” che possono essere o no corrispondere alla realtà (non entriamo qui nell’antico dibattito filosofico su cosa sia la “verità”, discussione che – da Platone a Gianni Vattimo e Richard Rorty – ci porterebbe lontano).

In Gran Bretagna e negli Stati Uniti, le false notizie sui politici e le celebrità difficilmente possono essere considerate un fenomeno del 2016 visto che, per fare un solo esempio, da decenni esistono, e fanno lauti profitti, i cosiddetti supermarket tabloids, che si chiamano così appunto perché vengono venduti alle casse dei supermercati e non nelle edicole. Esiste addirittura un vecchio, esilarante, romanzo di Donald Westlake intitolato Fidati di me (nell’originale Trust me on this) ambientato nella redazione di uno di questi settimanali.

I “giornali seri” hanno sempre fatto finta di ignorarli ma della loro influenza si parla almeno da vent’anni: il famoso caso Lewinsky, che condusse al procedimento di impeachment in cui alla fine Bill Clinton fu assolto nacque da un sito di gossip, il Matt Drudge Report, e poi invase l’intero sistema dei media. Già allora gli stessi grandi giornali avevano scelto di competere sul mercato dei pettegolezzi e la velocità con cui comparivano le notizie on line aveva rimodellato l’ecosistema, unificando di colpo il mercato dell’informazione/intrattenimento e precipitando siti web, quotidiani nazionali, quotidiani locali, settimanali, radio e televisione in un unico calderone informativo. Tutti insieme, in furiosa competizione gli uni con gli altri per rivelare di che colore era il vestito indossato dalla stagista nell’ufficio ovale e se davvero conservava una macchia con materiale biologico dell’imprudente Bill.

Se internet ha cambiato le regole del gioco, questo non è certo avvenuto di colpo: la comunicazione diretta sotto forma di blog e siti improvvisati era in grado di saltare la mediazione dei giornalisti già vent’anni fa. La novità del 2016 è ovviamente il fatto che con Facebook e Twitter tutto è più facile e più rapido. Ma perché le notizie diventano “virali”? Forse converrebbe chiedersi perché molti credano a una notizia come quella dell’imminente arresto di Hillary, invece di precipitarsi a cercare lo zampino di Putin, o degli hacker rumeni.

Un vecchio signore tedesco con la barba che scriveva cose noiosissime nell’Ottocento affermò tra l’altro che “non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”. Si potrebbe obiettare che le conclusioni a cui portava questa impostazione non sempre si sono rivelate corrette, ma limitiamoci al caso americano: i maschi bianchi senza educazione universitaria che vivono nelle zone rurali che hanno votato per Trump sono quelli lasciati indietro dalla ripresa economica negli anni di Obama. Sopravvivono di lavoro precario, o dei magri sussidi della Social Security.

Secondo un recente studio dell’economista Alan Krueger sono oltre 7 milioni gli americani maschi tra i 25 e i 54 anni che non hanno lavoro e non lo cercano perché scoraggiati, quindi non sono contati fra i disoccupati. Il tasso ufficiale di disoccupazione, attorno al 5%, maschera un forte calo del tasso di partecipazione al mercato del lavoro, che nel 2007 era il 66,4% e adesso è il 62,9%, tre punti e mezzo in meno, dieci milioni di persone. C’è da stupirsi che il loro risentimento verso Washington e verso la coppia Clinton che aprì le porte alla globalizzazione sia legato all’insicurezza economica? È il risentimento che apre la porta alle fake news, non le cospirazioni di Putin.

L’antropologa Katharine Cramer, autrice di un lungo lavoro sul campo con la working class del Wisconsin, aveva registrato un forte grado di ostilità verso Hillary Clinton molto prima della campagna elettorale del 2016. Le notizie sui suoi discorsi superpagati a Wall Street, o sulle attività all’estero della fondazione Clinton non hanno fatto che rafforzare l’impressione di una “crooked Hillary”, qualcuno che aveva mille cose da nascondere.

Le conseguenze politiche del risentimento verso le élites sono state amplificate dalle debolezze strutturali del giornalismo americano. La prima è la sua ossessione per le dichiarazioni dei politici, tanto più pubblicizzate, analizzate, commentate, quanto più sono clamorose. “Trump è dannatamente buono per gli indici di ascolto” diceva nel febbraio scorso Leslie Moonves, il presidente della rete televisiva CBS. Da uomo di spettacolo, Trump aveva capito perfettamente che ogni giorno occorreva dare alle televisioni ciò che chiedevano, e rincarava la dose. Quelle che ai giornalisti apparivano proposte insensate (far pagare al Messico il muro da costruire sul confine) erano in realtà abili provocazioni per mantenere alta l’attenzione e catturare anche lo spettatore distratto o marginale.

Internet, da almeno due decenni, ha unificato il mercato giornalistico precipitando prestigiosi quotidiani nazionali e modesti quotidiani locali, storici settimanali e oscuri blog, insieme a radio, televisioni e quant’altro in un unico calderone informativo; tutti insieme, in furiosa competizione gli uni con gli altri, a caccia di clic. Il cosiddetto giornalismo di qualità ha modificato i suoi parametri di riferimento e i suoi criteri di scelta delle notizie cercando di mantenersi a galla e di sopravvivere al calo delle vendite o degli indici di ascolto.

Secondo uno specialista di monitoraggio dei programmi televisivi, Andrew Tyndall, citato da Nicholas Kristof sul New York Times del primo gennaio, nei telegiornali della sera del 2016 il tempo dedicato alla povertà, al cambiamento climatico o alla dipendenza da stupefacenti è stato esattamente di zero minuti. I grandi media sono stati letteralmente ipnotizzati da Trump, dalle sue accuse, dalle sue buffonate, dalle sue minacce; mentre l’approfondimento, o anche il solo discutere di issues, le questioni di fondo, veniva dimenticato.

Il secondo problema è che il modello economico dell’industria editoriale da tempo è in crisi. I media sono imprese private che, in una società capitalistica, esistono in quanto fanno profitti e i giornalisti, prima di essere paladini dell’informazione, sono umili salariati che si occupano di ciò che l’editore e il direttore decidono. Se la proprietà vuole dare credito alle bugie di George W. Bush sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, con conseguenze disastrose per gli Stati Uniti e per il mondo, non saranno né il giovane cronista né il prestigioso editorialista a rovesciare la situazione. Il giornalismo mainstream – in America come in Italia – vive in un rapporto incestuoso con il potere politico per ragioni di efficienza industriale, non per servilismo o cattiveria: semplicemente non si possono fare giornali come Washington Post e New York Times (e nemmeno Repubblica o Corriere) se le fonti governative non collaborano. Lo ha ben capito l’Huffington Post che, dopo aver attaccato Trump per mesi e mesi, dopo la sua elezione ha cambiato bruscamente rotta.

Questa situazione è all’origine della terza debolezza del giornalismo americano: l’impopolarità di giornali e giornalisti. Quando Trump twitta contro i “media disonesti” va a toccare una corda sensibile dell’opinione pubblica, che già vent’anni fa si diceva convinta che i quotidiani “drammatizzano alcune storie solo per vendere di più” (85% degli intervistati) e che “i giornalisti inventano in tutto o in parte ciò che scrivono” (66%). La diffidenza verso la grande stampa ha radici antiche nell’America rurale, quella ignorata dai cronisti, e il successo dei siti alternativi, compresi quelli che sfornano bugie a raffica, è la conseguenza di un risentimento verso i giornalisti, percepiti (non del tutto a torto) come parte dell’establishment.

Ora tutti si chiedono cosa fare, come impedire che le campagne elettorali diventino di nuovo un festival di esagerazioni e menzogne. Purtroppo non ci sono soluzioni semplici, tanto più in una società politicamente divisa e antagonista come quella americana: non saranno i ritocchi agli algoritmi di Facebook o la chiusura di una manciata di account Twitter a risolvere il problema. Chi vuole credere che Obama è nato in Kenya o che Hillary Clinton protegge un’organizzazione di pedofili continuerà a crederci, soprattutto se i rispettabili Fox News e Wall Street Journal di Rupert Murdoch continueranno a lanciare il sasso e nascondere la mano. Forse è la sinistra che dovrebbe smettere di alimentare il panico morale attorno alle fake news e reimparare a comunicare. Una difficoltà che nasce non dalla scarsità di piattaforme ma dalla povertà della sua visione del mondo.

Il suicidio delle sinistre di Carlo Galli

Il suicidio delle sinistre
di Carlo Galli, 11 gennaio 2017

La demolizione dei templi del neoliberismo, sconsacrati e delegittimati ma ancora torreggianti sulle nostre società e sulle nostre politiche, comincia dal pensiero critico, capace di risvegliare il mondo «dal sogno che esso sogna su se stesso». In questo caso, dall’economia eterodossa, declinata in chiave teorica e storica da Sergio Cesaratto – nelle sue Sei lezioni di economia. Conoscenza necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne), Reggio Emilia, Imprimatur, 2016 –, esponente di una posizione non keynesiana né pikettiana né «benicomunista», ma sraffiana, e quindi in ultima analisi compatibile con il marxismo. Nella sua opera di decostruzione delle logiche mainstream vengono travolti i fondamenti del neo-marginalismo dominante: ovvero, che il concetto chiave dell’economia è la curva di domanda di un bene; che esistono un tasso d’interesse naturale, un tasso di disoccupazione naturale, un salario naturale, e che devono essere lasciati affermarsi; che c’è equilibrio e armonia fra capitale e lavoro; che c’è relazione inversa fra salari e occupazione (e quindi che la piena occupazione esige moderazione salariale); che il sistema economico raggiunge da solo l’equilibrio della piena occupazione se non ci sono ostacoli alla flessibilità del mercato del lavoro; che il risparmio viene prima degli investimenti; che la moneta determina i prezzi; che il nemico da battere è l’inflazione e che a tal fine si devono implementare politiche deflattive e di austerità, e intanto si deve togliere il controllo della moneta alla politica e conferirlo a una banca indipendente che stabilizza il tasso d’inflazione.

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ARGENTINA . CONTINUA LA PERSECUZIONE DI MILAGROS SALA LEADER DELLA ORGANIZZAZIONE TUPAC AMARU (articolo da Pagina 12 )

 

Milagros Sala leader della Organizzazione TUPAC AMARU

 

ARGENTINA . CONTINUA LA PERSECUZIONE DI MILAGROS SALA LEADER DELLA ORGANIZZAZIONE TUPAC AMARU (articolo da Pagina 12 )

Se conocieron los fundamentos de la condena a Milagro Sala por el acampe en Jujuy
“Una afrenta directa a la protesta social”
El juez de faltas Matías Ustarez Carrillo no explica las razones de la pena que le impuso a Sala. Los abogados defensores señalan que la proscripción es arbitraria, inconstitucional y no está contemplada en el Código Contravencional de la provincia.
Acaban de conocerse los fundamentos de la condena a Milagro Sala y a la Organización Túpac Amaru por el acampe en la Plaza Belgrano. La dirigente había sido condenada a pagar una multa de 3780 pesos y a una inhabilitación de tres años y tres meses para ocupar cargos en asociaciones civiles. Los fundamentos ahora vuelven a confirmar lo que en su momento mostró la sentencia: la existencia de una condena excesiva, ilegal e inconstitucional, que ahora también demuestra su carácter completamente arbitrario porque ni siquiera está fundamentada, según explicaron a este diario los abogados Ariel Ruarte, de la Túpac, y Federico Efrón, del CELS. “Los fundamentos son claramente una afrenta directa a la protesta social argentina”, señala Efrón, y agrega que la proscripción de tres años ni siquiera está prevista por el Código Contravencional de Jujuy, que limita la pena a un plazo máximo de tres meses. “Lo que queda es ir hasta la Corte Suprema, porque acá está en juego el derecho a protestar, el derecho a formar parte de asociaciones, el trabajo de las asociaciones, que son derechos consagrados por la Constitución.”

En una resolución de 32 carillas, el juez de faltas Matías Ustarez Carrillo da por probada la materialidad de la manifestación de 33 días en la Plaza Belgrano y sus inmediaciones. Pero los fundamentos no explican las razones de la condena ni dan cuenta del modo en que se valoraron las pruebas. Transcribe lo que fue pasando desde el comienzo de la causa y encuadra los hechos en los artículos 113 y 7 del Código Contravencional de Jujuy, sin dar referir el camino lógico por el que lo hace. Cuando debe pararse frente a la cuestión de fondo, que es el derecho a la protesta consagrado por la Constitución y tratados internacionales, admite esos derechos en términos ideales pero se los quita al acampe en particular. Para Ustarez Carrillo, fue una “ocupación irregular” y “desproporcionada”, donde se instalaron “piletones, gazebos, palos, asadores, carpas, lonas, distintos tipos de vehículos, megáfonos, equipos de audio, banderas y permanencia de centenares de personas durante las 24 horas del día”. Explica que hubo “ciudadanos” que no pudieron ir a la misa de Navidad y Reyes Magos en la Iglesia Catedral. Y como contrapartida inventa una suerte de catálogo de manifestaciones posibles que deberían ser “pacíficas” y adecuadas a una “Ley de Procedimientos Administrativos”, cuyo cumplimiento tornaría abstractos todos los actos de protesta.

l’articolo segue alla fonte PAGINA12

La rabbia dei poveri sfruttata dai ricchi – Francesco Ciafaloni

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Donald Trump, magnate immobiliare e dei media, conduttore televisivo, uomo di spettacolo, famoso per il suo rapporto problematico con la verità e per le suo opinioni oltraggiose, è stato eletto presidente degli Stati Uniti. Non è stata una elezione travolgente. Come è noto Hillary Clinton ha avuto molti più voti popolari, anche se ne ha presi vari milioni meno di Obama, mentre Trump ha avuto, più o meno, i voti di McCain, diversamente distribuiti tra gli Stati. A questo proposito si può solo sottolineare la (crescente) patologia del sistema elettorale americano, che, oltre al resto, esclude circa 6 milioni di pregiudicati, rende difficile il voto dei poveri e dei neri (senza più la possibilità di un controllo federale perché la Corte suprema lo ha dichiarato non più necessario), riduce il numero delle sezioni nelle aree ritenute avverse al Governo locale (da cui le code), ridisegna, con lo stesso fine, le circoscrizioni.

La vittoria di Trump è la conferma di tendenze note, non limitate agli Stati Uniti. Le elezioni non si vincono più al centro, adagiandosi sulla continuità, perché la continuità è insopportabile per la maggioranza; si vincono schierandosi. Obama si era schierato. Sanders si sarebbe schierato. Trump si è schierato. E’ determinante, negli Stati Uniti e nei paesi a bassa partecipazione, a cui il nostro si è aggiunto di recente, il voto di chi in genere non vota; il voto di protesta; la mobilitazione degli astenuti.

La vittoria di Trump è però di rottura, genera allarme, anche perché segna una svolta nel populismo americano, che tradizionalmente ha avuto leader popolari, poveri, che hanno vinto su piattaforme di destra dal punto di vista dei diritti civili, dell’universalismo, ma di sinistra dal punto di vista sociale, per una parte dei poveri. E perché prefigura una politica estera nuova, forse pericolosa.

Un commentatore del “New Yorker” ha scritto di Trump: “He is no Huey Long.

Huey Long è stato un populista alla vecchia maniera, governatore della Louisiana dal ’28 al ’32, con un vice cajun, cioè francofono, senatore dal ’32, possibile candidato alla Presidenza degli Usa, ammazzato a Baton Rouge nel ’35. Aveva frequentato con profitto scuole locali ma non il college, per cui aveva vinto l’ammissione, per mancanza di soldi. Commesso viaggiatore ed agitatore democratico, aveva un’oratoria caricaturale, più di Trump, anche per la gestualità esagerata, che si vedeva da lontano anche senza i megaschermi di adesso (guardatelo in rete). Tassò duramente la Standard Oil per pagare assistenza medica, scuole pubbliche, libri, disoccupazione ai poveri bianchi, anglofoni o francofoni che fossero. Anche Wallace, democratico, segregazionista, oppositore di Martin Luther King, fu sostenuto da una parte dei poveri. Eletto governatore dell’Alabama nel ’62, tentò di bloccare fisicamente l’accesso dei neri all’Università. Fu ammazzato nel 1987.

Trump ha fatto un passo di più. Non ha una piattaforma sociale in senso proprio. E’ stato eletto contro gli immigrati, i messicani, gli islamici, gli attori ricchi e famosi, contro chi ha chiuso le miniere e blocca gli oleodotti. Ma ai ricchi vuole ridurre le tasse. Fa un governo di ricchi per i ricchi. Per trovare qualche proposta di destra ma con un contenuto sociale bisogna leggere i programmi di alcuni collaboratori (vedi il link su Sessions). Dice di non voler fare le guerre degli altri gratis in cambio del potere, del monopolio mondiale della forza.

Le cause della rabbia dei poveri

Purtroppo la situazione economica, sanitaria, sociale dei poveri e di quello che è stato il ceto medio negli Stati Uniti è più simile a quello a tinte fosche, con definizioni imprecise, tracciato da Trump (e da Sanders, con più precisione) che a quello migliorabile ma solido tracciato da Hillary Clinton, malgrado le aperture a sinistra. La disoccupazione negli Stati Uniti è bassa, sotto il 5%; ma il tasso di partecipazione alle forze di lavoro è anch’esso basso e in caduta tendenziale; ai livelli di quello italiano, anche per le donne. Il tasso di attività femminile in Canada, in un decennio, è cresciuto una quindicina di punti sopra quello degli Usa. L’attesa di vita alla nascita delle donne è in caduta da un decennio (in Italia c’è stato un arresto della crescita per le donne; poi un anno di caduta per uomini e donne nel 2015). Chi voglia, può leggere (secondo link) il saggio di Alan Krueger, già chairman dei consulenti economici di Obama, Where have all the workers gone?, il cui titolo richiama quello di una notissima canzone pacifista (Where have all the flowers gone?, di Pete Seeger) che è veramente allarmante anche perché, usando una ricerca su un campione di non attivi, correla l’inattività al pessimo stato di salute, alla bassa istruzione, alla mancanza di SSN.

La violenza, misurata dal tasso di omicidi e di ferimenti, dalle sparatorie, dalle rapine, è alta. Il numero di carcerati è altissimo, fuori misura, senza uguali al mondo. Un libro recente (Marie Gottschalk, Caught), in commercio, con recensioni scaricabili, traccia un quadro, noto a grandi linee ma impressionante nelle quantità e nei dettagli, del sistema carcerario americano. La Russia di Putin, in compagnia di qualche minuscolo paese caraibico, segue a distanza. Gli altri paesi, tutti gli altri, sono enormemente al di sotto, fuori scala. La Gottschalk, per includere nel quadro il male assoluto, riporta che negli Usa, in proporzione, ci sono più carcerati che nell’URSS di Stalin, dopo il ’50. Se si prova a controllare in rete, da increduli, si può precisare: inclusi i condannati ai lavori forzati. In URSS, certo, non erano liberi neppure i liberi. Ma un po’ colpiti si resta.

La politica della tolleranza zero di Rudolph Giuliani, ora di nuovo in auge, ha ripulito le strade, per un po’, ma ha riempito le galere. E non solo di neri, come fa notare la Gottschalk, che parla di colour blind racism, razzismo nei confronti dei poveri, indifferente al colore. La crescita dei carcerati era già cominciata con Bill Clinton.

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Argentina Brasile, il rischio inquietante di una deriva verso regimi autoritari

Prestiamo attenzione su ciò che sta succedendo nei paesi latino americani: è in atto un’operazione di ristrutturazione nella gestione dello stato da parte dei poteri forti in questi paesi. Prima nel Brasile la destituzione della Presidenta Dilma Russef, una specie di “golpe” bianco, animato dalle oligarchie che tramite i mass media hanno montato una campagna di diffamazione contro l’ex Presidente Lula e il PT e la stessa Dilma Russef. Al contempo la nuova “governance” sta smontando pezzo per pezzo l’impianto delle politiche sociali che hanno consentito a 40 milioni di brasiliani di migliorare la condizione di vita , mandare i figli a scuola, curarsi e curare i propri famigliari.
Un percorso analogo sta avvenendo in Argentina con la sconfitta di Scioli alle presidenziali dello scorso anno e la vittoria di Macri.L’articolo che riproduciamo dal Manifesto descrive con precisione ciò che sta avvenendo.

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Cristina Kirchner indagata per l’Amia

Argentina. Macri acquista 4 lance da guerra da Israele al costo di 84 milioni di dollaridi Geraldina Colotti   fonte ilmanifesto.info
La giustizia argentina ha accettato il ricorso della Delegacion de Asociaciones Israelitas Argentinas (Daia), braccio politico della comunità ebraica locale, e ha riaperto l’indagine a carico dell’ex presidenta Cristina Kirchner in merito alla morte del procuratore Alberto Nisman.

Nisman indagava sull’attentato contro la mutua ebraica Amia di Buenos Aires che, nel 1994, provocò 85 morti, a tutt’oggi senza colpevoli. A gennaio del 2015, pochi giorni prima di essere trovato morto in circostanze ancora da chiarire, e sotto l’influenza di un personaggio dei servizi legato a Usa e Israele, aveva accusato la presidente (in carica dal 2007 al 2015) di aver voluto coprire le responsabilità del governo iraniano nell’attentato. Accuse sempre ritenute senza fondamento da diversi tribunali e respinte da Kirchner.

Per l’ex presidente e l’arco di forze che la sostiene, si tratta di una nuova manovra di Mauricio Macri: per far fuori dall’arena politica un’avversaria sempre temibile, capace di riaggregare le forze di opposizione, per coprire lo scandalo dei suoi conti all’estero, e per distogliere l’attenzione dei cittadini dalle conseguenze delle sue politiche neoliberiste, che – tra aumenti delle tariffe e licenziamenti – stanno lasciando sul lastrico sempre più persone (in un anno, una media di circa 100 licenziamenti al giorno). Numerose proteste, come quella dei lavoratori del ministero dell’Istruzione sono state represse, molte fabbriche recuperate disattivate.E resta in carcere la deputata indigena Milagro Sala, perseguita per altre accuse e condannata a tre anni con la condizionale per aver guidato le proteste dei lavoratori delle cooperative.
Intanto, il governo Macri ha comprato da Israele quattro lance da guerra provviste di sistemi di sorveglianza militare ad altissima tecnologia per una spesa pari a 84 milioni di dollari.
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Milagros Sala leader del Movimento TupacAmaru  Vedi Pagina 12 : Persecución a Milagro Sala

Linkiamo su Pagina 12 il Dossier che riguarda la persecuzione contro la deputata Milagros Sala che completa il quadro. Siamo forse lontani dagli anni ’70, ai tempi del Piano Condor e ai massacri delle feroci dittature militari, tuttavia quello che sta succedendo in America Latina, dopo anni di speranze, è inquietante e può rappresentare l’inizio di una deriva verso regimi autoritari.

Vedi Pagina 12 : Persecución a Milagro Sala

 

Hanno pagato caro, ma non hanno ancora pagato tutto

di Sandro Moiso

4-leader-sconfitti-no Si erano giocati tutto, convinti di vincere.
Hanno stravolto i vertici delle TV di Stato per impedire qualsiasi infiltrazione di dubbi sulla bontà della loro proposta politica ed economica. Hanno contribuito a cambiare anche i direttori di testate giornalistiche della Destra per accaparrarsene i favori. Hanno mentito, falsificato i dati economici e della Storia. Hanno portato in palma di mano camorristi e mafiosi e i progetti delle grandi opere inutili che più stavano loro a cuore.

Hanno insultato, denunciato, perseguitato, minacciato, coperto di infamia chiunque manifestasse il desiderio o anche solo l’idea di opporsi al loro progetto concentrazionario. Hanno promesso contratti pubblici che non contengono null’altro se non ulteriori fregature per i lavoratori. Hanno promesso denaro che non avrebbero mai avuto il coraggio di sequestrare davvero e in quantità adeguata per bonificare territori devastati da un’industrializzazione priva di regole.

Hanno preso per il culo milioni di giovani, lavoratori, disoccupati, inoccupati, pensionati sull’orlo del baratro con promesse inutili, ridicole e d offensive. Hanno riportato in auge i fasti mussoliniani e cercato di ridare fiato alle leggi promulgate tra il 1923 e il 1926.1 Hanno chiamato immaturi gli elettori che non la pensavano come loro. Hanno dichiarato che in alcuni casi è preferibile l’autoritarismo ad una democrazia che non giunga a realizzare i progetti della finanza internazionale e dei suoi lacchè.

>>> segue alla fonte CARMILLAONLINE

2 décembre 2016 Bhopal : une fusion risque-t-il de permettre à Dow d’échapper à ses responsabilités ?

fonte Equaltime.org

par Clare Speak

Tandis que les veillées, les manifestations et les rassemblements aux flambeaux annoncent qu’une année de plus est passée depuis la tragique fuite de gaz de Bhopal, la zone demeure contaminée et une troisième génération de citoyens souffre de problèmes de santé dus à la catastrophe. Trente-deux ans après l’accident, les survivants de la ville indienne de Bhopal, située dans l’État de Madhya Pradesh, au centre du pays, attendent toujours que justice soit faite. Or, un projet de fusion semble sur le point d’aider les entreprises impliquées à échapper complètement à leurs responsabilités dans l’empoisonnement.

Depuis plus de trois décennies, les militants demandent à Dow Chemical, l’entreprise américaine tenue pour responsable de la catastrophe de Bhopal, d’assumer sa responsabilité, d’indemniser correctement les victimes et de payer les travaux de dépollution de la zone toujours contaminée.

 

Plusieurs milliers de personnes ont été tuées dans la nuit du 2 décembre 1984 suite à une fuite d’isocyanate de méthyle, un gaz très toxique utilisé dans une usine de pesticides de Bhopal appartenant à Union Carbide India Limited (UCIL), une filiale de la société américaine Union Carbide Corporation (UCC) rachetée par Dow Chemical en 2001.

Selon les estimations, entre 8000 et 16.000 personnes ont perdu la vie, et environ 40.000 autres sont tombées gravement malades ou devenues handicapées à vie suite à leur exposition au gaz toxique.

Une deuxième catastrophe est survenue, lorsque des milliers de tonnes de déchets toxiques, qui avaient été jetés sur le site d’une usine désaffectée d’UCIL, ont contaminé les réserves d’eau locales.

À partir de ce moment-là, des dizaines de milliers d’autres personnes ont été intoxiquées en buvant l’eau pompée dans les puits et les forages. Les personnels médicaux qui travaillaient auprès des survivants expliquent que la souffrance humaine provoquée par la catastrophe atteint désormais une troisième génération de citoyens de Bhopal.

Dow n’a manifesté aucune intention d’assumer la responsabilité de l’accident ni de prendre en charge la dépollution de la zone, arguant que le règlement de 470 millions USD avait été versé en 1989 « pour solde de tout compte ». Toutefois, le gouvernement indien estime que le dédommagement « très insuffisant » de 1989 témoigne d’une « injustice irrémédiable » et il a demandé une somme supplémentaire de plus d’un milliard USD. D’autres dossiers soutenant cette demande sollicitent 8,1 milliards USD de plus.

UCC n’a pas répondu aux poursuites au pénal concernant la catastrophe, et les plaintes sont toujours en attente. Les tribunaux indiens ont convoqué Dow à quatre reprises pour avoir des explications sur la non-comparution d’UCC, mais jusqu’à présent Dow ne s’est jamais rendue à ces convocations.

Et aujourd’hui, les militants déçus craignent que la justice ne soit bientôt encore un peu plus hors d’atteinte.


Dow-DuPont : un « nouveau degré de complexité »

Un projet de fusion entre les deux géants Dow et Dupont risque d’ajouter un « nouveau degré de complexité » à la structure d’UCC, en rendant la tâche des victimes encore plus difficile pour obtenir justice.

D’après l’association caritative The Bhopal Medical Appeal, cette fusion permettrait aux deux entreprises d’échapper à leurs obligations légales vis-à-vis des victimes de Bhopal et des milliers d’autres personnes qui, à travers le monde, souffrent d’empoisonnement à cause des processus de fabrication des substances nocives.

« Après la fusion, la nouvelle entreprise Dow-DuPont sera divisée en trois entités distinctes et la filiale Union Carbide, aujourd’hui détenue à 100 % par Dow Chemical, existera sous une nouvelle forme », déclare à Equal Times Colin Toogood, le responsable des campagnes du Bhopal Medical Appeal.

« Cette fusion risque de compliquer encore les démarches des victimes, explique-t-il, et il faut clarifier les choses avant de demander à la nouvelle entité de répondre des actes de la société Carbide, et que la catastrophe de Bhopal ne tombe aux oubliettes ».

Cependant, la proposition de fusion est au point mort pour l’instant. Elle fait l’objet d’une enquête menée par des procureurs généraux des États-Unis et de l’UE au sujet des mesures antitrust, étant donné que les deux entreprises n’ont pas remis les documents requis à ce sujet.

La fusion suscite d’autres préoccupations à l’égard de ce que le Bhopal Medical Appeal qualifie de « tentatives apparentes de la part des deux entreprises de se dégager des responsabilités potentiellement importantes en rapport avec les conséquences de la contamination  » : Bhopal pour Dow, scandale des fuites de C8 pour DuPont.

DuPont s’est débarrassé de 62% de ses plaintes liées à l’environnement, en plus de 4 milliards USD de dette en cours, en créant l’entreprise Chemours, que certains perçoivent comme « une faillite en puissance ».

Ni Dow ni DuPont n’ont expliqué aux créditeurs involontaires ce qu’il adviendrait des responsabilités actuelles suite à la fusion et la restructuration des entreprises.
Ni Dow ni DuPont n’avaient répondu aux demandes d’informations au moment de la rédaction de cet article.


Cet article a été traduit de l’anglais.

 

L’Argentine, avec sa « culture machiste », échoue au plan de la protection des femmes et des filles

25 novembre 2016
par Nazaret Castro

fonte Equaltime.org

En 2015, 235 femmes furent assassinées en Argentine pour le simple fait d’être des femmes. Bien qu’une loi existe depuis 2009 dans ce pays d’Amérique du Sud pour combattre le féminicide, la réponse de l’État reste insuffisante. C’est ce qu’a confirmé la Rapporteuse spéciale des Nations Unies, Dubravka Šimonović, dans son rapport d’évaluation présenté récemment au Comité pour l’élimination de la discrimination à l’égard des femmes (CEDAW) et l’organisation des droits de l’homme Amnesty International (AI).

19 octobre 2016. Des milliers de femmes à Buenos Aires ont bravé les intempéries pour battre le pavé aux cris de « Ni Una Menos, Vivas Nos Queremos » (« Ni une de moins, nous nous aimons en vie »).

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Trump e il futuro degli accordi commerciali

fonte Sbilanciamoci.info

L’atteggiamento del neopresidente Usa accentua la spinta in atto allo spostamento del nucleo centrale dell’economia mondiale verso il Pacifico e in particolare verso l’Asia del sud est e la Cina

Apparentemente, stando alle dichiarazioni fatte da Trump durante la campagna elettorale e anche dopo, i trattati “commerciali” che Obama aveva con tanta cura cercato di portare avanti nei suoi anni di presidenza, sembrano ormai saltati. Si va, come è noto, dal TPP, che riguardava i rapporti con l’America Latina e l’Asia, al TTIP, che investiva invece quelli con l’Europa, infine al CESA, che toccava il settore dei servizi.

In effetti, ogni attività politico-diplomatica in proposito sui vari fronti sembra essere cessata, o formalmente “sospesa”, in attesa di tempi migliori, mentre assistiamo anche alle dichiarazioni sconsolate dei molti che speravano che le cose andassero avanti ed anche a quelle di chi auspica ancora che le cose tornino ancora alla “normalità” di obamiana memoria. Non è certamente il nostro caso.

E’ noto che il TPP era stato ormai sottoscritto dai paesi interessati e mancava nella sostanza solo l’approvazione da parte del Congresso americano, mentre per il TTIP si era ancora in una fase di negoziazione tra le parti, in presenza comunque di una forte opposizione della società civile di diversi paesi europei e anche di quella di diversi ambienti politici, in particolare in Francia e in Germania. Il CESA, infine, si trovava in uno stadio ancora più arretrato del suo ciclo di messa a punto e comunque presentava tutti i difetti degli altri due, più qualcuno di suo.

E’ opinione diffusa che gli obiettivi di tali trattati, almeno in parte a torto definiti semplicemente commerciali, e che riguardavano in realtà una tematica molto più ampia, avevano come obiettivi principali quelli di far avanzare il dominio economico delle multinazionali statunitensi e quello politico degli Stati Uniti, mentre cercavano invece di frenare parallelamente l’avanzata della Cina, che era comunque non a caso esclusa dalla partita.

Ora che tutto questo sembra finito, cosa succederà? Come si rimedierà all’ horror vacui?

Asean, Apec, Ftaac, Rcep

Bisogna a questo punto ricordare che la gran parte dei paesi emergenti e anche delle realtà come l’Australia, la Nuova Zelanda, la Corea, il Giappone, vedono ancora come fondamentale il ruolo del commercio internazionale nelle loro politiche di sviluppo economico. Tale visione è in questo momento anche accentuata dal rallentamento economico di cui tali paesi soffrono.

Così all’incontro dell’Apec (si veda meglio più avanti) che si è concluso il 20 di novembre, il presidente del Perù, rispecchiando sostanzialmente il sentimento della gran parte degli altri paesi emergenti, ha sottolineato come la retorica protezionistica di Trump e il voto britannico per l’uscita dall’Unione Europea rappresentino degli sviluppi minacciosi per l’economia globale. “E’ fondamentale che il commercio internazionale cresca ancora e che il protezionismo sia sconfitto”, così egli ha dichiarato. Ed anche il primo ministro australiano, stretto alleato politico e militare degli Stati Uniti da sempre, ha usato in proposito toni allarmati.

Il sentimento generale è quello che non si vuole in nessun caso un ritorno al protezionismo.

Ricordiamo ancora, prima di procedere oltre, l’esistenza di due organizzazioni economiche importanti, quella dell’Asean, Association of South-East Asian Nations, che raggruppa dieci paesi del sud est asiatico e quella dell’Apec, Asia Pacific Economic Cooperation, che mette invece insieme diciassette paesi latino-americani ed asiatici, nonché Usa, Cina, Giappone, Russia.

Nell’ambito di tali organizzazioni si discute da tempo del varo di due distinti trattati commerciali; per quanto riguarda l’Apec, si tratta del FTAAP, Free Trade Area of the Asia-Pacific, mentre per quanto tocca all’Asean, si fa riferimento al RCEP, Regional Comprehensive Economic Partnership, che dovrebbe comprendere, oltre ai paesi membri dell’organizzazione, anche Cina, India, Corea del Sud, Giappone, Australia. Ambedue i trattati includono la Cina mentre almeno il secondo esclude gli Stati Uniti. Va sottolineato che almeno sette dei dodici paesi che avrebbero dovuto partecipare al TPP sono membri potenziali del RCEP.

La FTAAP è stata proposta per la prima volta nel 2006, mentre nel 2014 è stata messa a punto una sua road map, in pratica una strategia in fasi per arrivare all’obiettivo finale di ridurre le barriere commerciali tra i paesi. Ma gli Stati Uniti facevano resistenza e volevano che fosse data priorità ai negoziati per il TPP.

La RCEP è stata invece lanciata nel 2013 nell’ambito dell’Asean. Questo secondo trattato è in una fase relativamente avanzata e potrebbe essere varato in tempi relativamente brevi. Vi aderiscono in totale 16 paesi.

Si tratta di due possibili accordi che hanno obiettivi più modesti di quelli statunitensi e si limitano sostanzialmente alla riduzione delle barriere commerciali, mentre non coprono, al contrario del TPP e del TTIP, aree quali il ridimensionamento delle imprese pubbliche , i flussi di dati tra i vari paesi, o i tribunali speciali per le controversie commerciali.

Ora la Cina, cogliendo evidentemente la palla al balzo, ha cominciato a aumentare gli sforzi perché l’iter dei due trattati venga accelerato. Il suo Presidente ha subito dichiarato a Lima che il paese non è per il protezionismo, ma per aprire ancora di più le frontiere ed ha ufficialmente manifestato la volontà che le cose vadano rapidamente avanti. Diversi paesi vogliono associarsi al RCEP, pur non facendo parte dell’Asean, mentre la Cina viene vista in maniera crescente come leader naturale del processo. Persino l’Australia ha gettato tutto il suo peso dietro gli sforzi cinesi. Così il ministro del commercio di quest’ultimo paese ha dichiarato che qualsiasi mossa che riduca le barriere al commercio e lo faciliti è un passo nella giusta direzione.

Intanto l’India manifesta in modo molto chiaro la sua volontà di far parte in modo molto attivo del processo.

Ricordiamo anche, per sovrannumero, che nelle ultime settimane si va registrando un intiepidirsi dei legami con gli Stati Uniti di paesi come le Filippine, la Malaysia e la Tailandia ed un avvicinamento degli stessi alla Cina.

Conclusioni

Sembra intanto inevitabile cominciare a imparare a memoria le nuove sigle delineate nelle pagine precedenti. In effetti la mossa di Trump accentua la spinta in atto allo spostamento del nucleo centrale dell’economia mondiale verso il Pacifico e in particolare verso l’Asia del sud est e la Cina. La tendenza sembra ormai inevitabile.

Alla fine così ci potremmo trovare di fronte ad un paradosso: gli Stati Uniti avevano lanciato il TPP e il TTIP per escludere la Cina dai giochi e comunque per evitare che fosse la Cina a scriverne le regole. La Cina è ora al centro della scena dell’avvio dei nuovi trattati da cui gli Stati Uniti sono esclusi almeno in parte e tutti chiedono che sia la stessa Cina a scrivere le regole o almeno a collaborarvi in maniera importante.

Ma naturalmente non sono esclusi dei colpi di scena.

Comunicazione strategica o pastrocchio per giustificare una politica europea sbagliata verso la Federazione Russa ?

 
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Mercoledì 23 novembre l’Europarlamento ha adottato la risoluzione intitolata “Comunicazioni strategiche della UE come contrasto della propaganda di terze parti”, in cui si traccia un parallelo tra le attività dei media russi e quelle dei terroristi del Daesh. A sostegno del documento hanno votato 304 deputati, i no sono stati 179, mentre si sono astenuti in 208.

Comunicazione strategica o pastrocchio per giustificare una politica sbagliata verso la Federazione Russa ? Nel documento di maggioranza si confondono e si mettono sullo stesso piano la Federazione Russa e il Daesh . Si richiedono norme statuali a riduzione della libertà d’espressione : le opinioni divergenti dal pensierino unico potranno essere definite “armi propagandistiche” e censurate.

Il documento sulla ” Comunicazione strategica della UE ” approvato dalla maggioranza rappresenta una pericolosa tendenza verso  forme di riduzione della libertà d’espressione. editor

 

 

14 ottobre 2016

PE 582.060v03-00 A8-0290/2016
Relazione sulla comunicazione strategica dell’UE per contrastare la propaganda nei suoi confronti da parte di terzi

(2016/2030(INI))

Commissione per gli affari esteri
Relatore: Anna Elżbieta Fotyga
PROPOSTA DI RISOLUZIONE DEL PARLAMENTO EUROPEO
PARERE DI MINORANZA
PARERE della commissione per la cultura e l’istruzione
ESITO DELLA VOTAZIONE FINALEIN SEDE DI COMMISSIONE COMPETENTE PER IL MERITO

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Une étude INRS-Centraide du Grand Montréal S’appauvrir tout en travaillant : une réalité grandissante

fonte INRS.CA

 

Uno studio canadese sul fenomeno emergente dei lavoratori poveri. Non solo i lavoratori manuali o di assa qualificazione: la povertà sta colpendo quella che un tempo venva definita classe media intellettuale. editor

La pauvreté change de visage : près de quatre personnes pauvres sur dix occupent un emploi dans la région métropolitaine de Montréal. En une décennie, le nombre de travailleurs pauvres s’est accru d’environ un tiers, passant de près de 90 000 en 2001 à 125 000 aujourd’hui. Ces constats sont tirés d’une étude réalisée sous la direction du professeur Xavier Leloup du Centre Urbanisation Culture Société de l’INRS en partenariat avec Centraide du Grand Montréal. Les auteurs de l’étude retracent l’évolution de ce phénomène qui prend de l’ampleur et esquissent le portrait des travailleurs pauvres en tenant compte de leur répartition sur le territoire montréalais.

L’étude montre que l’écart en termes de revenus tend à se creuser entre les travailleurs pauvres et non pauvres. De plus, le travail pauvre a progressé à un rythme quatre fois plus rapide que l’emploi total au moment où Montréal connaissait une période de croissance économique soutenue entre 2001 et 2006.
Qui sont les travailleurs pauvres et où sont-ils?
« Le travail pauvre concerne en premier lieu des personnes qui, pour différentes raisons, connaissent une insertion plus difficile en emploi, en raison de leur emploi du temps, de leur parcours de vie ou de leurs caractéristiques personnelles », précise le professeur Leloup.
Parmi les populations les plus à risque figurent les parents seuls âgés de moins de 30 ans et les immigrants récents. La moitié des travailleurs pauvres ont des enfants. Les immigrants arrivés il y a moins de dix ans sont cinq fois plus susceptibles d’en faire partie que les non-immigrants. Chez les minorités visibles, une personne sur cinq est un travailleur pauvre.
Une constatation générale s’impose : le travail pauvre est réparti inégalement sur le territoire du Grand Montréal, tant à l’échelle des villes et des municipalités que des quartiers. Dans la région métropolitaine, l’île de Montréal regroupe près de 64 % du total des travailleurs pauvres. Suivent Laval et l’agglomération de Longueuil. La Ville de Montréal compte à elle seule 60 % des travailleurs pauvres du Grand Montréal.
Les travailleurs pauvres se retrouvent surtout dans des quartiers marqués par la pauvreté. Ainsi, Parc-Extension affiche le taux le plus élevé de travailleurs pauvres de la région métropolitaine avec plus de 30 %. Côte-des-Neiges, le Centre-ville, le Centre-Sud, Hochelaga-Maisonneuve, Saint-Michel et Montréal-Nord sont au nombre des quartiers où se concentrent les travailleurs pauvres.
Le travail pauvre en croissance parmi presque tous les groupes
Toutefois, ce phénomène tend à apparaître dans des quartiers mixtes moins associés à la pauvreté comme le Plateau Mont-Royal, La Petite-Patrie, Villeray et le Vieux-Longueuil. Pour les auteurs de l’étude, « ces changements sont à mettre en lien avec l’apparition progressive d’un travail pauvre touchant plus massivement les universitaires et un ensemble de professions intellectuelles, dont celles des sciences sociales, de l’enseignement, de l’administration publique et de la religion ou des arts, de la culture, des sports et des loisirs ». L’arrivée d’une nouvelle immigration vient aussi changer la donne dans des quartiers comme LaSalle et Saint-Léonard.
« La tendance à la hausse du travail pauvre touche presque tous les groupes. Il devient un phénomène global dont la croissance s’étend à des catégories a priori moins vulnérables sur le marché du travail. Le travail pauvre est une source d’inégalité socio-spatiale qui empêche les individus qui le vivent de s’intégrer pleinement à la vie urbaine », soutient le chercheur principal de l’étude, le professeur Leloup.
Cette recherche a été réalisée avec la collaboration de la professeure Damaris Rose et de l’étudiante à la maîtrise en études urbaines Florence Desrochers du Centre Urbanisation Culture Société de l’INRS. Elle s’inscrit dans le Partenariat de recherche sur les quartiers en transition, financé par le Conseil de recherches en sciences humaines du Canada (CRSH), qui vise à analyser l’évolution des inégalités de revenu et leurs effets sur les villes canadiennes. Elle s’appuie sur les données de recensement de 2001-2006 et celles de l’Agence de revenu du Canada pour la période 2006-2012.

Étude sur les travailleurs pauvres dans la RMR de Montréal 

Referendum costituzionale: i fatti e i miti

fonte Sbilanciamoci.info

In questa campagna referendaria abbiamo dismesso i panni della discussione e il dibattito si riduce al chi sta con Renzi e chi sta contro Renzi. Così la Costituzione diventa oggetto plebiscitario, o semplice programma elettorale

Ne è valsa la pena?

Perché questa quasi-guerra fratricida? Qual è la ragione così urgente che ha mosso la dirigenza del Partito Democratico e del Governo a imporre una campagna referendaria su questa riforma della Costituzione, così frettolosa, così imperfetta, e soprattutto così divisiva? Perché decenni di manicheismo da guerra fredda tra comunisti e democristiani non hanno diviso così fortemente il paese come questo referendum che cade in un tempo post-ideologico? Propongo due ordini di risposte a queste domande, uno che cerca di capire la filosofia di questa proposta di revisione, e uno che cerca di valutare l’impatto di questa campagna referendaria sulla cittadinanza.

Fatti e Miti

Hanno detto i suoi promotori che è la storia a chiedere questa riforma; lo chiedono trenta (per Renzi settanta) anni di tentativi di cambiare la nostra democrazia, troppo pluralista e assembleare, troppo orizzontale e poco attenta alla governabilità. Ma nessuno sa esattamente che cosa questo significhi, anche perché la storia siamo noi, e quindi è il presente, questo presente, che vuole questa riforma. Figlia di questo presente, la filosofia sulla quale riposa questa riforma è poco amante dell’intermediazione, del pluralismo e di quella complessità che – ce lo siamo dimenticato? – è la società liberale e democratica stessa a generare. Questa filosofia riposa su due miti: velocità di decisione e semplificazione per aiutare la velocità. E si impone, o cerca di imporsi, con un metodo che è ad essi coerente: insofferente per il dissenso, violento nel linguaggio, dominatore nell’uso monopolistico dei mezzi di informazione, e plebiscitario nella forma del consenso chiesto ai cittadini. Per chi mastica un poco di filosofia politica lo scenario è Schmittiano.

Da che cosa sono supportati i miti della velocità e della semplificazione? Non da prove fattuali, ovviamente. Certo, non sul fronte della “velocità” di decisione; anche perché questo governo di coalizione ha dimostrato di riuscire in pochi giorni a sopprimere diritti del lavoro che resistevano almeno dal 1970. Velocissimo è stato anche il precedente governo Monti nell’approvare la riforma delle pensioni e addirittura nell’inserire la norma del pareggio di bilancio nella Costituzione. La velocità in queste riforme amate dai “mercati” (e molto poco digeribili per quei democratici che assegnino a questa parola un valore superiore a quello della sigla di un partito) è stata possibile la Costituzione vigente. Quindi perché?

E che dire del mito della “semplificazione”? Se semplificare comporta approntare mezzi per l’attuazione celere delle decisioni, allora il problema è risolvibile con regolamenti nuovi, sia parlamentari che della burocrazia. Perché andare ai poteri fondamentali dello Stato? Perché, probabilmente, il mito della semplificazione è coerente a una visione dirigistica del potere politico, che sta davvero stretta a una costituzione democratica com’è la nostra.

Semplificare può voler dire molte cose e nulla. L’argomento piace molto ai populisti di tutti i continenti e tempi: e sta per superamento della fatica del dover cercare mediazioni e consensi, secondo il mito molto dirigistico di snellire le rappresentanze, di sfoltire i protagonisti dei processi decisionali, per contenere i tempi di decisione e togliere ostacoli a chi decide. È un mito ben poco democratico, e non perché la democrazia significa perdere tempo, ma perché, come scriveva Condorcet, non si fida di chi vuol dare più potere all’organo di decisione, il governo: un argomento di cui “sono lastricate le strade verso la tirannia”. Senza bisogno di andare così lontano come Condorcet, possiamo tuttavia nutrire seri dubbi che una semplificazione decisionale sia sicura per chi crede nel potere di controllo, limitazione e monitoraggio, ovvero sorveglianza. Chi propone questa riforma non ha un’idea molto positiva della democrazia, ritenendola troppo esosa in termini di tempo e troppo esigente in termini di controllo. Ecco perché ci propone una riforma che depotenzia la democraticità della nostra Costituzione.

Resa meno democratica, ovvero meno rappresentativa delle diverse istanze, territoriali o politiche, e più interessata a localizzare la sede apicale della decisione trascinando gli organismi collettivi invece di essere da questi trascinato: non a caso nella proposta di revisione ha un posto di rilievo il principio della temporalità stabilita dal Governo, che può predeterminare i tempi di discussione del Parlamento e chiedere che esso sospenda i suoi ordinari lavori per occuparsi prima e subito dei suoi decreti. L’implicita ammissione è che colpa della lentezza e della complessità sia il Parlamento, e tutti gli “organi assembleari” come con fastidio chiamano la democrazia rappresentativa i dirigisti. Contro l’“assemblearismo” è in effetti da settant’anni che gli insoddisfatti della democrazia tuonano nel nostro paese, a partire proprio dalla Consulta.

Distanza dei cittadini e poteri accentrati

La revisione della Costituzione pone inoltre problemi molto seri quanto al rapporto tra istituzioni e cittadini. Su questo aspetto pochi si sono soffermati e propongo qui alcune riflessioni.

Le ragioni per non sostenere questa proposta di revisione sono di vario genere: da quelle relative al merito (a come ridisegna il Senato, le funzioni delle Regioni e la relazione tra i poteri dello Stato) a quelle più direttamente politiche o di prudenza politica. Su queste seconde non si discute mai abbastanza. La Costituzione di uno stato democratico dovrebbe avere uno sguardo lungo, essere pensata in relazione non all’oggi ma a qualunque tensione o problema possa succedere domani. Questa prospettiva ha reso la Costituzione italiana vigente un’ottima Costituzione, capace di reggere molti stress: gli anni di piombo, impedendo che le istituzioni si facessero convincere dal canto delle Sirene che chiedevano governi di emergenza, sospensione dei diritti e stato di polizia; e poi l’assalto da parte della corruzione dei partiti prima e del patrimonialismo berlusconiano poi. Se l’opinione, anche politica, ha spesso tentennato, le istituzioni hanno tenuto la barra diritta perché la Costituzione ne disegnava i poteri e le funzioni in maniera tale che nessuna di esse potesse prendere sopravvento o avere un potere superiore.

Se la nostra democrazia ha tenuto e la stabilità è stata garantita nel corso degli anni nonostante i diversi governi (un problema da attribuirsi semmai al sistema elettorale) è stato perché le istituzioni hanno tenuto. E questo è dimostrato dal fatto che il declino di legittimità dei partiti e degli attori politici non ha scalfito la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, perché queste non hanno dato l’impressione di essere dominate completamente dai partiti. Vi è da temere che un Senato composto per voto indiretto alimenti nei cittadini l’impressione che la loro incidenza sulle istituzioni sarà più debole mentre il potere di decisione degli attori politici più opaco e fuori dal loro controllo. Il rischio è che le istituzioni siano a poco a poco percepite come proprietà di chi le occupa; che la distanza tra istituzioni e società aumenti. E con essa che cresca il senso di illegittimità delle istituzioni.

Inoltre, pensata in funzione di neutralizzare esecutivi ingombranti (scritta in funzione anti-fascista), la Costituzione del 1948 si presenta come molto ben corazzata contro i nuovi populismi. Decentrare il potere e spezzarne la tendenza alla concentrazione (con un governo che impone i tempi e l’agenda al Parlamento) è mai come in questo tempo essenziale a fermare i tentativi di assalto che possono venire dalle forze nazional-populiste. Questo non è il tempo migliore per una Costituzione che concentra i poteri e indebolisce i controlli e il ruolo delle opposizioni.

Negli Stati Uniti ci si preoccupa in questi giorni degli effetti che potrà avere l’accumulo di potere e l’allineamento sotto un unico partito di tutti i poteri dello Stato: la Casa Bianca, il Congresso, il Senato e la maggioranza della Corte Suprema. Indubbiamente la governabilità e la velocità delle decisione saranno facilitate con l’amministrazione Trump e la sua maggioranza granitica. Ma siamo convinti che questo sia desiderabile?

Una campagna velenosa

Chi si è schierato con Renzi, leggiamo spesso sui quotidiani, ha rischiato il linciaggio morale. D’altro canto chi si è schierato contro Renzi ha perso amici e si è trovato/a classificata con i Casa Pound o gli anti-sistema e con i populisti di tutte le risme. Una guerra di parole e dichiarazioni fratricida, come non si era visto neppure con la proposta di riforma lanciata dal Governo Berlusconi. Forse perché la lotta è ora tutta a sinistra o tra chi in modi diversi si sente vicino al Partito Democratico, questa campagna ha avuto il sapore di una piccola guerra civile, di una guerra civile di parole. Ricordiamo il caso Roberto Benigni, il primo a scatenare questa guerra.

Rispondendo alla domanda di Ezio Mauro se non avesse paura di passare per “renziano” confessando di votare Sì al referendum costituzionale, Benigni la scorsa primavera ha rivendicato il diritto di votare come pensa e non per conformarsi a chi non si conforma. E il diritto di votare implica il diritto di schierarsi: “Non voglio rimanere neutrale, lavarmene le mani dicendo che faccio l’artista, voglio essere libero. E la libertà non serve a nulla se non ti assumi la responsabilità di scegliere ciò che credi più giusto”. Risposta pertinente perché coerente ai due principi aurei della democrazia liberale e non plebiscitaria: votare con la propria testa e non con quella del leader, e rivendicare il valore del voto che è e non può che essere partigiano. Voto schierato non voto plebiscitario. È questa la distinzione che oggi è difficile fare e mantenere. All’origine della difficoltà vi è stata la decisione di Renzi di identificare il Sì con la sua persona e il suo governo, trasformando il No automaticamente in un giudizio sulla sua persona e in una causa di instabilità politica. Chi non sta dalla sua parte è messo nell’“accozzaglia” degli sgradevoli.

Questa trappola ci ha impedito di battagliare da “partigiani amici”, come direbbe Machiavelli, e ci ha fatto essere “partigiani nemici”. I primi sono quelli che si schierano nella libera competizione delle idee per favorire o contrastare un progetto politico. I secondi sono quelli che personalizzano la lotta politica mettendo nell’arena pubblica non le ragioni pro e contro un progetto, ma le rappresentazioni colorite delle tipologie di chi sta da una parte e dell’altra. I primi si rispettano come gli avversari di una battaglia legittima, i secondi si offendono e creano le condizioni per un risentimento che sarà difficile da dimenticare.

È da anni, da quanto Berlusconi “scese in campo”, che la lotta politica ha preso la strada dello stile teatrale, della rappresentazione estetica – con forme mediatiche che hanno lo scopo di colpire le percezioni per mobilitare le emozioni e rendere la contesa radicale, non dialogica. Di creare identificazioni non forti nelle convinzioni ideali ma forti nella vocalizzazione e nella pittorica rappresentazione. Come se ogni battaglia fosse l’ultima, come se la catastrofe e il diluvio seguissero a una vittoria o a una sconfitta. È questo stile populista del linguaggio estetico e tutto privato (ingiudicabile con la ragione pubblica) che ha corroso negli anni la nostra abitudine alla lotta partigiana, trasformandola in un Colosseo, uno spettacolo che vuol vedere il sangue che colora di rosso l’arena.

Le ragioni a favore o contro sono spessissimo passate in secondo piano. Questo succede soprattutto oggi che siamo in dirittura di arrivo. Per cui i blog e i social network assalgono chi si schiera con il Sì come fosse un rinnegato, e offendono mortalmente chi vota No come fosse un nazi-fascista, un “falso” partigiano. A chi vota Sì è affibbiato il titolo di lacchè del potere, a chi vota No è appiccicata l’immagine della “palude”. Chi vota No sarebbe per la conservazione e chi vota Sì sarebbe per l’innovazione e intanto non si riesce a spiegare senza essere sbeffeggiati e sbeffeggiare che cosa si vuole preservare e che cosa si desidera innovare.

Siccome i sacerdoti del Sì non possono vantare, proprio come quelli del No, alcuna privilegiata saggezza, sarebbe stato opportuno mettere sul tappeto le questioni reali implicate in questa battaglia sulla nostra Costituzione: il carattere di questa nuova versione della Costituzione e gli effetti che potrebbe generare, soprattutto se accoppiata con l’Italicum (una legge dello Stato il cui peso ingombrante è stato accantonato da Renzi, con la promessa verbale a Gianni Cuperlo di rivederla dopo il 4 dicembre). Dicevano i teorici e i politici settecenteschi che hanno teorizzato e/o scritto le costituzioni che queste devono essere scritte per i demoni, non per gli angeli. E come Peter sobrio che scrive le regole per Peter ubriaco, le carte di regole e di intenti servono proprio per esorcizzare e contenere il potere, in particolare quello istituzionalizzato, nell’eventuale occorrenza che venisse tenuto da mani sconsiderate. Come Benigni, anche altri sostenitori del Sì riconoscono che il nuovo Senato è pasticciato; diversi, anche nel Pd, si preoccupano degli effetti combinati della riforma con l’Italicum, che contrariamente a quanto succede per i sindaci premia non chi ha raggiunto il cinquanta per cento, ma il quaranta per cento. È legittimo farsi queste domane e voler discutere di queste questioni. È legittimo che i cittadini democratici si preoccupino di sapere quando potere resterà a loro, quanta forza avrà la loro voce.

E invece, il clima è da mesi rovente, rabbuiato dalla retorica del plebiscito. Il manicheismo fa spettacolo ma non fa prendere decisioni sagge – la deliberazione democratica deve poter contare sul fatto che si entra in una discussione con un’idea e se ne può uscire con un’altra. Ma in questa campagna referendaria abbiamo dismesso i panni della discussione: ciascuno alla fine resta dell’idea che aveva all’inizio, mentre gli incerti e gli indifferenti saranno probabilmente colpiti da una battaglia più personalizzata che ragionata. Chi sta con Renzi e chi sta contro Renzi. Tutti ci siamo fatti e ci facciamo conformisti. A questo si giunge quando la Costituzione è fatta oggetto plebiscitario, o usata come un programma elettorale – per contare nemici e amici. Di costituzionale vi è davvero poco. Figuriamoci se questo fosse stato il clima dei Costituenti! Avremmo avuto la guerra civile non settant’anni di vita civile.

Quale che sia l’esito, dopo il 4 dicembre 2016 il nostro sarà un paese più diviso. Cui prodest?

Tutte le fandonie di Renzi e Lorenzin sulla sanità. Intervista al segretario dell’Anaao-Assomed Costantino Troise: “Il 28 a meno di fatti nuovi scenderemo in sciopero”

Recentemente nel rapporto del Censis, la spesa degli utenti nella sanità ammonta a oltre 34 miliardi. Secondo la ricerca Censis presentata a giugno 2016, liste d’attesa molto lunghe portano 10 milioni di italiani a rivolgersi soprattutto alla sanità privata e 7 milioni all’intramoenia perché non possono aspettare, mentre sono 26 milioni i cittadini che si dicono propensi ad aderire alla sanità integrativa.

Uno scenario completamente opposto a quello che Renzi e Lorenzin hanno spacciato con il varo della Legge di Bilancio 2016. La sanità non è salva, anzi. La stabilizzazione del Fondo sanitario nazionale come dato in sé non ha alcun significato. Tra le categorie che non hanno creduto al Governo c’è sicuramente quella dei medici ospedalieri. 

In questa intervista (qui) il segretario dell’Anaao-Assomed Costantino Troise dice chiaramente che senza una sterzata vera nella sanità pubblica presto sentiremo partire gli allarmi. Sullo stato della salute pubblica, ovviamente, e già se ne è avuta qualche avvisaglia, e sulla condizione dei medici, che non ce la fanno più a sopportare carichi di lavoro da catena di montaggio e un’età media che vede l’Italia agli ultimi posti nel mondo.

Raniero La Valle I VALORI SUPREMI DELLA COSTITUZIONE TRADITI DALLA RIFORMA – Settimo discorso su “La verità del referendum” tenuto il 15 novembre 2016 a Vicenza

Comitati Dossetti per la Costituzione
Raniero La Valle
I VALORI SUPREMI DELLA COSTITUZIONE TRADITI DALLA RIFORMA
Settimo discorso su “La verità del referendum” tenuto il 15 novembre 2016 a Vicenza
La Corte Costituzionale ha affermato che ci sono dei valori supremi sui quali si
fonda la Costituzione, che non possono essere sovvertiti o modificati nemmeno da
leggi di revisione costituzionale. Questi principi supremi affermati soprattutto nella
prima parte della Costituzione sono in gioco nella seconda, che ne dovrebbe garantire
l’attuazione; ma proprio questi sono ora disattesi o traditi nella riforma sottoposta al
voto popolare del 4 dicembre.

La sovranità popolare
I – Il primo principio, che sta scritto all’inizio della stessa Costituzione, è
quello della sovranità popolare. Dice l’art. 1: “la sovranità appartiene al popolo, che
la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Questo principio è il
fondamento di tutta la Costituzione. In rapporto ad esso la Costituzione sta o cade.
La statuizione di questo principio è frutto di secoli di lotte, è costata lacrime e
sangue, ed è il punto di svolta della storia dai regimi assoluti a ordinamenti di libertà.
Passare dalla condizione di sudditi a quella di sovrani, cambia infatti la vita, cambia il
destino delle persone e dei popoli.
Che la sovranità sia di uno solo, di un monarca o di tutti, è decisivo anche per
l’alternativa suprema, che è quella tra la guerra e la pace. Quando, più di un secolo fa,
nel settembre 1911 l’Italia dichiarò guerra alla Turchia per prendersi la Libia, dando
inizio a quel conflitto con l’Oriente e con l’Islam che dura ancor oggi, tutto avvenne
in segreto e come se niente fosse, col Re che era in vacanza a San Rossore, Giolitti
che se ne stava a Dronero e il Parlamento che era chiuso per ferie. Nel 1944 quando
nel radiomessaggio del sesto Natale di guerra Pio XII fece la storica scelta a favore
della democrazia disse che forse, se avessero avuto la democrazia, i popoli avrebbero
potuto impedire la guerra. Nel 1969 un popolo di sovrani in America e nel mondo
diede vita a un grandioso movimento pacifista che poi costrinse gli Stati Uniti a
ritirarsi dal Vietnam e a porre fine a quella guerra. Ciò mostra l’importanza del
principio della sovranità popolare.
Ora questo principio supremo è violato nella proposta di Costituzione
sottoposta a referendum in molteplici modi.
Prima di tutto il Senato, che continuerà ad avere vastissime competenze
legislative e politiche, non sarà più eletto dal popolo; esso sarà designato, checché
dica il documento firmato da Cuperlo, da 904 consiglieri regionali, cioè da politici
appartenenti alla nomenclatura e ai partiti che comandano nelle Regioni.
In secondo luogo la sovranità popolare è violata dalla elevatissima distorsione
del rapporto di proporzionalità tra i voti espressi dal popolo e i seggi attribuiti, a
causa della legge elettorale maggioritaria oggi vigente che trasforma in modo
ineguale i voti in seggi; si dice che sarà cambiata ma intanto la riforma si vota con
quella.
Il principio della sovranità popolare è violato inoltre dalla dissuasione dalla
partecipazione politica (un manifesto del PD prometteva, in cambio del Sì al
referendum, la diminuzione dei “politici”).
E poi c’è il fatto che una volta eletto il primo ministro con tutti i suoi deputati,
per il popolo sovrano non ci sarà più niente da fare per cinque anni, essendo
artificialmente assicurato un governo di legislatura, e dunque i cittadini perdono di
cinque anni in cinque anni il diritto sancito dall’art. 49 della Costituzione di
concorrere a determinare la politica nazionale.
Inoltre è violato il principio che la sovranità popolare si esercita nelle forme e
nei limiti della Costituzione, perché tra queste forme e questi limiti la Costituzione
prevede che il popolo non elegga direttamente il presidente del Consiglio, ma che
questo sia nominato dal presidente della Repubblica; invece secondo la legge
elettorale connessa alla riforma costituzionale “il capo della forza politica” che vince
le elezioni e ottiene il premio di governabilità è automaticamente, la sera stessa,
acclamato come presidente del Consiglio, anche se il presidente della Repubblica che
secondo la Costituzione lo dovrebbe nominare, sta dormendo.
Ma la lesione più grave del principio di sovranità consiste nel portare a
compimento quel passaggio della sovranità dal popolo ai mercati che da tempo ci
chiedono la Trilaterale, Gelli, la banca Morgan, l’Europa, gli ambasciatori americani:
una riforma che appunto, come oggi si dice, era attesa da trent’anni e che neanche
Berlusconi era riuscito a realizzare. Ma questo transito della sovranità dagli uomini ai
mercati, è precisamente ciò che depreca il papa quando denuncia la bancarotta di una
società in cui il denaro governa invece di servire e in cui vengono salvate le banche
ma non le persone.

Il lavoro come fondamento della Repubblica
II – Il secondo principio supremo, che figura nello stesso incipit della Costituzione, è
il principio lavorista, perché’ l’Italia è concepita come una Repubblica fondata sul
lavoro. È un principio straordinario che attua il rovesciamento cristiano del servo in
signore. Il lavoro che era la schiavitù addossata al servo, è ora riconosciuto come la
dignità stessa dell’uomo. Questo principio, insieme con l’art. 4 che riconosce il diritto
al lavoro e prescrive alla Repubblica, cioè alla politica, di renderlo effettivo, fa sì
che siano costituzionalmente obbligatorie politiche di piena occupazione.
La piena occupazione non è un’opzione facoltativa, una variabile dipendente dalle scelte
ideologiche dei governanti, è un obbligo costituzionale, è ciò che la Repubblica,
secondo la Costituzione, non può non fare.
Ma questo è impedito dall’art. 117 della nuova Costituzione che ribadisce in
modo ancora più stringente il vincolo già previsto nel testo oggi vigente, stabilendo
che la potestà legislativa è esercitata nel rispetto “dei vincoli derivanti
dall’ordinamento dell’Unione Europea” (prima si parlava con minore precisione di
“comunità europea”). Ma l’ordinamento dell’Unione Europea è un ordinamento che
trasforma in regime la scelta economica neo-liberista e l’ideologia della sovranità dei
mercati. Esso tutela la competizione e la concorrenza in quello che chiama il
“mercato interno”, che sarebbe poi la stessa Europa, e all’art. 107 proibisce gli aiuti
concessi dagli Stati o il trasferimento di risorse statali alle imprese, cioè proibisce
l’intervento dello Stato nell’economia, sotto pena di una condanna da parte della
Commissione europea o di un giudizio davanti alla Corte di giustizia europea.
Ciò vuol dire, tra le altre cose, che politiche di piena occupazione, che
sarebbero costituzionalmente dovute, sono costituzionalmente proibite da questa
seconda parte della Carta che vincola la legislazione ai diktat europei.
E proprio qui c’è il punto di caduta finale della nuova Costituzione. Essa
modifica la forma di Stato, perché svuota il sistema delle autonomie restaurando il
centralismo statale; modifica la forma di governo perché trasforma il governo
parlamentare in potere monocratico elettivo di legislatura, come quello dei sindaci, e
perciò in un premierato mascherato; modifica i compiti e i fini della Repubblica,
perché come dice la relazione che accompagnava il disegno di legge di riforma
Renzi-Boschi, l’obiettivo è di adeguare la Repubblica “alle nuove esigenze della
governance europea e alle relative stringenti regole di bilancio”; e queste tre
modifiche della forma di Stato, della forma di governo e dei fini della Repubblica nel
loro insieme portano a compimento il lungo processo, cominciato già qualche
decennio fa, di trasferimento della sovranità dal popolo ai mercati.

Una democrazia parlamentare
III – Il terzo principio fondamentale che è tradito dalla riforma è quello per il quale la
nostra non è una democrazia dell’investitura, ma è una democrazia parlamentare.
Nella democrazia parlamentare l’architrave di tutto il sistema è l’istituto della fiducia,
perché è grazie alla fiducia del Parlamento che il governo può sorgere, ed è a causa
della perdita della fiducia che un governo può cadere, come è giusto che sia se un
governo, a giudizio della maggioranza parlamentare, invece del bene comune
produce un male comune.
Ma la riforma attacca e sostanzialmente distrugge l’istituto della fiducia che
non sarà più la fiducia del Parlamento, perché a metà del Parlamento, che resta
bicamerale, cioè al Senato, questo potere viene tolto; e quanto alla fiducia che resterà
nel potere della sola Camera, essa non sarà più una fiducia parlamentare, ma
un atto interno di partito, perché un solo partito, il cui segretario o il cui capo sarà il
presidente del Consiglio, grazie alla legge elettorale disporrà di 340 voti alla Camera,
sicché la fiducia sarà non il frutto di una valutazione politica, ma una atto dovuto per
disciplina di partito.
Per cui ci sarà, almeno formalmente, una democrazia, ci sarà un Parlamento,
ma non ci sarà più una democrazia parlamentare.

Il ripudio della guerra
IV – Il quarto principio supremo tradito dalla riforma è il principio pacifista, per il
quale l’Italia ripudia la guerra, ogni guerra che non sia quella corrispondente al
“sacro dovere” della difesa della Patria, inteso come popolo e territorio. Tale
principio avrebbe dovuto semmai avere maggior tutela, dopo che il Nuovo Modello
di Difesa varato nel 1991, ha spostato i confini fino ai pozzi di petrolio, alle dighe e ai
popoli del Medio Oriente e la patria è stata identificata con gli interessi economici
dell’Occidente da difendere anche militarmente in tutto il mondo globalizzato.
Invece la riforma rende più facile e mette in mano ad una sola persona la scelta
della deliberazione di guerra, dalla quale il Senato, cioè mezzo Parlamento, è proprio
quello che secondo i riformatori dovrebbe più direttamente rappresentare le
popolazioni locali, è tagliato fuori; la semplificazione che dà più estesi e più facili
poteri al presidente del Consiglio funzionerà anche per la decisione sull’impiego delle
Forze Armate e sulla guerra, e la sovranità popolare sarà completamente esclusa dalla
decisione sulla pace e sulla guerra.

Il principio internazionalista
V – Il quinto principio supremo abbandonato nella riforma è il principio
internazionalista, perché in tutte le nuove norme che riguardano la formazione e
l’attuazione delle prescrizioni dell’Unione Europea non c’è il minimo accenno ad una
intenzione riformatrice degli stessi Trattati Europei per guardare al di là dell’Europa
ai fini della costruzione di un ordine di pace e di giustizia fra le Nazioni.
Inoltre non c’è il minimo accenno a una riforma del diritto di asilo e a
un’accoglienza degli stranieri e dei migranti secondo le nuove dimensioni del
fenomeno che secondo alcune stime arriverà a coinvolgere 250 milioni di profughi, di
fuggiaschi, di rifugiati nell’anno 2050.
Né c’è il minimo accenno all’ultima discriminazione che una Costituzione
democratica dovrebbe abolire: la discriminazione della cittadinanza, la quale limita i
diritti fondamentali e l’esercizio dei diritti politici e sociali ai soli cittadini, con
l’esclusione degli stranieri. Una vera riforma del Senato sarebbe una riforma che non
ne facesse l’ultima trincea dei vecchi localismi, ma ne facesse un Senato dei popoli,
dove sedessero i rappresentanti non solo dei cittadini, ma delle persone di tutte le
nazioni, le lingue e le culture che abitano in Italia e dormono sotto il suo cielo.

Bancários, metalúrgicos, petroleiros, químicos, professores, servidores aderem a protesto Pelo menos uma dezena de categorias participou de manifestações contra o governo Temer e a ameaça de retirada de direitos.

Bancários, metalúrgicos, petroleiros, químicos, professores, servidores aderem a protesto
Pelo menos uma dezena de categorias participou de manifestações contra o governo Temer e a ameaça de retirada de direitos. Em São Paulo, haverá concentração na Praça da Sé a partir das 16h30

 
São Paulo – Pelo menos uma dezena de categorias participa hoje (11 novembre), por todo o país, de protestos contra o governo Temer e sua agenda de ajuste fiscal, que, conforme afirmam os trabalhadores, embute redução de investimentos e retirada de direitos sociais. “Querem jogar a conta do corte de gastos em cima dos trabalhadores”, afirma o presidente do Sindicato dos Metalúrgicos do ABC, Rafael Marques. Ele critica o governo por não mexer onde gasta muito, “com o pagamento de mais de R$ 960 bilhões por ano aos banqueiros com juros da dívida pública”.

Em São Paulo, a última atividade do dia está marcada para a Praça da Sé, a partir das 16h30. De acordo com os organizadores, aderiram ao movimento metalúrgicos, bancários, químicos, petroleiros, professores, eletricitários, servidores (federais e municipais), condutores de várias cidades de São Paulo, em Recife, Natal e no Distrito Federal e trabalhadores da Sabesp e da construção civil.

Na região do ABC, entre outras atividades, depois de um ato no Pavilhão Vera Cruz, em São Bernardo do Campo, trabalhadores de várias categorias marcharam até a rodovia Anchieta. Metalúrgicos fizeram panfletagem no terminal metropolitana de Piraporinha, entre São Bernardo e Diadema. Em Santo André, também houve panfletagem pela cidade.

Entre os bancários, houve atraso no início das atividades em algumas das principais concentrações, além de corredores de bancos em várias regiões de São Paulo, de acordo com o sindicato da categoria. Centros administrativos do Itaú (CAT e ITM) também abriram depois do horário normal. “Nós não vamos aceitar a precarização do nosso trabalho, a redução de salários, que nos imponham a alta rotatividade comum entre os terceirizados, o alto grau de adoecimento, muito maior do que a gente tem na categoria”, afirmou a presidenta da entidade, Juvandia Moreira. “A terceirização é sinônimo de precarização, é sinônimo de retirada de direito.”
“Trancaços”

No Vale do Paraíba, interior paulista, trabalhadores da Monsanto (São José dos Campos) e da Tarkett (antiga Fademac, em Jacareí) paralisaram atividades por 24 horas. Além do dia de protestos, o ato também faz parte da campanha salarial dos químicos, que têm data-base em 1º de novembro.

Segundo os movimentos, houve “trancaços” em várias estradas e vias importantes. Em São Paulo, a Avenida João Dias, estrada de Itapecerica e M’ Boi Mirim tiveram o tráfego interrompido logo no início do dia. Houve protesto e paralisação na rodovia Anhanguera, na entrada do município de Sumaré, na região de Campinas. Houve ainda registros de bloqueios e manifestações nas rodovias Anchieta (que liga a capital ao litoral sul), Dutra (São Paulo-Rio), Régis Bittencourt (São Paulo-Sul), Anhanguera (da capital paulista ao norte do estado), além da estrada Jacu-Pêssego, na zona leste paulistana.

Ainda na região da Campinas, um ato contra a terceirização bloqueou pela manhã um trecho da Rodovia Professor Zeferino Vaz, em frente à Refinaria do Planalto (Replan). Houve atraso na entrada do turno. A atividade também integra semana de mobilizações da Federação Única dos Petroleiros (FUP) contra a política de privatização e arrocho da Petrobras. Organizado por movimentos que formam as frentes Brasil Popular e Povo Sem Medo, o protesto, que durou três horas, reuniu cerca de 500 pessoas, segundo os petroleiros. Também estavam presentes profissionais da educação, urbanitários e trabalhadores da construção civil e da área de distribuição de petróleo e gás.

O ato também chamou a atenção para o julgamento, no Supremo Tribunal Federal (STF), sobre a Súmula 331 do Tribunal Superior do Trabalho (TST), que veda a terceirização na atividade-fim (principal) das empresas. “A terceirização ocorre hoje de forma precária e a súmula é que proporciona o mínimo de direitos ao terceirizado. Se o STF derrubar a súmula, essa garantia não existirá mais e a terceirização será aberta de forma ampla e irrestrita”, afirmou o diretor do Sindicato Unificado dos Petroleiros do Estado de São Paulo (Sindipetro Unificado-SP) Arthur Bob Ragusa.

Segundo ele, a condição de trabalho dos terceirizados já é bastante precária e com a destituição da súmula ficará ainda pior. Os terceirizados ganham em média 27% a menos que os trabalhadores próprios, trabalham três horas a mais por semana e enfrentam maior rotatividade. “No caso específico da Petrobrás, de cada 10 acidentes que acontecem, oito são com terceirizados”, afirmou o dirigente.

Na Bahia, um ato fechou a BA-535 nos dois sentidos, em Camaçari, região metropolitana de Salvador. Em Pernambuco, houve bloqueio nas ruas do centro de Recife. No Espírito, a manifestação foi no Km 67 da BR-101, em São Mateus, norte do Espírito Santo. O protesto terminou por volta das 9h.

fonte redebrasilatual.br

 

In Europa i partiti di “sinistra” non rappresentano più il lavoro

Sinistra - Foto di Sel

di Vittorio Capecchi

In questo numero di Inchiesta i testi si interrogano sulla scomparsa del lavoro dalla politica e dalle istituzioni. Francesco Garibaldo ricostruisce il processo di aziendalizzazione delle relazioni sindacali e di involuzione aziendalistica dei sindacati in Europa.

Come scrive Garibaldo, “se i lavoratori possono essere rappresentati solo come parte dell’azienda, allora non esiste più un punto di vista, una ipotesi sul lavoro che sia rappresentativa del mondo del lavoro come soggetto collettivo; il che non significa che non vi siano più conflitti tra manager e lavoratori, ma essi riguardano quel mondo chiuso e quindi hanno sempre come limite la comune esigenza di combattere, come sottolinea Marchionne, per sopravvivere contro le altre imprese”. L’aziendalizzazione arriva a inglobare le materie del welfare e prepara “un’ulteriore escalation di privatizzazione dei servizi sociali”. Come sintetizza Garibaldo “il lavoro è depoliticizzato e de-istituzionalizzato”.

Il lavoro esce in Europa dai partiti di “sinistra” e come analizza Alessandro Somma, è profetico l’ultimo testo di Peter Mair (politologo irlandese morto nel 2011) che descrivere la politica che “governa il vuoto” avendo lasciato il potere all’economia delle banche e delle multinazionali. L’immagine di questa politica è quella descritta da Bruno Giorgini nell’incontro a Maranello: l’alleanza tra un Renzi a capo del “partito della nazione”, la Merkel, Marchionne ed Elkann. Luigi Vinci si pone l’interrogativo utilizzato per questo editoriale “Come è potuto accadere?” e parla di una politica europea “populista”, basata “sulla movimentazione di atteggiamenti e comportamenti popolari, sulla sfiducia nella politica e negli assetti istituzionali, sul rapporto diretto tra seguaci e leadership, sulla banalizzazione del discorso politico e sulla centralità del richiamo emotivo”.

Sono avvenute profonde trasformazioni sia nel rapporto capitale/lavoro che nel rapporto capitale/natura. Sul primo di questi rapporti Umberto Romagnoli sottolinea le difficoltà di un diritto del lavoro che si trova in una fase con prospettive, come in Italia, di “crescita zero” che coesistono con i successi di Industria 4.0 descritti da Matteo Gaddi. Le ricadute sulla salute e sulla sicurezza di chi lavora sono descritte da Gino Rubini. Marco Assennato, che analizza il quadro sindacale francese e le lotte che attraversano Parigi, vede la situazione attuale come risultato di una non convergenza delle lotte, convergenza “da cercarsi direttamente sul terreno metropolitano, nei servizi, nella logistica, sul territorio”. Da tener poi presente che quando si cerca di uscire dal modello neoliberista i contraccolpi politici sono immediati, come spiega Railidia Carvalho che descrive il veloce retrocedere dei diritti del lavoro nel Brasile del golpe portato avanti contro Dilma Rousseff da parte dell’apparato di potere industriale, che vuole un ritorno trionfale del neoliberismo messo in discussione da Lula.

Sulla relazione capitale-natura sono importanti le considerazioni di Mario Agostinelli dopo il Forum Sociale Mondiale di Montreal a cui ha partecipato e in questa direzione è anche il dossier curato da Laura Corradi che riflette sul libro scritto da lei insieme a Raewyn Connell, Il silenzio della terra, che rappresenta il punto di arrivo di una esplorazione ventennale nelle teorie sociali dei paesi non occidentali e nelle realtà aborigene, nel tentativo di imparare da esse mettendo al centro la terra.

Esiste ancora una sinistra?

Le analisi storiche e le diagnosi presentate nei saggi prima ricordati sembrerebbero convergere verso una risposta negativa, ma sia al livello internazionale che al livello nazionale vi sono risposte che mostrano scenari politici, economici e culturali alternativi al neoliberismo dominante.

Al livello internazionale sono importanti le iniziative e proposte che provengono dal Forum Sociale Mondiale descritto da Mario Agostinelli: cambiamenti nelle fonti energetiche, spostamento verso un sistema agricolo più localizzato ed ecologico, abolizione dei trattati commerciali che interferiscono con i tentativi di ricostruire le economie locali, accoglimento di rifugiati e migranti che cercano sicurezza e una vita migliore, introduzione di un reddito minimo universale, interruzione di sussidi ai combustibili fossili, tassazione sulle transazioni finanziarie, tasse più elevate per le corporation e per i ricchi, una tassa progressiva per il carbonio.

In questo scenario si collocano le iniziative politiche italiane di sinistra. La scomparsa di partiti che si riferiscano al lavoro come base sociale aumenta le responsabilità politiche del sindacati e della Fiom in particolare. Gianni Rinaldini delinea “un Sindacato Confederale, autonomo, indipendente e democratico, espressione di un progetto di cambiamento della società (..) che non può che essere fondato su un proprio progetto di cambiamento della società, da cui derivano le proprie compatibilità nella stessa iniziativa rivendicativa

Un Sindacato democratico nella vita dell’Organizzazione, nella forma e nella modalità di elezione dei gruppi dirigenti e nel rapporto democratico con l’insieme dei lavoratori e delle lavoratrici. Da qui dovrebbe cominciare una vera discussione, senza ipocrisie ed infingimenti”. In questo scenario si muovono le iniziative della Fiom in materia di formazione raccontate da Giuseppe Ciarrocchi e Gabriele Polo e quelle descritte da Bruno Papignani (intervistato da Tommaso Cerusici) che analizza quattro temi di grande rilevanza: l’accordo raggiunto in Fincantieri, il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici, i referendum promossi dalla Cgil contro il Jobs Act e il referendum costituzionale.

Sull’esistenza di una sinistra in Italia e in Europa si muovono poi le interviste fatte in questo numero da Luciano Berselli a Paul Ginsborg e Sergio Labate (autori del libro Passioni e politica, uscito recentemente da Einaudi) e da Sergio Caserta a Laura Urbinati, impegnata nella campagna per il NO, da lei considerata una lotta essenziale “per la difesa della democrazia costituzionale”. La sinistra esiste ed è impegnata su più fronti.

Ordinare se stessi per governare il mondo

Questa frase proviene da un antico testo cinese di recente pubblicato in italiano, il Neiye (Neiye, Il tao dell’armonia interiore a cura di Amina Crisma, Garzanti 2016) ed è anche il senso profondo dell’intervento di Emilio Rebecchi in questo numero che ci invita a guardare dentro di noi se si vuole affrontare la complessità del reale e distinguere tra il buono e il cattivo. Il disegno riportato in questo editoriale è quello della mappa Loshu (una delle due mappe dell’Yijing, il Classico dei Mutamenti) impressa sulla tartaruga (simbolo di longevità) che naviga in acque difficili. E’ il mio personale augurio di longevità e cambiamento (Yi) per la sinistra.

Questo articolo è stato pubblicato da Inchiesta online l’8 novembre 2016 ed è l’editoriale di Inchiesta 193 (luglio-settembre 2016)

Dossetti, Berlusconi e Renzi

Don Giuseppe Dossettidi Sergio Caserta

“Sentinella quanto resto della notte?” la sentinella risponde “viene il mattino e poi anche la notte” (Isaia 21). Con queste parole ricavate dal Vangelo, Don Giuseppe Dossetti ormai avanti negli anni e malato, gettò il suo grido d’allarme all’indomani della vittoria elettorale di Silvio Berlusconi nel 1994. Il timore fondato del frate ex partigiano, era l’attacco alla Costituzione repubblicana, da parte di un potente agglomerato “economico finanziario che si trasforma in dominio politico”.

Invitò pertanto tutti i democratici a fondare comitati per la difesa della Costituzione che dopo la sua morte si denominarono appunto “Comitati Dossetti”. Se si rileggono le vicende del 1994 alla luce di quel che è accaduto dopo ed oggi, si comprende come quell’ avvertimento avesse un valore altamente politico e profetico e che oggi conserva tutta la sua stringente attualità.

Dossetti paventava e denunciava che l’ascesa al potere di Berlusconi, avrebbe potuto condurre a un premierato politico assoluto, creato dalla manipolazione dei media, cosa che puntualmente accadde attraverso l’acquisizione del pieno controllo della RAI da parte di Berlusconi (editto bulgaro e cacciata dei giornalisti scomodi), già proprietario di tre reti televisive. In cosa è cambiata la natura del potere di Renzi sui media?

Sostanzialmente applica il medesimo schema del suo predecessore e ispiratore ma lo estende e lo esaspera: impone la nomina di un amministratore delegato che risponde al governo e di un direttore fedelmente allineato per realizzare un pieno controllo del mezzo d’informazione pubblico, perfino di quello radiofonico, basta pensare a cosa sta diventando radio tre un tempo campione di autonomia culturale. Renzi più che Berlusconi ha costruito un sistema di potere che si basa su una fitta rete di alleanze con i poteri più forti, e in più, ciò che al Signore di Arcore è sempre mancato, il controllo pieno e la gestione di un partito politico vero, per quanto declinante, qual’è indiscutibilmente il PD.

Egli ha posto le condizioni per un regime personalistico di tipo carismatico che si prepara ad ottenere un controllo totale del Paese attraverso le modifiche della Costituzione e della legge elettorale. Il merito della riforma è noto ai lettori e non vale la pena di ripeterlo qui, ma sostanzialmente con una sola camera elettiva che da la fiducia al governo, una seconda camera di senatori nominati e a tempo molto parziale, con competenze limitate e confuse, una legge elettorale che concede un abnorme premio di maggioranza, tempi contingentati per approvare le leggi d’interesse del governo, un forte accentramento di competenze a danno delle regioni che vengono radicalmente espropriate delle funzioni legislative principali, il controllo pressoché totale dell’elezione del presidente della repubblica e dei giudici della corte costituzionale, non c’è paragone con il temuto “principato” vagheggiato da Dossetti riferito a Berlusconi che era a confronto ben poca cosa.

Qui si crea una repubblica presidenziale mascherata. I sostenitori del SI hanno avuto più volte l’arroganza di imputare la paternità della loro pessima proposta ai padri fondatori della Costituzione, alcuni dei quali avendo espresso una preferenze per un sistema monocamerale, sarebbero in sintonia con il progetto boschiano-renziano. Niente di più falso in particolare proprio per Dossetti che fu nella Costituente un protagonista di alcuni dei risultati più importanti per la definizione dell’assetto istituzionale complessivo.

Proprio per denunciare questa falsità e ristabilire la verità del coerente collegamento tra la battaglia di Dossetti e le ragioni del NO alla proposta di riforma costituzionale che sabato 12 novembre si svolge a Monteveglio in provincia di Bologna, un importante incontro”una Costituzione venuta dal futuro” sulla figura dell’insigne costituente, con la partecipazione di studiosi, ricercatori e amici autorevoli di Dossetti che ne ricorderanno la figura e l’opera, insieme alla rivendicazione dei valori costituzionali in nome dei quali ci si oppone al progetto di Renzi in difesa della repubblica parlamentare.

FONTE ILMANIFESTOBOLOGNA

In libreria : “Da Gelli a Renzi (passando per Berlusconi)” di Aldo Giannuli

 

Un libro interessante,“Da Gelli a Renzi (passando per Berlusconi) che risulterà assai scomodo e fastidioso per i rappresentanti dei poteri forti. Anche per questo motivo l’Autore afferma  :

“questa volta ho proprio bisogno del vostro aiuto per far sapere che c’è, perché si fatica molto ad ottenere qualche recensione o segnalazione e tutto mi fa pensare che faticheremo molto a restare in libreria. Per cui vi rivolgo un appello con il passaparola segnalando il libro ad amici e conoscenti, mandando qualche mail, condividendo su Fb e rilanciando su Twitter. Insomma mi aspetto che mi diate una mano.
Chi pensasse di trovarvi le prove di una fantasiosa congiura massonica, che da Gelli porta a Renzi, resterebbe deluso: non è di questo che mi occupo (e, peraltro, una congiura che dura per quasi mezzo secolo, sopravvivendo a morti ed eclissi dei vari protagonisti, non è molto convincente e sa di opera fantasy). Ci sono cose molto più durature dei complotti e sono le idee, le correnti di pensiero che, pur con le inevitabili modificazioni che il tempo impone, rispuntano, come fiumi carsici, quando meno lo si aspetta.
C’è un filone di pensiero che affonda le radici molto indietro nel tempo (sin nel XVIII secolo) e che ha opposto le ragioni della società civile contro lo Stato ed i suoi apparati. Questo scontro sembrò vinto definitivamente in Italia nel 1945, quando, dalla sconfitta del fascismo, sorse una repubblica dal forte contenuto sociale, garantita da una democrazia parlamentare che esaltava la rappresentanza e la partecipazione popolare. Poi, pian piano, riemerse una cultura politica che, nelle nuove condizioni storiche, pensava ad una riforma della Costituzione e della legge elettorale che comprimesse la rappresentanza, liquidasse gli strumenti di partecipazione democratica e desse vita ad un regime oligarchico che, però, conservava forme elettive.
La P2 fu il soggetto che riuscì a sdoganare quella cultura  ed ad imporre questo tema nell’agenda politica circa 40 anni fa. Non hanno torto i sostenitori del Si al referendum a sostenere che la riforma delle istituzioni “attende da 40 anni”, ma solo se si ammette che è della riforma di Gelli che si sta parlando. E, in effetti, le somiglianze fra il piano della P2 e l’attuale progetto di riforma istituzionale non mancano affatto: legge elettorale maggioritaria, partiti “all’americana”, centralità assoluta del governo che assorbe in gran parte la funzione legislativa, compressione degli organi di controllo e garanzia, abolizione/trasformazione del Senato, abolizione delle provincie, ecc. E’ la stessa filosofia antiparlamentare di Gelli.
D’altro canto, anche la base sociale e regionale della P2 presenta diverse somiglianze con il “giglio magico” renziano ed i suoi dintorni. Ovviamente sia tanto nel progetto quanto nella composizione sociale, ci sono anche differenze inevitabili, dato il tempo trascorso, ma quel che conta è il nucleo centrale di entrambi, come dire? Il Dna che si trasmette nelle generazioni pur nei mutamenti parziali.

Le somiglianze fra i due progetti (quello di Gelli di ieri e quello odierno di Renzi) si colgono meglio se si tengono presenti anche due documenti preparatori del notissimo Piano di Rinascita Democratica: il “memorandum” sulla situazione italiana e lo Schema “R” molto meno conosciuti e che ripropongo alla vostra lettura. Più che mai questa volta il libro è pensato come un’arma di battaglia (qui la scheda di presentazione del libro).
Spero che vi interessi e, come al solito, sono a disposizione per risposte, chiarimenti ed anche per accogliere critiche e contestazioni. Spero non mi deluderete. Aldo Giannuli ”

La Scheda di presentazione del Libro

fonte aldogiannuli.it

L’ultima lezione di Noam Chomsky: un pacato invito alla rivolta

 

 

L’ultima lezione di Noam Chomsky: un pacato invito alla rivolta
Il documentario, intitolato Requiem for the American Dream, descrive una società frantumata, individualista e votata alla diseguaglianza.  di

«Durante la Grande Depressione, che io sono vecchio abbastanza da ricordare, la maggior parte dei membri della mia famiglia erano lavoratori disoccupati. Si stava male, ma c’era la speranza che le cose potessero andare meglio. C’era un grande senso di speranza. Oggi non c’è più». Iniziano così i 112 minuti di Requiem for the American Dream, frutto del lavoro di 4 anni di Peter Hutchison, Kelly Nyks e Jared P. Scott, un prodotto che più che un documentario somiglia alla lezione finale di un grande interprete dei nostri tempi, forse il più grande: Noam Chomsky.

Professore al MIT di Boston, ma soprattutto attivista e anima della sinistra americana per più di mezzo secolo, Chomsky, che ora ha 87 anni, parla con la calma e la tranquillità di un grande vecchio che, senza fretta e senza quel pathos tipico dell’indignazione, unisce i puntini che il capitalismo americano ha lasciato dietro di sé e descrive limpidamente l’esatta dimensione della sfida che abbiamo davanti. O della tragedia.

Al centro del discorso di Chomsky c’è il terrificante — seppur preannunciato — risveglio di una nazione dal cosiddetto “sogno americano”, quell’American Dream che ha lasciato sul campo una delle più gravi e profonde disuguaglianze della Storia moderna.

Chomsky parte dall’inizio della storia americana, dai giorni i cui i padri fondatori costituivano il Senato sulla base della missione molto precisa di proteggere la minoranza delle classi abbienti e limitare la democrazia, ovvero il potere della maggioranza. Una missione poi rafforzata e rilanciata negli anni Sessanta, come reazione alle proteste e all’organizzazione della popolazione. Una reazione potente, precisa, disarmante, che nemmeno lui stesso all’epoca seppe riconoscere, e che oggi lascia un mondo in rovina, con un sistema economico ridisegnato sulle esigenze della finanza, ma soprattutto con la programmatica trasformazione di una classe — i lavoratori — in una galassia informe di precari.

Disinformati da una informazione che da cane da guardia del potere si è trasformata in cane da guardia al servizio del potere, alienati dalla frammentazione del tessuto sociale e commerciale, isolati nell’economia del lavoro e nella stessa vita privata: la creatura sociale che ha preso il posto di quei lavoratori che tanto hanno spaventato la classe dirigente nel Novecento è franta, alienata, depressa e sempre più ignorante. È diventato un popolino che non sa più chi votare, schiavo dell’intrattenimento, marginalizzato nella vita politica.

Lo spettro che si aggirava per l’Europa a metà dell’Ottocento, ovvero quelle prima generazioni di lavoratori che seppero rispondere alla prima industrializzazione e che convinsero Marx a credere che potessero essere il motore del cambiamento e la materia umana dell’uomo nuovo, è ormai diventato il fantasma di se stesso. Un esercito di fantasmi sfruttati, ma soprattutto — ed è l’ultimo punto del decalogo di Chomsky — un esercito marginalizzato.

«Il 70 per cento della popolazione», dice Chomsky, «non ha alcun modo di influenzare la politica». L’attivismo esiste, ma è sempre più morbido, isolato, rannicchiato e di conseguenza inutile. La rabbia della gente si sta accumulando, conclude Chomsky, e «sta prendendo la forma di una rabbia non focalizzata, frustrata». Il risultato ce l’abbiamo già tutti davanti agli occhi tutti: la disintegrazione sociale, la lotta non più di una classe sfruttata e subalterna contro una classe superiore e abbiente, ma una lotta intestina tra poveri.

fonte l’INKIESTA che ringraziamo .

 

 

LIBERTA’ D’INFORMAZIONE A RISCHIO NEGLI USA : FARE IL FILMAKER DOCUMENTARISTA NEGLI USA PUO’ COSTARE MOLTO CARO..

Due giornaliste che riprendevano con la videocamera manifestazioni di protesta contro la costruzione di un oleodotto nel Nord Dakota sono state arrestate e imputate per reati che possono portare ad una condanna per 20 o trent’anni di prigione. Non è una bufala, è una notizia riportata dal quotidiano inglese Guardian. Altro che salvaguardie per chi fa informazione garantite dal primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, le polizie e i giudici locali si comportano come i loro colleghi degli “Stati delle banane”.

Documentary film-makers face decades in prison for taping oil pipeline protests (fonte Guardian.uk )

Documentary Filmmaker Faces Up to 45 Years in Prison for Covering Pipeline Protest (fonte trofire.com )

Documentary Filmmaker Faces Up to 45 Years in Prison for Covering Pipeline Protest

L’avventurismo del governo italiano che intende inviare militari italiani alle frontiere con la Federazione Russa

 

 

(da repubblica.it ) ” Un contingente di militari italiani sarà schierato in Lettonia, nell’ambito di una forza multinazionale Nato sotto comando canadese ­ complessivamente tra i 3 e i 4mila uomini sottoposti a rotazione ­ a difesa delle frontiere esterne con la Russia nelle repubbliche baltiche enella Polonia orientale. La notizia, emersa da un’intervista al segretario generale dell’Alleanza Atlantica, Jens Stoltenberg, viene confermata dai ministri Pinotti e Gentiloni. Con una precisazione: la missione non contraddice la politica italiana improntata al dialogo con la Russia. Ma Mosca accusa la Nato di creare nuove divisioni. Mentre in Italia le opposizioni insorgono e chiedono all’esecutivo di riferire al più presto a un Parlamento del tutto ignaro del prossimo impegno militare.”

L’Alleanza Atlantica ( NATO ), sopravvissuta alla guerra fredda si rigenera con il rilancio di nuove tensioni alle frontiere con la Federazione Russa. Il Patto di Varsavia non esiste più, la NATO invece viene rilanciata per una politica internazionale tesa a mettere in difficoltà la UE e ad impedire che l’Europa abbia una propria politica estera indipendente dagli USA.
Si parla di un contingente di 3 o 4 mila uomini ( azione simbolica ) da schierare con esercitazioni sulle frontiere esterne dell’Europa con la Federazione Russa.
Un’operazione che non ha alcuna valenza militare, serve solo a provocare, a creare ulteriori tensioni. L’Italia ha sempre curato le relazioni con la Russia, prima con l’URSS ora con la Federazione Russa. Il governo italiano partecipa con 140 militari a questa operazione di provocazione pericolosa senza che il Parlamento sia stato consultato. La compromissione dell’Italia in questa impresa dissennata ha un solo scopo: distruggere quel piccolo spazio di autonomia del nostro paese nella politica internazionale e rompere quelle relazioni commerciali ed economiche  con la Federazione Russa già messe in discussione dalle sanzioni.
In poche parole la ministra della Difesa Pinotti e il ministro degli Esteri stanno attivando un percorso pericoloso, inutile e fuori controllo.
Quando si scherza con il fuoco si rischia di bruciarsi le mani…

Crisi ambientali e migrazioni forzate di Guglielmo Ragozzino

La battaglia ambientale e la crisi dei rifugiati: l’ondata silenziosa oltre la fortezza Europa. Una raccolta di saggi e articoli pubblicata dall’associazione A Sud

Nel vecchio secolo la Fiat era considerata il peggio del peggio. Cattiva, ignorante, prepotente, paurosa. Tutti volevano trasformarla, molti abbatterla. Non che non sia cambiata abbastanza da allora, sotto l’urto dei tempi; ma negli anni è rimasta sempre la peggiore di tutte. I quotidiani della nuova sinistra che erano allora tre, si prodigavano offrendo soluzioni, talvolta impraticabili, spesso molto generose. Ho in mente un’immagine che mostrava una gigantesca Fiat, una imprendibile fortezza di cemento e mattoni che però aveva sopra al tetto un certo numero di minuscoli operai dotati di picconi che dall’alto e di lato, cercando di distruggerla cominciavano a farla a piccoli pezzi. Come sia andata a finire, qualcuno lo sa. Roberto Zamarin, il vignettista che disegnava Gasparazzo per “Lotta Continua” e quando aveva finito in redazione, a notte, partiva in macchina per distribuire il giornale, morì nella notte in un incidente stradale. Quanto alla Fiat, bastava aspettare e – come si è visto – si sarebbe cancellata da sé.

segue su fonte sbilanciamoci.info

Brasile, il discorso di Dilma Rousseff al popolo: “Riforma politica ma nel nome della democrazia e della sovranità popolare”

 Pubblichiamo la traduzione integrale del messaggio letto dalla presidente del Brasile Dilma Rousseff di fronte a telecamere e giornalisti martedì 16 agosto 2016 nel Palazzo dell’Alvorada. Un messaggio da condividere e diffondere anche in Italia per fare chiarezza sul golpe in atto contro la legittima presidente nel paese che ospita le Olimpiadi. (trad. it. Teresa Isemburg).

“Mi rivolgo alla popolazione brasiliana e alle Signore Senatrici e ai Signori Senatori per esprimere ancora una volta il mio impegno per la democrazia e per le misure necessarie per superare l’impasse politico che ha già causato tanti pregiudizi al Paese.
Il mio ritorno alla Presidenza, per decisione del Senato Federale, significherà l’affermazione dello Stato Democratico di Diritto e potrà contribuire in modo decisivo al sorgere di una nuova e promettente realtà politica. La mia responsabilità è grande. Nel percorso per difendermi dall’impeachment mi sono ulteriormente avvicinata al popolo, ho avuto l’opportunità di ascoltare il suo riconoscimento, di ricevere il suo affetto. Ho ascoltato anche critiche dure al mio governo, agli errori commessi e a misure e politiche che non sono state adottate. Accolgo queste critiche con umiltà e determinazione perché si possa costruire un nuovo cammino. Abbiamo bisogno di rafforzare la democrazia nel nostro Paese e, per questo, sarà necessario che il Senato chiuda il processo di impeachment in corso, riconoscendo, in presenza di prove irrefutabili, che non vi è stato crimine di responsabilità, che io sono innocente.
Nel presidenzialismo previsto dalla nostra Costituzione non è sufficiente la sfiducia politica per allontanare un Presidente. Bisogna che si configuri un crimine di responsabilità. Ed è chiaro che non vi è stato tale crimine.
Non è legittimo, come vogliono i miei accusatori, allontanare il capo di Stato e di governo per “l’insieme dell’opera”. Chi allontana il Presidente per “l’insieme dell’opera” è il popolo, e solo il popolo, nelle elezioni.
Per questo affermiamo che, se l’impeachment fosse consumato senza crimine di responsabilità, avremmo un colpo di stato.
Il collegio elettorale di 110 milioni di elettori sarebbe sostituito, senza il dovuto sostegno costituzionale, da un collegio elettorale di 81 senatori. Sarebbe un indubbio golpe seguito da elezione indiretta. Viceversa, ritengo che la soluzione per le crisi politica ed economica che affrontiamo passi attraverso il voto popolare in elezioni dirette. La democrazia è l’unica strada per la costruzione di un Patto per l’Unità Nazionale, lo Sviluppo e la Giustizia Sociale. E’ l’unico cammino perché noi si esca dalla crisi.
Da qui l’importanza che noi si assuma un chiaro impegno per il Plebiscito e per la Riforma Politica.
Sappiamo tutti che vi è un impasse determinato dall’esaurimento del sistema politico, sia per il numero eccessivo di partiti, sia per le pratiche politiche discutibili che esigono una profonda trasformazione delle regole vigenti.
Sono convinta della necessità, e darei il mio appoggio incondizionato alla convocazione di un Plebiscito, con l’obiettivo di consultare la popolazione sulla realizzazione anticipata di elezioni, così come sulla riforma politica ed elettorale.
Dobbiamo concentrare sforzi per la realizzazione di un’ampia e profonda riforma politica che stabilisca un nuovo quadro istituzionale che superi la frammentazione dei partiti, moralizzi il finanziamento delle campagne elettorali, rafforzi la fedeltà partitica e dia maggior potere agli elettori.
Il pieno ripristino della democrazia richiede che la popolazione decida quale è il cammino migliore per ampliare la governabilità e perfezionare il sistema politico elettorale brasiliano.
Per questo fine dobbiamo costruire un ampio Patto Nazionale, basato su elezioni libere e dirette, che coinvolga tutti i cittadini e le cittadine brasiliane. Un Patto che rafforzi i valori dello Stato Democratico di diritto, la sovranità nazionale, lo sviluppo economico e le conquiste sociali.
Questo Patto per l’Unità Nazionale, lo Sviluppo e la Giustizia Sociale consentirà la pacificazione del Paese. Il disarmo degli spiriti e il raffreddamento delle passioni devono essere superiori a qualsiasi sentimento di disunione. La transizione per questo nuovo momento democratico esige che venga aperto un ampio dialogo fra tutte le forze vive della Nazione Brasiliana con la chiara coscienza che ciò che ci unisce è il Brasile.
Dialogo con il Congresso Nazionale affinché congiuntamente e con responsabilità da noi vengano cercate le migliori soluzioni per i problemi affrontati dal Paese. Dialogo con la società e i movimenti sociali, affinché le domande della nostra popolazione ottengano piena risposta da politiche consistenti ed efficaci. Le forze produttive, imprenditori e lavoratori, devono partecipare in forma attiva alla costruzione di proposte per la ripresa della crescita e l’innalzamento della competitività della nostra economia.
Riaffermo il mio impegno per il rispetto integrale della Costituzione Cittadina del 1988, con risalto ai diritti e alle garanzie individuali e collettive che essa stabilisce. La nostra parola d’ordine continuerà ad essere “nessun diritto in meno”. Le politiche sociali che hanno trasformato la vita della nostra popolazione, assicurando opportunità per tutte le persone e valorizzando l’eguaglianza e la diversità dovranno essere mantenute e rinnovate. La ricchezza e la forza della nostra cultura devono essere valorizzate come elemento fondativo della nostra nazionalità.
Generare un maggior numero e migliori posti di lavoro, rafforzare la sanità pubblica, ampliare l’accesso ed elevare la qualità dell’educazione, assicurare il diritto all’abitazione e migliorare la mobilità urbana sono investimenti prioritari per il Brasile.
Tutte le variabili dell’economia e gli strumenti della politica devono essere canalizzati affinché il Paese torni a crescere e a creare posti di lavoro. Questo è necessario perché, dall’inizio del mio secondo mandato, misure, azioni e riforme necessarie perché il Paese affrontasse la grave crisi economica sono state bloccate e sono state imposte le cosiddette liste-bomba, nella irresponsabile logica del “tanto peggio, tanto meglio”.
Vi è stato uno sforzo ossessivo per squalificare il governo, senza preoccuparsi delle dannose conseguenze imposte alla popolazione. Possiamo superare questo momento e, uniti, cercare la crescita economica e la stabilità, il rafforzamento della sovranità nazionale e la difesa del pré-sal e delle nostre ricchezze naturali e minerali.
Fondamentale è dare continuità alla lotta contro la corruzione. Questo è un impegno non negoziabile. Non accetteremo alcun patto a favore dell’impunità di coloro che, in modo comprovato, e dopo il pieno esercizio del contraddittorio e della difesa, abbiano praticato illeciti o atti di improbità.
Popolo brasiliano, Senatrici e Senatori, il Brasile vive uno dei momenti più drammatici della sua storia. Un momento che richiede coraggio e chiarezza di propositi da noi tutti. Un momento che non tollera omissioni, inganni o mancanza di impegno per il Paese. Non dobbiamo permettere che una eventuale rottura dell’ordine democratico fondata sull’impeachment senza crimine di responsabilità renda fragile la nostra democrazia, con il sacrificio dei diritti assicurati nella Costituzione del 1988. Uniamo le nostre forze e i nostri propositi nella difesa della democrazia, il lato giusto della Storia.
Sono orgogliosa di essere la prima donna eletta presidente del Brasile. Sono orgogliosa di dire che, in questi anni, ho esercitato il mio mandato in forma degna e onesta. Ho onorato i voti che ho ricevuto. In nome di questi voti e in nome di tutto il popolo del mio Paese, lotterò con tutti gli strumenti legali di cui dispongo per assicurare la democrazia in Brasile. A questo punto tutti sappiamo che non ho commesso crimini di responsabilità, che non vi è motivo legale per questo processo di impeachment, in quanto non vi è crimine. Gli atti che ho compiuto sono stati atti legali, atti necessari, atti di governo. Atti identici sono stati praticati dai presidenti che mi hanno preceduto. Non era crimine nella loro epoca, e parimenti non è crimine adesso.
Mai nella mia vita si troverà prova di disonestà, viltà o tradimento. Diversamente da coloro che diedero inizio a questo processo ingiusto e illegale, non ho conti segreti all’estero, mai ho distratto un solo centesimo del patrimonio pubblico per mio arricchimento personale o di terzi e non ho ricevuto tangenti da nessuno. Questo processo di impeachment è fragile, giuridicamente inconsistente, un processo ingiusto, scatenato contro persona onesta e innocente. Quello che chiedo alle Senatrici e ai Senatori è che non si faccia l’ingiustizia di condannarmi per un crimine che non commesso. Non vi è ingiustizia più devastante che condannare un innocente. La vita mi ha insegnato il significato più profondo della speranza. Ho resistito al carcere e alla tortura. Vorrei non dovere resistere alla frode e alla più infame ingiustizia. La mia speranza esiste perché è anche la speranza democratica del popolo brasiliano, che mi ha eletto due volte Presidente. Chi deve decidere il futuro del Paese è il nostro popolo. La democrazia deve vincere”. 

Dilma: ‘devolver ao povo, o que só ao povo pertence, a escolha do futuro’

 

Mensagem da Presidenta Dilma Rousseff ao Senado e ao Povo Brasileiro.

 

Dilma Rousseff

 Dirijo-me à população brasileira e às Senhoras Senadoras e aos Senhores Senadores para manifestar mais uma vez meu compromisso com a democracia e com as medidas necessárias à superação do impasse político que tantos prejuízos já causou ao País.

 Meu retorno à Presidência, por decisão do Senado Federal, significará a afirmação do Estado Democrático de Direito e poderá contribuir decisivamente para o surgimento de uma nova e promissora realidade política.

 Minha responsabilidade é grande. Na jornada para me defender do impeachment me aproximei mais do povo, tive oportunidade de ouvir seu reconhecimento, de receber seu carinho. Ouvi também críticas duras ao meu governo, a erros que foram cometidos e a medidas e políticas que não foram adotadas. Acolho essas críticas com humildade e determinação para que possamos construir um novo caminho.

 Precisamos fortalecer a democracia em nosso País e, para isto, será necessário que o Senado encerre o processo de impeachment em curso, reconhecendo, diante das provas irrefutáveis, que não houve crime de responsabilidade. Que eu sou inocente.

No presidencialismo previsto em nossa Constituição, não basta a desconfiança política para afastar um Presidente. Há que se configurar crime de responsabilidade. E está claro que não houve tal crime. 

Não é legítimo, como querem os meus acusadores, afastar o chefe de Estado e de governo pelo “conjunto da obra”. Quem afasta o Presidente pelo “conjunto da obra” é o povo e, só o povo, nas eleições.

 Por isso, afirmamos que, se consumado o impeachment sem crime de responsabilidade, teríamos um golpe de estado. O colégio eleitoral de 110 milhões de eleitores seria substituído, sem a devida sustentação constitucional, por um colégio eleitoral de 81 senadores. Seria um inequívoco golpe seguido de eleição indireta.

 Ao invés disso, entendo que a solução para as crises política e econômica que enfrentamos passa pelo voto popular em eleições diretas. A democracia é o único caminho para a construção de um Pacto pela Unidade Nacional, o Desenvolvimento e a Justiça Social. É o único caminho para sairmos da crise.

 Por isso, a importância de assumirmos um claro compromisso com o Plebiscito e pela Reforma Política.

 Todos sabemos que há um impasse gerado pelo esgotamento do sistema político, seja pelo número excessivo de partidos, seja pelas práticas políticas questionáveis, a exigir uma profunda transformação nas regras vigentes.

 Estou convencida da necessidade e darei meu apoio irrestrito à convocação de um Plebiscito, com o objetivo de consultar a população sobre a realização antecipada de eleições, bem como sobre a reforma política e eleitoral.

Devemos concentrar esforços para que seja realizada uma ampla e profunda reforma política, estabelecendo um novo quadro institucional que supere a fragmentação dos partidos, moralize o financiamento das campanhas eleitorais, fortaleça a fidelidade partidária e dê mais poder aos eleitores.

 A restauração plena da democracia requer que a população decida qual é o melhor caminho para ampliar a governabilidade e aperfeiçoar o sistema político eleitoral brasileiro.

 Devemos construir, para tanto, um amplo Pacto Nacional, baseado em eleições livres e diretas, que envolva todos os cidadãos e cidadãs brasileiros. Um Pacto que fortaleça os valores do Estado Democrático de Direito, a soberania nacional, o desenvolvimento econômico e as conquistas sociais.

 Esse Pacto pela Unidade Nacional, o Desenvolvimento e a Justiça Social permitirá a pacificação do País. O desarmamento dos espíritos e o arrefecimento das paixões devem sobrepor-se a todo e qualquer sentimento de desunião.

 A transição para esse novo momento democrático exige que seja aberto um amplo diálogo entre todas as forças vivas da Nação Brasileira com a clara consciência de que o que nos une é o Brasil.

 Diálogo com o Congresso Nacional, para que, conjunta e responsavelmente, busquemos as melhores soluções para os problemas enfrentados pelo País.

 Diálogo com a sociedade e os movimentos sociais, para que as demandas de nossa população sejam plenamente respondidas por políticas consistentes e eficazes.

 As forças produtivas, empresários e trabalhadores, devem participar de forma ativa na construção de propostas para a retomada do crescimento e para a elevação da competitividade de nossa economia.

 Reafirmo meu compromisso com o respeito integral à Constituição Cidadã de 1988, com destaque aos direitos e garantias individuais e coletivos que nela estão estabelecidos. Nosso lema persistirá sendo “nenhum direito a menos”.

 As políticas sociais que transformaram a vida de nossa população, assegurando oportunidades para todas as pessoas e valorizando a igualdade e a diversidade deverão ser mantidas e renovadas. A riqueza e a força de nossa cultura devem ser valorizadas como elemento fundador de nossa nacionalidade.

 Gerar mais e melhores empregos, fortalecer a saúde pública, ampliar o acesso e elevar a qualidade da educação, assegurar o direito à moradia e expandir a mobilidade urbana são investimentos prioritários para o Brasil.

 Todas as variáveis da economia e os instrumentos da política precisam ser canalizados para o Paísvoltar a crescer e gerar empregos.

 Isso é necessário porque, desde o início do meu segundo mandato, medidas, ações e reformas necessárias para o País enfrentar a grave crise econômica foram bloqueadas e as chamadas pautas-bomba foram impostas, sob a lógica irresponsável do “quanto pior, melhor”.

 Houve um esforço obsessivo para desgastar o governo, pouco importando os resultados danosos impostos à população. Podemos superar esse momento e, juntos, buscar o crescimento econômico e a estabilidade, o fortalecimento da soberania nacional e a defesa do pré-sal e de nossas riquezas naturais e minerárias.

 É fundamental a continuidade da luta contra a corrupção. Este é um compromisso inegociável. Não aceitaremos qualquer pacto em favor da impunidade daqueles que, comprovadamente, e após o exercício pleno do contraditório e da ampla defesa, tenham praticado ilícitos ou atos de improbidade.

 Povo brasileiro, Senadoras e Senadores,

O Brasil vive um dos mais dramáticos momentos de sua história. Um momento que requer coragem e clareza de propósitos de todos nós. Um momento que não tolera omissões, enganos, ou falta de compromisso com o País.

 Não devemos permitir que uma eventual ruptura da ordem democrática baseada no impeachmentsem crime de responsabilidade fragilize nossa democracia, com o sacrifício dos direitos assegurados na Constituição de 1988. Unamos nossas forças e propósitos na defesa da democracia, o lado certo da História.

 Tenho orgulho de ser a primeira mulher eleita presidenta do Brasil. Tenho orgulho de dizer que, nestes anos, exerci meu mandato de forma digna e honesta. Honrei os votos que recebi. Em nome desses votos e em nome de todo o povo do meu País, vou lutar com todos os instrumentos legais de que disponho para assegurar a democracia no Brasil.

 A essa altura todos sabem que não cometi crime de responsabilidade, que não há razão legal para esse processo de impeachment, pois não há crime. Os atos que pratiquei foram atos legais, atos necessários, atos de governo. Atos idênticos foram executados pelos presidentes que me antecederam. Não era crime na época deles, e também não é crime agora.

 Jamais se encontrará na minha vida registro de desonestidade, covardia ou traição. Ao contrário dos que deram início a este processo injusto e ilegal, não tenho contas secretas no exterior, nunca desviei um único centavo do patrimônio público para meu enriquecimento pessoal ou de terceiros e não recebi propina de ninguém.

 Esse processo de impeachment é frágil, juridicamente inconsistente, um processo injusto, desencadeado contra uma pessoa honesta e inocente. O que peço às senadoras e aos senadores é que não se faça a injustiça de me condenar por um crime que não cometi. Não existe injustiça mais devastadora do que condenar um inocente.

 A vida me ensinou o sentido mais profundo da esperança. Resisti ao cárcere e à tortura. Gostaria de não ter que resistir à fraude e à mais infame injustiça.

 Minha esperança existe porque é também a esperança democrática do povo brasileiro, que me elegeu duas vezes Presidenta. Quem deve decidir o futuro do País é o nosso povo.

A democracia há de vencer

Dilma Rousseff


A Carta Testamento de Getúlio Vargas é uma arma contra o golpe atual

A Carta Testamento que Getúlio nos deixou é um dos mais importantes documentos de referência política e ideológica em defesa dos interesses nacionais.

Revisitemos a História. Com a palavra, Getúlio Vargas:

Carta Testamento

Mais uma vez, as forças e os interesses contra o povo coordenaram-se novamente e se desencadeiam sobre mim.
 
Não me acusam, me insultam; não me combatem, caluniam e não me dão o direito de defesa. Precisam sufocar a minha voz e impedir a minha ação, para que eu não continue a defender como sempre defendi, o povo e principalmente os humildes. Sigo o destino que me é imposto. Depois de decênios de domínio e espoliação dos grupos econômicos e financeiros internacionais, fiz-me chefe de uma revolução e venci. Iniciei o trabalho de libertação e instaurei o regime de liberdade social. Tive que renunciar. Voltei ao governo nos braços do povo. A campanha subterrânea dos grupos internacionais aliou-se à dos grupos nacionais revoltados contra o regime de garantia do trabalho. A lei de lucros extraordinários foi detida no Congresso. Contra a Justiça da revisão do salário-mínimo se desencadearam os ódios. Quis criar a liberdade nacional na potencialização das nossas riquezas através da Petrobrás, mal começa esta a funcionar, a onda de agitação se avoluma. A Eletrobrás foi obstaculada até o desespero. Não querem que o trabalhador seja livre. Não querem que o povo seja independente.
 
Assumi o Governo dentro da espiral inflacionária que destruía os valores do trabalho. Os lucros das empresas estrangeiras alcançavam até 500% ao ano. Nas declarações de valores do que importávamos existiam fraudes constatadas de mais de 100 milhões de dólares por ano. Veio a crise do café, valorizou-se o nosso principal produto. Tentamos defender seu preço e a resposta foi uma violenta pressão sobre a nossa economia a ponto de sermos obrigados a ceder.
 
Tenho lutado mês a mês, dia a dia, hora a hora, resistindo a uma pressão constante, incessante, tudo suportando em silêncio, tudo esquecendo, renunciando a mim mesmo, para defender o povo que agora se queda desamparado. Nada mais vos posso dar a não ser meu sangue. Se as aves de rapina querem o sangue de alguém, querem continuar sugando o povo brasileiro, eu ofereço em holocausto a minha vida. Escolho este meio de estar sempre convosco. Quando vos humilharem sentireis minha alma sofrendo ao vosso lado. Quando a fome bater à vossa porta, sentireis em vosso peito a energia para a luta por vós e vossos filhos. Quando vos vilipendiarem, sentireis no meu pensamento a força para a reação. Meu sacrifício nos manterá unidos e meu nome será a vossa bandeira de luta. Cada gota de meu sangue será uma chama imortal na vossa consciência e manterá a vibração sagrada para a resistência. Ao ódio respondo com o perdão. E aos que pensam que me derrotaram respondo com a minha vitória. Era escravo do povo e hoje me liberto para a vida eterna. Mas esse povo de quem fui escravo não mais será escravo de ninguém. Meu sacrifício ficará para sempre em sua alma e meu sangue terá o preço do seu resgate.
 
Lutei contra a espoliação do Brasil. Lutei contra a espoliação do povo. Tenho lutado de peito aberto. O ódio, as infâmias, a calúnia, não abateram meu ânimo. Eu vos dei a minha vida. Agora ofereço a minha morte. Nada receio. Serenamente dou o primeiro passo no caminho da eternidade e saio da vida para entrar na história.

 

http://www.controlacrisi.org/notizia/Politica/2016/8/22/47847-brasile-il-discorso-di-dilma-rousseff-al-popolo-riforma/

 

 

Poco testo e troppi video: così i social ci espongono alla demagogia

Poco testo e troppi video: così i social ci espongono alla demagogia
Lo scrittore iraniano Derakshan: «Una democrazia sana e rappresentativa ha bisogno più testi che video. Non è un problema americano o inglese, ma una minaccia alla nostra civiltà»

fonte La Stampa
I demagoghi di tutto il mondo, di destra o di sinistra, adorano la televisione. Questo mezzo lineare, emozionale e passivo, centrato sull’immagine, ha ridotto la politica a un reality. Come ha dimostrato Neil Postman in «Amusing Ourselves to Death»” (Ci divertiamo da morire) la televisione ha ampiamente abbassato il livello del dibattito pubblico nella maggior parte delle democrazie. Dagli Stati Uniti all’ Iran, dal Venezuela alla Francia, dall’ Egitto alla Russia, dall’ Italia alla Turchia, la competizione per l’audience è pari a quella per le elezioni. In molti paesi l’indice di ascolto è automaticamente tradotto in termini di voti.

E, cosa ancora più allarmante, internet, l’ultimo spazio pubblico dedicato alla parola dopo il declino del giornalismo scritto, si sta arrendendo al format televisivo. La versione della diretta proposta dai social network come Facebook e Twitter sta uccidendo il web e quindi anche il giornalismo scritto. Facebook è più simile al futuro della televisione che al web degli ultimi due decenni.

Una recente ricerca dell’università di Oxford dimostra che guardare video online è un fenomeno in crescita negli Stati Uniti e nella maggior parte del mondo tranne che in Nord Europa. Forse perché lì hanno un equilibrio più sano tra vita e lavoro e anche perché il loro sistema pubblico di istruzione incentiva ancora la lettura e il pensiero critico.

Intanto Facebook ha annunciato che presto i video domineranno gli aggiornamenti delle notizie, perché “comunicano una maggior mole di informazioni in un tempo molto più breve e quindi questa tendenza ci aiuta a diffondere più informazioni in molto meno tempo”, come dice Nicola Mendelsohn, vice presidente di Facebook.

Ciò conferma le mie riflessioni quando, uscendo da una prigione iraniana nel 2014, scoprii un internet completamente diverso dove il testo era in declino e andavano di moda le immagini, ferme o in movimento. Da pioniere del blog in Iran, quello che avvertii dopo sei anni di isolamento era che i blog, il miglior esempio di una sfera pubblica decentrata, erano finiti. Facebook e Instagram avevano ucciso i link esterni per massimizzare i profitti trattenendo gli utenti al loro interno e bombardandoli di pubblicità. Così facendo stavano ammazzando il web aperto, che si basava sui link. Internet è diventato sempre di più uno strumento d’intrattenimento piuttosto che uno spazio alternativo per la pubblica discussione. Peggio ancora, ho iniziato a notare uno strano disagio tra i giovani se dovevano leggere qualcosa più lungo di 140 caratteri.

Ovviamente il testo scritto non morirà mai, ma la capacità di comunicare attraverso l’alfabeto in molte società sta lentamente diventando un privilegio riservato a una piccola élite. Un po’ come nel Medioevo quando solo i politici e i monaci sapevano comunicare con l’alfabeto. Tutti gli altri sono destinati a diventare gli analfabeti del 21 secolo che principalmente comunicano con immagini, video – e naturalmente, emoji.

L’emergere di questa classe di illetterati, inchiodati ai loro vecchi apparecchi televisivi o alle loro personali tv mobili imperniate su Facebook, è una buona notizia per i demagoghi. Basti pensare a come Donald Trump ha magistralmente trasformato la formula televisiva nella sua macchina per le pubbliche relazioni pubblica e gratuita. Neil Postman ha spiegato in modo perfetto il perché nel suo libro del 1985. A suo giudizio negli Usa la differenza tra i discorsi pubblici del 18 o del 19 secolo e quelli attuali è che la pubblica opinione nell’era televisiva è un insieme di “emozioni piuttosto che di opinioni, ecco perché cambiano da una settimana all’altra, come dicono i sondaggi”. A suo avviso la natura della tv, che è di mero intrattenimento, produce solo disinformazione, che “non significa falsa informazione. Significa informazioni fuorvianti — fuori luogo, irrilevanti, frammentarie o superficiali  — informazioni che creano l’ illusione di conoscere qualcosa ma che in effetti allontanano dalla conoscenza”.

La copertura del recente referendum sulla EU da parte delle tv del Regno Unito rappresenta un buon esempio. Anche se erano conformi alle regole britanniche sull’ imparzialità, c’è chi pensa che i numerosi dibattiti dove entrambe le parti avevano lo stesso tempo per argomentare non abbiano reso giustizia a un tema delicato e complesso come la Brexit. Soprattutto ora che alcune affermazioni iniziali dei fautori del sì all’uscita dall’Unione, come i 350 milioni di sterline “dati ogni settimana all’ EU” per conto del sistema sanitario britannico, sono smentite dalle stesse persone che le avevano diffuse. C’era già molto materiale per confutarle disponibile sul web e sulla carta stampata. Ma parlare di numeri e di matematica in tv è sempre noioso e inutile. (un proverbio persiano recita così, “uno stupido getta una pietra in un pozzo, ma un centinaio di saggi non riescono a tirarla fuori.”).

Justin Webb, ex direttore della BBC per il Nord America, è arrivato al punto di dare la colpa alle regole di imparzialità vigenti. La scorsa settimana ha scritto su Radio Times: “Uno dei messaggi più chiari durante la campagna referendaria era che il pubblico agognava la verità. La gente voleva andare oltre i proclami e i contro proclami e capire che cosa c’era di vero.” Il Guardian suggeriva che “i media dovrebbero rivedere il loro modo di coprire la politica e di informare alla luce del voto per lasciare l’Unione europea”. Il tramonto del giornalismo scritto sia sulla carta stampata che sul web, significa discorsi politici super semplificati ed emotivi, partecipazione politica disinformata, e naturalmente, più demagogia nel mondo.

È difficile dire se sia stato prima il pubblico a chiedere più video, o se siano stati i media che, spaventati dalla prospettiva di tecnologie in grado di bloccare la pubblicità, abbiano iniziato la rincorsa ai video, che attirano più pubblico, portano più pubblicità e più difficile da bloccare. E nondimeno, affrontiamo le gravi conseguenze di questa svolta per il futuro delle nostre democrazie. È chiaro che per una democrazia sana e rappresentativa abbiamo bisogno più testi che video, almeno per resistere alle demagogie che si autoalimentano. Questo non è un problema americano o inglese. Questa è una minaccia alla nostra civiltà.

Traduzione di Carla Reschia

*Hossein Derakhshan (@h0d3r) è un autore iraniano-canadese, un giornalista freelance e un analista dei media. Ha scritto “The Web We Have to Save (Matter)” ed è l’ideatore di “Linkage”, un progetto artistico collettivo per promuovere i link esterni e il web aperto.

Strategie utilizzate per la manipolazione del pubblico attraverso i mass media.

FONTE altrogiornale.org

Noam Chomsky, professore emerito al Massachusetts Institute of Technology, ha elaborato una lista delle 10 regole del controllo sociale, ovvero, strategie utilizzate per la manipolazione del pubblico attraverso i mass media.

1) La strategia della distrazione.

L’elemento primordiale del controllo sociale è la strategia della distrazione, che consiste nel deviare l’attenzione del pubblico da problemi importanti e dai cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche, attraverso la tecnica del diluvio o inondazione di continue distrazioni e informazioni insignificanti.

La strategia della distrazione è anche indispensabile per impedire al pubblico di interessarsi alle conoscenze essenziali nell’area della scienza, l’economia, la psicologia, la neurobiologia e la cibernetica.

Mantenere l’attenzione del pubblico deviata dai veri problemi sociali imprigionata da temi senza vera importanza.

Mantenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza nessun tempo per pensare di ritorno alla fattoria come gli altri animali.

2) Creare problemi e poi offrire le soluzioni.

Questo metodo è anche chiamato: Problema > Reazione > Soluzione.

Si crea un problema, una situazione prevista per causare una certa reazione da parte del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desiderano far accettare.

Ad esempio: lasciare che si dilaghi o si intensifichi una violenza urbana, organizzare attentati sanguinosi, con lo scopo che il pubblico sia che richieda le leggi di sicurezza e le politiche a discapito della libertà.

3) La strategia della gradualità.

Per far accettare una misura inaccettabile basta applicarla gradualmente, al contagocce, per anni consecutivi.

E’ in questo modo che condizioni socio-economiche radicalmente nuove, neo-liberalismo, furono imposte durante il decennio degli anni ’80 e ’90.

4) La strategia del differire.

Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come dolorosa e necessaria, ottenendo l’applicazione pubblica nel momento, per un’applicazione futura.

E’ più facile accettare un sacrificio futuro che un sacrificio immediato: primo, perchè lo sforzo non è quello impiegato immediatamente, secondo, perchè il pubblico, la massa, ha sempre la tendenza di sperare ingenuamente che tutto domani andrà meglio e che il sacrificio richiesto potrebbe essere evitato.

Questo da più tempo al pubblico per abituarsi all’idea del cambiamento e di accettarlo rassegnato quando arriva il momento.

5) Rivolgersi al pubblico come ai bambini.

La maggior parte della pubblicità diretta al gran pubblico usa discorsi, argomenti, personaggi e un’intonazione particolarmente infantile, molte volte vicino alla debolezza, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni o un deficiente mentale.

Quando più si cerca di ingannare lo spettatore, più si tenta ad usare un tono infantile.

Perchè?

Se qualcuno si rivolge a una persona come se avesse dodici anni o meno, allora, in base alla suggestionabilità, lei tenderà con una certa probabilità ad una risposta o reazione come quella di una persona di dodici anni o meno.

6) Usare l’aspetto emotivo molto più della riflessione.

Sfruttare l’emozione è una tecnica classica per provocare un corto circuito su un’analisi razionale.

Inoltre, l’uso del registro emotivo, permette di aprire la porta di accesso all’inconscio, per impiantare o iniettare idee, desideri, paure e timori.

7) Mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella mediocrità.

Far si che il pubblico sia incapace di comprendere le tecnologie ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù.

La qualità dell’educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile.

8) Stimolare il pubblico ad essere compiacente con la mediocrità.

Spingere il pubblico a ritenere che è di moda essere stupidi, volgari e ignoranti.

9) Rafforzare l’auto-colpevolezza.

Far credere all’individuo che è soltanto lui il colpevole della sua disgrazia.

Così, invece di ribellarsi contro il sistema economico, l’individuo si auto-svaluta e s’incolpa, cosa che crea a sua volta uno stato depressivo, uno dei cui effetti è l’inibizione della sua azione.

E senza azione non c’è rivoluzione.

10) Conoscere gli individui meglio di quanto loro stessi si conoscano.

Negli anni ’50 i rapidi progressi della scienza hanno generato un divario crescente tra le conoscenze del pubblico e quelle possedute e utilizzate dalle élites dominanti.

Grazie alla biologia, la neurobiologia, e la psicologia applicata, il sistema ha goduto di una conoscenza avanzata dell’essere umano, sia della sua forma fisica che psichica.

Il sistema è riuscito a conoscere meglio l’individuo comune di quanto egli stesso si conosca. Questo significa che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un controllo maggiore ed un gran potere sugli individui, maggiore di quello che lo stesso individuo esercita su sé stesso

RÍO 2016: ¿QUÉ SERÁ DE LOS DERECHOS HUMANOS DURANTE LOS JUEGOS?

por Mathilde Dorcadie

 

En agosto, la ciudad de Río de Janeiro deberá recibir un millón de visitantes para uno de los acontecimientos de mayor interés mediático del año 2016. La policía y las fuerzas armadas tendrán que responder al doble reto de proteger la seguridad de los turistas y de las delegaciones deportivas, al mismo tiempo que garantizan los derechos de la población local.

No obstante, la política pro seguridad adoptada y las cifras de la violencia policial de los últimos años hacen que tanto las organizaciones no gubernamentales como los observadores pongan en duda el comportamiento ejemplar de las futuras operaciones policiales durante la celebración de los Juegos Olímpicos y Paralímpicos.

<p>La policía de Río, a menudo acusada de graves violaciones de los derechos humanos, preparada para garantizar la seguridad pública durante los Juegos Olímpicos de este verano.</p>
La policía de Río, a menudo acusada de graves violaciones de los derechos humanos, preparada para garantizar la seguridad pública durante los Juegos Olímpicos de este verano.(Mathilde Dorcadie)

Durante todo el período de competiciones, no menos de 85.000 representantes de las fuerzas del orden estarán sobre el terreno para garantizar la seguridad en Río de Janeiro: la policía civil, la policía militar, soldados de la Fuerza Nacional de Seguridad Pública (unidad especial del Ministerio de Justicia), tropas del Ejército, pero también brigadas de seguridad financiadas por el sector privado (por ejemplo, la operación “Seguridad Presente”, creada en colaboración con una asociación de comerciantes); cuenta, además de vehículos blindados de última generación, con equipos caninos, robots anti-bombas y dispositivos aéreos no tripulados mejor conocidos como “drones”.

Todo este dispositivo será coordinado por la Secretaría brasileña de Seguridad para Grandes Eventos Secretaria Extraordinária de Segurança para Grandes Eventos (SESGE), una entidad creada específicamente dentro del Ministerio de Justicia, que en Brasil recubre parcialmente las competencias del Ministerio del Interior.

Para el profesor e investigador en políticas de seguridad pública, Antônio Falvio Testa, de la Universidad de Brasilia, Brasil está preparado para recibir el evento deportivo en lo que concierne a la seguridad. “Todo debería transcurrir sin problemas, como ha transcurrido sin incidentes en la Copa Mundial, la Copa de las Confederaciones, las Jornadas Mundiales de la Juventud…”, comenta a Equal Times.

“El problema no es tanto la cuestión del terrorismo procedente del exterior, sino la amenaza interna de las organizaciones criminales”.

De hecho, desde la adjudicación de los Juegos a la ciudad de Río de Janeiro en 2009, se discutió el tema de la seguridad pública entre los organizadores, las autoridades y el Comité Olímpico. Brasil es un país en el que las estadísticas de la violencia armada y las tasas de homicidio se sitúan entre las más altas del mundo, salvo en los conflictos militares.

En el año 2014 se registraron casi 60.000 homicidios, según el Atlas de la violencia publicado por el Foro brasileño de seguridad pública. Pese a los esfuerzos de los últimos años, las estadísticas en materia de delincuencia y violencia no son mejores y, según el Instituto de Seguridad Pública (ISP, organismo gubernamental), las cifras han sido aún superiores en Río de Janeiro para los primeros meses de 2016 en lo que se refiere a robos y asaltos a mano armada.

 

“Limpieza social”

Entre los homicidios, las organizaciones de derechos humanos denuncian los perpetrados por las fuerzas de policía, en circunstancias que no siempre son legítimas ni adecuadamente esclarecidas.

Para la oficina local de Amnistía Internacional, las operaciones de seguridad destinadas a reducir la criminalidad y a pacificar las favelas ante la perceptiva de acoger eventos como la Copa Mundial o los Juegos Olímpicos, tienen lugar en detrimento de la población local. En siete años de preparación, “han sido asesinadas por la policía 2.500 personas, solamente en la ciudad de Río de Janeiro, y han sido muy contados los casos en los que se ha obtenido justicia”, denunció Atila Roque, director ejecutivo de Amnistía Brasil, en la presentación del último informe publicado por este ONG.

Peor aún, se han señalado varios casos de “ejecuciones extrajudiciales”, es decir, homicidios en situaciones en donde las víctimas no estaban armadas ni opusieron resistencia.

En el curso de la última década, según la ONG, muere cada día una media de casi dos personas a manos de los representantes de las fuerzas del orden.

Además de los homicidios, los defensores de los derechos humanos denuncian también la detención irregular de personas sin hogar, de jóvenes negros y pobres que se encuentran en la playa, así como los desalojos forzados brutales y controvertidos, lo que ha llevado a organizaciones como la ONU a hablar de“limpieza social” de la ciudad, subrayando especialmente el alarmante número de casos que involucra a menores.

Para la abogada Karina Quintanilha, que defiende en Sao Paulo a víctimas de la violencia policial, existe “una voluntad de generar un clima de miedo, ante la proximidad del evento, entre aquellos a los que las autoridades consideran como ‘enemigos’ del orden público”. Recientemente llevó los casos de violencia contra estudiantes de enseñanza secundaria ante la Corte Interamericana de Derechos Humanos en Washington.

“Se constata un endurecimiento de la represión desde las grandes manifestaciones de junio de 2013, tanto de parte de la policía como del poder político y judicial”.

Alexandre de Moraes, el nuevo ministro de Justicia, nombrado en el Gobierno interino en mayo tras la marginación de Dilma Rousseff, es el representante de esta línea dura. “Como secretario de Seguridad Pública del Estado de San Pablo, su cargo anterior, hizo grandes inversiones en equipo antidisturbios, desarrolló nuevas tácticas de mantenimiento del orden y apoyó la creciente criminalización de todo acto cometido por manifestantes”, señala Karina Quintanilha.

“Es un poco como si el Estado de San Pablo hubiera sido su laboratorio. Y no sabemos lo que es capaz de hacer a escala nacional”.

El Gobierno interino está en funciones por un período aún indefinido. Pero lo que es seguro es que las leyes pro seguridad, promulgadas por la presidenta Rousseff, se encontrarán en vigor en el momento de los Juegos Olímpicos, lo que inquieta a activistas y manifestantes.

Por ejemplo, la ley antiterrorista, aprobada en marzo, tiene especialmente preocupada a la organización Artigo 19, que lucha por el respeto de la libertad de expresión, de opinión y de manifestación.

Camila Marques, abogada dentro de esta organización, explica que “esta ley es peligrosa porque es vaga y deja demasiado margen a la interpretación de los jueces. Fue aprobada de forma extremadamente rápida sin debate público”.

Algunas acciones militantes, por ejemplo, para denunciar los abusos en la preparación de los Juegos ahora pueden tener cabida en el ámbito de esta ley, socavando así la libertad de opinión.

Por otra parte, una ley especial hecha a petición del Comité Olímpico Internacional, la Ley general de los Juegos Olímpicos, también restringirá el derecho a circular y a manifestar en algunos lugares y prevé penas de hasta un año de prisión para aquellos que utilicen o desvíen la “marca olímpica” a efectos críticos.

A juicio de Camila Marques, “lamentablemente, los grandes acontecimientos deportivos siempre han tenido dificultades para respetar los derechos humanos, y Brasil no es la excepción”.

FONTE EQUALTIMES.ORG

Este artículo ha sido traducido del francés.

Luigi Ferrajoli Un monocameralismo imperfetto per una perfetta autocrazia

Luigi Ferrajoli
Un monocameralismo imperfetto per una perfetta autocrazia
1. Potere di revisione costituzionale e potere costituente – C’è un fatto che accompagna, da circa trenta anni, la lunga crisi della democrazia italiana. All’aggravarsi di tutti i suoi aspetti – il discredito e lo sradicamento sociale dei partiti, la loro subalternità all’economia e alla finanza, la loro opzione comune e sempre più esplicita per le controriforme in materia di lavoro e di stato sociale – ha fatto costantemente riscontro il progetto di indebolire il Parlamento e di rafforzare il governo, tramite modifiche sempre più gravi della seconda parte della Costituzione repubblicana: dapprima, negli anni Ottanta e Novanta, i tentativi delle  Commissioni Bozzi, De Mita-Jotti e D’Alema; poi l’assalto ben più di fondo alla Costituzione da parte del governo Berlusconi con la riforma del 2005, scritta dai cosiddetti “quattro saggi” in una baita di Lorenzago e bocciata dal referendum del giugno 2006 con il 61% dei voti; infine l’ultima, non meno grave aggressione: la legge di revisione costituzionale RenziBoschi approvata il 12 aprile 2016, sulla quale si svolgerà il referendum confermativo nel prossimo ottobre. Di nuovo, come sempre, l’argomento a sostegno della revisione, oltre a quello penoso e demagogico della riduzione dei costi della politica, è stato la necessità di accrescere la “governabilità” nel tentativo, ancora una volta, del ceto di governo di far ricadere sulla nostra carta costituzionale la responsabilità della propria inettitudine.        L’attuale revisione costituzionale investe l’intera seconda parte della Costituzione: ben 47 articoli su un totale di 139. Non è quindi, propriamente, una “revisione”, ma un’altra Costituzione, diversa da quella del 1948. Ma la nostra Costituzione non consente l’approvazione di una nuova Costituzione, neppure ad opera di un’ipotetica assemblea costituente che pur decidesse a larghissima maggioranza. Il solo potere ammesso dall’articolo 138 della nostra Costituzione è un potere di revisione, che non è un potere costituente ma un potere costituito.

l’articolo segue >>> QUI

 

Domenica al voto per fermare i rottamatori dei diritti costituzionali

La vicenda del referendum trivelle, comunque vada il quorum, rimarrà nella storia come esempio di scorrettezza istituzionale dei comportamenti del governo rispetto al tema della partecipazione dei cittadini a voto. Quando il Presidente del Consiglio invita i cittadini a disertare le urne rispetto ad un quesito referendario giudicato ammissibile da parte della Consulta siamo già di fronte ad uno sfregio istituzionale. Si tenga conto che il primo sfregio è stato fatto quando si è voluto scorporare dall’election day di giugno il referendum con un aggravio o meglio spreco di circa 300 milioni di euro,  anticipandolo al 17 aprile. Un leader modesto e fanfarone che fa di tutto per scansare il confronto sul merito e si affida agli escamotage tattici è la cifra di questa epoca della post democrazia. In rete vi è l’esercizio del gridare contro queste sconcezze ma le valanghe di insulti non rovesciano la tendenza ai restringimenti della democrazia. In ottobre lo stesso Renzi con un referendum confermativo, senza il rischio del quorum , chiamerà i cittadini a dare l’assenso alla  cosiddetta riforma della costituzione, ovvero allo smantellamento delle garanzie democratiche. Con il 20% dei voti sul l’universo degli aventi diritto al voto, o poco più , un partito vince le elezioni e si becca tutte le cariche istituzionali , anche quelle di garanzia. Questo è lo scenario dello slittamento nella post democrazia, saranno i poteri forti a scegliere i governanti alimentando con i mass media il consenso su leader fatti su misura e allevati nelle batterie dei thinks tanks di fondazioni foraggiate dalle multinazionali. Con il plauso dei clientes di turno e il mugugno impotente di masse plebeizzate  che si asterranno dal voto , che verranno invitate ad astenersi dal voto…Questo è lo scenario che piace anche all’ex Presidente della repubblica Napolitano che non perde occasione x manifestare il suo pensiero che viene da lontano,  dai tempi dell’autoritarismo ben mascherato dei miglioristi del  PCI . Andare a votare domenica ,oltre a problema di fermare le trivelle a mare  serve a fermare i rottamatori delle libertà costituzionali che puntano sulla non partecipazione per esercitare senza controllo sociale il loro potere e, in qualche caso, promuovere i  ” propri affari”.

Gino Rubini

Referendum trivelle: è molto più di un quesito

 

 

I media ,  in gran parte allineati al governo, tacciono sul referendum. Il PD fa campagna per l’astensionismo. Per questi motivi ho raccolto diversi materiali, interviste, documenti che fanno chiarezza sul vero pericolo che corrono alcune Regioni come Veneto, Emilia Romagna se dovesse persistere nel tempo l’estrazione di metano in aree vicine alla costa: la subsidenza che provocherebbe danni ambientali ed economici ben superiori al ricavo del metano estratto. I link rinviano ai testi completi dei documenti e degli articoli segnalati.

Articolo tratto dalla Agenzia Agensir 

Referendum trivelle: è molto più di un quesito
…………   Massimiliano Ferronato, professore di Analisi numerica, Sviluppo di modelli per la previsione delle subsidenze e dell’impatto geomeccanico dell’estrazione di idrocarburi all’università di Padova, di trivellazioni se ne intende.
“Geologicamente la pianura padana e la dorsale adriatica fino all’Abruzzo presentano diversi giacimenti promettenti, alcuni sfruttati dagli anni ’50. L’area adriatica è abbastanza ricca e in mare i giacimenti si trovano a una profondità tra i 1.000 e i 1.500 metri. Il gas è contenuto nei pori di una roccia molto dura che viene bucata e si succhia. L’effetto è quello di una spugna rigida: quindi, estraendo, la roccia si compatta e si realizza una deformazione che arriva alla superficie”.

Questo significa che il suolo si abbassa?
Sì, è la subsidenza il fenomeno principale che si deve affrontare. Non bisogna aver paura a priori di questo movimento, perché può essere studiato e previsto. In Adriatico abbiamo conoscenza di cosa può succedere grazie all’elaborazione di modelli matematici che si applicano con ottima affidabilità. Il fenomeno è insignificante se il suolo cala di 10 centimetri in mare aperto, perché produce un impatto minimo, ma se si verifica accanto alla costa il risultato è ben diverso: un abbassamento di 10 centimetri a Sottomarina significa perdere un chilometro e mezzo di spiaggia.

Quindi meglio non trivellare?
Si deve considerare la vulnerabilità del territorio per prevedere quale sarà l’impatto e dunque decidere quando e dove trivellare. Non dobbiamo però usare un approccio ideologico: sfruttare le risorse ha un impatto importante per l’economia, sia per quanto riguarda i posti di lavoro sia, soprattutto, rispetto alla bilancia dei pagamenti.

Che confine rappresentano le 12 miglia marine?
Le 12 miglia sono un confine più sicuro per la linea di costa che subisce una subsidenza minore. Ma in mare il fenomeno è solitamente poco significativo.

E sulla terraferma?
Per trivellare in terraferma è necessario studiare caso per caso e mettere in relazione la zona interessata con la vulnerabilità del territorio. In Lombardia in passato si è trivellato a un’altezza di 50 metri sul livello del mare e il calo è stato di qualche decina di centimetri. In Polesine questo non si può fare, sarebbe devastante.

È possibile che l’attività nel sottosuolo sia causa di terremoti?
Sì, gli studi hanno rilevato un collegamento e in genere si tratta di microsismi di 1- 1,5 gradi, ma se pensiamo al terremoto che nel 2012 ha colpito duramente l’Emilia, tutti gli studi condotti hanno detto no: non esiste alcun collegamento. La trivellazione raggiunge i mille, millecinquecento metri di profondità mentre il sisma ha avuto l’epicentro a 6 km di profondità e si sa che il sisma indotto dalle trivellazioni non si può propagare oltre i 300 metri.

fonte: leggi l’articolo completo
http://agensir.it/italia/2016/03/15/referendum-trivelle-e-molto-piu-di-un-quesito/

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Referendum trivelle: la mappa di Legambiente delle piattaforme in Emilia Romagna

Trivelle: la mappa di Legambiente delle piattaforme in Emilia Romagna
47 piattaforme collegate a 319 pozzi. Gli ambientalisti: “Coprono a malapena l’1,7% del fabbisogno di gas nazionale. Titoli già rilasciati entro le 12 miglia senza scadenza: una normativa che non vale per nessun’altra concessione e lascia la possibilità di appropriarsi di una risorsa pubblica a tempo indeterminato”

Referendum trivelle: la mappa di Legambiente delle piattaforme in Emilia Romagna
„ Si avvicina il referendum del 17 aprile per dire sì o no alle trivelle. Per la prima volta dai tempi della scelta sul nucleare, i cittadini italiani hanno la possibilità di incidere sulle decisioni strategiche del Paese in materia di energia.
Votando Sì al quesito proposto, si abrogherà infatti la possibilità che la scadenza delle concessioni in essere per l’estrazione e la ricerca di idrocarburi entro le 12 miglia marine dalla costa, venga estesa.

“All’infinito. Possibilità mai concessa prima, di cui il nostro Paese ha tutt’altro che bisogno”, così Legambiente, che ripercorre le tappe: “Il governo, infatti, con un emendamento alla legge di Stabilità 2016 (che modifica il decreto legislativo 152/2006) ha sì vietato tutte le nuove attività entro le 12 miglia marine, ma ha deciso che i titoli già rilasciati possano rimanere vigenti “fino a vita utile del giacimento”.

Gli ambientalisti sottolineano invece che “mettere una scadenza alle concessioni date a società private che svolgono la loro attività sfruttando beni appartenenti allo Stato, è una precisa regola comunitaria. Non si capisce quindi perché, in questo caso, le compagnie petrolifere debbano godere di una normativa del tutto speciale che non vale per nessun’altra concessione, perché azzera ogni scadenza temporale e lascia loro la possibilità di appropriarsi di una risorsa pubblica a tempo indeterminato”.

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LA SITUAZIONE IN EMILIA ROMAGNA.

Entro le 12 miglia, lungo le coste della nostra regione ci sono ad oggi 15 concessioni di estrazione di gas (nessuna di petrolio) per un totale di 47 piattaforme collegate a 319 pozzi di estrazione. E’ questa la mappa tracciata da Legambiente, che parla di un “numero enorme, pari quasi alla metà di tutte quelle presenti sul territorio nazionale, che però contribuisce in maniera insignificante al fabbisogno nazionale e nulla potrebbe in caso di crisi energetica”. (qui la mappa interattiva con i dati e la posizione delle piattaforme in regione).
Dati “inconfutabili – sottolineano gli ambientalisti – stimano che le riserve certe sotto i fondali italiani sarebbero sufficienti (nel caso dovessimo contare solo su di esse) a soddisfare il fabbisogno nazionale di petrolio per sole 7 settimane e quello di gas per appena 6 mesi”.

La produzione di Gas degli impianti attivi entro le 12 miglia in Emilia Romagna, nel 2015, è stata infatti di 1,15 miliardi di Smc. Se si confronta il dato la quantità di gas estratto a livello nazionale, pari a circa 62 miliardi di Smc nel 2014, si evince che l’incidenza della produzione delle piattaforme regionali ricadenti nel quesito referendario, è pari a poco più dell’1,8% dell’intera produzione nazionale di gas, e copre non più dell’ 1,7% dei consumi nazionali lordi.

“Oltre al loro contributo irrisorio – denuncia Legambiente – per l’indipendenza energetica del paese, le attività estrattive nella zona dell’Alto Adriatico sono però la principale causa antropica del fenomeno della subsidenza, l’abbassamento del suolo dovuta alla perdita di volume del sedimento nel sottosuolo. Gli effetti più rilevanti della subsidenza si registrano in particolare sulla fascia costiera dell’Emilia Romagna che negli ultimi 55 anni si è abbassata di 70 cm a Rimini e di oltre 100 cm da Cesenatico al Delta del Po”.
Alcuni studi -aggiungono gli Ambientalisti – “riportano come l’abbassamento di 1 centimetro all’anno comporta, nello stesso periodo, una perdita di 1 milione di metri cubi di sabbia su 100 km di costa, che significa spendere annualmente 13 milioni di euro per il ripascimento delle spiagge, contro i 7,5 milioni di euro all’anno ottenuti come Royalties dalle compagnie petrolifere. La subsidenza aumenta inoltre l’impatto delle mareggiate e delle piene fluviali, favorendo l’erosione costiera, con perdita di spiaggia ed effetto negativo sulle attività turistiche rivierasche. Non vi è quindi alcun dubbio che il costo per la collettività sia di gran lunga maggiore del vantaggio che ne potrebbe derivare. Senza considerare il fatto che i consumi di questa fonte fossile negli ultimi dieci anni sono diminuiti del 21,6%, passando dai 86 miliardi di metri cubi del 2005 ai 67,5 miliardi del 2015”.
Potrebbe interessarti: http://www.bolognatoday.it/cronaca/referendum-trivelle-piattaforme-emilia-romagna-legambiente.html
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Il passato 
Documento 1)

 

CALOI PIETRO Sui fenomeni di anormale abbassamento del suolo,con particolare riguardo al Delta Padano di Pietro Caloi
30 Maggio 1967

https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=2&cad=rja&uact=8&ved=0ahUKEwjw5Om1ndDLAhVljnIKHckJAwkQFggvMAE&url=http%3A%2F%2Fwww.annalsofgeophysics.eu%2Findex.php%2Fannals%2Farticle%2Fdownload%2F4999%2F5072&usg=AFQjCNE_iiX3W8l8dK-ySSpA8MNTxepcmA

“… Nel 1957—epoca alla quale si riferiscono, in genere, le varie pubblicazioni del C.I.M.—erano in funzione 1500 pozzi. Da ogni pozzo escono giornalmente, in media 500 m3 d’acqua ed altrettanti, per separazione spontanea, di gas metano. Pertanto, una estrazione annua di acqua pari a 275 milioni circa di m3 e altrettanti di gas metano.
… nella regione del delta padano i pozzi metaniferi si affondano tra i 200 ed i 650 m e le condizioni dei giacimenti non consentono l’estrazione del gas senza la fuoruscita di acque. Ed è appunto sulla sottrazione delle acque sotterranee, piuttosto che sul gas stesso, che è necessario soffermarsi. Infatti, il gas metano — nella zona — si trova generalmente emulsionato con acqua salmastra in strati sabbiosi.
– … orizzonti a profondità oltre i 600 m, benché mineralizzati a gas, normalmente non vengono sfruttati a causa della fine granulometria delle sabbie, che non sono trattenute dai filtri.
– … i pozzi vengono messi in produzione insufflando gas metano, mancando ormai, nella quasi totalità dei casi, salienza spontanea. L’iniezione di gas all’interno dei pozzi viene fatta ad una profondità che varia da 80 a 230 m, in modo da creare un alleggerimento della colonna d’acqua sovrastante e stabilire un flusso continuo della emulsione di acqua e gas. …
-… possiamo quindi constatare come l’acqua venga prelevata dal suolo in grandissima quantità, e come ciò agisca sulle velocità di abbassamento relative alle zone trivellate.
-… l’estrazione dal sottosuolo di queste grandi quantità d’acqua che, già intorno al 1957, era per la sola provincia di Rovigo di quasi 230 milioni di m3 — effettuata a mezzo di circa 1.400 pozzi attivi e, nella zona del Delta, di 170 milioni di m3 (900 pozzi attivi) — portava quindi ad un progressivo abbassamento del livello piezometrico (da 20 a 30 m sotto il piano di campagna) ed inoltre, il rapporto acqua/gas, soggetto a sensibili variazioni, si aggirava in media da 1,2 a 1,4.
-… imporre la chiusura dei pozzi di estrazione, a partire dal Marzo 1960 e con un opportuno programma di sospensione. Quanto questo, sia pur forzatamente tardivo provvedimento, fosse giusto, fu prontamente provato dai fatti …; a mano a mano che l’area di divieto di estrazione delle acque metanifere veniva estendendosi, immediatamente, nelle zone interessate, andava progressivamente diminuendo l’entità degli abbassamenti.
-… l’estrazione di quest’acqua, insieme all’estrazione di acqua dolce per usi domestici ed industriali negli anni della ricostruzione contribuì ad amplificare la subsidenza del Delta e molti terreni già bonificati tornarono ad allagarsi”

Corriere della Sera 14.03.2005:

“Un pozzo, un impianto di decantazione e alcune centinaia di metri di tubi per raggiungere la casa, il capannone, la serra o l’essiccatoio. È questa la tecnica «fai da te» utilizzata dagli agricoltori del Polesine per risparmiare sui costi dell’ energia. Magari è un po’ rischiosa ma funziona: il metano, così, è gratis. Tra Ferrara e Rovigo, nei paesini delle valli bonificate in epoca fascista, ai confini del Delta del Po c’è chi è andato avanti così per anni, anzi decenni. Famiglie, piccoli agricoltori ma anche intere aziende agricole, che non hanno mai pagato un soldo di bolletta né ad altri distributori autorizzati nè tantomeno tasse e royalties. Conti alla mano, c’ è chi ha evitato di sborsare dai 3 ai 10mila euro l’anno… Quanti siano questi pirati del metano, per ora, non si sa: la Guardia di Finanza di Ferrara, coordinata dal colonnello Claudio Pesole, ha scoperto il primo impianto abusivo un mese fa. Poi via via, setacciando le campagne, ne ha scovati altri. Per il momento gli impianti portati alla luce sono una decina ma gli inquirenti pensano che si tratti di una pratica ben più diffusa … si trovano nel sottosuolo, a poca profondità, falde di acque metanifere. Per trovare il gas basta scavare un pozzo profondo da poche decine fino a qualche centinaia di metri. Un sistema di scarico disperde le acque residue, tipicamente di colore giallo-rosso, nei canali di irrigazione mentre una rete di tubi porta il metano ai capannoni, alle serre, alle abitazioni o alle bombole di stoccaggio. Non si tratta di giacimenti di gas di dimensioni tali da interessare una grande compagnia petrolifera ma nel Dopoguerra erano sufficienti a sostenere l’economia di una regione depressa come il Polesine. Nessuno ha mai fatto stime ma negli anni ‘ 50 e ‘ 60 tra Ferrara, Rovigo e Ravenna furono estratti artigianalmente milioni e milioni di metri cubi di gas. Oltre al danno patrimoniale, tale da mandare in fallimento una piccola impresa, c’è poi il rischio concreto di saltare per aria con il proprio pozzo. Gli impianti sono privi di dispositivi di sicurezza e le fughe di gas sono all’ ordine del giorno. Nel 1962 le mappe del Corpo Minerario segnalavano la presenza di 6mila pozzi autorizzati. Ma gli addetti ai lavori stimavano l‘esistenza di almeno altri 4 mila perforazioni abusive. Per trivellare bastava chiedere la concessione per un pozzo d’irrigazione ma spesso lo scopo reale era l’estrazione di idrocarburi. Per chiudere tutti i pozzi ufficiali ci sono voluti vent’anni. Gli ultimi atti depositati all’ente minerario risalgono al 1985. «Ma guarda caso – commenta il colonnello Pesole – uno degli impianti che abbiamo trovato in funzione è proprio fra quelli risultavano ufficialmente chiusi da quella data»”

Da “Consorzio Metano Italiano, CMI”, risulta che fra gli anni 1938 e il 1956 nella sola provincia di Rovigo sono stati estratti circa 1.700.000.000 (un miliardo settecentomilioni) di m3 di gas, più di 5 volte la produzione complessiva nella provincia di Ferrara e 3 volte la produzione complessiva nella provincia di Venezia negli stessi anni. Come risulta da quanto esposto, la quasi totalità di tale produzione è ascrivibile alle acque metanifere, produzioni accompagnate da volumi simili di acqua prodotta: come minimo sono stati emunti dal sottosuolo di Rovigo fra gli anni 1938 e 1956 circa 1.200.000 (un miliardo duecento milioni) di m3 di acqua, equivalenti ad un depauperamento della risorsa idrica medio giornaliero di 3.260.000 di m3 di acqua.

Documento 2)

Una relazione del Consorzio di Bonifica Delta Po Adige fornisce alcuni dati per comprendere la portata dell’intervento dell’uomo su un territorio che per la sua natura alluvionale è soggetto a fenomeni di subsidenza naturali.[1] Dagli anni ’30 e soprattutto negli anni ’40 e ’50, fino alla sospensione decisa dal Governo nel 1961, furono estratti nel territorio del Delta del Po miliardi di m³ di metano e gas naturali. L’estrazione avveniva da centinaia di pozzi (una trentina nel Delta) che non raggiungevano i 1000 metri di profondità. Tramite dei manufatti in calcestruzzo[non chiaro], in parte ancora visibili su territorio, il gas veniva inviato alle centrali di compressione, mentre l’acqua salata prodotta (1 m³ di acqua per ogni m³ di gas estratto) veniva scaricata nei fossi e negli scoli.

Dal 1954 al 1958 furono estratti 230 milioni di m³ di gas per anno; nel 1959 si salì a 300 milioni.
Dal 1951 al 1960 furono misurati abbassamenti medi del suolo di un metro con punte di due metri; nonostante la sospensione delle estrazioni del 1961 il territorio continuò a calare nei 15 anni successivi; dall’inizio degli anni ’50 a metà degli anni ’70 il territorio si è abbassato mediamente di oltre 2 metri sino a punte di 3,5 metri. Rilievi recenti dell’Istituto di Topografia della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Padova hanno stabilito che i territori deltizi dell’Isola di Ariano e dell’Isola della Donzella si sono ulteriormente abbassati di 0,5 metri che vanno ad aggiungersi ai 2 – 3 metri sotto il livello del mare del territorio.

Documenti 3 e 4
http://ambiente.regione.emilia-romagna.it/geologia/archivio_pdf/costa/Strategie_strumenti_gestione_costa_ER_Coastance.pdf/at_download/file/Strategie_strumenti_gestione_costa_ER_Coastance.pdf

http://www.lidodidanteravenna.com/archivio/news/73/All%201_Pubblicazioni%20subsidenza.pdf

http://www.piunotizie.it/news/pagina1039878.html

Mi fermo qui per dare modo di leggere con calma questi materiali, Ho molte altre documentazioni che potrei postare da qui al 17 marzo .
Dato che il Comitato per il NO ha deciso di fare stare a casa i suoi fans posso postarli anche dopo il 17 🙂

Le piccole e un pò squallide furberie della maggioranza del PD  che punta all’astensione per fare fallire il referendum del 17 aprile danno la dimensione della modestia intellettuale e politica di un gruppo dirigente che invece di affrontare il merito delle strategie energetiche invita “i cittadini ad andare al mare”.  Umiliare le Regioni che hanno promosso il referendum e le Associazioni ambientaliste senza confrontarsi nel merito avrà come risultato la perdita della residuale credibilità istituzionale di questo governo….

 Per questo il 17 aprile bisogna votare e votare SI  al quesito referendario.

Gino Rubini 20 marzo 2016

 

 

 

 

 

Il Pd non ha capito che cosa succede

Il Pd non ha capito che cosa succede

fonte Blog Giubberosse

Leggi le reazioni all’intervista durissima di D’Alema o a quelle di Bersani e Bassolino e capisci che nel Pd non capiscono quello che sta succedendo fuori dal Palazzo. No, proprio non c’è verso, altro che cambiaverso e lavoltabuona.
Il problema non sono D’Alema, Veltroni, Bersani (che pure sono tre ex segretari, mica passanti), il problema non è Prodi (che pure è un ex due volte premier e presidente della Commissione Ue, mica un professore emerito), il problema non è Bassolino (che pure è un ex sindaco ministro presidente di Regione, mica un podista della domenica). No, il problema vero non sono loro che a volte sbagliano a volte l’azzeccano come succede a ogni essere umano che non sia illuminato da qualche Sacra Missione.
Il problema vero è che c’è un’incazzatura in giro contro un Pd autoreferenziale, dove il massimo di espressione dirigente è, come scrive oggi Reichlin,  ripetere a pappagallo le frasi del Capo e dove si tenta di nascondere sotto il tappeto ogni problema perché tanto è roba da gufi. Un partito capace di non scandalizzarsi se qualcuno gonfia le schede bianche e nulle alle primarie di Roma perché che volete che sia. Che non si scandalizza se alle primarie di Napoli c’è chi pagava gli elettori fuori dai seggi e chi faceva votare esponenti di destra dentro i seggi perché tanto il risultato non cambia e quindi niet al ricorso legittimo di Bassolino battuto per soli 452 voti. Un partito che ha fatto dell’apologia del leader e delle sue gloriose corse verso il futuro luminoso la sua ragione politica. Un partito che esalta con immaginifica enfasi qualche zero virgola in economia credendo di aver raggiunto i mirabolanti obiettivi di un novello piano quinquennale. Un partito infine che non sa più distinguere il vero dal falso e non ha nemmeno la più pallida idea di che cosa sia la vita reale dell’Italia reale.
No, il problema non sono D’Alema, Prodi, Bersani o Veltroni perché di loro come di ogni leader democratico che si rispetti si può anche fare a meno. Il problema sono quegli elettori che sono stanchi di propaganda, stanchi di sentire sempre le stesse parole sempre su di giri, stanchi di essere raggirati quando votano alle primarie e non possono fidarsi di chi dirige il traffico dello spoglio, stanchi di sentirsi definire truppe cammellate di qualche capobastone se decidono di non andare ai gazebo. Stanchi a tal punto che spesso non sanno più per chi votare e se votare.
Ecco qual è il vero problema cari dirigenti del Pd. Voi potrete continuare a far finta di niente, a dire che l’Italia corre e voi con lei, che chi non corre gufo è e che le primarie sono state un trionfo di popolo e di partecipazione e che tutti quelli che la pensano diversamente sono da asfaltare.  Ma il rischio è che alla fine di questa fantasmagorica marcia trionfale sia asfaltata la sinistra. E resti un triste desolante deserto.

fonte blog giubberosse

Al renzismo non c’è mai fine

Dai diritti alle regalie ai poveri e ai giovani. È la filosofia di Matteo Renzi. Ma per le regalie servono soldi, dove va a cercarli il “sindaco d’Italia”? Nei patrimoni dei ricchi e dagli evasori fiscali, o rinunciando a Tav e ponte sullo Stretto? Macché, così si fermerebbe una crescita che solo Renzi vede. Meglio seguire altre strade: spremere i lavoratori bloccando i rinnovi contrattuali nel pubblico, cancellando il contratto nazionale nel privato e – riconsegnato con il jobs act tutto il potere ai padroni – puntando tutto sul secondo livello a cui una minoranza può accedere, sostituendo gli aumenti salariali nella parte fissa del salario con aumenti variabili, detassati, legati all’andamento aziendale; tagliando sanità, previdenza, istruzione e sostituendo l’universalità dei diritti con il welfare aziendale; colpendo ancora i pensionati – ultimo ammortizzatore sociale per i giovani senza lavoro e senza reddito di cittadinanza – già fatti a pezzi dalla Fornero, strizzando le pensioni di reversibilità ai coniugi dei lavoratori deceduti.
Eppure Renzi tiene, e se si crede ai sondaggi aumenta i consensi così come il Pd. Gli italiani sono matti? Più che matti sfiancati, paralizzati dalla crisi della rappresentanza politica e sociale. La forza di Renzi sta nell’assenza di alternative, e se la democrazia agonizza tanto vale tenersi l’uomo solo al comando, mica è la prima volta nel Belpaese. L’unico scontro in atto, dentro e fuori il Pd, è sulle unioni civili con il riemergere dell’eterna subalternità di tanta politica alle fatwe vaticane. Per il resto, basta guardare alle prossime comunali nelle principali città: a Roma, commissariata per Mafia capitale, dove l’impresentabile Pd va sfiduciato alle primarie mentre la destra si scanna sul Bertolaso dei grandi eventi, pupillo di Berlusconi, l’uomo dei massaggi speciali nei centri benessere e dello scandalo del G8 mancato all’Aquila terremotata; a Milano, drogata dall’Expo che dice addio al modello Pisapia anche grazie a Pisapia e ai suoi infedeli seguaci che si autocancellano e mette due figure identiche a combattere per la poltrona di sindaco, il neo-renziano Sala, già deus ex machina di Moratti, ex ad Pirelli e dg Telecom ed Expo per il Pd (te la do io la classe operaia) e Parisi, già deus ex machina di Albertini, già Cgil e Psi per la destra; Napoli, dove per battere il sindaco di sinistra De Magistris dal cappello del Pd esce un Bassolino d’annata sfidato da una ex bassoliniana, mentre la destra non si vede all’orizzonte; Bologna, dove il Pd spera che la maggioranza degli scontenti resti a casa e i pochi contenti possano confermarlo al potere, magari di nuovo con il 37% dei votanti, mentre si cerca un candidato che unisca quel che resta a sinistra; sembra resistere l’alleanza Pd-Sel solo nella Cagliari del sindaco di sinistra Zedda; infine Torino, dove il sindaco Fassino con azionisti di destra, pd e centro non ha rivali, salvo la buona candidata 5 Stelle e dove la sinistra si è unita intorno al nome di Giorgio Airaudo, un nome di qualità allevato in casa Fiom. Ma chi in alcune città rischia vincere è fuori dalla mischia, i 5 Stelle degrillizati (solo) nel simbolo, forti delle miserie altrui al punto da permettersi di schierare candidati sconosciuti ai più.
In attesa del braccio di ferro sulle unioni civili, Renzi sogna il miracolo a Milano mentre dà per quasi persa Roma e mette le mani avanti: chiunque vinca, hic manebimus optime e punta tutto sul referendum d’autunno sulle riforme istituzionali che smantellano Costituzione e democrazia parlamentare. Non senza aver prima impedito l’election day tra amministrative e referendum contro le trivellazioni del povero Adriatico, che si svolgerà prima al costo aggiuntivo di 300 milioni nella speranza che fallisca il quorum.fonte area7.ch

La sindrome del socio Conad della pubblicità e Mauro Felicori  

 

 

Conosco da anni Mauro Felicori, da bolognese come lui non mi stupisce il fatto che lavori fino a tardi…

La sindrome del socio Conad della pubblicità che si alza nel cuore della notte per andare a verificare che gli yogurth stiano bene al fresco e le mortadelle non rotolino da sole dagli scaffali si attaglia bene al neo direttore della Reggia cui auguro pieno successo nella sua impresa. Una domanda tuttavia mi viene spontanea : perché in questo paese è ancora così forte la retorica stakanovista ? Vi era un tempo in cui la Pravda descriveva come all’interno del Cremlino vi fosse una finestra con la luce sempre accesa , era quella dello studio del compagno Stalin che lavorava tutta la notte per la patria del socialismo. Qualcosa del genere si può ritrovare anche nella stampa degli anni 30 del secolo scorso, quando il crapone romagnolo si attardava fino alle prime luci dell’alba a Palazzo Venezia per lavorare per il popolo italiano…. L’elenco potrebbe continuare con altri personaggi meno detestabili dei due sopracitati.
Ritengo tuttavia sia doveroso smontare l’ondata di retorica stakanovista di molti quotidiani che hanno approfittato del documento scritto da due o tre sprovveduti  e assai “ingenui” rappresentanti sindacali. Infatti per chi conosce un po’ le nuove teorie di management organizzativo in uso in grandi aziende sa bene che viene giudicato molto negativo il fatto che un dirigente si attardi a notte fonda in ufficio : vuol dire che non sa usare bene le ore diurne, che si è organizzato male. In diverse multinazionali e proibito rimanere in ufficio oltre l’orario previsto dal contratto o da regolamento aziendale. Infatti non serve che uno arrivi al lavoro il giorno dopo stracotto.
È ancora, grandi aziende tedesche e USA hanno adottato nei loro server aziendali programmi che interrompono dopo l’orario di lavoro al sabato e alla domenica il recapito
ai dipendenti di email di lavoro… Voglio dire che la canea sollevata su questo caso è molto provinciale e superficiale. Certo , e’ possibile che vi siano aree di fannullismo che vanno combattute ma queste non si sconfiggono con la retorica stakanovista che è l’altra faccia del problema, occorrono relazioni e regole chiare per tutti perché bastino le ore di lavoro normali per fare funzionare il tutto.
Ancora un augurio a Mauro perché consegua fino in fondo i risultati che si è prefisso e un augurio anche agli sprovveduti sindacalisti locali: ragazzi studiate studiate studiate e pensateci bene prima di scrivere documenti che fanno del danno ai lavoratori e al sindacato…

RAVENNA, SALUTE E SICUREZZA NEL LAVORO OGGI, INTERVISTA AD ANDREA MARCHETTI

SALUTE E SICUREZZA NEL LAVORO A RAVENNA
INTERVISTA AD ANDREA MARCHETTI CGIL RAVENNA

 


Abbiamo intervistato Andrea Marchetti, responsabile per la Cgil del Coordinamento Salute e Sicurezza nel Lavoro sullo stato dell’arte nel territorio di Ravenna.
Come stanno andando le cose a Ravenna, un territorio con molte realtà produttive di grande complessità, dal porto all’industria chimica ove la gestione dei rischi da parte delle aziende è il fattore primario per evitare gravi incidenti sul lavoro e ridurre l’impatto sulla salute non solo dei lavoratori ma anche della popolazione ?
Queste ed altre sono le domande che abbiamo rivolto ad Andrea Marchetti.

L’INTERVISTA

Podcast Notizie Ambiente Lavoro Salute di Diario Prevenzione – 21 gennaio 2016 – n° 34

 

Podcast Notizie Ambiente Lavoro Salute di Diario Prevenzione – 21 gennaio 2016 – n° 34
a cura di Gino Rubini

In questo numero parliamo di

– Un clima pesante per chi vive del proprio lavoro, Jobs Act e dintorni

– LA SEMPLIFICAZIONE RICHIEDE INTELLIGENZA. L’ABROGAZIONE DEL REGISTRO INFORTUNI, UNA SEMPLIFICAZIONE FATTA SENZA TESTA

– Tecnostress: il punto di vista del sindacato

– LAVORO AGILE, TANTO “AGILE” DA ESSERE VOLATILE E INSICURO PER LA SALUTE E SICUREZZA

– Bruno Maggi: Il “vero paziente è il lavoro ”

 

LAVORO AGILE, TANTO “AGILE” DA ESSERE VOLATILE E INSICURO PER LA SALUTE E SICUREZZA

 

Abbondano i disegni di legge per dare una parvenza di “legalità” alle forme di lavoro “precario” con la sostituzione delle parole che lo definiscono.
Da “precario” il lavoro diviene “agile”, e in alcune accezzioni diviene addirittura “smart” dove di “smart” per il lavoratore vi è molto poco.
Tutto diviene indefinito, la cosìdetta cornice costruita per dare una parvenza di “legalità” per alcuni elementi diviene risibile rispetto, ad esempio, alle norme per la gestione della sicurezza sul lavoro.

Abbiamo tra le mani un ibrido che sta tra il regolamento aziendale tipo e e un contratto commerciale ove il lavoratore è un fornitore in una relazione di potere sbilanciata. L’aspetto della prestazione è affidato al contratto individuale tra lavoratore e impresa, in una condizione di totale subalternità del lavoratore.

Orari, tempi di lavoro, aspetti gestionali sono consegnati alla trattativa individuale tra lavoratore e impresa. Abusi, truffe e compensi non pagati in ragione di contestazione della qualità della prestazione erogata dal lavoratore saranno possibili e numerosi in quanto le clausole contro gli abusi riguardano solo gli aspetti formali del contratto. Il dominus è l’azienda committente versus il lavoratore che è monade isolata e debole. Non esiste nessun accenno che richiami l’ergonomicità delle attrezzature fornite dal committente o proprie del lavoratore. Per fare un esempio i lavoratori agili del call center potranno operare con cuffie da tre soldi, apparecchiature di bassa qualità…
Non parliamo poi della prevenzione dello stress lavoro correlato totalmente ignorata in quanto il lavoro “agile” non sarebbe stressante per definizione. 🙂

I commi 2 e 3 dell’articolo 6 sono emblematici dell’assenza di tutela della salute di questi lavoratori.
Il Parlamento dovrà discutere seriamente prima di licenziare questo pericoloso pastrocchio ove di “agile” vi è solo l’amabile disinvoltura ad evitare di affrontare la complessità dei problemi che questa tipologia di lavoro produrrà nel mercato del lavoro.
La  pericolosità sta nella diffusione di un rapporto di lavoro di natura altamente subordinata spacciato come rapporto di lavoro autonomo “leggero” e senza rischi per la salute . La sua “pericolosità sociale” è pari solo a quella generata dai Voucher.

Art. 6. Sicurezza sul lavoro.

1. Il datore di lavoro deve garantire la tutela della salute e della sicurezza del lavoratore che svolge la propria prestazione lavorativa in modalità di lavoro agile.

2. Al fine di dare attuazione all’obbligazione di sicurezza, e tenuto conto dell’impossibilità di
controllare i luoghi di svolgimento della prestazione lavorativa, il datore di lavoro deve
consegnare una informativa periodica, con cadenza almeno annuale, nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alle modalità di svolgimento della prestazione.

3. Il lavoratore che svolge la propria prestazione lavorativa in modalità di lavoro agile, per i
periodi nei quali si trova al di fuori dei locali aziendali, deve cooperare all’attuazione delle
misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro.

LA BOZZA DEL DDL SUL LAVORO AGILE

Nessuno deve fiatare nei luoghi di lavoro. Tutto va bene Madama La Marchesa

 

Un clima pesante nei luoghi di lavoro. Il capolavoro di Renzi è realizzato: con il JOBS ACT i padroni sanno di avere mano libera per trattare i lavoratori come servi.
Nessuno deve fiatare, credere obbedire e fare finta di produrre. Si, fare finta di lavorare bene perchè non si può dire nulla neanche quando il capetto da istruzioni sballate su come fare una certa cosa. Comunicazione monodirezionale top bottom, dal vertice all’ultimo lavoratore, pochi feed back e in quelle aziende in cui c’è qualche disponibilità  all’ascolto bocche cucite per non rischiare di parlare male del capetto che non sa dirigere e fa cavolate.
Queste sono le prime suggestioni che ci vengono in via diretta dai lavoratori di diverse aziende. Continueremo a raccogliere testimonianze e a fare inchieste sui climi cupi che si vivono nelle realtà di lavoro. Ruvidus

Perché Onde Corte blog sta con Luca Fiorini

Intervista a Luca Fiorini

Perché sto con Luca Fiorini
Stiamo vivendo un’epoca di rottura o , usando un termine diffuso, di disrupting dei diritti costituzionali in nome di un pragmatismo ottuso che pone l’efficienza, gli interessi e il comando dell’impresa come unico valore di riferimento per l’agire quotidiano.Tutto il mondo circostante deve essere al servizio e piegarsi alle esigenze dell’impresa.
Un nuovo dogmatismo autoritario è alla base di questa ideologia che sta avvelenando le relazioni tra lavoratori e impresa: tutto ciò che fa bene all’impresa coincide con il bene comune. I diritti dei lavoratori alla dignità sul lavoro rappresenterebbero , secondo questa ideologia, un ostacolo al pieno dispiegarsi degli obiettivi dell’impresa e quindi vanno ridimensionati se non annullati. Questa ideologia neo autoritaria si manifesta in modo clamoroso nei comportamenti spregiudicati dei manager che ne sono portatori. Innumerevoli sono gli episodi di licenziamenti mascherati nella fattispecie del licenziamento per ragioni economiche per eliminare i lavoratori che hanno sollevato obiezioni sulla qualità della gestione delle relazioni con i lavoratori nell’azienda. Il caso recente più clamoroso riguarda il licenziamento di un delegato della Rsu del Petrolchimico di Ferrara, Luca Fiorini, con il pretesto di un banale alterco nel corso di una trattativa. Tante volte chi scrive è stato testimone in corso di trattative sindacali di reazioni verbali sopra le righe ( da entrambe le parti ) che venivano archiviate con una pausa caffè . Una multinazionale che ha avuto moltissimo dai lavoratori, dalle istituzioni elettive che governano quel territorio per risanare e rimettere in piedi gli stabilimenti, ora si pone come una potenza coloniale che , con questo licenziamento, manda il segnale a tutti i soggetti sociali e istituzionali:il sistema di relazioni è cambiato. Il messaggio che pare provenire da questo episodio suona più o meno così :” D’ora innanzi si cambia registro, noi abbiamo il potere di decidere sia all’interno dell’azienda sia nel territorio senza che ci vengano frapposti ostacoli. Chiunque cerchi di rappresentare un altro punto di vista o altri interessi sia pure legittimi è fuori.”
La fitta trama di relazioni tra lavoratori, sindacato e pubbliche istituzioni con l’azienda che hanno consentito negli anni una governance dei problemi complessi, ambientali, d’innovazione industriale e occupazionali appare come polverizzata da questo atto.
Il comportamento di questi manager non va letto come un rigurgito del passato ma come una strategia tesa a ridisegnare le relazioni complessive tra l’azienda, i lavoratori e le istituzioni locali per redifinire i rapporti di potere e di forza sia nell’azienda sia nel territorio.
Comune di Ferrara, Regione sono state avvisate: non ci saranno più mediazioni praticabili.
Per questi motivi bisogna essere più che mai con Luca Fiorini, perché venga revocato il licenziamento e vi sia un pieno rispetto dei rappresentanti che i lavoratori si sono liberamente scelti.

Gino Rubini, editor del Blog Onde Corte

Relazione sull’indagine sul caporalato svolta dalla Commissione del Senato in seguito alla morte della bracciante Paola Clemente

 

 

Relazione sull’indagine sul caporalato svolta dalla Commissione del Senato in seguito alla morte della bracciante Paola Clemente

Relazione relativa all’indagine, istituita l’8 settembre 2015 dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali del Senato, in merito al decesso della sig.ra Paola Clemente, il 13.07.2015 in Andria  ( Bari)

IL RAPPORTO

Disrupting* sociale versus il patrimonio di salute della popolazione.

Disrupting* sociale versus il patrimonio di salute della popolazione.

*Disrupt: to cause (something) to be unable to continue in the normal way : to interrupt the normal progress or activity of (something)

Sono molte le forme di disrupting che stanno avvenendo da tempo nel campo del lavoro , dell’economia , delle norme  che servono a regolare le relazioni tra le persone, tra le imprese e le persone, tra la pubblica amministrazione e i cittadini.E’ caratteristica del cosidetto  capitalismo turbo “innovare” spezzando vincoli sociali, compatibilità ambientali, esperienze e competenze, contesti di vita equilibrata di comunità con la delocalizzazione di attività produttive.
Proprio in questi giorni centinaia di lavoratori della Saeco Philips di Gaggio Montano stanno vivendo il dramma della prossima perdita del lavoro perchè l’azienda ha deciso di delocalizzare.
A questi lavoratori va la nostra piena solidarietà.
Essi sono le vittime di una forma di disrupting sociale dura , visibile e diretta che colpisce le loro vite, interrompe la loro vita normale, la loro autonomia e sconvolge progetti di vita di molte persone. Vi è debolezza degli strumenti della politica locale e nazionale, degli strumenti tradizionali di difesa per contrastare le decisioni distruttive della multinazionale. Il compito della politica democratica è quello di elaborare nuove regole di governo che impediscano il disrupting sociale delle multinazionali che sconvolge la vita di intere comunità dopo avere estratto ricchezza e profitti abbandonano senza pagare pegno la popolazione di un territorio.
Se la vicenda Saeco si iscrive tra le forme più tradizionali e decifrabili  del disrupting sociale ve ne sono altre molto insidiose e silenti che rischiano al momento di passare inosservate e sottotraccia. Sono le forme di disrupting operate direttamente dalle decisioni dal governo quando interviene con la riduzione delle norme di tutela dei lavoratori, con la trasformazione del diritto del lavoro a diritto commerciale che equipara il rapporto di lavoro a rapporto commerciale tra lavoratore e impresa considerando i contraenti come soggetti di pari potere.

Il Jobs Act ha in sè un forte potenziale di disrupting sociale che si sta già manifestando con la moltiplicazione dei licenziamenti “economici” dei lavoratori sopra i cinquanta anni, ben lontani dalla pensione,  destinati ad entrare nella fitta schiera delle persone che difficilmente potranno trovare un altro lavoro…
Esiste un fenomeno anch’esso non immediatamente visibile che le pratiche dirette di disrupting sociale e le politiche subalterne dei governi ai poteri forti dell’economia stanno producendo a livello profondo nei comportamenti delle persone: quello dell’adattamento passivo all’obbedienza ai forti, alla perdita della cognizione di sè come cittadino portatore di diritti fondamentali. Questo è il male oscuro che depotenzia la volontà e la capacità di partecipazione mettendo in grave crisi la democrazia: il crescente astensionismo elettorale è un indicatore palese di questo profondo malessere.
Tutto questo ha elevatissimi costi sociali: un patrimonio enorme di potenzialità umane viene dissipato, ai giovani viene prospettato non un futuro da cittadini protagonisti ma da precari assistiti, male.
Innovazione distruttiva è la cifra della cultura ora dominante: un esempio grottesco di questo modo di rapportarsi al mondo viene ad esempio dal ministro Poletti che alcuni giorni fa, in modo confuso, ha proposto la straordinaria innovazione del lavoro con l’orario decontrattualizzato del lavoro a obiettivi decisi unilateralmente dal datore di lavoro,  senza una definizione di limiti dell’orario …
Se dovesse passare la filosofia “innovatrice” del Poletti,  stando alle frasi confuse farfugliate  in un Convegno,  si entrerebbe al lavoro ma non si saprebbe quando termina la giornata o il turno notturno. Questo signore non ha la più pallida idea sul significato e sugli impatti sociali che potrebbe avere l’applicazione delle sue proposte: vorrebbe dire togliere quella piccola barriera o vincolo contrattuale  che consente a milioni di persone un sia pure modesto governo del proprio tempo di vita.
Senza un riferimento contrattuale milioni di persone perderebbero il governo del proprio tempo: chiunque conosca  elementi di psicologia di base  sa che togliere il governo del proprio tempo alle persone significa produrre condizioni di grave rischio per la salute mentale.
Nessuno dello staff ministeriale sembra averlo avvertito su quale terreno il nostro imolese si stesse avventurando.
Le politiche che comportano disrupting sociale sono numerose in molti ambiti diversi, dall’azienda alla scuola alla sanità. Cercare di “vederle”, di individuarle è il primo passo per intraprendere una iniziativa di neutralizzazione di queste pratiche devastanti che stanno facendo regredire migliaia di persone .Per l’anno a venire, come diario prevenzione,  abbiamo intenzione di lavorare molto su questo tema del “disrupting sociale”, sugli impatti che le “innovazioni distruttive” hanno sulla vita delle persone, sul patrimonio di salute della  popolazione.
Gino Rubini, Editor di Diario Prevenzione

Intervista al Presidente dell’Associazione Familiari e Vittime dell’Amianto E.R. AFEVA  Andrea Caselli

 
 
 
 
In Emilia Romagna sono migliaia i lavoratori che sono stati esposti all’amianto nel posto di lavoro, dalle fabbriche del settore fibrocemento di Reggio Emilia alle Officine Grandi Riparazioni di Bologna ai complessi petrolchimici di Ravenna e Ferrara alle piccole aziende e nell’edilizia. Molti sono gli operai e  i tecnici deceduti a causa del mesotelioma e di altri tumori. Una ecatombe attesa che purtroppo continuerà a mietere vittime anche nei prossimi anni. Per questa ragione la Cgil Emilia Romagna ha promosso la nascita di AFEVA, Associazione Familiari e Vittime dell’Amianto E.R.
Abbiamo intervistato Andrea Caselli, Presidente di AFEVA. Nell’intervista audio Andrea Caselli illustra le attività svolte da AFEVA con i suoi sportelli aperti ai lavoratori in attività esposti ad amianto, agli ex esposti, ai malati, ai loro familiari, ai cittadini che hanno bisogno di informazioni sull’amianto.
 

Mister Eternit blocca il libro sul disastro ambientale

LA CENSURA SU AMAZON

Mister Eternit

Mister Eternit blocca il libro sul disastro ambientale

di Piero Bosio
Domenica 06 dicembre 2015 ore 02:39
“Quel libro non deve uscire su Amazon nella sua versione inglese. Bloccatelo”. E così è stato. Il capo dell’Eternit Stephan Schmidheiny ha scatenato i migliori avvocati svizzeri per bloccare l’uscita dell’ e-book promosso dalla casa editrice Falsopiano e l’Isral (Istituto storico della Resistenza di Alessandria).

Il libro digitale in versione inglese, dal titolo The Big Trial (Il Grande Processo) , era stato scritto dal magistrato Sara Panelli, uno dei tre pubblici ministeri (insieme a Guariniello e Colace) del maxi processo di Torino contro l’Eternit , e da Rosalba Altopiedi, consulente per la Procura in quella inchiesta. Il testo racconta e ricostruisce alcune fasi del processo Eternit e del principale accusato, Stephan Schmidheiny.

> l’articolo segue sulla fonte radiopopolare.it

commento: Mr Eternit non è stato assolto dalle accuse per cui era stato condannato in primo e secondo grado di giudizio, il processo non ha potuto concludersi con la conferma delle condanne di primo e secondo grado in quanto i reati erano caduti in prescrizione ….

Il ministro fuori orario ( da Meta)

IL MINISTRO FUORI ORARIO 

 

fonte META 

Per il ministro del lavoro Poletti l’orario di lavoro è un concetto anacronistico, il futuro indica la via della “commissione” o del “progetto” che non è più misurabile in tempo di lavoro ma in oggetti, servizi, cose varie… insomma in merce. A esempio di questa tendenza il ministro porta la Ducati di Borgo Panigale, Bologna; dove si dimostrerebbe la fondatezza del suo pensiero. Ma che azienda avrà mai visitato il ministro Poletti a Borgo Panigale? Da quel che dice sorge il dubbio che non si tratti della Ducati Motor, o viene da chiedersi quale fosse il suo stato di salute mentale – o se non fosse perlomeno un po’ distratto – lo scorso 9 novembre, quando ha incontrato l’azienda, le Rsu, Fim, Fiom e Uilm per conoscere il contratto aziendale firmato il 4 marzo 2015.

La Ducati è una fabbrica. Una fabbrica con orari di lavoro, pause individuali, pause collettive, tempi assegnati, carichi di lavoro e turni diversi a seconda dei reparti.

La Ducati ha una lunga storia contrattuale: oggi è di proprietà del gruppo Audi, ma il suo modello di relazioni industriali e sindacali più che tedesco è prima di tutto bolognese ed emiliano.

Questa storia contrattuale ha permesso di raggiungere importanti accordi, anche negli ultimi mesi.

L’accordo di settembre 2014 sull’introduzione dei 21 turni nel reparto lavorazioni meccaniche (l’officina), ha permesso di consolidare occupazione e investimenti a Borgo Panigale e oggi costituisce in Italia un modello alternativo di orari di lavoro rispetto a quelli Fiat (a partire dai turni di Melfi). Perché per coprire anche il sabato e la domenica, prevede l’introduzione della quinta squadra, l’aumento dei lavoratori del reparto, la definizione di importanti indennità e soprattutto la riduzione degli orari in modo tale da portare le ore di lavoro su base settimanale a una media di 32.

Sempre nel 2014 Ducati ha avviato insieme a Lamborghini, a seguito di un apposito accordo sindacale, la sperimentazione di un modello specifico di alternanza scuola-lavoro: il Desi (Dual Education System Italy). Oggi il Desi è assunto come modello dalla Regione Emilia Romagna, anche perché si basa su un principio preciso: i giovani che trascorrono metà dell’anno scolastico in aree aziendali dedicate e separate dalle linee produttive sono “studenti” e non “lavoratori” e sono inseriti in un percorso di formazione – anche pratica – e non di apprendistato.

Con l’accordo aziendale del 4 marzo 2015, raggiunto dopo quasi due anni di trattative, si è sistematizzato un complesso di diritti individuali, di impegni di responsabilità sociale nei confronti del territorio, si sono definiti percorsi di partecipazione (attraverso incontri periodici, la costituzione di commissioni tecniche, il rafforzamento del ruolo dei delegati), sistematizzato il ricorso ai contratti a termine e lo strumento del part-time verticale per la stagionalità, sono stati previsti i premi di risultato, rafforzati gli schemi di accesso alla polivalenza e alla polifunzionalità e soprattutto formalizzato un piano di investimenti sul sito di Borgo Panigale (160 milioni di euro nel triennio) e un conseguente piano di assunzioni a tempo indeterminato che comporterà l’ingresso di almeno 100 lavoratrici e lavoratori. Come si vede tutti accordi in cui il tempo di lavoro è considerato tutt’altro da una variabile irrilevante e resta uno degli elementi fondamentali di misurazione della prestazione lavorativa, del suo costo, della sua organizzazione e delle sue condizioni.

Il 9 novembre scorso a Poletti abbiamo ricordato che, mentre la Fiom costruiva un contratto aziendale che prevede assunzioni e investimenti, il governo di cui lui è ministro smantellava i diritti delle persone che lavorano. I futuri assunti in Ducati (come in tutte le altre aziende) non avranno più gli stessi diritti dei loro colleghi in caso di licenziamento illegittimo o ingiustificato e di questo dovranno ringraziare Renzi e Poletti. Ma, probabilmente, anche in quel momento il ministro s’era distratto.

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Poletti, pronto per il Circolo anziani di Imola o dintorni

 

Questo signore, un perito agrario divenuto ministro del lavoro per caso,  ora propone la straordinaria innovazione del lavoro con l’orario decontrattualizzato o, forse,  del lavoro “a obiettivi decisi unilateralmente dal datore di lavoro”,  senza una definizione di limiti dell’orario … Se dovesse passare la filosofia “innovatrice” del Poletti,  stando alle frasi confuse farfugliate  in un Convegno,  si entrerebbe al lavoro ma non si saprebbe quando termina la giornata o il turno notturno.  Questo signore non ha la più pallida idea sul significato e sugli impatti sociali che potrebbe avere l’applicazione delle sue proposte: vorrebbe dire togliere quella piccola barriera o vincolo contrattuale  che consente a milioni di persone un sia pure modesto governo del proprio tempo di vita.

Senza un riferimento contrattuale milioni di persone perderebbero il governo del proprio tempo: chiunque conosca  elementi di psicologia di base  sa che togliere il governo del proprio tempo alle persone significa produrre condizioni di grave rischio per la salute mentale. Nessuno dello staff ministeriale sembra averlo avvertito su quale terreno il nostro imolese si stesse avventurando.

Prono alla richieste dei datori di lavoro, palesemente ignaro delle responsabilità che competono al ministro del lavoro in materia di tutela della salute dei lavoratori il nostro esterna senza limiti la sua “visione del mondo e del lavoro” sempre più subalterna ai luoghi comuni del neoliberismo.

Un sistema di relazioni industriali basato solo sulla prestazione aumenterebbe immediatamente lo svantaggio per molte donne che lavorano : la regolazione dell’orario di lavoro è fondamentale per  governare il proprio tempo di lavoro da conciliare con  altri impegni di natura famigliare. Sarebbe un arretramento per tutte le persone, giovani, uomini e donne che vogliono rendere compatibili il lavoro con altri aspetti importanti della vita personale : lo studio , la crescita personale, la famiglia….

La semplificazione e oggettivazione  degli umani  a variabili totalmente dipendenti dalle esigenze dell’impresa  corrisponde ad un’idea rozza del lavoro e della produzione abbandonata già dai tempi degli studi sulle relazioni industriali di Elton Mayo.

Questo personaggio,  che viene da Imola , il  paese che vide Andrea Costa alla testa delle prime lotte bracciantili e poi operaie  per il pane e per le otto ore,  è verosimilmente funzionale al disegno politico teso a ridurre i diritti dei lavoratori ai minimi termini e a porre l’Italia, nella divisione internazionale del lavoro,  nella fascia più bassa della qualità dei processi produttivi e dei prodotti. Se si svalorizza il lavoro ben presto si dequalificano i processi e i prodotti e le reti sociali e territoriali in cui si produce. Si mette in atto un percorso a ritroso, all’indietro esattamente in direzione contraria rispetto al processo virtuoso messo in atto più di cent’anni  fa da  uomini come Andrea Costa.

Saremmo felici se tra breve questo signore cominciasse a passare le mattinate a giocare a carte al circolo anziani di Imola  o dintorni: i lavoratori trarrebbero un sospiro di sollievo e ci sarebbero risparmiati i farfugliamenti confusi di proposte che fanno arretrare non solo i diritti dei lavoratori ma la collocazione dell’Italia nella divisione internazionale del lavoro.

Gino Rubini

 

 

Il Rapporto sul terrorismo globale

 

report

Il Rapporto sul terrorismo globale

Maurizio Murru

Nel 2014, le vittime del terrorismo sono state 32.658, un aumento dell’80% rispetto alle 18.111 del 2013. Il 78% di esse è concentrato in cinque paesi: Afghanistan, Iraq, Nigeria, Pakistan e Siria. Dal 2000, quando furono 3.329, sono aumentate nove volte. Boko Haram, l’organizzazione terrorista più sanguinaria.

Global Terrorism Index 2015

È da poco stato pubblicato il “Global Terrorism Index 2015”. Una analisi documentata e ad ampio raggio eseguita dall’Institute for Economics and Peace, un gruppo di studio senza scopo di lucro con sedi a Sidney, New York e Città del Messico (www.economicsandpeace.org). Questo studio esamina 162 paesi che, assieme, contengono il 99,6% della popolazione mondiale. Ne tentiamo una sintesi. Quando non altrimenti specificato, i dati citati provengono da questo documento che chiameremo, per semplicità, “il Rapporto”.

l’articolo segue alla fonte su saluteinternazionzale.info